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Galli, manuale di storia del pensiero politico, Sintesi del corso di Storia Del Pensiero Politico

riassunto del manuale galli di storia del pensiero politico

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017
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Maria.Giovanna93
Maria.Giovanna93 🇮🇹

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Scarica Galli, manuale di storia del pensiero politico e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Pensiero Politico solo su Docsity! Machiavelli Machiavelli cercò di costruire una teoria politica fondata sulla ragione, e sulle virtù riscoperte, a sfavore della morale ed etica cattolica. Per prima cosa inserisce la contingenza, la sorte, come elemento fondamentale per l’analisi del reale, imprescindibile per qualunque giudizio, attuando una concezione neopagana che negava la provvidenzialità. L’unico modo per opporsi a questo è mediante lo sfruttamento della virtù, che l’uomo può ricercare per vincere la contingenza, non adeguandosi passivamente ad essa. Machiavelli si pone per un’analisi profonda del reale, che non sfocia in scetticismo, ma coglie la sua difficile interpretazione, e caratterizza il successo non solo come prodotto della volontà e della saggezza, ma anche come risultante della sorte. Con il passare degl’anni, Machiavelli perderà questa fiducia nella capacità umane, ma l’agire sarà sempre più soggetto alle difficoltà. Quello che eleva Machiavelli, rispetto agli altri pensatori è un approccio innovativo al reale, con un’osservazione spregiudicata e realistica delle cose umane, offrendo un modello non più assoluto, ma fondato sulla storia (Roma), sulla virtù, e sulla contingenza. I Discorsi Nei “Discorsi”, Machiavelli ricerca la praticità, opera un confronto tra la crisi della repubblica romana e quella contemporanea fiorentina, contemplando per primo l’utilizzo di mezzi non consoni all’ideale di uomo puro per salvare la civiltà da baratro. Il problema centrale è il mutamento, la contingenza e la sorte, come arginare la loro pressione sulle cose umane. Machiavelli considera, la politica come un campo di forze aperto allo scontro e alla formazione di nuove egemonie, dove il ciclo delle forme politiche è influenzato anche dagl’altri stati, che non sono spettatori, ma anche soggetti interessati a sfruttare i travagli altrui, poiché mirano ad accrescere la propria potenza, la quale è il vero fine della politica. Machiavelli ritiene che lo stato misto, con la più alta partecipazione sia il più stabile, dunque il migliore, poiché si pone in modo solido alle sempre possibili transizioni. Machiavelli è rivoluzionario anche perché rompe con il concetto di bene politico identificato con la concordia, anzi, a suo avviso, è il conflitto, che se ben canalizzato può portare ad uno stato efficiente e stabile. Secondo lui Roma è rimasta libera per il conflitto tra patrizi e plebei, il quale è stato incanalato attraverso le istituzioni, producendo i grandiosi effetti che conosciamo. Inoltre altra mossa vincente di Roma è stata porre la guardia della politica nelle mani della plebe con i loro tribuni. Come Marsilio da Padova crede che il popolo intero sia più savio del singolo principe. Questo non perché Machiavelli ritenesse il popolo pieno di bontà, ma perché fosse più difficile usurpare la libertà dando fine al conflitto. Teorizza come stato più adatto, una repubblica atta all’espansione, militarmente, avendo come obbiettivi la potenza e la gloria, nonché un popolo armato (fondamentale), così da renderlo difficilmente manovrabile. Punto fondamentale di tutta la baracca è comunque il saper incanalare le energie conflittuali presenti nella città entro le istituzioni, le quali devono favorirlo quanto possibile, non spegnerlo. All’apice del suo realismo, Machiavelli afferma che per realizzare un fine buono, servirebbe un principe malvagio, ma diventa così difficile mantenere la repubblica, conseguentemente questa diventerebbe una “quasi monarchia”, così che gli uomini fossero controllati dalla potestà delle leggi. Machiavelli penserà sempre che la repubblica sia e sarà l’organismo politico più vivo, dove le forze potranno completamente dispiegare. Machiavelli ricava che la virtù sta scomparendo nella sua epoca a causa della religione cristiana, la quale deprime l’amore per la libertà e per la gloria, portatrice invece di valori come la passività e l’umiltà, non pubblici, ma privati. L’unica cosa che rimane alla modernità, benchè più debole dell’ethos antico, è l’interesse per la ricchezza, e dove gli appetiti dei singoli non distruggano l’etica pubblica, si può costruire uno stato efficiente. Il cuore della politica sarà in definitiva: buoni soldati (o meglio, cittadini armati), buone leggi, buoni ordini. Il Principe Ne “Il Principe” Machiavelli prova a individuare una forma politica avente la virtù, capace di agire in un mondo che diventa sempre più insicuro. “Il Principe” è una spiegazione pratica di come liberare l’Italia dai barbari, salvando mediante una potestà regia, l’organismo politico dalla corruzione. Machiavelli vuole un principato nuovo, retto da un principe nuovo, non tiranno, ma rivolto al governo e alla ricerca della gloria della nazione, non personale. Per prima cosa, questo principe deve armare i sudditi (al contrario di Hobbes che li disarmerà), condanna dunque l’utilizzo delle milizie mercenarie, ma favorisce le armi proprie che così esercitano una sorta di partecipazione politica. Per Machiavelli l’etica cristiana resta valida, ma la politica si sottrae da essa, e ne utilizza una propria, tutta mondana, in alcuni casi il principe deve essere meschino, falso e crudele, per il bene di tutti. Il male è necessario per affrontare il contingente. “Nell’Arte della Guerra” machiavelli esalta l’utilizzo delle milizie proprie e non mercenarie”. Nelle “Istorie fiorentine” Machiavelli critica il papato additandolo come responsabile per la disunione degli stati italiani. Inoltre ribadisce la differenza tra Roma antica e Firenze contemporanea, ritenendo che se nella prima il fondamentale conflitto si risolveva disputando pubblicamente, nella seconda secondo una guerra privata intestina alla città. Guicciardini Guicciardini è anch’egli pensatore fiorentino dotato di realismo, che si distingue da Machiavelli per la sua componente filo aristocratica, e per una maggiore disillusione. Gli Ottimati e la Prudenza Machiavelli nel quinto capitolo dei “Discorsi” aveva posto il cuore del controllo politico nelle mani del popolo, Guicciardini al contrario lo pone nelle mani della aristocrazia, mantenendo comunque l’elemento della mistione e della partecipazione alla vita politica delle tre classi. Il suo sostegno alla causa aristocratica era dettato da motivi personali, familiari e intellettuali, anche alla luce dell’analisi della situazione fiorentina con Lorenzo il Magnifico, il quale aveva iniziato a tiranneggiare proprio escludendo i cittadini nobili, e alle vicende di tribolazione successive alla sua morte. Occorreva dunque restituire la guida alla classe ottimatizia, da sempre custode della saggezza e della “prudenza”. Guicciardini si focalizza sul consiglio, il quale deve essere esteso, e lo intende come potere legislativo. Ritiene che le deliberazioni importanti però debbano essere fatte da uno più ristretto, cioè il centro dell’iniziativa politica deve essere posto in organi dotati della dote fondamentale, la prudenza. Il modello è la repubblica di Venezia, immaginando un senato che posa controllare la potenza del gonfaloniere. Nei prodotti letterari successivi Guicciardini mostra una mutamento intellettuale verso una sostanziale sfiducia nelle capacità di previsione del futuro, rinnegando la tesi del governo dei savi e prudenti (si vede nelle “Considerazioni” e nei “ricordi”), poiché verrebbero comunque schiacciato da una sorte che giganteggia tra gli uomini. La prudenza comunque pur risultando fortemente indebolita, non è completamente corrosa, poiché grazie guidata da motivi religiosi. A suo avviso, l’ideale politico a cui tendere è quello di una sorta di democrazia religiosa, dell’autogoverno dei giusti. Riforma e Tolleranza Sebbene nel suo codice genetico ci fosse la tolleranza, le tracce apparvero fin dal principio minoritarie, infatti l’ideale complessivo della compattezza della fede, non sembrava velato da alcun dubbio. Inoltre grazie a Calvino la riforma aveva assunto un carattere istituzionale che portò a confondere la funzione dei pastori con quella dei magistrati. Condivideva con i papisti dunque l’unicità della fede, conseguentemente si rintracciavano tracce di intolleranza che si manifestavano nella volontà più o meno latente di spazzare via qualunque confessione non fosse prettamente la propria. Calvino stesso nella sua opera della “Defensio ortodoxae fidei” era favorevole alla punizione degli apostati. Sebastien Castellion confutò questa tesi, cercando di smontare il concetto stesso di eresia, dovuto al fatto che la verità non sia poi così certa, e che dalle scritture si possa evincere con chiarezza una volontà univoca. Castellion avanza dunque l’idea di atteggiamenti di grande prudenza nei confronti della religione e delle punizioni. Capitolo quinto: Costituzione, Rivoluzione, Repubblica e Utopia. Il Costituzionalismo Se nel diritto romano, espresso nella legge Lex de Imperio, la formula era ciò che piace al principe ha valore di legge, nel mondo germanico la libertà aveva un’altra connotazione, cioè considerava più l’aspetto del popolo, nel senso che il re non alienava di tutte le libertà i sudditi, invece viene visto come un affidamento temporaneo. L’humus germanico fu favorevole al nascere del costituzionalismo medioevale, la legge difatti andava secondo Bracton e Glanvill, più scoperta che artificialmente costruita. Essa non era in totale possesso del legislatore, non era da lui forgiabile a piacimento, secondo la tesi che la giustizia stessa, intrinsecamente rappresenti la trama razionale dell’umano agire. Il medioevo è espressione di una società pluralista.. Le libertà hanno dunque un carattere negoziale e pattizio, come emerge con chiarezza nella magna Charta libertatum. Bracton Bracton con il “De legibus et consuetidinibus angliae” forma una vasta enciclopedia del diritto anglosassone. Per Bracton la sola Inghilterra può vantare un diritto senza legislatore, una legge che pur non essendo scritta può vantare potere, espreimendosi nella consuetudine antichissima a cui fanno riferimento i giurisprudenti. Questa sarà la disposizione tipica del common law, che grazie al pluralismo dei soggetti, permette che essa non cada mai sotto un potere arbitrario. Secondo Bracton, il re deve essere sottoposto solo a Dio e alla legge, perché è la legge che fa i re, non il contrario. Egli ritiene che sia libero nella azione di gubernacolum, ma invece sottoposto alla iurisdictio, dunque è un custode della legge e dell’equità sociale. Fortescue Fortescue difende la differenza, mediante il tomismo e l’aristotelismo, della differenza tra dominio regale, e dominio regale e politico, difatti critica il dominio esclusivamente regale che vige in Francia, la natura della legge nel dominio regale e politico implica invece un ruolo essenziale anche della volontà dei cittadini. In Inghilterra è questa la forma vigente, infatti le leggi non nascono per assenso del re, ma per assenso di tutto il regno. Questo garantisce equità per il popolo. Il tipo regale e politico si regge sulla consuetudine, che data il suo perdurare nel tempo se ne dimostra la sua intrinseca saggezza. Quindi si ha vantaggio per i sudditi, ma si incarna anche la netta superiorità del diritto naturale consuetudinario rispetto a quello positivo. Il potere giudiziario divenne mano a mano custode della legge grazie all’interpretazione. Il Puritanesimo I puritani rifiutavano la chiesa anglicana e volevano riformarla secondo principi intimamente cristiani. La rivoluzione dall’alto dell’anglicanesimo veniva vista come una manovra politica incapace di cogliere le profonde istanze necessarie della riforma. Secondo loro l’esperienza religiosa non poteva essere ingessata nelle forme dell’anglicanesimo, richiedevano una struttura democratica per la chiesa, capace di esprimere la volontà dei “Santi”. Giacomo I Giacomo I continuò quell’opera intrapresa da Enrico VIII di potenziamento della monarchia. Nelle sue opere “The true law of Monarchies” e il “Basilikon Doron”, scritte per il figlio, Giacomo mette l’accento contro i puritani, rafforzando il legame tra governo civile ed ecclesiastico, polemizzando con l’ideale democratico dei puritani, ritenendo che sarebbe solo un modo diverso di condurre la plebe. Giacomo I pone attenzione anche verso la nobiltà e i teorici del parlamento. Sulla prima suggeriva al figlio di tenerla sotto stretto controllo, obbligandola a osservare le leggi come se fosse il più infimo dei cittadini, mentre sui teorici del parlamento, più precisamente, i nobili teorici del paramento, i quali cercavano di imbrigliare la libertà d’azione del re. Giacomo I ha una visione antagonista rispetto a quella di Bracton, cioè ritiene che siano i re che fanno le leggi, non il contrario. Giustifica il tutto con un passo biblico. E’ dunque sostenitore della teoria del diritto divino dei re, cioè che tutto il potere dei re, viene loro concesso loro direttamente da Dio. La rivoluzione e Cromwell Nel 1642 scoppia apertamente il conflitto tra monarchia e parlamento, che resisteva ai tentativi regi di renderlo docile e sottomesso. I puritani, fino ad allora relegati in assemblee segrete, portarono alla causa parlamentare una fortissima e irrefrenabile energia, visibile nella loro scelta presbiteriana, cioè in un’idea democratica e partecipativa della vita comunitaria. La rivoluzione parlamentare trovò la vittoria nel new model army di Cromwell, uomini liberi di umili natali. Dopo questi avvenimenti fu abolita la monarchia e promulgata una costituzione repubblicana. I Livellatori I livellatori, i cui leader furono Lillburne, Overton e Walvyn. Dapprima identificavano i propri avversari come i privilegi nobiliari, poi con il parlamento stesso. Essi ritenevano illegittima qualunque livellazione della proprietà privata e della ricchezza, quello che desideravano era livellare il peso politico dei cittadini, combattendo così il despotismo, sia di un potere monarchico, sia di un parlamento senza scadenza, il che suscitò preoccupazioni nel parlamento poiché riteneva che avrebbero potuto radicalizzare la loro ideologia verso una forma più “comunista”. La carica eversiva dei livellatori era sempre bilanciata, in tutti i loro atti, dalla citazione dei diritti inviolabile e immutabili dell’uomo. Quello che per loro era un cardine del pensiero era la necessità che tutte la cariche venissero legittimate per principio di elettività a suffragio universale maschile, e che fosse pesantemente utilizzato il concetto di rappresentanza. Furono nel complesso una via di mezzo tra istanze puramente democratiche e istanze invece liberali. Gli Zappatori Ai livellatori si affiancava una componente più radicale, quella degli zappatori. Il leader era Winstanley. L’obbiettivo degli zappatori era portare all’estremo compimento la rivoluzione, eliminando qualunque forma di potere, non facendo si che a quello monarchico si sostituisse quello parlamentare. L’Inghilterra doveva essere una libera repubblica e andava attuata una forma di comunismo che redistribuisse la terra. Secondo il leader la proprietà era fonte di problemi, causati dall’ineguaglianza, gli uomini dovevano vivere in comunità ognuno producendo per i propri e gli altrui bisogni, con leggi emanate da un parlamento, leggi brevi, non da interpretare, ma da applicare. Criticava apertamente le Enclosures. Il Repubblicanesimo In Inghilterra si consolida l’esperienza della repubblica, così come nascono i suoi teorici. Questi, su ispirazione dei classici e di Machiavelli, proponevano un governo dove ci fosse una partecipazione attiva e vitale, intendendo la libertà come assenza di dominio, quindi come autogoverno, esprimendo apprezzamento per il governo misto, con una fortissima avversione verso la tirannide. Per rendere credibile la causa repubblicana, procedono secondo due vie, la prima cercando di annullare le differenze, tra la forma regale e la degenerazione tirannica, e la seconda mostrando l’incompatibilità tra monarchia e libertà stessa. La convinzione che l’autogoverno fosse possibile solo se la virtù fosse stata diffusa tra i cittadini, fanno di più del repubblicanesimo di una semplice preferenza istituzionale antimonarchica, ma una vera e propria filosofia politica. Milton Milto fu strenuo difensore della libertà repubblicana. In “Aeropagitica” difese le ragioni filosofiche ed etico politiche della tolleranza e di libertà contro un decreto parlamentare che censurava la libertà di stampa. E’ animato dalla convinzione nella verità, nella necessità del dialogo e del confronto, che non vi sia libertà politica e morale senza il confronto di opinioni diverse. Milton è un paladino della molteplicità, ed estende la critica alla chiesa di stato, mostrando il fortissimo legame tra despotismo e inquisizione. Riteneva che il popolo potesse eseguire il tirannicidio, anche senza che i magistrati lo approvassero legalmente, poiché tutte le cariche derivavano da un patto in cui i cittadini rinunciavano ad una porzione della loro libertà ma che potevano riprendersi in qualunque momento. Per lui la repubblica ha valore morale, poiché non solo realizza la giustizia e la libertà, ma induceva anche alla nobiltà d’animo. Milton ritiene anche che per organizzare politicamente la libertà non sia necessaria una radicale legge agraria, e che si dovesse procedere con l’elezione degli uomini più saggi in consiglio, in una sovranità sempre delegata, mai trasferita. Al consiglio affianca sempre dei poteri locali federativi in grado di bilanciarlo. Quindi si oppone alla tirannide arbitraria. Per Bodin, ogni mistione di poteri introduce elementi confusionali, confutando dunque le basi teoriche della forma mista. Le forme di stato possono essere le solite tre semplici, tuttavia possono esprimersi in modalità diverse, ad esempio un regime monarchico può esprimersi in modalità democratica quando il principe lascia che i sudditi partecipino al governo. Pone fondamentale un esigenza di armonizzazione dello strato sociale come obbiettivo da raggiungere, cioè costituire la sovranità senza sovvertire le radici del vivere civile, in modo pienamente razionalistico. Althusius Se Bodin incarna l’ideale dello stato sovrano accentratore, Althusius è il corrispettivo federale. Favorevole ad alcune tesi dei monarchi, operò una riflessione sulla sovranità riconoscendola essenziale ai fini della conservazione del corpo politico, ma cambia anche il senso della concettualizzazione. Egli infatti attribuisce i diritti di sovranità non al sommo magistrato, ma allo stato. E’ originale perché attribuisce la sovranità al popolo, a differenza della maggior parte dei giuristi, e in nessun caso potrebbe rinunciarvi. Althusius giustifica quindi la rivolta nei paesi bassi contro il re di Spagna. Althusius, pensatore con le categorie aristoteliche,da primato all’associazione mediante la quale gli uomini con patto espresso o tacito si obbligano reciprocamente a mutua comunicazione di ciò che è utile e necessario alla socialità. La consociatio è il punto di partenza della vita politica. Secondo Althusius si può applicare le stesse logiche che vigono nelle organizzazioni minori allo stato, cioè con le stesse modalità di diritto e legge. Althusius ricorda a Bodin e discepoli che il fondamento del potere supremo è comunque la legge naturale, e che la somma potestà del monarca deve essere ricondotta all’associazione generale, cioè lo Stato. La sovranità dello stato è in realtà federale, perché fondato su un patto (foedus), ossia quello delle associazioni minori. Però bisogna ricordare che Althusius intende che la sovranità risiede nel corpo politico del popolo, come insieme di associazioni minori, allora chi amministra la sovranità non è propriamente il popolo, il quale non potendo amministrare da se i propri diritti li delega ai ministri da esso scelti, trasferendo in essi la sua autorità. Al vertice della piramide amministrativa, Althusius non pone un potere, ma due, il sommo magistrato, e gli efori. Il loro compito (essendo eletti a suffragio universale) è quello di collaborare con il sommo magistrato, ma anche impedire che il suo potere sia arbitrario. Gli efori custodiscono dunque i diritti, la libertà e i fini del popolo, controbilanciando il monarca. I libertini e Pascal I libertini, imbevuti di ideali pagani, credenti nella necessità di miglioramento, eredi del rinascimento, proponevano un forte e radicale cambiamento, riconobbero che le leggi erano qualcosa di artificiale, ma non chiesero mai il ritorno allo stato di natura, ma apportarono nuovi concetti al tema dell’obbedienza. Michel de Montagnie immette nella modernità una soggettività scettica, dubbiosa di tutto, che ha la sua unica certezza nella irrepetibilità della vita terrena. Il problema centrale per lui è trovare una saggezza pratica capace di garantire la salvezza del singolo, pace e sicurezza. Questo obbiettivo si raggiunge con la politica, la quale perde la sua caratterizzazione rinascimentale di attività eccelsa e virtuosa, diventando uno strumento esterno e finalizzato per le necessità puramente umane e biologiche. Il potere deve conservare la pace tra gli uomini, e il problema è legittimare l’obbedienza, senza la quale non esisterebbe la società. Dopo la riforma nulla sembra essere come prima, bisogna dunque rifondare anche il concetto di obbedienza, costruendone nuove motivazioni. Lui ne riconosce due: la maestà (tradizionale), razionalità (moderna). Poiché la prima non è che una parola, bisogna obbedire all’intrinseca saggezza della razionalità. Desacralizza le motivazioni di obbedienza, così come de razionalizza le leggi, poiché secondo lui non sono prodotto della razionalità, ma dei costumi e delle usanze, tuttavia le reputa ancora irrinunciabile e necessarie. Quindi nonostante il fondamento delle leggi si rivela inconsistente, esse sono comunque necessarie. Montaigne è un precursore di Hobbes, poiché teorizza i soggetti moderni obbedienti al potere, risultandone al tempo stesso giustificazione. Pascal condivide con Montagnie la visione scettica e contingente delle leggi, però accetta totalmente lo stato e le leggi poiché riconosce la necessarietà alle logiche di potere di queste. Giustificate non vuol dire razionali, sono sempre un po’ “folli”, come l’obbedienza ad un re bambino. La corte Un nuovo soggetto sembra affacciarsi nell’analisi politica degli intellettuali: la corte. La corte assume una rilevanza enorme nello stato, poiché in essa gravitano gli interessi principali. Si pone il problema della vita di corte. Castiglione Castiglione scrisse nel XVI secolo il trattato “Il Cortigiano”, in cui vuole dettare le regole per la migliore formazione dell’uomo di corte, ritenendola una precisa professione. Egli deve praticare l’esercizio delle armi, della caccia, dopo di che ritiene che debba curare la ricerca della grazia, nonché la capacità di essere abile ammaliatore, costruendo artificialmente la propria potenza, indicando la logica del dominio come suo destino. Gracian Nel trattato “L’Oracolo” anche lui enfatizza la logica del “sembrare”, e della segretezza con una duplice strategia: la prima è rendere il proprio animo impenetrabile, e la costruzione di una realtà vero simile per poter controllare gli altri. Tuttavia l’uso dell’inganno deve essere fatto in modo creativo, poiché una volta riconosciuto, sarà difficile rifarlo ed essere credibili, dunque anche fatto con parsimonia. La Ragion di Stato Una delle ultime grandi teorie politiche elaborate in Italia nel rinascimento è la Ragion di Stato di Botero, la quale media tra due istanze irrinunciabili della cultura barocca, cioè che la politica non abbandoni i riferimenti etici religiosi, ma anche che da questo legame non tragga debolezze, bensì forze. La Ragion di stato cattolica, dopo la scoperta della mondanità, e la trattatistica riconducibile alle idee machiavelliane, aveva non pochi problemi. Botero Campione della fede cattolica contro la Ragion machiavelliana fu Botero, il quale nella sua opera polemizzava con la barbara modalità di governo desunta da Machiavelli, ricucendo il rapporto tra mondanità e fede. Nel trattato “Della Ragion di Stato” Botero produce una vera e propria scienza politica, la quale ha come obbiettivo il mantenimento del dominio, con le relative tecniche, per il principe. In Botero ha valore chiave la prudenza politica, che dirige da sola le azioni politiche. Essa è necessaria, e si ricollega alle sacre scritture, perché ad esempio, la liberalità verso i poveri, non solo è buona, ma aiuta lo stato prevenendo le sommosse. A differenza di Gracian non è un’abilità celata fondata sul sotterfugio, ma un’azione pubblica, che ha fonti in storia e filosofia morale. Deve essere agile e flessibile, e deve anche sempre essere fondata sull’interesse. La Ragion di stato è una dritta regola, partente dal presupposto che il bene ed il benessere del singolo si identificano con il bene dello stato. Categoria chiave del pensiero di Botero è quella dell’interesse, poiché attraverso il solo interesse come scopo, la prudenza come mezzo, si può arrivare al bene vero. Bisogna operare un governo economico della società, cioè che non solo salvaguarda gli interessi dei singoli, ma agisce egli stesso come regolatore. Botero, pur essendo di stampo cattolico, non dimentica gli stratagemmi oscuri, come la segretezza, la prontezza delle armi e la strategia, dunque pur essendo rigorosamente cattolica, è anche rigorosamente mondana. Naudè Che la Ragion di stato faticasse a mantenere l’equilibrio apparve chiaro quando nacque una “buona” ed una “cattiva” Ragion di Stato. Quella cattiva aveva le sue regole e fondazione risaliva al concetto tirannico di Arcana Imperii, cioè quel diritto di compiere atti extra Legem. Questa tesi è abbracciata da Naudè, il quale vede il principe come solitario titolare dell’azione politica dello stato intero, in contrasto con quanto prescrive il contrattualismo e il costituzionalismo. Naudè si pone in modo opposto a Botero, infatti ritiene la Ragion di Stato come la trasgressione del diritto comune per il bene comune, dando così per scontata quella discrepanza tra ragione politica e ragione morale, che a Botero invece sembravano saldate insieme. Dunque fu erede di Machiavelli. La scienza dello stato Botero riteneva necessaria la fondazione di una scienza dello stato, cioè di una scienza che permettesse allo stato di espandere potere e ricchezza, il che presupponeva una sorta di interventismo economico da parte del potere centrale, un governo economico della politica. Fautore di questo governo Antoigne de Montchrestien, il quale favoriva un atteggiamento protezionista dello stato sulle merci nazionali, impedendo l’ozio e la disoccupazione, favorendo la concorrenza interna dei produttori. La Scolastica Spagnola La scoperta dell’America portò in Spagna una ventata di innovazione filosofica, che venne definita seconda scolastica. Tema di notevole importanza fu la schiavitù: su questo problema si scontrarono per anni numerosi intellettuali, da Sepulveda a Bartolomé de Las Casas. Per il primo, gli indigeni altro non erano che animali, dunque era più che lecito schiavizzarli. Las Casas, convinto del mostruoso anticristainesimo di questa tesi, era profondamente contrario, perorando la causa dell’abolizione della schiavitù per gli indios. Vitoria Frate domenicano, Vitoria analizza il problema della legittimazione giuridica del dominio spagnolo sugli indios. Secondo lui gli indios, benchè infedeli e dunque soggetti al peccato originale, erano per diritto naturale, anche senza grazia sovranità e potere legislativo. Il Leviatano non può mettere a morte un cittadino legalmente, può solo quando l’interesse del singolo confligge con la maggioranza (dunque con il Leviatano). Nasce per l’utilità dei singoli, non per la loro libertà. Tuttavia ubbidire non è credere, dunque è solo una questione esteriore, la sfera privata non ne viene toccata. Ulteriore conseguenza è che il crimine esiste solo all’interno dello stato, cioè dove vige la legge positiva, al di fuori no, la guerra, intesa come scontro tra Leviatani, non è un atto di giustizia, ma un atto di sovranità. Lo stato è un Dio Mortale. Teologia politica Hobbes si confronta nel rapporto tra teologia e politica. Con argomenti di matrice epicurea ritiene la religione come la madre della superstizione. Tuttavia per lui lo stato non prescinde dalla fede, bensì lo stato può nascere per lui solo dalla retta comprensione del comando divino, quindi si deve presentare come stato cristiano, laico e razionale che da vita alla teologia politica, la presenza di Dio, bensì sulla sua Assenza nelle faccende umane. Assente in quanto fondazione diretta del potere, Dio continua a regnare sugl’uomini in modo indiretto, cioè mediante le leggi naturali razionali, e poiché (come per Ockham) egli è inconoscibile all’uomo, l’unico modo per obbedirgli è seguire le sue leggi. Poiché il centro della legge naturale e divina è la pace, l’unico modo per raggiungerla è obbedire al Leviatano. Hobbes ritiene Cristo l’ultimo profeta, che regnerà su un altro regno, ma la terra è in mano agli uomini. Hobbes è sia antiprotestante, sia anticattolico. Per lui la chiesa esiste solo per insegnare la parola di cristo, qualunque atto al di fuori di tale logica è sbagliato. I re sono i supremi pastori dei loro sudditi, dunque una sorta di cesaropapismo moderno, Hobbes dunque pensa ad una politicizzazione della religione. Locke Jonh John Locke si colloca all’interno della sintassi individualistica e contrattualistica di Hobbes, ma rispetto a quest’ultimo vi istaura importanti variazioni sul tema della legittimità e dei limiti del potere politico. Se per Hobbes lo stato era il prodotto dell’obbiettivo di eliminare il conflitto, per Locke era la rivoluzione antiassolutistica. Locke costruisce un modello che consenta di limitare il potere a beneficio del cittadino e della società, introducendo sia la partizione delle funzioni del potere, sia il rispetto dei diritti degli uomini, ovvero concetti cardine del liberalismo e costituzionalismo moderni. Vuole colpire quindi la modernità cattolica estranea al contratto di Filmer, e rendere moderne le dottrine di Hobbes, eliminando alcuni aspetta assolutistici a favore di quelli sociali. Il “Primo trattato sul governo” E’ la teologia politica di Locke, che si scaglia contro Filmer e la sua tesi che nessun uomo nasce naturalmente libero ma sempre e solo soggetto alla monarchia assoluta di un re. Locke contesta la tesi dicendo che Dio non ha dato nessun potere ad Adamo, e che quindi tutti nascono uguali e nessuno può vantare diritti di superiorità sull’altro, anche perché siamo tutti egualmente figli di Adamo. La regalità per diritto divino, posto che non è mai esistita, non sarebbe per questo motivo trasmissibile, Il “Secondo trattato sul governo” Sgombrato il campo dal nesso tra politica e religione, Locke passa alla costruzione dell’ordine politico razionale. Locke inizia, proprio come Hobbes, dallo stato di natura, che egli descrive come la condizione di perfetta libertà, dove ciascun uomo è giudice ed esecutore della legge naturale. Lo stato di natura può facilmente trasformarsi in stato di guerra. Differisce da Hobbes in quanto giudica le violazioni del diritto di autodifesa come crimini, e poiché considera la proprietà privata come un diritto naturale, insieme al diritto alla vita. La proprietà esiste come frutto del lavoro umano. La disuguaglianza creata dal lavoro, è amplificata dall’uso della moneta. Ricaviamo che l’antropologia di Locke è più moderata e meno pessimista di quella di Hobbes. Difatti se per Hobbes il patto è l’opposto della natura, per Locke è un’evoluzione che consente di difendere meglio i diritti umani. Lo stato di natura infatti presenta difetti che lo rendono “scomodo”, cioè, non esiste una legge certa, non vi è potere esecutivo, non vi è un giudice riconosciuto come imparziale. È la comunità che fa le leggi, da quelle leggi poi i magistrati hanno l’autorizzazione ad agire, in nome dalla comunità. E’ dunque un patto in logica moderna, fondato sull’autorizzazione. Occorre notare che per Locke l’entrata in società implica l’alienazione dei diritti NATURALI di vita libertà e giustizia privata, ma solo questo è veramente alienato, poiché gli altri gli vengono ridati in guisa di diritti CIVILI (dunque critica la visione di Hobbes che vede i cittadini cedere tutti i loro diritti, per lui questa tipologia di cittadino, o è pazza, o non esiste). Egli ritiene che il potere legislativo sovrano risieda nel popolo stesso, il quale lo delega ai suoi rappresentanti eletti, i quali come potere legislativo non possono contraddire i diritti naturali e civili fondamentali. Il legislativo deve essere imparziale, non arbitrario, non assoluto, universale. Nel complesso il liberalismo di Locke è un aggiornamento del costituzionalismo inglese. Locke teorizza la tripartizione del potere, in base alle tre funzioni: Legislativo, esecutivo, e federativo, cioè la gestione della politica estera. Vigendo il razionalismo si può parlare di guerra giusta (difensiva), e ingiusta (aggressiva). Per Locke, a differenza di Hobbes, il re gode di un potere fiduciario, in quanto è il potere sovrano legislativo a concederglielo su fiducia, non perché lo possegga intrinsecamente. Il re può agire solo per il bene del popolo, se questo non succedesse ci si potrebbe “appellare al cielo”, cioè ribellarsi. Va da se che Locke differenzia la tirannide dal regno, e ammette, a differenza Hobbes, la ribellione. Ci si può ribellare anche al legislativo, ma meglio è porlo spesso sotto fiducia da porte del popolo, controllandolo così. Locke vuole così sancire la legittimità della gloriosa rivoluzione. A differenza di Hobbes il soggetto e la società possono veramente fronteggiare il Leviatano, guardandolo come una loro creatura, non come un loro superiore. Infine Locke si occupa del problema della tolleranza religiosa, tale da trovare le condizioni per una libertà interiore di culto, ma anche la pubblicità dei culti, in virtù di due fatti: l’impossibilità di stabilire qual è la vera religione, e la separazione tra stato e fede. La politica non può legittimarsi mediante la religione, neppure la soluzione di Hobbes è corretta e percorribile. Locke si astiene dal fare teologia, ritiene che ognuno a proprio modo possa interpretare il Dio, è quindi uno dei primi grandi pensatori del deismo. L’unica condizione che pone è che le chiese non si fondino su principi non conformi ai diritti naturali, in quel caso sono da combattere e reprimere. Spinoza Spinoza assorbe le conclusioni eversive formulate da Hobbes, tuttavia non dichiara chiusa la questione politica, poiché la ritiene sempre aperta alle innovazioni della prassi e della moltitudo. Spinoza vuol essere un teorico della gioia de della vita, l’uomo libero è a suo avviso guidato dal desiderio del bene, cioè di agire, di vivere. Lo studio non è sulle forme di governo, ma su quelle di liberazione. Natura e politica La differenza con Hobbes la dice lui stesso quando afferma che per lui è sempre valido il diritto naturale, e che non esiste potestà superiore se non quella del popolo stesso. Spinoza ritiene l’elemento costituente (il popolo), superiore a quello costituito (l’autorità). Egli era un forte critico del Dio antropomorfo della tradizione giudaico cristiana, a cui contrapponeva la teoria che vedeva un’unica sostanza e un infinità di forme. Dunque rifiuta il dualismo corpo – mente, in secondo luogo difende le passioni come qualcosa di naturalmente insito nell’uomo, qualcosa da sviluppare, non reprimere. Il desiderio di felicità e autoconservazione (conatus sese conservandi) porta l’uomo ad agire. Quando i diritti naturali collidono si forma la guerra, ciò nonostante anche lui appartiene alla corrente che vede l’uomo come essere naturalmente socievole, oltre che utilitaristicamente socievole. L’immaginazione Spinoza ritiene che il bene comune non sia qualcosa di fissamente predefinito, ma che sia una sorta di questione perennemente aperta, dove passioni e immaginazione giocano un ruolo chiave. Criticando i pregiudizi legati alla religione nota il legame stretto tra timore, superstizione e monarchia, la quale tiene gli uomini nell’inganno per poterli meglio controllare. Per Spinoza, a differenza di Hobbes e Locke, la paura da sola non può reggere nessun sistema politico, neppure il più dispotico. In democrazia è l’immaginazione collettiva il cemento del regime. Il cristianesimo fu grande cesura perché permise di universalizzare, di abbandonare il vecchio schema teocratico, e l’interiorizzazione da esso portata, cioè, la parola divina risiede nei cuori, non nelle parole dei profeti. La democrazia A suo avviso la democrazia è l’ordinamento che più fa avvicinare l’uomo alla sua condizione di naturale libertà, poiché nessun individuo aliena il suo diritto a favore di un altro, bensì della totalità. Ed è proprio per questo che gli individui restano uguali, proprio come nello stato di natura. Seppure usi un lessico contrattualistico, in questo caso notiamo la grande distanza tra Hobbes e Spinoza. Il patto spinoziano serve per far si che l’uomo possa dispiegare appieno le sue energie, e si basa su immaginazione, razionalità e passioni. Consiste in vantaggi materiali cooperativi, così come in liberazione della passioni dalla paura. L’assolutezza del potere democratico si fonda sullo spostamento delle potenze individuali in un’unica potenza collettiva. Sorto per contrastare le passioni antisociali degl’individui, l’imperio comune vive del dispiegamento delle passioni più positive, che ne sorreggono la struttura. Nel “Trattato Politico” la somma delle potenze individuali richiama alla programmatica rivendicazione di una metodologia realistica contro le costruzioni chimeriche dei filosofi che vedono gli uomini non come sono ma come vorrebbero che fossero. Il Il liberalismo Nobiliare Accanto alla teoria di Bossuet, si formò una corrente nobiliare liberalista, che rivendicava la causa dei privilegi e dei poteri rivendicati dai parlamenti. In particolare François De Salignac de la Monthè Fénelon, , in una lettera a Luigi XIV mette in guardia il monarca dai rischi della monarchia assoluta (adulazione, guerre, eccessivo potere ministeriale, inasprimento della fiscalità per favorire il lusso di corte, e la rovina dei sudditi, vera grandezza della Corona). Critica l’interventismo di Colbert. Secondo questa corrente il potere assoluto regio è diventato arbitrario, difatti nessuno in Francia mette in discussione l’assolutezza del potere, bensì si critica come essa venga praticata. Bisogna evitare la tirannide. Sulla legittimazioni storica ne nacquero due tesi, una la tesi nobiliare, che difendeva le prerogative dei corpi nobiliari e dei parlamenti (tesi di Fénelon, che poi fu ulteriormente radicalizzata dai parlamenti), e tesi reale che si giustificava nell’assolutezza poiché discendenti direttamente dall’imperium romano. Montesquieu Montesquieu allarga gli orizzonti del pensiero politico includendo nella formazione della cosiddetta “volontà generale” i costumi, le idee, il clima, la religione, e le usanze. Da questa mistione, non più rigidamente categorizzata si forma la volontà generale. Montesquieu fa entrare nel campo un nuovo metodo analitico capace di determinare un nuovo concetto di legge, cioè di cogliere i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose, in modo da spiegare la relazione tra leggi naturali e leggi umane. Egli opera una ricostruzione delle istituzioni in chiave storico sociale, ponendosi in polemica con Hobbes. E’ presente anche in lui la necessità di ordinare politicamente il conflitto, ritenendo che gli uomini abbiano bisogno delle leggi, ma non sono usciti dallo stato di natura per contratto, bensì per garantire che la naturale socialità umana potesse svilupparsi. In questo quadro si delinea la teoria delle forme di governo, che Montesquieu elabora secondo la dialettica tra natura e principio. Quelle che lui ritiene legittime sono tre: monarchia, repubblica e despotismo. La natura del governo repubblicano è che il popolo detenga la sovranità, quello monarchico è il principe a possedere la sovranità, esercitata sotto l’egida legale, quello despotico la sovranità è in mano al principe che la esercita arbitrariamente. La virtù regge la repubblica, l’onore la monarchia, la paura il despotismo. Legittimando il despotismo Montesquieu guarda all’oriente, visto come specchio negativo dell’Europa, diventando mezzo per criticare la monarchia assoluta francese. Difatti la difesa della libertà è fortemente presente in Montesquieu, e la vede maggiormente garantita in Inghilterra, presa come modello. Questo è possibile lì mediante la separazione dei poteri, il loro bilanciamento (esecutivo, legislativo, giudiziario). Per tale motivo si erge a difensore dei parlamenti nei confronti del potere monarchico. In questo quadro si inserisce il discorso sulla tolleranza, ritrovandosi in posizioni vicine ad Hobbes, sentendo entrambi il pericolo della guerra civile religiosa, stabilisce un forte legame tra stato e religione. Tuttavia, se Hobbes fa si che il sovrano determini il culto pubblico, Montesquieu, pur auspicando l’unità religiosa della nazione, afferma la tolleranza, lasciando spazio ad un possibile pluralismo religioso. Montesquieu è precursore di Voltaire, in quanto non vede la tolleranza solo come una dote politica, ma come civile. L’assolutismo in Prussia In Germania si poneva una situazione duplice: gli stati razionalizzarono l’amministrazione, mentre l’impero che li conteneva manteneva un’organizzazione di tipo feudale. A partire dal XVII secolo i teorici cominciarono a riflettere sullo stato territoriale contrapposto alla sempre più evidente debolezza imperiale. Temi centrali sono quello della sovranità, mutuato da Bodin, e quello della “polizia”, cioè l’amministrazione territoriale dipendente dalla Ragion di Stato. In Prussia si manifesta la duplice tendenza: il principe tende ad egemonizzare il potere, mentre esistono ancora organi camerali, di tipo consiliare retti da ceti che cercano di controllare l’attività del principe. L’assolutismo tedesco è caratterizzato dal cosiddetto cameralismo, secondo il quale, il principe, aiutato dai suoi più stretti collaboratori svolgeva l’attività di governo. Il cameralismo può essere inteso come lo stadio intermedio tra il potere assoluto degli stati di antico regime, e lo stato del diritto del XIX secolo, difatti produsse un cospicuo apparato burocratico, razionalizzato. Il diritto fu pensato come prodotto della volontà del principe. Con Federico II si ebbe l’apogeo dell’assolutismo tedesco, volta a concentrare nelle sue mani i tutti i poteri feudali del signore, nel monarca che li esercita secondo razionalità, non solo per l’ordine pubblico, ma anche in virtù del benessere dei sudditi. Come in Francia, questo si manifestò nella presenza di un esercito permanente, di una tassazione centralizzata, di un rafforzamento burocratico. Il diritto naturale La riforma protestante aveva prodotto anche un profondo ripensamento del fondamento dell’obbligazione politica, che fu all’origine nel XVII secolo del processo di laicizzazione del diritto, conosciuto come giusnaturalismo. Esso afferma l’esistenza di un diritto naturale, inteso come insieme di norme di condotta precostituito precedentemente allo Stato. Ponendo per innati i diritti naturali, ponevano anche uno stato iniziale di natura, superato mediante la stipulazione di un contratto sociale tra individui. E’ il contratto a sancire la volontaria presenza dello stato, dunque esso è pensato come opera volontaria della razionalità degli individui. Il diritto naturale moderno vuole essere fonte di legittimazione per l’ordine politico. Grozio Importante esponente di questa dottrina fu Ugo Grozio, che ne De jure Belli ac pacis pone il diritto naturale quale fondamento del diritto riconosciuto valido tra gli uomini. Sulla base della razionalità gli uomini sono naturalmente socievoli, e mediante il contratto razionale essi fondano l’associazione politica, garantito dal diritto e dalla presenza di un sovrano. Cuore del suo discorso è la volontà di fondare al di la del discussioni teologiche la validità del diritto naturale e la conseguente legittimità della società su cui si fonda. Seguendo il metodo dell’assurdo arriva a dimostrare il diritto anche considerando l’assenza di Dio, laicizzando profondamente la prospettiva. Il diritto naturale tuttavia non è sufficiente a garantire che le norme vengano rispettate, da qui l’istituzione di quello che Grozio definisce come diritto volontario, prodotto dalla volontà del sovrano. Grozio costruisce anche la distinzione tra diritto civile e diritto delle genti (quella embrionale forma di diritto internazionale) in modo da poter giuridificare la guerra Pufendorf Alla teoria del diritto naturale si ispira anche Pudendorf. Come Grozio ha una visione meno negativa rispetto ad Hobbes nei confronti dello stato di natura, tuttavia se per il primo esso veniva superato per la naturale socievolezza dell’uomo, per il secondo più grazie al criterio di utilità, che è la tensione al benesse di qualunque individuo. Spinti dalla ricerca della felicità, gli uomini attraverso due patti e un decreto costituiscono la civitas, la società retta da un sovrano, realizzando quella socialità che altrimenti non sarebbe stata altro che un aspirazione. Con il primo patto costituiscono l’unione, il corpo politico. Con il secondo delegano il comando ad un soggetto, definendo chi ubbidisce e chi comanda. L’età dei lumi I concetti dell’illuminismo La filosofia dei lumi pensa di poter realizzare nella pratica quell’ordine già presente, dunque non pensa a se stessa come una metafisica, ma come una filosofia innanzitutto morale e pratica, una filosofia militante. Si vuole ripensare il mondo in modo nuovo, libero dai lacci della tradizione. La ragione può essere definita come critica e potere, la prima per abbattere i modelli arcaici e limitanti, la seconda come capacità di agire in una realtà positiva, priva del trascendente. Ritengono che la mente umana nasca come tabula rasa, le sue idee non sono innate, l’uomo è dunque libero di conoscere mediante l’uso della componente razionale. Si pone il problema di ridefinire il ruolo dell’uomo nel mondo e nella storia, superato il dogma della provvidenza divina, ora si apre un nuovo dibattito, quello sul male, cioè la determinazione di una nuova etica individuale e sociale. Questa è l’etica del progresso, inteso come cammino da compiere lungo la via della ragione per far si che essa trionfi sulle tenebre del male. La fede nella ragione e nel progresso sostituisce la vecchia fede trascendente (lato oscuro della medaglia è ormai la manifesta incapacità di dar risposte definitive, da cui scaturirà lo scetticismo). Costante nelle riflessione è il tema della libertà, cioè determinare la sua estensione ed i suoi limiti, da cui nasceranno le dispute tra sostenitori del libero arbitrio e sostenitori del determinismo. Prodotto della corrente illuminista sono i philosophes, cioè quei pensatori che cominciano ad incarnare l’ideale dell’intellettuale moderno. Infine, colonna portante dell’illuminismo sarà il concetto di universalismo, l’uguaglianza di tutti gli uomini, da cui nascerà l’ideale di civilizzazione, nell’ottica di produrre il progresso di tutti i popoli. La politica dei Lumi Nelle opere illuministe ritroviamo tutti i temi del diritto moderno pensiero politico: diritti naturali, giustizia, progresso, libertà, ragione, legge, sovranità e nazione. Tuttavia essi non sono affrontati a valle di un impianto teorico già formato, ma in presa diretta, pezzo per pezzo, partendo dalla contingenza storica in primis, diventando parte di una discussione che verte essenzialmente sulle istituzioni politiche. Infatti, la riflessione degli intellettuali verte più sulla ricaduta pratica delle teorie piuttosto che su una organica formazione teorica universale. Gli illuministi criticano l’assolutismo di antico Regime, soprattutto per l’anacronismo della struttura gerarchica ancora improntata sul modello feudale, la quale, oltre che essere artificiosa e antiegualitaria, dimostra di non garantire più stabilità. I Lumi frappongono tra lo stato e il popolo la società, intesa come comunità sociale, infatti se la loro riflessione è diretta agli uomini razionali, mostrano una certa negatività nei confronti del popolo, visto come canaglia e retrogrado. Lo stato a cui pensano gli illuministi è fondato sui principi naturali di libertà ed uguaglianza formale, dunque la dottrina del re assoluto diventa indifendibile. Di fatto questo integralismo venne gradualmente sostituito dalla percezione dell’impossibilità di rovesciare i regimi assoluti, conseguentemente si optò per un modello che prevedesse la collaborazione tra intellettuali e potere abbastanza utopico. Mably pure critica la proprietà. Il radicalismo illuminista trova in Sade il suo massimo esponente, che realizza la critica dell’illuminismo come un autorischieramento, cioè svelando la componente trascurata dai primi illuministi, cioè la violenza che regge il mondo. Sade contesta l’utopia materialista atea di Helvetius e Holbach, opponendo una visione nichilista e pessimista della natura, quindi anche della natura umana. Arriva ad affermare che il godimento arriva dall’arrecare dolore all’altro. La Rivoluzione conferma Sade nella sua tesi, supportando la tesi di una sostanziale anarchia nella società. La Germania Caratteristica degli illuministi tedeschi è la collaborazione stretta con i sovrani, combattendo la superstizione, favorendo l’emancipazione della ragione umana sul fanatismo, e ciò può avvenire mediante un sovrano assoluto illuminato, che come primo magistrato porti il benessere alla società. Comuni a tutti gli autori sono i principi di tolleranza, come ribadisce Lessing. Lessing vuole dimostrare l’inutilità delle guerre religiose, poiché minano proprio il reciproco riconoscimento delle religioni, montando odio. Il suddito ha diritto di essere felice, e lo stato deve svolgere questa funzione, la quale fa parte della riflessione di Thomasius, che vede nello stato il mezzo di supporto alla società, per far si che non si ritorni allo stato di natura. Wolff afferma che il benessere è la guida dell’ordine politico. Egli teorizza uno stato di polizia, in cui il monarca e la polizia regolamentano ogni aspetto della vita dei sudditi. L’Italia L’Italia ebbe un forte movimento illuminista con Milano e Napoli capitali, dove i principali intellettuali partecipavano attivamente al governo della città, come amministratori e giuristi. Tutti loro affermano una laicizzazione della vita politica italiana, modernizzano e riformando. Tra gli illuministi napoletani spiccavano Genovesi, il quale proponeva una riforma del commercio atta ad arricchire il ceto medio, attraverso misure di eguaglianza fiscale, e Filangieri, che proponeva una riforma legislativa che andasse a toccare tutti gli aspetti della vita dei cittadini. A Milano fu esponente di spicco Pietro Verri, il quale avrebbe voluto collaborare con l’imperatore d’Austria per ammodernare l’amministrazione. Influenzato da Montesquieu e dalla fisiocrazia, Verri vede alla base dell’unione tra individui un contratto sociale stipulato in nome della libertà. Ciò lo porta a considerare strettamente legate le libertà economiche e quella politica, prevedendo una riforma dell’amministrazione ed una della giustizia. Cesare Beccaria affrontò invece il tema penale con uno scritto, “Dei delitti e delle pene” mediante il quale mirava a riformare il diritto penale, seguendo principi più umanitari, salvaguardano la dignità del colpevole. Vico Vico fu figura singolare ed eccentrica dell’illuminismo italiano, afferma una ragione che guida sia l’azione dell’uomo, sia la comprensione del mondo, senza mai dimenticare la presenza della provvidenza Divina. Rifiuta i motivi illuministici dell’affermazione astratta di principi e valori individualisti e l’idea di un progresso lineare della storia umana, la quale va si, indagata con la logica dell’intelletto, ma anche con il fuoco della passione. La politica è risultato di una istintività di carattere, è machiavellianamente uso della forza, non ha alcun fondamento sapienziale, tracciando una visione ciclica secondo “il cerchio eterno della storia ideale, su cui ruotano i popoli. Vico delinea tre età per l’uomo, quella degli dei, quella degli eroi e quella umana. Nella prima età si ha il governo teocratico, nella seconda quello aristocratico, nella terza, quelli monarchici e democratici. Vico riconosce la comune natura delle nazioni. L’illuminismo scozzese Con l’unione delle due corone, quella inglese con quella scozzese, si ha un forte impulso in scozia al dibattito intellettuale. Dal 1720 in poi inizia a farsi largo la discussione tra l’amor proprio (l’utile hobbesiano) e la naturale benevolenza umana (il naturale affetto verso l’altro), ridefinendo i rapporti che legano ragione e intelletto. Al razionalismo cartesiano si oppone un rinnovato interesse verso l’uomo e la spontaneità. Shaftesbury si oppone alla antropologia Hobbesiana mostrando i fondamenti di un naturale affetto tra gli uomini, e sostenendo che la società non si fonda sul contratto, ma su questa naturale predisposizione umana. Per Hutchenson, l’uomo ha un impulso istintivo verso la spontaneità nelle relazioni più che verso la razionalità. Dunque l’elemento morale non è una costruzione ma è sempre presente, il patto viene stipulato tra individui per salvaguardare la proprietà e le libertà. Tra i bersagli polemici degli scozzesi c’è Mandeville, che sosteneva che fu solo la paura a spinger l’uomo verso il contrattualismo. Con la speculazione di Hume e Smith si assiste al del rapporto tra sentimento e ragione, in cui si inserisce anche l’economia. Hume Secondo Hume alla base dell’ordine politico e sociale non vi è un contratto, ma si parla più di una naturale evoluzione umana, che nella socialità ha una sua tappa. Ai suoi occhi la società è uno stato di natura. Tuttavia alla base dell’azione umana vi è l’utile, che diventa poi fonte di sentimento morale. La naturale socievolezza non nasce dalla volontà di fratellanza universale, ma di rafforzare la propria identità passionale. Secondo lui la società, promuovendo un naturale evolversi dell’uomo, ne aumenta i bisogni, così sorge la necessità di un governo, che ha la funzione di sorreggere la debolezza umana. Hume vede coesistere nella civiltà sia virtù civili (razionalità), sia virtù naturali (egoismo e benevolenza). Hume infine ritiene necessaria una forma di coazione sia presente nella società per salvaguardarla, tuttavia le libertà non vanno mai dimenticate. Smith Smith pure riconosce la necessarietà, dunque la naturalità della società. Come riferimenti assume la proprietà, intesa come affezione dell’individuo per un oggetto e la prudenza, cioè la virtù morale che tiene su la società civile. La loro compenetrazione è il tema centrale della sua analisi, specialmente relazionando i loro rapporti con il concetto di Giustizia. Teorizza una mano invisibile, una sorta di razionalità che si preoccupa di coniugare l’interesse del singolo con quello collettivo. In questo spazio opera il sovrano che ha il compito di mediare tra i diversi interessi in campo. In definitiva Smith mette in crisi il modello Hobbesiano poiché il funzionamento della società sulla produzione della ricchezza mette in crisi il paradigma, poiché la sfera politica si dimostra intrecciata con quella politica. Il sovrano ha sostanzialmente tre compiti: proteggere la società dalla violenza di altre società, proteggere i membri della società dall’ingiustizia e dall’oppressione, conservare certe opere pubbliche e certe istituzioni pubbliche. Ciò che non deve fare è immischiarsi nell’attività produttiva. In definitiva deve essere puro legislatore. Si definisce con Smith l’importanza della questione economica nella scienza politica. Capitolo 9: Ragione e rivoluzione Rousseau L’uomo non è naturalmente sociale, e un immenso intervallo divide lo stato di natura dallo stato sociale, tuttavia, l’uscita dallo stato di natura è inevitabile ed è dovuto ad una caratteristica innata dell’uomo, la sua perfettibilità che lo distingue dagli animali. Distingue in una cattiva uscita dallo stato di natura, quella di fatto, ed una buona, da realizzare, mediante il contratto.. Rousseau valuta il progresso come negativo per il miglioramento della vita morale e per la libertà degl’uomini, poiché li trascina nell’asettica mediocrità, dove i vecchi valori perdono importanza. Profila l’antitesi tra natura e civiltà, e i guasti prodotti da quest’ultima. La disuguaglianza, intesa come ricchezza, genera la corruzione. E’ contro Hobbes e Locke, e tutti i giusnaturalisti poiché hanno trasferito nello stato di natura idee prese dalla società, dunque l’uomi di natura è quello civilizzato in realtà. Secondo Rousseau l’uomo allo stato di natura era istintivo, ed isolato, ma naturalmente buono, non egoista come lo dipinge Hobbes. Nel passaggio allo stato civile si modifica l’uomo e la sua direzione, quello che prima era istinto e bontà diviene giustizia e ragione. Dall’uscita dallo stato di natura entra in gioco la perfettibilità umana, che li rende tanto capaci di evolversi, quanto di corrompersi. La prima rivoluzione fu la costituzione delle famiglie, la seconda la costituzione della proprietà, che fu il momento di fondazione della società civile. La disuguaglianza qui nascente evolverà fino a produrre l’accumulo di ricchezza che è tipico della società, della sua degenerazione. Lo stato di guerra è rovesciato, non è nella natura, ma nella civiltà. Per evitare le sue conseguenze è necessario un patto sociale, un contratto di unione, tuttavia sempre ingiusto, poiché legalizza la rapina praticata dai ricchi sui poveri. La parabola che va dalla costituzione della proprietà al potere arbitrario è dunque questa, dunque nella civiltà vale la legge del più forte. Rousseau non propone un ritorno allo stato di natura, ma il progetto di nuove associazioni basate sull’uguaglianza e la ragione, ossia sulla volontà generale. Il patto che pensa Rousseau è un patto di unione, non di sottomissione, ha come fine la disalienazione dell’uomo. La sovranità per Rousseau non è rappresentabile, è un tutto omogeneo, la politica non deve essere pagare la sicurezza con libertà. Per lui, l’uguaglianza non è un mero fatto, ma un valore. Condizione del patto è l’alienazione di tutti i suoi diritti alla comunità riprendendoli come diritti civili. La volontà generale non significa obbedire alla volontà di tutti ma obbedire a se stessi, perché buoni naturalmente, parte del Tutto. La democrazia Per Rousseau qualunque forma di governo deve essere democratica e repubblicana, la sovranità appartiene al popolo nella sua totalità, non può essere trasmessa a nessuno secondo il principio la sovranità non si rappresenta. Difatti i deputati eletti non sono altro che commissari, ma al popolo spetta il diritto di ultima istanza per ratificare le norme. L’irripetibilità della volontà generale non vale solo per l’attività legislativa, ma anche per la costituzione. Non c’è alienazione tra uomo e cittadino, si parla dunque di democrazia totale. Il governo è solo un commissario del popolo sovrano. Rousseau ritiene possibile tre forme di governo: democrazia (irrealizzabile fino in fondo nella realtà), monarchia e aristocrazia. I grandi stati impediscono la democrazia, richiedono un potere dispotico, dunque alal virtù del piccolo stato si contrappone la forza di quello grande. Rousseau giunge ad attribuire grande valore alla religione per la solidità dello stato, però una religione civile, ridotta a semplici dogmi, per incentivare gli impegni morali. intermedio una federazione degli stati, come stadio finale, un diritto cosmopolitico universale. Capitolo decimo: La dialettica Il pensiero dialettico tra le sue origini dalle contraddizioni del pensiero razionalistico. Il pensiero di Kant rende evidente che è impossibile conciliare, all’interno del razionalismo, una piena libertà interiore del soggetto, con lo stato esteriore dell’ambito fenomenico. Fichte Per Fichte il dovere morale Kantiano è la volontà di azione politica, la sua spinta propulsiva, affermando la positività morale realizzabile mediante l ostato di ragione. Tuttavia i protagonisti per Fichte non sono solo gli individui, bensì anche lo stato e la nazione. Le differenze stanno nel fatto che, seppure sia comune ad entrambi la necessità di rivendicare la libera espressione del pensiero, in Fichte c’è anche l’esigenza di legittimare la rivoluzione, non solo come un grande evento storico. Rivoluzione e libertà politica Fichte sostiene una concezione contrattualistica e antidispotica dello stato, sensibile soprattutto alla libertà di pensiero, criticando lo stato paternalistico ed eudaimonistico. Nel testo “il contributo” vuole mostrare la legittimità della rivoluzione sotto il profilo teorico, poiché il futuro obbliga gli uomini in nome del progresso a non ritenere immutabili le costituzioni. La legge positiva è obbligatoria perché gli uomini se la impongono. Lo Stato è quindi il prodotto delle volontà libere degli uomini ed è un sistema coercitivo meramente esteriore. E’ forte in lui la tensione tra ordine e libertà, esigenze presenti nello stato e nell’uomo, in difficile rapporto. Secondo lui il diritto naturale non esiste in quanto diritto, ma come scaturisca dalla morale. Lo Stato e la rappresentanza La libertà morale e razionale viene posta come tesi, mentre la dimensione giurdica della coesistenza e della coercizione come antitesi. L’ingresso nello stato è un atto necessario per salvaguardare i diritti originari, che diventa sintesi, solo se, esso si giustifica come uno strumento necessario alla libertà. Questo obbiettivo è raggiungibile solo se lo stato è rappresentativo, che il potere venga delegato è il primo principio di ogni costituzione. Il governo rappresentativo serve a garantire la libertà e la proprietà esterne. A differenza di Kant i poteri non sono separati, ma uniti in una logica che impone l’unità del potere. Egli teorizza degl’efori non elettivi che controllino in nome del popolo l’esecutivo, i quali però non dispongono di un reale potere di intervento legislativo. La società e la nazione Fichte conserva un’impostazione individualistica, allo stato spetta solo il compito di garantire i contratti che i singoli stipulano tra loro. Una società complessa comincia a delinearsi in Fichte quando inizia a riprendere i ceti , attribuendo loro valore morale, infatti grazie ad essi il singolo opera un’attività moralmente riconosciuta. A partire dall’800 Fichte teorizza uno stato attivo stimolante i cittadini a realizzare uno stato del diritto. Lo stato devo organizzare la società ed essere economicamente autosufficiente, dunque chiuso verso l’esterno, sostituendo l’economia liberale con una pianificata. Lo stato deve garantire proprietà e lavoro, nonché fare un’azione pedagogica e moralizzatrice degli individui. Analizzando alcune caratteristiche dell’illuminismo come la mancanza di concetti fondanti, come negative, Fichte propone il superamento mediante l’affermazione di una nuova positività morale. Traduce inoltre l’ideale di nazionalità a livello nazionale, non più cosmopolita. Per lui il popolo tedesco è quello più puro, dunque mediante la realizzazione della sua purezza, esso deve giungere al valore più alto, la libertà, divenendone il custode. Dunque non pensa ad una politica di conquista per espanderlo. Hegel La riflessione hegeliana parte dalla contraddizione irrisolta in Fichte, tra libertà del singolo e libertà universale, tra morale e storicità. Tutto si fonda sullo spirito, che attraverso le contraddizioni, dunque la dialettica, muove il mondo. Hegel pensa ad una ragione che non è la moderna ragione calcolante, bensì l’idea, l’origine del pensiero e dell’azione, che calandosi e perdendosi nel reale, conoscendo le contraddizioni, arriva ad una sintesi. Egli rifiuta le teorie moderne umane, perché non dialettiche, ma elaborate a priori. Il soggetto Hegeliano è l’attore della politica, ma non più l’origine, quella è lo Spirito. Quello che a suo avviso determina il fallimento del diritto naturale moderno e della rivoluzione sta nel fatto che essi sono incapaci di passare attraverso l’alienazione, e di uscirne con un superamento. La contraddizione è la via per la sintesi, cioè la verità. Dagli scritti giovanili alla “Fenomenologia dello spirito” La riflessione hegeliana è contro la positività e la rigidezza, il cui simbolo è la religione ebraica (e Kant), a essa si oppone il cristianesimo l’amore per il prossimo ed il suo destino, che supera la dcotomia Kantiana tra essere (la morale) e dover essere (la storicità), innalzando il soggetto all’assoluto. Hegel non disapprova la rivluzione ma crede che bisogni dare concretezza al suo messaggio universale. La conflittualità moderna tra soggetto e stato si risolve nella sintesi, cioè l’eticità, superando il contratto e la dottrina giusnaturalista, poiché il Tutto deve essere mediato dal soggetto, non come pensava il razionalismo che fosse oggettivo. La razionalità del reale non garantita dal contratto, ma dalla durezza della lotta tra signore e suddito, che crea la storia umana. Tramite lo svolgersi della lotta e delle contraddizioni, lo spirito ha assunto a sapersi come Sé, a divenire esso stesso soggetto. E’ lo spirito che ha prodotto la rivoluzione, che acquisterà concretezza in Germania, nazione spiritualmente eletta. La “Filosofia del diritto” La conciliazione del particolare con l’universale (definita da Hegel Spirito Soggettivo, viene attuata da hegel nello stato postrivoluzionario. La linea guida di questo testo è la libertà, che si realizza attraverso le contraddizioni del reale. Tra diritto (universale, tesi) e moralità (individuale, antitesi) si realizza l’eticità (superamento, sintesi), dove il soggetto raggiunge l’autocoscienza, riconoscendosi nello stato, e realizzando la propria volontà individuale. La società civile è dunque il mondo dei rapporti economici tenuti avvinti dal diritto. La società civile corrisponde perciò allo stato liberale di diritto e alla libertà soggettiva. Lo stato è universale, non perché somma della particolarità (come invece è la società civile), ma perché universale certo di sé, reale e razionale in quanto sa quello che vuole. Hegel immagina la rappresentanza cetuale perché quella atomistica contrattualistica non rappresenta lo stato come realmente è, a differenza della prima. Lo stato Hegeliano è monarchia costituzionale, costituzione concreta di società, libertà modernba e distinzione dei poteri. Si differenzia da quello del razionalismo poiché non è la somma di volontà particolari, ma è l’idea etica. Lo stato è la mediazione delle mediazioni che da origine alla società. Tuttavia esso non è momento dello spirito assoluto, bensì di quello oggettivo, poiché non è il fine ultimo, ma un passaggio intermedio, non ha perfezione in sé, ma resta aperto e lacerato. Oltre esso sta il tribunale del mondo, il giudizio storico, che ne sancisce la nascita e la morte. Dunque nello stato non si arriva mai alla sintesi, perché esso non conciliato. Hegel vorrebbe interpretare l’intero mediante lo scontro dei particolari. Supera l’astrattezza del razionalismo, tuttavia poi si va a rifugiare in procedimenti i pensieri astratti. Capitolo undicesimo: L’ordine dopo la rivoluzione La prima strategia controrivoluzionaria vuole individuare un principio di stabilità del potere politico che ne fornisca basi immutabili e trascendenti, tale principio viene individuato nella tradizione, concepita come una continuità storica legittimanti, e nella religione. Un'altra è prendere alcuni principi prodotti dalla rivoluzione, quelli liberali, rifiutando quelli più radicali e democratici, cioè promuovere un liberalismo moderato. Burke Le “Riflessioni sulla rivoluzione francese” di Edmund Burke sono il primo organico della letteratura controrivoluzionaria. Burke ricava un giudizio sulla rivoluzione francese quale evento innaturale e distruttivo, cercando di fare tabula rasa del passato cercano di costruire un nuovo ordine basato su principi logici astratti e privi di spessore storico. Per Burke non è la ragione astratta, bensì lo scorrere delle generazioni, e le relazioni extrarazionali a legare tra loro gli uomini nel contratto originario ed eterno. Oltre all’aspetto distruttivo riscontra un aspetto costruttivo, il quale consistere nel costruire uno stato più potente di quello precedente. Burke respinge i contrappesi delle istituzioni intermedie, i parlamenti, le corporazioni, poiché la rimozione degl’argini trasforma il potere politico in despotismo. Aderendo a istituzioni storicamente consolidate Burke ritiene che la barbara filosofia costruttivista illuminista sia destinata a cadere proprio per la sua astrattezza. I controrivoluzionari cattolici I controrivoluzionari cattolici non contestano soltanto la rivoluzione, ma l’intero sistema di pensiero illuminista e rivoluzionario. Per loro Dio è il fondamento ultimo, o primo della politica, sulla base di una interpretazione letterale della lettera ai romani di Paolo. L’ordine politico è centrato su Dio, che tuttavia lo abbandona alle ferree leggi della natura. Questo nega la possibilità di costruire la politica e la libertà su elementi razionali. La modernità è dunque l’epoca votata alla catastrofe. Anche la sovranità si iscrive in questa prospettiva, il sovrano agisce per mandato di Dio, come ministro per il mantenimento di un ordine stabile. Per questo la sovranità non può essere assoluta, tanto più che i controrivoluzionari, un quanto aristocratici, sono eredi di una lunga lotta contro l’accentramento monarchico. L’unica corretta forma di libertà è quella della concessione costituzionale delle libertates di antico regime. Tuttavia i controrivoluzionari hanno appreso anche alcune dinamiche: il ruolo della religione nel dare stabilità,. Già negli scritti giovanili si intravvedeva in Herder quella riscoperta delle tradizioni nazionali e delle culture. Non a caso a Herder si deve la creazione del termine nazionalismo. Secondo lui ogni popolo è una manifestazione unica ed irripetibile della divinità. Attraverso la successione delle epoche storiche si mostra il cammino di Dio nelle nazioni. Natura e storia cooperano all’educazione dell’uomo poiché questi due mondi sono legati dalla nascita di Dio. Il Romanticismo La cultura romantica si afferma in Germania innanzitutto come critica alla ragione illuminista. Ritiene che Napoleone e il Terrore altro non siano che la coerente manifestazione di questa razionalità. A questa ragione i romantici oppongono il principio della soggettività come sentimento concreto, sottraendosi alle conseguenze del rigoroso individualismo, differenza di Kant e Fichte, al despotismo paternalistico illuminista viene contrapposta la libertà della bella Grecia, rifiutando il momento esterno coattivo e razionalistico. E’ un movimento che tende a sublimare qualunque problema ad una sfera superiore, cioè una sfera poetica. La riduzione a poesia della politica è qualcosa di tipicamente romantico. Nella filosofia di Schegel, il romanticismo si basa su una filosofia interiore, su uno stato interiore, dove la politica viene sentimentalizzata. Rifiutando il meccanismo dello stato moderno, valorizzano l’organicismo e considerano la religione come presupposto fondamentale della legittimazione, ispirandosi al medioevo. Ad anticipare le tematiche dello stato organico, della monarchia cristiana opposta alla Francia, è Novalis, elaborando una concezione dello stato come macroantropo, come grande uomo dove le corporazioni rappresentano i singoli organi. Il principio fondante della forza politica è l’amore, che è il collante degl’organi. La concezione organicistica di Novalis e Schegel trova in Muller una svolta decisamente reazionaria. Muller avanza una proposta di riorganizzazione organica dell’intera società, che però non si traduce ne in individualismo, ne in politica di potenza. Critica l’artificiosità e il conflitto dello stato moderno, idealizzando il medioevo e rendendo la tradizione paradigma immutabile. C’è una esaltazione dei fattori produttivi precapitalistici, e la critica del libero scambio che distrugge l’identità nazionale. Von Baader, l’estensore del trattato della santa alleanza propone un rinnovamento in senso cetuale e corporativo della società. Cattolico, nostalgico prerivoluzionario, rifiuta il meccanicismo statuale, a favore del cetualismo, e dell’organicismo. Humboldt In Prussia l’esperienza della resistenza a Napoleone sollecita invece l’ammodernamento dello stato, dando luogo ad un epoca di riforme. Dall’eredità rivoluzionaria Humboldt accetta e condivide la moderna differenziazione tra uomo e cittadino, che vede il soggetto come espressione della libera personalità individuale, razionale e multilaterale, e lo stato come sistema esterno di limitazione della libertà del singolo. Dalla prospettiva moderna, giudica la libertà degli antichi e dispotismo prerivoluzionario. Entrambi i modelli vengono respinti, per motivi diversi, poiché nel primo l’energia politica dell’uomo antico obbligava la completa adesione alla “città”, annullando la separazione tra privato e pubblico, mentre nel secondo l’uniformità dell’azione governativa dello stato paternalistico obbliga gli individui ad un conformismo ideale che depotenzia l’energia spirituale umana. Alla politica moderna spetta il compito di conciliare la massima libertà interiore e una dimensione esterna destinata a limitare questa libertà. L’obbiettivo di Humboldt è un tipo di uomo che si esprime compiutamente assumendo il profilo di soggetto politico, lebero poiché soggetto ad una legge che lo tocca solo esternamente. Delinea dunque un modello costituzionale. Il suo liberalismo non è più solo difensivo in difesa dei diritti sullo stato (che non deve essere mai assolutistico), ma prefigura anche un campo per l’iniziativa attiva. Teorizza uno stato di popolo e di ragione, in concreto una monarchia costituzionale basata sulla rappresentanza cetuale nazionale, con due camere, una ereditaria, l’altra elettiva. Savigny Savigny fu esponente della scuola di diritto, rifiuta dunque sia il razionalismo, sia il giusnaturalismo settecentesco, e fonda la nazione sul principio di Volkgeist (spirito di popolo), in chiara strategia antilluminista. Secondo lui il diritto non deve la sua esistenza alla volontà arbitraria del legislatore, ma all’agire nella storia di forze interiori, anche dentro il popolo. Lo stato si realizza come esemplificazione fattuale della volontà storica. Clausewitz Clausewitz fa un’analisi sulla guerra, non partendo dall’astratto, ma dal rapporto tra guerra e politica. Dalla rivoluzione francese la guerra non è più guerra limitata, ma diventa guerra di popolo, capace di mobilitare l’entusiasmo dell’intera nazione. Innovativo è perché non riconduce la guerra come separata dalla politica, bensì a suo avviso è uno strumento, con una sua grammatica, ma sprovvisto di una sua logica, una continuazione con altri mezzi della politica. La dimostrazione si ha nella triade di popolo, condottiero e governo, e che la politica viene ad includere dentro di sé la dimensione di guerra. L’obbiettivo di Clausewitz è mantenere la guerra all’interno del controllo dello stato, che deve diventare nazionale, consapevole della sua forza. Come obbiettivo pratico propone di creare un esercito popolare per liberare la prussia dal giogo francese, come obbiettivo pratico di ricondurla alla dimensione razionale. L’Inghilterra Bentham A differenza di quanto avviene in Europa, la corrente liberale inglese si pone in continuità con l’illuminismo. Bentham assume nei confronti della rivoluzione francese un atteggiamento critico, ostile alla dottrina dei diritti. Il radicalismo riformistico di Bentham vuole opporre alla rivoluzione un progetto coerente di politica razionale, mettendo al bando retorica e linguaggio emotivo. Critica anche il giusnaturalismo nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, mostrando sia l’inesistenza di diritti sacri e inviolabili, sia i loro effetti distruttivi nella loro rivendicazione, poiché è implicita la resistenza alla legge che ne deriva. Il suo progetto si basa su un’osservazione realistica ed una logica utilitaristica. Solo utilizzando la felicità come obbiettivo, e l’utilità per paradigma si può arrivare ad una normativa efficace. Il solo motivo che giustifica la nascita delle leggi è quello di utilità comune. La sovranità appartiene al popolo, ma questo è incapace di assumere ruoli di governo, designando una minoranza di individui per esercitare il potere, dunque è una democrazia rappresentativa a suffragio universale, giustificato dal fatto che tutti gli uomini provano sia piacere che dolore. Teorizza dunque una democrazia liberale, accogliendo il principio di separazione e bilanciamento dei poteri di Montesquieu. Nel testo “Introduzione ai principi della morale e della legislazione”, produce il progetto per un codice penale razionale, dove produce misure innovative, così come l’idea che la pena deve superare sempre il vantaggio che si coglie nel reato. Il libero mercato viene da lui considerato come un presupposto essenziale per raggiungere il benessere collettivo, dunque una dottrina di stampo liberistico. Mill Mill cerca di applicare nel governo i temi di Bentham, affermati in campo giuridico. Come lui ritiene che l’ampliamento della rappresentanza non si fondi su dichiarazioni di diritti, ma come utilitaristico per limitare le passioni egoistiche umane. La migliore forma è la democrazia rappresentativa. Il dualismo tra rappresentanti e rappresentati può essere temperato dalla brevità del mandato. Ritiene che l’educazione politica dei cittadini richieda un ampliamento del suffragio, che tuttavia è vincolato a restrizioni di genere (le donne) e di età. Come Bentham anche Mill mostra particolare sensibilità alle garanzie delle libertà sullo stato, e sul suo potere. Capitolo dodicesimo: Società e nazione Nell’800 comincia ad affermarsi il problema della questione sociale, con le prime avvisaglie delle problematiche del proletariato, con le prime proposte organiche di riforma economico sociale. L’opera di Simonde de Sismondi, “Nuovi principi di economia politica”, cominciava a renderli pubblici e dibattuti. Egli sostiene che il mercato non è capace di un’automatica capacità di autoregolazione e che esso, contro gli assiomi liberisti, non tende all’equilibrio, e che quindi tende ad arricchire i ricchi, impoverendo i poveri. Diventa compito del potere sociale, e del legislatore intervenire per eliminare le disuguaglianze. Si apre dunque il dibattito intellettuale che porterà all’organicità del futuro movimento socialista. In Francia ricordiamo Babeuf e Fourier, il quale criticava ferocemente il sistema capitalistico, asserendo che riduceva in schiavitù i lavoratori, promuovendo attività parassite come la speculazione e le attività finanziarie, vedendo la società contemporanea come una tappa intermedia tra l’Eden e la futura “armonia”. Un diverso indirizzo di elaborazione di idee socialiste fu quello di Proudhon, secondo cui la proprietà è un furto, preconizzando una forma politica che è ibrida tra l’anarchismo e il federalismo radicale. Basandosi sul presupposto di scientificietà egli pensa di poter smontare la società capitalista, convinto che i difetti fondamentali di questa, derivanti dal sistema monetario, possano essere eliminati mediante l’istituzione di un credito gratuito, la banca popolare. Altri esponenti francesi furono Blanc (insurrezionale) e Blaqui, a favore degli opifici sociali. In Germania si produsse una delle analisi più lucide della situazione e di ciò che sarebbe accaduto. Dalla Germania prenderà anche il via il movimento della sinistra Hegeliana, la quale criticherà alcune posizioni del maestro in senso critico e progressivo, dicendo che il detto “il reale è razionale” (il quale sanciva i regimi politici esistenti in quanto reali) doveva essere interpretato come “il reale deve diventare razionale”, evidenziando un difetto nella filosofia di Hegel. Nei giovani Hegeliani si nota un principio di critica a tutte le realtà storiche. Bruno Bauer imputa di aver introdotto nel mondo l’hegeliana coscienza infelice, presentando un destino di dolore per l’uomo, postulando il primato di leggi eteronome sulla libertà. Arriverà a negare qualunque religione, indicando come obbiettivo per l’umanità quello di giungere all’autocoscienza. Le prime formulazioni teoriche socialiste in lingua tedesca furono di Weitling, quindi Tocqueville Tocqueville coglie gli aspetti del sanguinoso esperimento della rivolta del ’48, difatti emergevano alcuni nuovi pericoli, e gli elementi di moderazione del liberalismo contro il terrore, erano ora utilizzati contro il socialismo, mentre il ruolo decisivo del ceto medio acquistava tonalità difensive contro l’avanzare delle classi povere. Proprio per questo, i più grandi liberali si opposero all’allargamento del suffragio, temendo per l’avanzata degl’interessi incontrollabili socialisti. L’uguaglianza Tocqueville ebbe il merito di sfatare il mito settecentesco che la democrazia fosse un regime applicabile solo nelle repubbliche di piccole dimensioni , e su una analisi della democrazia non più intesa come forma di governo, ma come stato sociale (stato inteso come condizione), dove si verificasse l’uguaglianza delle condizioni. Per uguaglianza delle condizioni non si intende un livellamento della ricchezza, ma la parificazione di tutte “le altre condizioni” come lo status della nobiltà, che andava perso, favorendo la mobilità sociale. Gli stati uniti sono lo specchio di ciò che l’europa deve temere o sperare che si realizzi. Emergeva così per Tocqueville un nuovo tipo umano, un tipo insofferente alla immobilità, indipendente, propositivo. Tocquville coglie l’esigenza di produrre una scienza politica nuova. Le minacce per la libertà Le minacce per la libertà di questo regime esistono, e si manifestano con il progredire dell’uguaglianza. La prima, e più evidente è un livellamento culturale, che rischia poi di scadere in mediocrità e conformismo. La seconda è che si viene a creare un regime del tutto nuovo, cioè un nuovo despotismo, quello dei pregiudizi, silenzioso, che porta ad un’oppressione non più dall’alto ma dal basso. Assume i tratti di una sorta di tirannide della maggioranza. Questo avrebbe anche potuto provocare secondo Tocqueville una costante spoliticizzazione della vita politica dell’individuo, il quale ormai così pieno di aspirazioni nel privato che avrebbe tralasciato il pubblico, essendo quasi grato al potere sovrano che lo sollevava da questa responsabilità. In queste teoria si avvicina al libertà dei moderni teorizzata da Constant. Ai danni potenziali dell’uguaglianza, la quale era inevitabile, c’era un solo rimedio, la libertà politica. Tocqueville prepara potenziali mezzi per evitare questo declino dovuto all’uguaglianza, come la divisione federale della sovranità, il decentramento amministrativo, l’autonomia del potere giudiziario, nonché riprendere quel valore promosso dalla rivoluzione francese, la fraternità, cercando di avvicinare il cittadino alla vita politica ed alla cultura, favorendo un attivismo partecipativo. La Francia Secondo Tocqueville, la prima rivoluzione francese dovette proseguire quello che lo stato assolutistico aveva iniziato, l’accentramento. E’ infatti l’assolutismo ad anticipare alcune caratteristiche della rivoluzione, difatti, eliminando il contropotere aristocratico, iniziò quel processo di accentramento amministrativo che poi si compirà nella rivoluzione. La fine della nobiltà non tanto per Tocqueville la fine di una casta, quanto più il tramonto di una serie di valori che la rivoluzione non ha saputo sostituire come guida dei cittadini, lasciando così perire la virtù politica. La tendenza dell’affermazione dell’uguaglianza reca indelebile il segno della monarchia che attuava il disciplinamento dall’alto, viaggiando su due binari paralleli. John Mill Mill riprese le tesi di Tocqueville, come i temi di una tirannide della maggioranza e di una mediocrità collettiva. Sotto l’influenza del movimento romantico, si allontanò parzialmente dall’utilitarsmo Bethamiano, che gli appariva troppo arido. Seppure fosse rimasto nel solco dell’utilitarismo, accettando il principio maggior felicità possibile per il maggior numero, giudicava la scala di valutazione non realistica, in quanto essa fondava la felicità più valori morali e sociale, invece che sulle naturali inclinazioni umane. Sottolineava che il benessere è il risultato di una multifattorialità, che non si può ricondurre solo alla ricerca dell’utile. Dall’incontro con Saint Simon e Comte si interessò sempre più alla scienza sociale. Nel testo “I principi dell’economia politica” operava una distinzione gravida di conseguenze: cioè distingueva il momento produttivo (regolato da leggi fisiche), da quello distributivo (regolato da leggi fisiche e sociali), dunque se sul primo non si poteva agire, sul secondo invece si rendeva possibile l’intervento statale, tale per cui alcune disuguaglianze potevano essere così limate, favorendo una politica attiva statale, ed un maggiore benessere per le classi povere. Libertà, personalità e rappresentanza In molti casi i governi assumono poteri ingiustificabili se non in nome dell’interesse generale. Secondo lui quasi tutti i mutamenti avvengono per limitare la libertà dell’individuo a favore di quella della società. Tuttavia nella democrazia, essendo possibile la tirannide della maggioranza si tratta di tutelare l’autonomia dell’individuo in modo nuovo, riprendendo le tesi di Tocqueville. A suo avviso il governo deve essere costituzionale, rappresentativo, curando anche l’importanza delle opinioni degli intellettuali. Valuta inopportuno limitare il suffragio, così come necessario far pagare le tasse alla classe dei lavoratori. I rischi del governo rappresentativo possono essere evitati solo favorendo la cultura e l’attivismo politico. Il mandato deve essere libero. La soggezione delle donne Walter Bagehot era il più grande oppositore di Mill e si oppose fermamente all’allargamento del suffragio poiché secondo lui, giù la camera bassa aveva guadagnato potere, fargliene guadagnare ulteriormente mediante il suffragio universale avrebbe rotto quello che per lui era un equilibrio solido basato sulla quasi fusione della capacità esecutiva (il re) e legislativa (il parlamento), il quale era a sua volta fondato su solide maggioranze parlamentari che si sarebbero così potute incrinare. Il liberalismo inglese Dal pensiero di Mill sull’interventismo statale e la sua preoccupazione per la libertà individuale, oltre che per il pensiero di Benjamin Disraeli, difensore delle tradizioni, ma anche di un riformismo sociale attivo, dell’estensione del suffragio e dell’imperialismo, nacque in Inghilterra il cosiddeto neoliberalismo. Spencer Affermazione di questo neoliberalismo fu Spencer, il quale esprime alcune caratteristiche dell’ideologia di quegl’anni, cioè l’idea di progresso. L’opera di Spencer, in affinità con quella di Darwin, parve confermare il principio secondo cui è presente nella storia un costante processo di evoluzione che fa si che solo i migliori sopravvivano. La cosiddetta sopravvivenza del più adatto, a cui Darwin stesso si ispirerà. Così come in biologia l’omogeneo tende a differenziarsi, così nel lavoro, esso diventa diviso e differenziato. Questo segna il passaggio dalle società militari (come la Germania) a quelle industriali, tendenzialmente pacifiche. Il pensiero di Spencer non contro l’individualità, anzi ritiene che solo con azioni individuali si possa modificare la società. Spencer è contrario contro qualunque azione statale che non sia il mantenimento dell’ordine e della proprietà Il Darwinismo sociale Engels fu entusiasta della teoria darwiniana, che ha indubbiamente influenzato quella comunista. Tuttavia successivamente mostrò perplessità su alcuni concetti come la selezione naturale. Infatti la teoria darwiniana sociale univa in se il razzismo scientifico, con il liberalismo estremo, portando alle estreme conseguenze l’individualismo. La questione nazionale (la parte finale di questo capitolo, è stata realizzata da Stefano Basilico) La questione nazionale si pone come fattore di crisi dell’ordine tradizionale, indicando al tempo stesso un modello di integrazione politica, spesso contro il socialismo, e alimentando contemporaneamente la democratizzazione con le ideologie imperialiste e le basi del razzismo. L’immagine tradizionale del risveglio dei nazionalismi è stata criticata recentemente dal momento che gli elementi “oggettivi” (lingua e tradizioni) sono insufficienti a produrre la nazione. In Francia dopo la rivoluzione si impose un modello civico di nazione, secondo cui i cittadini erano soggetti allo stesso ordinamento, in Germania se ne impose uno organicistico, basato su lingua e cultura comuni e sullo “spirito del popolo”. In entrambi i paesi, anche grazie allo sciovinismo napoleonico, si riconobbe un legame di sangue con la terra, mettendo le basi per antisemitismo e razzismo. Nella conferenza “Che cos’è la nazione?” del 1882 di Ernest Renan venivano messe in risalto l’adesione consensuale degli individui alla nazione e il passato eroico. Particolari esempi di nazionalismo furono quelli indipendentisti, come in Grecia, che si affrancò dall’impero ottomano nel 1829 e della Polonia. Lì Mickiewicz fu precursore dell’atteggiamento slavofilo, che sfocerà nel socialismo populista del russo Aleksandr Herzen, fino a culminare nel panslavismo con Nikloaj Danilevskij e in Germania e Austria nel pangermanismo. Ulteriore spinta all’antisemitismo e al razzismo fu data dalla nascita del movimento sionista di Theodor Herzl sul finire dell’800. In Italia le divisioni erano all’ordine del giorno, anche se una prima base culturale alla riunificazione venne data dalle opere di Manzoni e d’Azeglio, riprese poi da Giuseppe Mazzini, che muove una critica alla teoria individualistica dei diritti, svincolando gli uomini dalla comunità. Fondamentale per lui è l’idea di “dovere” la cui origine sta in Dio e si realizza nella “Patria”, una comunità fraterna che concilia il principio nazionale a quello sociale. Le sue idee intransigenti lo portarono allo scontro con il moderatismo di Cavour, a cui lui contrapponeva l’idea democratica da realizzarsi contemporaneamente a quella nazionale. Venne criticato non solo dai moderati, ma anche da sinistra (Pisacane e Ferrari). Carlo Cattaneo voleva promuovere i valori di libertà, democrazia, pluralismo e diversità, valorizzando le autonomie municipali e il decentramento amministrativo con la costituzione di uno stato federale, idee mutuate dal partito. L’indirizzo “riformista” trovò sponde in von Vollmar, favorevole ai compromessi con i partiti borghesi. Bernstein, riprendendo Engels, inaugurò il dibattito sul “revisionismo” , richiamando l’attenzione sui processi di organizzazione del capitalismo, sulla complessità della stratificazione sociale che fa diventare priorità la lotta salariale, con una piena accettazione della democrazia, accettata anche dai riformisti del partito socialista italiano Treves, Turati e Prampolini. Queste tesi furono avversate da Kautsky, contrario all’alleanza con la borghesia, così come Rosa Luxemburg, che si attestò su posizioni ancora più estreme. Il “centro marxista” elaborato da Kautsky si trovò schiacciato dagli estremi durante la prima guerra mondiale. Capitolo tredicesimo: la crisi dell’ordine politico moderno Verso la fine dell’800 e i primi del ‘900 cominciò a entrare in crisi quel modello di stato liberale, messo alla prova dall’avanzare della democrazia di massa, sia dall’approfondirsi delle contraddizioni di classe, che mettendo in crisi l’omogeneità della società mettono in crisi la stessa. Inoltre c’è una fortissima crisi del soggetto e della razionalità, che porta ad una svolta nichilistica. A tutto si aggiunge l’azione dei partiti, che porta alla crisi le tipiche dinamiche statali, portando alla crisi proprio lo stato. Il Nichilismo Nietzche Per Nietzche il termine nichilismo assume un significato letterale, appunto, il nulla. Questo è dovuto al fatto che le risposte tradizionali hanno perso forza vincolante, e i valori tradizionali hanno storicamente, e gradualmente, perso i loro significati. L’uomo contemporaneo, non potendo più contare su quei valori supremi, sente fortissimo in sé un senso di vuoto. La metafisici, così come Dio e lo stato, sembrano squagliarsi nel nulla. Tuttavia questa decadenza è ancora incompleta, poiché cerca ancora una risposta, risposta che non esiste. Dunque anche le nuove idee come nazionalismo, democrazia, socialismo, non contano nulla. La democrazia è per Nietzche il regno della mediocrità, degli zero sommati, dove trionfa la morale cristiana europea dell’uguaglianza. Nietzche è profondamente antiegualitario e antidemocratico, arrivando a teorizzare l’oltreuomo, cioè una razza di uomini superiori che è destinata a comandare la minoranza, il gregge (teorie riprese dal nazismo nella razza ariana eletta). Tuttavia il superuomo nietzcheano non deve essere interpretato come una proposta politica, è più una critica dissolutiva agli ideali del suo tempo. Le interpretazioni Nietzche pare legato alla tendenza dell’individualismo radicale, viene spesso indicato come pensatore terminale della modernità che si dissolve, offrendo un’analisi impolitica della politica, rifiutando il “valore” politica, così come rifiuta la metafisica. La sua filosofia è interessante però soprattutto perché dimostra come si esaurisca il valore e la spinta propulsiva della modernità. Tonnies Anche Tonnies fu seguace della prima ora di Nietzche, tuttavia criticava il fatto che il suo pensiero fosse di moda nella classe borghese tedesca, il che significava chiaramente che essa non sapeva relazionarsi con la modernità, e con il concetto di uguaglianza. Ai suoi occhi, il persistere e l’accrescersi della questione sociale era il prodotto del perdurare di rapporti di potere illegittimi, all’interno della società moderna andava riconoscieto il ruolo delle masse operaie come soggetti politici. Secondo Tonnies esiste una dicotomia tra comunità (organica e reale) e società (dominata dalla volontà arbitraria, sarebbe una formazione meccanica ed ideale), dando spesso l’idea che egli fosse nostalgico verso un modo di vivere insieme ormai scomparso. Tonnies fu fondamentale per lo sviluppo di quelle retoriche dette antimoderne. La modernità per Tonnies ha nel progresso e nella rivoluzione i suoi concetti cardine, tuttavia, oltre a questi recupera la razionalità e il concetto di rappresentanza, da Hobbes. Attraverso questa, lo stato che teorizza, cioè democratico, può efficacemente gestire le spinte al suo interno in modo produttivo. Weber Weber amava definirsi come borghese con coscienza di classe, maturò la propria personalità scientifica e politica proprio a contatto con i temi vicini del liberalismo nazionale tedesco. Capitalismo e scienza sociale Weber compì il primo passo verso un analisi innovativa, fatta per Verein Fur Sozialpolitik, quando scoprì il capitalismo, studiando le dinamiche agricole dei prussiani a est dell’Elba, egli notò come gli Junkers si erano ormai trasformati da latifondisti in classe imprenditoriale, che aveva come scopo principale il profitto. Esso gli si presentò, nel solco di Marx e Nietzche, come una potenza sovversiva e nichilista, che avrebbe travolto qualunque comunità di interessi, in nome della propria affermazione, dissolvendo i legami personali concreti, e sostituendoli con una mediazione astratta e soggettiva del salario monetario. Un interno universo di valori tramontava sotto la proletarizzazione delle masse. Sovversivo e nichilistico, il capitalismo è una potenza oggettiva, a cui non ci si può sottrarre. Interessante ed azzeccatissima è l’analisi che ne delinea la genesi: infatti egli ritiene che la dottrina della predestinazione divulgata dalle chiese protestanti, abbia originato nel credente il bisogno psicologico di trovare conferme. Così, il denaro e la riuscita del disciplinamento dei propri impulsi mediante lavoro divenne un metro per valutare la benevolenza di Dio nei confronti del soggetto. Il capitalismo è il prodotto di una specifica soggettività, capace di dare un senso alla propria vita terrena attraverso l’oggettivo successo nella vita mondana. Il capitalismo viene inquadrato in grandioso processo di razionalizzazione e di disincanto dal mondo. La sua paura è che i valori classici del liberalismo, in particolare della libertà si dimostrino inconsistenti sotto la schiacciante pressione della tecnica, che avrebbe provocato una burocratizzazione universale. Il pensiero politico Il documento più importante del pensiero politico Weberiano è “lo Stato nazionale e la politica economica tedesca. In questo testo si mostra subito quello che per Weber è un valore fondamentale, lo Stato nazionale, soprattutto negli scritti giovanili. Decisiva è l’analisi della trasformazione degli junkers in classe capitalistica dirigente, questo presupponeva un rinnovamento della classe politica esistente, che doveva guidare la Germania attraverso quello sviluppo capitalistico a tappe forzate, e che avrebbe richiesto un enorme lavoro di educazione politica, atta a riunificare gli junkers con la classe socialista tedesca. Negli scritti di Weber, la democratizzazione, intesa come il livellamento delle condizioni dei cittadini, sarebbe stato tanto inevitabile quanto la burocratizzazione universale. Dato che l’emancipazione della Germania, il suo assumere un ruolo chiave nello scacchiere mondiale sarebbe stato possibile solo quando si sarebbe superato il modello autoritario, sarebbero state necessarie alcune riforme chiave: assumere il suffragio universale, darsi una costituzione sul modello inglese che subordinasse l’esecutivo al legislativo, dove il cancelliere potesse partecipare come membro alle sedute parlamentari. Weber critica uno dei difetti principali della Germania, ossia la sua incapacità di fare politica, intesa come azione rischiosa, sostituendola con la capacità tecno amministrativa, che però ha solo funzione organizzativa, dunque produceva staganzione. Weber ritiene, nei suoi saggi “economia e società”, che esistano tre tipi puri di legittimazione: quella tradizionale, quella razionale, e quella carismatica. E’ la seconda, quella razionale legale, che si afferma come prevalente nella concreta logica dello stato moderno. Ma proprio i suoi caratteri impersonali favoriscono la burocraticizzazione. Diviene così necessario per Weber che si possa dispiegare il politeismo dei valori presente nella società, ricavando dal conflitto, inestimabili spinte vitalistiche. Il nichilismo contemporaneo gli pare non superabile, ma governabile solo la commistione di pathos rivoluzionario, competenza razionale, potere carismatico e disincantata responsabilità verso lo stato. Le Ideologie Esse sono state nel corso degli ultimi anni dell’800 il fondamento della lotta politica e dell’azione. Sono apparati di pensiero, più o meno sistemici, con valenza agratoria mobilizzante, oppure dogmaticament e stabilizzante. Gli elitisti I primi a cogliere il valore fondante dell’ideologia sono i teorici dell’élite, i cosiddetti elitisti, secondo cui, in qualunque sintesi politica, a prescindere dal regime ci sia sempre solo una piccola frazione che detenga effettivamente il potere. Verso la fine dell’800 questo pensiero ha preteso di essere scientifico. Mosca Secondo Mosca ogni aggregato politico è retto dalla sua classe politica. Cadono così le classificazioni aristoteliche di democrazia, monarchia e aristocrazia. Queste altro non sono che la facciata legale dei regimi, quando tutti in realtà sono retti allo stesso modo. Tutti i governi – dice – altro non sono che una minoranza omogenea e solidale che si impone su una maggioranza divisa e frammentata. Mosca evidenzia una regolarità storica: la storia dell’umanità è uno scontro tra due opposte tendenze, quella democratica e quella aristocratica. In quella democratica la classe politica esistente viene innovata sulla base di una cooptazione di individui collocati originariamente ai gradi inferiori, in quella aristocratica diventa uno scontro vero e proprio tra chi detiene il potere e chi ne viene escluso. E’ sempre necessario che i governanti giustifichino il proprio potere attraverso una dimensione del consenso, in modo tale che, con una formula del consenso, le convinzioni presenti nella società, preservino il potere ai vertici. Pareto luoghi di produzione. Alla fine del 1920, a seguito della rivoluzione, solo quando la dittatura del partito avrà preso consistenza, Lenin riconoscerà l’impossibilità di una dittatura “democratica” e dell’istituto della democrazia diretta. L’USSR diventa così una dittatura politica del partito, divenendo normale pratica despotica. Il Nazionalismo Tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, la dissoluzione della razionalità politica liberaldemocratica e parlamentare, non solo comporta la diffusione di proposte rivoluzionarie, ma anche lo scatenamento di impulsi irrazionalistici, antiborghesi ed antiliberali. In Italia e Germania, dove la società civile è debole e le istituzioni politiche sono fragili, prenderanno piede queste componenti, dovute alla potenti contraddizioni che percorrono il corpo sociale. Il nazionalismo porta con se, più o meno latentemente, una progressiva ideologia reazionaria che divide le nazioni in “razze”. Per questa corrente la verità non è oggettiva, ma risultato dell’azione politica, dunque anch’essi credono nel ruolo fondamentale che riveste il mito. Lo stato nazionalistico tende a produrre una concezione lealista per i cittadini, distruggendo i conflitti della dialettica democratica, diventando quasi una sorta di religione secolarizzata. La Germania Il tardo e difficile rapporto con lo stato moderno, è senza dubbio la causa che ha reso il concetto di popolo, oltre che dal romanticismo, così importante. Si cercava attraverso questo concetto di offrire una ricerca di identità più stabile e solida di quella offerta dalle forme politiche, un’identità naturale e storica, svincolata da costrutti teorici. Il popolo – nazione si esprime in sintesi di un radicamento, oltre che di un cammino verso il destino, di un diritto di sangue e cultura, di un destino, ed infine di un dovere: realizzare l’unità politica del popolo tedesco, decontaminandolo dalla cultura occidentale, cercando così di esprimere la propria specificità nazionale rispetto a Francia e Inghilterra, nonché vitalità naturale. Nella sua evoluzione, il nazionalismo tedesco assume carattere sempre più antisocialista ed antiborghese, per finire nel suo apice ad essere antimoderno. Spengler Spengler utilizza il nazionalismo come strumento di critica rispetto alla modernità. La politica viene ricondotta ad un paradigma di tipo vitalistico, dove le civiltà sono organismi viventi, e quindi, più che di storia, si deve parlare di morfologia. La forma fondamentale della storia universale viene dunque individuata nella cultura (Kultur), civiltà in senso metafisico e ontologico. Ogni cultura nasce a partire dalla umanità primitiva e attraversa varie fasi. La fase finale di una cultura, quando essa si esaurisce, si chiama Zivilisation, cioè la civiltà in senso esteriore e razionalistico. Il mondo della Zivilization è un mondo in decadenza, dominato dalla ragione utlitaristica, dall’irrigidimento inteelettualistico dovuto al perseguimento dello spirito di esattezza. Dunque tra Kultur e Zivilization si sviluppa una fortissima contrapposizione. Spengler poi fa la diagnosi della cultura occidentale, secondo cui essa vive un’epoca di rovesciamento dei valori, sancito da Nietzche, dove in ogni campo, si nota il sovvertimento della tradizione. Proprio il socialismo è per Spengler l’emblema di questo rovesciamento, infatti pone la politica subordinata all’economia, quando dovrebbe essere l’opposto. Il pensiero di Spengler fu un punto di riferimento per la rivoluzione conservatrice. La Francia Il nazionalismo francese si apriva ad i valori nazionalistici della rivoluzione, opponendosi fieramente alle sue derive universalistiche. Maurice Barres si faceva portavoce della critica al razionalismo, e alfiere del culto della vitalità. Barres suppone sia possibile una convergenza tra capitalismo e socialismo, sostituendo la lotta di classe con il valore della solidarietà sociale nazionale. Sul piano politico avversa il centralismo statuale opponendo una forma federale repubblicana democratica, basata sulla proprietà collettiva, trasformano i lavoratori in soci dell’azienda produttrice. Mentre Barres non è pregiudizialmente ostile alla rivoluzione, Maurras invece la riteneva un evento catastrofico. Teorizza una forma di nazionalismo positivista basato sulla scienza e sulla storia, attribuendo alla monarchia, che lui immagina come tradizionale, ereditaria, antiparlamentare e decentralizzata, una insostituibile funzione unitaria, oltre che sostenitrice del corporativismo sociale. L’Italia Ci sono varie correnti nazionalistiche in Italia, quella di Oriani è fondata sul governo di un’aristocrazia spirituale, quella di D’Annunzio è invece individualistica, eroica e spettacolare. Corradini elabora una teoria evoluzionistica della lotta tra le nazioni, tra quelle proletarie e plutocratiche, dando all’Italia, ovviamente, un ruolo di primo piano. Corradini, semplicemente, trasferisce la lotta di classe dal piano interno a quello internazionale, difatti sostiene che l’istituto della lotta tra organismi debba essere regolamentato all’interno per potersi scatenare all’esterno. Corradini è fautore dello stato forte, organico e imperialista, guidato da un’aristocrazia estranea al materialismo utilitaristico delle nazioni liberali. Rocco si ispira al diritto tedesco quando accentua il ruolo fondante dell’autorità dello Stato, supponendo per l’Italia, erede della tradizione romana e cattolica, un ruolo di potenza civilizzatrice. Rocco è statalista, corporativista, della teoria che le corporazioni debbano affermare una solidarietà sociale. A differenza del corporativismo cattolico, quello di Rocco è votato ad un progetto di espansione industriale atto a produrre una politica di potenza. Il cattolicesimo democratico Nel corso del XIX secolo la chiesa cattolica aveva impedito per lungo tempo ogni possibilità di accordo tra orientamenti razionalistici per infiammavano la modernità, operando una politica reazionaria. A partire dalla fine dell’800, questa tendenza cambiò. Scritto fondamentale è il documento papale, l’enciclica del rerum novarum, con la quale Leone XIII inizia a trattare la questione sociale. Egli sottolinea la necessaria cooperazione tra Stato e Chiesa, dei datori di lavoro e dei lavoratori, pervenendo ad una conciliazione in nome della solidarietà sociale. L’Italia All’inizio del ‘900, molti pensatori cattolici ripresero la dottrina di Leone XIII, sempre comunque legati a quella visione di ordine naturale e sociale di cui la chiesa è custode. Giuseppe Toniolo aveva una concezione dell’economia subordinata a fattori di natura spirituale, religiosa e morale. Toniolo si ispira dunque alla tradizione neo guelfa. Il pensiero politico di Romolo Murri inserisce elementi innovativi. Importanti, tra questi, il progetto di alleanza tra chiesa e proletariato, atto a trasformare radicalmente lo stato, producendo un nuovo guelfismo sociale. Murri è considerato uno degli esponenti più significativi del modernismo, cioè di quell’esigenza di riavvicinare la cultura classica ecclesiastica ai prodotti del pensiero moderno. Lo sforzo di conciliare il cattolicesimo con il pensiero moderno avviene nel partito popolare di don Luigi Sturzo. Egli mira a sganciare il laicato dalla tutela della gerarchia ecclesiastica sul piano politico e sociale in modo da qualificare le iniziative delle forze democratiche e aconfessionali, ma senza rivedere le posizioni tradizionali del magistero. Sturzo ritiene che i cattolici debbano operare nel quadro delle istituzioni democratiche, difendendo la proprietà privata, la libertà di coscienza e di iniziativa. La Francia La cultura cattolica francese fu più sensibile alla denuncia della ricchezza e del capitalismo, oltre che dei limiti della democrazia liberale. Si affermò il movimento del personalismo, di Emmanuel Mounier, per affermare la libertà della persona, il suo valore assoluto, a fronte della oppressione delle strutture. Mounier auspica un nuovo rinascimento che abbia la persona, e non l’individuo al suo centro, considerato come una mera astrazione psicologica ed economica, poiché il rapporto che lega le persone non corrisponde a quello utilitaristico che lega gli individui. Mounier è dunque sia antiliberale, che antimarxista, ritenuti due movimenti simmetrici all’individualismo borghese, e all’atomismo contrattualistico. Il personalismo è sostenitore della socializzazione, dei diritti dell’uomo e della donna. Sul piano politico Mounier propone invece una teoria personalistica del potere, fondato su di uno statuto pubblico della persona. Sostiene che la cristianità feudale è morta, e che soprattutto la stessa idea di cristianità non debba essere per i cristiani un principio dotato di valore normativo. Jacques Maritan voleva istituire una nova cristianità fondata sulla centralità della persona, collocata nelle gerarchie sociali per superare la democrazia anarchica dell’individualismo. Ai mali della modernità, Maritan oppone nuovamente la filosofia tomista, propugnatrice dell’umanismo integrale. Vede dalla riforma il progressivo spirito disgregatore dell’individualismo, che aliena la persona. La differenza sostanziale tra Mounier e Maritan sta nel fatto che per il primo l’individuo è una dissoluzione della persona, mentre per il secondo, esso ha una sua legittimità. Liberali e democratici L’Inghilterra Alla fine dell’800, il liberalismo inglese era impegnato nella trasformazione in New Liberalism, che aveva grande attenzione nella costruzione di una democrazia industriale. Il pluralismo di Laski Anche la dottrina pluralistica muove le critiche allo stato. Ciò che distingue il pluralismo dalle altre ideologie antistataliste è il non opporre allo stato Tutto, l’individuo singolo. Il pluralismo sostituisce il dualismo Stato individuo in una relazione triadica, in cui si inseriscono le strutture economiche, sociali e culturali che rappresentano il cittadino nei vari settori della società. Le fonti del pluralismo sono diverse, da Montesquieu a Tocqueville. Ci sono varie varianti del pluralismo, una di queste è quella socialista democratico del pensatore Harold Laski. moderno e l’utilizzabilità degli oggetti da parte dell’uomo, ed è dunque imposizione. La salvezza può venire solo da un evento non umano, da un Dio che si manifesta nel mondo consumato della tecnica. Critica la ragione umana, superata non nell’abbandono all’Essere, ma alla decisione e al rischio. Il nesso fra essere e conflitto è dunque un destino per cui ci si deve decidere. Schmitt Critica sia il liberalismo che il pensiero giuridico. Esalta invece il cattolicesimo dato che è razionale, poiché grazie al suo rapporto con la trascendenza riesce a realizzare la propria autorità. L’origine dell’ordine politico è nell’assenza di ordine razionale, ossia nell’eccezione. Parla di dittatura sovrana, come decisione di un’autorità concreta e personale di creare un ordinamento razionale dal disordine. La politica è dunque un atto creativo che fa nascere ordine dal nulla. L’atto creativo è appunto la decisione, che si deve confrontare con l’eccezione, l’assenza di sostanza, il nichilismo. Il concetto di stato presuppone quello di politico, che consiste nel riconoscere e nel distinguere l’amico/nemico, ed è all’origine della politica, e non suo sinonimo: la politica è sempre polemica. La guerra è fondamentale nei rapporti internazionali, ed è una funzione della politica. In politica interna il politico è la guerra civile, per cui bisogna esercitare una vigilanza rivolta ad escludere il potenziale nemico interno, pur non riuscendo a neutralizzare mai completamente il politico. Più che di stato Schmitt parla di “costituzione”, come entità politica concreta di un popolo, perciò prima delle norme viene ed esiste un soggetto politico dotato di volontà. A questo proposito la costituzione di Weimar è un compromesso tra il principio di rappresentanza liberale e di presenza democratico. Lo stato sociale che ne consegue però è uno stato totale per debolezza, a cui lui contrappone uno stato totale per energia. Il nazismo invece, è un ordine concreto che sostituisce sia il normativismo che il decisionismo, con l’unità politica di popolo, partito e stato. Elabora negli ultimi anni una teoria dell’Impero come grande spazio, inteso come superamento del diritto internazionale. La storia politica è fatta da contrapposizione tra potenze terrestri e potenze marittime. Il nomos, il diritto è l’unità di ordinamento e di localizzazione: l’origine del diritto è dunque il modo con cui l’ordinamento si rapporta con il territorio. Lo Jus publicum europaeum nasce in seguito alla pace di Westfalia. L’ordine dello spazio mondiale si sviluppa tra terra e mare. La guerra marittima è illimitata, privo di determinazione spaziale, quindi aggressivo, e per cui la guerra diventa un atto di sovranità e non un crimine, facendo passare atti di ostilità assoluta per atti di polizia, che disunisce e disorienta il mondo. Nella “teoria del partigiano” evidenzia un combattente irregolare e tellurico. Kelsen Sostiene il primato del diritto e dice che lo stato è un ordinamento giuridico che ha raggiunto un alto grado di centralizzazione, che non si divide con il dualismo stato-diritto, ma è visto in un sistema monistico. Il primato del diritto internazionale prevale sulle norme inferiori, così come avviene per la costituzione, prioritaria. Il terzo primato è quello della democrazia parlamentare. Mira alla pace internazionale.ù Le critiche filosofiche alla modernità Strauss Si pone due questioni: qual è il rapporto tra filosofia e rivelazione religiosa della legge? E tra queste e la politica? Secondo lui il paradigma della filosofia occidentale sta in Socrate, che incarna la tensione tra filosofia e politica, che secondo Strauss possono essere in un equilibrio che chiama “diritto naturale antico”. La filosofia politica moderna pretende di essere una scienza. Per lui Machiavelli dimostra che la morale è interna alla città ed è una funzione della politica. Su Hobbes dice che sostituisce il diritto naturale oggettivo classico a quello soggettivo moderno, che individua la natura nella stessa vita dell’uomo. La filosofia politica moderna conosce una rapida decadenza, il cui ultimo tratto è il nichilismo. Critica il liberalismo moderno proponendo un ritorno a quello antico. Voegelin Parla di “religioni politiche” come il nazismo, che non distinguono tra politica e religione. Gli ordini politici si manifestano attraverso i simboli. La rappresentanza di sé che un ordine elabora può essere: -elementare –esistenziale –della Verità- trascendentale. Al contrario le civiltà orientali si presentano come espressione politica di un ordine cosmico divino. Il nesso tra politica e trascendenza è il soggetto, dotato di un’anima che elabora la noesi, ossia il sapere filosofico della trascendenza. Parla di sacralizzazione della politica, facendo riferimento anche al principio soteriologico (ossia di salvezza) del cristianesimo. La storia è veicolo della verità, e in questa semplificazione stanno tutte le ideologie moderne, che pretendono di realizzare il paradiso in terra. Il nome di questi movimenti nella storia che pretendono i conoscere la verità è, per Voegelin, “gnosi”. Arendt Critica la filosofia politica, contrapponendole la politica intesa come azione collettiva. Nelle “origini del totalitarismo” questo per lei è opposto allo stato, ma in qualche modo ne deriva, al cui interno si producono dinamiche di esclusione, come l’antisemitismo. Parla poi dell’imperialismo come frutto dei pan movimenti (pangermanismo, slavismo etc) e sostiene che i ceti mediobassi cercano appartenenze nei legami di sangue col territorio. Il totalitarismo è poi provocato dalla massificazione della società: le masse si organizzano tramite la propaganda. Deve mobilitare e distruggere le stesse istituzioni e il nemico interno attraverso il terrore e la violenza. E’ dunque un regime nichilistico, costretto all’instabilità permanente. L’ideologia è l’energia che applicata alla realtà politica ne distrugge la concretezza. Nella “Vita activa” distingue tre funzioni: lavorare, operare e agire. Accanto a questa c’è la vita contemplativa. L’età moderna è caratterizzata dall’alienazione del soggetto dal mondo, e parallelamente dal formarsi di una sfera sociale, dato che il lavoro ha a che fare con la necessità. La massificazione è data dall’ossessione di unità che si manifesta nello stato e nella rappresentanza politica, dunque nella necessità. La politica americana è una libertà plurale e accoglie al suo interno anche la disobbedienza civile. Riscopre la categoria kantiana di giudizio: il criterio guida della politica dev’essere la deliberazione responsabile. La Francia Simone Weil critica il potere, dicendo che bisogna riconoscere un obbligo morale verso i bisogni dell’essere umano, tra cui c’è il radicamento, ovvero un rapporto pieno con la storia e l’ambiente. Bene e politica sono antitetici e gli uomini devono ritirarsi riconoscendo i propri limiti in un patire comune. Per Georges Bataille l’età moderna è imperniata sul concetto di utilità. Il negativo è un fenomeno di trasgressione ed eccesso individuale, uno spossessamento del soggetto. La sovranità è invece un azione inutile di un soggetto libero perché si rifiuta di costruire qualsiasi tipo di ordine. Capitolo Quattordicesimo: Il secondo dopoguerra Il problema politico del secondo dopoguerra è lo stato sociale, cioè il rapporto tra i cittadini e solo stato, teorizzato da Marshall. Proprio nella qualificazione sociale dello stato, e nell’universalità delle prestazioni che eroga ai cittadini, supportandoli, molti autori hanno ravvisato la figura riassuntiva di una cittadinanza fattasi pienamente democratica. Lo stato sociale Il concetto di stato sociale fu accolto dalle costituzioni programmatiche postbelliche, in quanto lunghe, si prefiggevano di realizzare quei presupposti di socialità già all’interno della legge fondamentale dello stato, così che resero la qualificazione di “sociale” come vero baricentro della legittimazione del potere politico, era l’agire pubblico in favore dei cittadini che lo legittimava ad esistere. Cittadinanza e stato sociale • Thomas Marshall, sociologo, analizzò la condizione dello stato sociale in occidente. Essendo le potenze occidentali vittoriose sul nazismo, e prossime a conoscere una grandiosa espansione economica, si ponevano le basi per un futuro radioso, tale per cui la politica tendeva ad accrescere sempre di più i diritti sociali dei cittadini, favorendone il loro sviluppo. Il concetto di cittadinanza non è più solo giuridico, ma anche filosofico, identificante una vera uguaglianza umana che va oltre i soliti diritti naturali. La cittadinanza aveva per Marshall tre dimensioni, una sociale, una civile e una politica, e i primi si presentano come risultato qualitativo della nuova modernità, risultato della questione sociale sviluppatasi nell’800. La società immaginata da Marshall non è una società senza classi, ma una società dominata dalla giustizia sociale, dove le classi non si fanno la guerra, ma cooperano per il bene di tutti. La fabbrica è il luogo dove nasce la cooperazione sociale. Secondo Dahrendord nella società, a prescindere dalla maggiore integrazione, continuavano ad esistere logiche di coercizione presenti nelle vecchie dicotomie, poiché le associazioni erano rette da leggi imperative. Dopo un serrato confronto con Marx, sosteneva che la sua teoria era insufficiente per delimitare la società a lui contemporanea, che a suo avviso era postcapitalistica: in primo luogo perché era avvenuta l’istituzionalizzazione del conflitto di classe teorizzato da i teorici dell’integrazione tra le classi, i quali lo avevano riconosciuto, elaborando forme di mediazione tra capitale e lavoro (come la contrattazione collettiva), che ne avevano ridotto la violenza, spoliticizzandolo. Così prodotto, il conflitto di classe poteva diventare motore dialettico dello sviluppo, nonché contrassegno delle società libere e non totalitarie. Va ricordato che parte delle basi di questa rivoluzione teorica fu piantata da Keynes, il quale con le sue politiche di azione statale, diede una visione meno netta della pianificazione contrapposta alla pur sempre presente economia di mercato. • Nacquero così negl’anni settanta e ottanta partiti pacifisti e antinucleari. Molti analisti ravvisarono nella pace creatasi dalla deterrenza che alcuni elementi si stessero mischiando, come la programmaticità capitalistica, e l’iniziativa libera socialista, tale per cui, unendosi alla chiesa del concilio Vaticano II, auspicavano una nuova era pacifica. • • Crisi e critica dello Stato sociale • • Gli anni ’60 tuttavia furono non proprio pacifici. Innanzi tutto il terzo mondo, a differenza del Primo e del Secondo, non si stava allineando alla via politica e sociale, ma anche valoriale, dunque stava diventando sorgente di infinite tensioni. A questo si aggiunse il processo di decolonizzazione, inasprendo le problematiche. La situazione era grave anche per la differenza valoriale che le terre dominate cominciavano a mostrare verso quelle dominatrici. La controversia si acuì quando nelle terre dominate secondo la missione civilizzatrice cominciarono a diffondersi ideali come quelli di Rousseau e Montesquieu, provocando focolai rivoluzionari. Uno di questi fu Fanon, che leggendo i testi principali della filosofia occidentale, divenne esponente di spicco del partito indipendentista algerino, favorendo la teoria della liberazione attraverso la violenza. Per lui il mondo coloniale è diviso a scomparti, tali per cui a differenza degli stati capitalizzati, era facilmente distinguibile tra sfruttatore e sfruttato, dove quest’ultimo è soggetto al duro potere del soldato straniero. E’ la scoperta dell’uguaglianza occidentale che fa saltare il sistema coloniale. Per Fanon si doveva costituire una Nazione all’altezza della storia, fondata sulle masse rurali. • Le sfide della politica contemporanea (La parte finale di questo Capitolo è stata realizzata da Riccardo Cingari) Sul finire degli anni '70 l'economia di mercato era in un periodo di stagnazione e inflazione, la democrazia era in deficit di legittimità e governabilità, la sicurezza sociale vacillava con con la “crisi dei ceti medi” e la fine dell'economia del pieno impegno. La società del benessere si stava trasformando nella società del rischio (1986 U. Beck, sociologo tedesco). Sul piano internazionale si verifica in questi anni una sorta di “resistenza” all'occidente e in particolar modo agli USA (movimenti anti-imperialisti nel Terzo Mondo e opposizione politica e militare agli “amici” dell'occidente). Esemplare è l'invasione dell'Afghanistan da parte dell'URSS del 1979, apparve al tempo come una dimostrazione di forza e rinnovata sfida agli USA. Nel 1980 Regan viene eletto come presidente degli USA, egli attraverso politiche monetariste e neoliberali ridusse il potere politico della sfera operaia a vantaggio della big business. Tali politiche da una parte fecero riemergere una “questione sociale” nel cuore del capitalismo e dall'altra, insieme ai processi di multinazionalizzaione e decolinizzazione, diedero vita ad una rinascita del capitalismo statunitense. Affiancò a queste rivoluzione dall'alto una ripresa della competizione con i sovietici (riarmo, basi missilistiche in Europa, scudo spaziale). Ripresa della Guerra Fredda che innescò anche i processi che portarono alla sua fine => Reykjavik (1986) e Washington (1987) tra Regan e Gorbacev. La veloce fine del socialismo reale in tutti i paesi dell'est Europa (ridefinizione carta geopolitica, riunificazione tedesca del '90 e dissoluzione della Jugoslavia) costringe a riconsiderare la sua intera storia, a mettere in discussione l'immagine “monolitica” dei regimi socialisti. Dopo la rivolta di Berlino Est del 1953 l'ideologia dei regimi è stata contraddistinta da una serie di rivolte operaie che furono elementi fondamentali del dissenso marxista (diverse forme: Lukacs, Medvedev, Kuron, Modzelewski, Bahro). Allo stesso tempo nel dopoguerra in quei paesi si era andata sviluppando una società complessa a livello culturale e associativo, essa generò le riflessioni “liberali” di Havel, Kolakowoski e Patocka ma anche esperienze come la Carta 77 cecoslovacca o la Neues Forum tedesca, tutto questo giocò un ruolo molto importante nella crisi del comunismo. All'ombra dei regimi si erano cresciuti comportamenti individuali e nuove figure sociali che manifestavano la propria insofferenza verso l'irrigimentazione della vita sociale nei paesi socialisti, prima come elementi di lenta erosione poi come movimenti di fuga di massa dal paese. Se con il crollo dell'URSS il modello sovietico contrapposto a quello occidentale giunge al termine anche il Terzo Mondo oggi si deve considerare fallito come esperienza alternativa, infatti nella decolonizzazione non si è riuscito ad affermare nessuna delle forme antagoniste al capitalismo ma invece si è diffusa la forma-Stato occidentale. Con la fine del Terzo Mondo non si sono risolte tutte le problematiche relative ad esso (sottosviluppo per esempio) ma solamente sono venute meno le condizioni che rendevano il Terzo Mondo un entità politica con pretese di omogeneità e autonomia. Il decennio che porta al 1989 mostra quanto fossero ingenue e infondate le teorie di Fukuyama (affermazione capitalismo decreta la fine della storia), si può ben dire il contrario, il processo di unificazione del mondo porta alla ribalta nuove realtà, nuove linee di conflitto e sfide al pensiero politico. Il dibattito filosofico-politico La consapevolezza di attraversare una crisi epocale delle istituzioni e dei concetti fondamentali della politica occidentale diede vita, a partire dalla metà degli anni '70, una rinascita della filosofia politica che ormai andava spegnendosi. Tre scuole principali: tedesca, anglosassone e francese. Dibattito tedesco Un tema caro a questo filone fu quello della comunicazione, Karl-Otto Apel e Habermas hanno proposto la teoria discorsiva della morale e della politica, entrambi condividevano una critica all'agire strumentale votato al dominio e alla tecnica, essi cercano di indicare la via di superamento della crisi di legittimità della democrazia. Contrapposto all'agire strumentale per Habermas vi è l'agire comunicativo, caratterizzato dal riconoscimento intersoggettivo non violento e permeato da un atteggiamento orientato all'intesa. L'agire comunicativo non si realizza solo in ambito economico ma anche statuale, tanto da rendere necessaria una mediazione tra i due. In “Fatti e Norme” (1992) Habermas presenta una sistematica teoria di discorsiva del sistema giuridico e costituzionale, nella prospettiva dell'agire comunicativo il diritto è il codice che permette di mettere in correlazione il sistema con la società. Condizione fondamentale dell'efficacia delle istituzioni democratiche è l'apertura al vaglio critico della società civile, intesa come insieme di associazioni e organizzazioni capaci di ospitare e amplificare le riflessioni sui problemi sociali. Quello che si forma dentro la società civile è un potere comunicativo che fa da ponte verso il sistema politico. Autori protagonisti della cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica: Riedel, Ritter, Hennise Ilting. Tutti questi autori insistettero sull'esigenza di ricollocare al centro della riflessione il nesso tra politica e metafisica. Decisivo fu in tale riabilitazione il problema metodologico, o meglio dello statuto epistemico del sapere politico: alla frantumazione delle scienze moderne generata dal razionalismo di Hobbes viene contrapposta l'esigenza di un nuovo fondamento del sapere. Due tratti essenziali: “ritorono ad Aristotele” (Etica Nicomachea: Saggezza e prudenza) e rilettura Critica del Giudizio kantiana. Dibattito anglosassone Anche il dibattito statunitense negli ultimi anni ha registrato una preoccupazione crescente per il vuoto di legittimità, consenso e radicamento delle istituzioni. Con Sandel si afferma il termine Comunitarismo per indicare queste tematiche, la sua teoria prevede che l'uomo frutto del modello di democrazia proceduale, formalista e neutrale sia un individuo “minimo”, privo di concretezza, identità e povero sotto l'aspetto spirituale. Solo considerando la rete di appartenenze, credenze, finalità e legami si salvaguarda l'identità dell'individuo e la solidarietà sociale su cui si si deve basare il sistema liberale dei diritti. Anche se il Comunitarismo riprende spesso il Neoconservatorismo esso pretende nella maggior parte dei casi di dare una risposta di “sinistra”. Il movimento risulta molto eterogeneo, componente aristotelica, hegeliana, religiosa, democratica di base radicale e sessantottina. Il comunitarismo ha registrato la crisi dei modelli politici e sociali prevalenti negli USA tuttavia ha mostrato un eccessiva tendenza ad assumere come naturali le comunità e le identità senza interrogarsi sui processi con cui essi si creassero. Dal punto di vista teorico il comunicarismo rappresenta un tentativo di rielaborazione dei modelli e dei valori politici, la sua insistenza sul radicamento dell'io spesso si scontra con la filosofia ermeneutica, con il contestualismo e con il relativismo. Secondo Rawls il consenso democratico si produce escludendo i conflitti sulle concezioni di “bene”, la comunità liberale deriva dall'adesione all'idea “dell'anteriorità del giusto rispetto al bene” e si sostanzia nella civica virtù della tolleranza, questa concezione determina il problema dell'esclusione dello spazio democratico di ciò che non è assimilabile ad esso. Questa dottrina esclusivista ed esclusiva viene criticata da Rorty nella sua interpretazione di Rawls, egli afferma che il soggetto non è altro una rete di credenze, desideri e emozioni che non hanno nulla dietro di loro, non ci si può riferire ad un io basato su tradizioni e credenze così ristrette per la loro matrice escludente.
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