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GARCILASO DE LA VEGA, Appunti di Letteratura Spagnola

Vita, amori, eventi storici che caratterizzano la vita di Garcilaso de la Vega + spiegazioni dei suoi sonetti, egloghe, epistola, elegie ecc.

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 27/07/2020

Chiara.De_Fazio
Chiara.De_Fazio 🇮🇹

4.7

(108)

28 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica GARCILASO DE LA VEGA e più Appunti in PDF di Letteratura Spagnola solo su Docsity! LA LETTERATURA SPAGNOLA – SIGLO DE ORO Il Siglo De Oro è un periodo storico spagnolo che si sviluppa a partire dai primi anni del 500 e che si estende per tutto il 600. Questi due secoli coincidono col periodo di dominio della dinastia asburgica (i Re Cattolici), successivamente Carlo V (mediante ereditarietà) e poi il figlio Filippo II, che riuscì a raggiungere un buon livello di possedimenti territoriali. Viene anche definito Periodo Aureo, durante il quale avvengono mutamenti positivi in diversi ambiti. Agli inizi del 500 la Spagna nascondeva un aspetto arcaico, che si rifletteva sulla tradizione artistica e letteraria. Ci furono i primi contatti con l’erasmismo corrente ideologica nata nel cuore ⟶ corrente ideologica nata nel cuore dell’umanesimo cristiano basata sulle idee di Erasmo da Rotterdam, il quale era a favore di un compromesso fra papato e protestantesimo, attaccando la corruzione del clero e sostenendo la purezza del rito. Il più importante seguace fu Alfonso De Valdés, con il suo Discorso de Latancio y del Arcediano, nel quale si compiace nel descrivere la corruzione della Roma papale punita con il Sacco di Roma. Dopo la morte di Erasmo, il suo movimento divenne una breve parentesi a cui se ne accostò un'altra, di natura religiosa: l’ascetismo ortodosso, basato sulla svalutazione della corporeità realizzata attraverso dei sacrifici, rinunce e mortificazioni della carne. Come nella vita religiosa, anche in quella letteraria l’ascetismo porta dei cambiamenti:  introduzione della prosa francescana (trattato religioso) ritornando all’epoca medievale;  ritorno alle regole di classificazione e sistemazione;  si ripropone un ordine che rispetti il rigore numerico della forma e la precisione. La crisi avvertita negli schemi classici dell’arte si avvertì anche in quelli della letteratura, in particolar modo nelle scuole poetiche di Garcilaso e Boscán. Le radici di questa inclinazione sono profonde e la serietà di cui gli artisti danno prova nell'addestramento tecnico (l'endecasillabo e le forme metriche italiane) è la garanzia di un’innovazione stabile, non di una moda passeggera. Intorno ai numerosi mutamenti letterari, si osserva un caso analogo anche nel ruolo del poeta all’interno della corte e nei confronti del suo pubblico: la figura del sofisticato autore dei Canzonieri va scomparendo, facendo posto a un personaggio che, grazie alla sua funzione intellettuale, gode di una propria autonomia di produttore di cultura. Inoltre, si prendono in prestito dall’Italia l’immagine del perfetto cortigiano e della nobiltà cavalleresca e le forme metriche italiane (sonetto, verso endecasillabo), ispirandosi all’opera di Baldassarre Castigione (poi tradotta in spagnolo da Juan Boscán). L'evento più caratteristico nella storia della poesia spagnola è senza dubbio il 1526, data dell'incontro a Granada di Juan Boscán con Andrea Navagero, ambasciatore di Venezia, durante i festeggiamenti per le nozze dell'imperatore Carlo V con Isabel de Portugal, ai quali partecipano gli ambasciatori di tutta Europa. Nella sua famosa “Epistola nuncupatoria a la Duquesa de Soma” (lettera di dedica), Boscán racconta che Navagero gli suggerisce di far suoi i metri della poetica italiana (sonetti, schema di rime ecc), anzi, precisa che non fu un semplice accenno: Navagero lo pregò di adottare i versi italiani nella poesia castigliana, così Boscán ci provò (anche se non era il primo tentativo in assoluto, in quanto il sonetto era stato già adottato dal Marqués de Santillana, ma non ebbe grande fortuna). Adottare la metrica italiana fu un’impresa ardua, ma Boscán fu spronato dal suo amico Garcilaso (con i suoi incoraggiamenti e con il suo esempio, perché anche lui si cimentò nella metrica italiana), che fece in modo che questo esperimento avesse successo e, nell’edizione del 1543, Boscán presenta alcune coplas castellanas: versi fatti all’antica maniera castigliana (il verso ottosillabo) + versi all’italico modo (il sonetto: verso endecasillabo, 2 quartine (cuarteto) e 2 terzine (terceto)). Questo incontro di Boscán e Navagero rappresenta la pietra miliare nella storia della letteratura spagnola, in quanto TUTTO PARTE DA QUI, da questo consiglio di Navagero. Con l'endecasillabo si incorpora tutta la poesia Petrarchista, con le sue sottigliezze amorevoli, la sua bellezza e il suo gusto per la forma. Senza dimenticare che i classici, in particolare Orazio, Virgilio e Ovidio, avrebbero a loro volta contribuito a formare un nuovo gusto letterario. Questa poesia ha anche arricchito la nuova sensibilità rinascimentale, alimentata dal platonismo, insieme all’amor cortese, che riecheggerà fino al barocco. “L’AMICIZIA TRA GARCILASO E JUAN BOSCÁN NEI SUOI VERSI” “Las obras de Boscán y algunas de Garcilaso de la Vega” versione catalana di Carlas Amoros, ⟶ corrente ideologica nata nel cuore pubblicata in Barcellona. Il frontespizio è stato riprodotto in varie edizioni moderne. Il Colofón (parte finale della stampa di un libro che contiene informazioni tipografiche), ovvero l’ultima pagina del libro, contiene gli ultimi versi della 3 egloga di Garcilaso e la data di stampa: 20 marzo 1543. L’opera consta di 4 libri: i primi 3 comprendono i versi di Juan Boscán; l’ultimo libro comprende i versi di Garcilaso de la Vega. Non è un caso che questi due poeti siano uniti in questo libro, perché erano legati da un’indissolubile e intima amicizia: erano due poeti soldati. Questa edizione del 1543 è un’edizione doppiamente postuma, perché è stata pubblicata dopo la morte di entrambi: Garcilaso morì nel 1536, Boscán morì nel 1542. Poco prima di morire, Boscán aveva organizzato il materiale a sua disposizione, ma non poté assistere al processo di stampa e alla rifinitura dell’edizione, che fu a carico di sua moglie Ana Girón de Rebolledo. In quest’opera vengono pubblicati per la prima volta i versi sia di Boscán che di Garcilaso. Garcilaso in vita non pubblicò nulla. Boscán pubblicò solo la traduzione de Il Cortigiano di Baldassare Castiglione (nel 1534). Dunque quest’opera è stata la prima edizione di poesia di entrambi. Venne pubblicata a Barcellona perché Boscán era di Barcellona, sua moglie invece era valenziana. Il frontespizio dice “algunas” obras de Garcilaso perché comprende solo quelle che Boscán riuscì a raccogliere. Non è un’edizione definitiva perché Garcilaso morì improvvisamente, quando era giovanissimo (aveva appena 35 anni), a seguito di un’azione militare a Nizza nel 1536, dunque non ebbe modo di allestire questo materiale per darlo alle stampe. Boscán fortunatamente conservava dei manoscritti, quelli che raccolse e che la moglie fece pubblicare. Questo volume ebbe un successo clamoroso: fu ristampato innumerevoli volte finché, nel 1569, quella che era un’appendice, si trasformò in un volumetto a sé. Dunque nel 1569, per la prima volta, le opere poetiche di Garcilaso de la Vega hanno una dignità di stampa a sé (edición exenta): vennero stampate e pubblicate a parte a Salamanca perché vennero apprezzate più delle opere di Boscán: ebbero un successo clamoroso, convertendosi in BEST SELLER E LONG SELLER. Boscán, dunque, nel 1543 si fa esecutore testamentario di Garcilaso dal punto di vista poetico. A volte la numerazione dei sonetti nel libro di versi di Garcilaso non coincide tra le varie edizioni a causa del fatto che mancò la supervisione di entrambi gli autori, dunque non abbiamo la certezza che questo libro comprenda tutta la sua produzione. Il libro comprende: 40 sonetti (di cui 2 sono stati giudicati spuri, apocrifi, non attribuibili a lui), 4 canzoni e 1 ode, 2 elegie, 1 epistola e 3 egloghe, oltre alle coplas castellanas e alcuni versi in latino. La vita di Garcilaso de la Vega si intreccia in maniera indissolubile con gli eventi storici. SONETTO 28 (dedicato a Boscán) “Boscán, avete avuto vendetta con disonore mio, del rigore delle parole aspre con le quali in passato ero solito rimproverare la tenerezza del vostro cuore (terneza: Boscán era facile ad innamorarsi); ho un castigo quotidiano per il mio errore (“selvatichezza”) ben potrei adesso, io che ero solito rimproverarvi, vergognarmi e castigarmi (per le mie parole aspre). Perché sappiate che ai miei 35 anni e armato (soldato), con i miei occhi ben aperti, mi sono dovuto arrendere al fanciullo che sapete, cieco e nudo (Cupido, un puttino cieco, perché l’amore è cieco mi sono ⟶ corrente ideologica nata nel cuore innamorato anche io) (BEN APERTI contrapposto a CIECO; DESNUDO contrapposto ad ARMATO). Nessun cuore fu mai consumato da un fuoco così bello (come il fuoco dell’amore che sta divorando il cuore di Garcilaso) ma non chiedetemi mai dettagli: non rivelerò mai il suo nome” (probabilmente una dama napoletana, dunque questo sonetto è stato probabilmente scritto nel 1535, anno in cui Garcilaso visse a Napoli, segnandolo dal lato umano e poetico). in realtà non vorrei mai assistere a questa scena da sempre temuta, preferirei continuare a pensare che sia solo frutto della mia immaginazione. Garcilaso utilizza la metafora di un malato moribondo: Da un lato c’è il mio amico fidato, che mi dice che è arrivata l’ora di preparare l’anima al trapasso, dall’altro c’è la mia amata che cerca di ingannarmi dandomi ancora speranze. Preferisco credere che ho ancora una speranza a cui aggrapparmi e così facendo, muoio dissanguato senza sentirlo (ma così il moribondo non si prepara alla morte). Tu (Boscán) che hai la fortuna di stare a casa tua, vicino ai tuoi affetti, magari guardando la bella spiaggia di Barcellona, ti immagino lì, contemplando la tua bella amata che rendi eterna con i tuoi versi, rallegrati di ciò, perché il tuo cuore è infiammato da una fiamma più bella di quella che infiammò il cuore di Paride per Elena. Non devi temere gli stravolgimenti improvvisi della fortuna (a differenza mia) Io vado dove la fortuna mi dice di andare se non mi armo di pazienza e mi illudo tutti i giorni che la mia amata mi aspetta, la mia speranza precipita al suolo tanto che invano cerco di risollevarla. Questo è il premio che spetta al mio servizio: (si definisce un MERCENARIO PREZZOLATO) la fortuna è mutevole, ma in un’unica cosa rimane costante: la miseria della mia vita. Dove potrò fuggire per sottrarmi alla mia sorte? Non servirebbe a nulla fuggire nel deserto africano, o nella neve fredda perché non si può sfuggire al proprio destino. Il mio timore geloso mi stringerebbe comunque il cuore, mi perseguiterebbe fino a lì, non potrei salvarmi in nessun luogo, vacillando da un estremo all’altro muoio consumato da questa paura irrefrenabile (di essere ingannato dalla mia amata). “L’ESILIO, GLI AMICI NAPOLETANI, I VERSI DI TEMA MITOLOGICO” Il 14 agosto 1531, ad Avila, Garcilaso partecipa come testimone al matrimonio di Garcilaso nipote (il figlio di suo fratello don Pedro Laso), il quale però si sposa segretamente con Isabel de la Cueva (sono nozze segrete perché malviste e osteggiate dalla famiglia di lei, ma soprattutto perché Carlo V e Isabel de Portugal erano contrari). Pochi mesi dopo la celebrazione di questo matrimonio segreto, nel gennaio 1532, Garcilaso parte con uno dei suoi illustri protettori, il giovane Duca d’Alba (Fernando Alvarez de Toledo) verso Vienna, che in quell’anno era assediata dai turchi. Carlo V in quel momento si trova nelle Fiandre, quindi chiama i suoi soldati più valorosi per difendere la cristianità del suo Paese da questo pericolo gravissimo. Quando Garcilaso si trova ancora a Tolosa dei Paesi Baschi, il 3 febbraio viene raggiunto da una lettera imperiale perché doveva essere interrogato sul matrimonio di suo nipote, proibito dal re. Dunque viene trattenuto e, come punizione, nel 1532 viene condannato all'esilio dalla Spagna. Ciò nonostante, Garcilaso continua il suo viaggio con il Duca d’Alba, attraversando Parigi, Colonia, e Ratisbona (in Germania), dove dovrà fermarsi perché gli arriva l’ordine tassativo di incominciare a scontare il suo esilio, in un'isola del Danubio (rievocato nella Canzone III). I suoi illustri protettori (il Duca d’Alba e suo zio, Don Pedro de Toledo) cercano di intercedere per lui per fargli ottenere il perdono del re, il quale però tarderà ad arrivare, perciò Garcilaso inizia a scontare il suo esilio in questa isola del Danubio. Nel novembre 1532 il re accetta la proposta dei due protettori e Garcilaso viene trasferito, continuando a scontare il suo esilio a Napoli, poiché era al servizio di Don Pedro Alvarez de Toledo, il quale diventerà viceré a Napoli. Qui vive gli anni più fecondi della sua vita sul piano poetico, nei quali riuscì a compiere una perfetta italianizzazione della sua poesia (fece propri i metri e i temi della poesia italiana), anche grazie alle amicizie che strinse, frequentando gli umanisti dell'Accademia Pontaniana, come Luigi Tansillo, Bernardo Tasso, Giulio Cesare Caracciolo, i fratelli Galeota, le sorelle Sanseverino. “EL DESTIERRO” SONETO 4 (tratta il tema dell'esilio e degli anni napoletani, con le amicizie illustri che strinse a Napoli, quindi è stato scritto nel 1532, anno della sua condanna). Lo stato d'animo di Garcilaso oscilla tra due sentimenti contrapposti: esperanza/desconfianza (speranza/sconforto). “Per un momento si risolleva la mia speranza, ma subito dopo, stanca di essersi risollevata, precipito di nuovo in uno stato d’animo contrario alla mia volontà lasciando campo libero allo sconforto (poiché prima godeva della stima e della fiducia dell’imperatore, ma adesso, a causa delle nozze segrete a cui ha partecipato, è caduto in disgrazia ai suoi occhi). Chi potrà sopportare questo rapido cambiamento così forte e doloroso? Oh, cuore stanco, fatti coraggio nella miseria del tuo stato (sconforto), perché dopo la tempesta tornerà la quiete! (fortuna: burrasca; bonanza: quiete sul mare) Qui vediamo che, se in un primo momento la speranza ha fatto posto allo sconforto, adesso ritorna uno slancio di ottimismo e forza di volontà, infatti nella strofa seguente vediamo che Garcilaso si sente capace di penetrare la roccia di una montagna piena di ostacoli. Ora che ho ripreso fiducia mi sento pronto ad affrontare una montagna piena di ostacoli, né la morte, né la prigione, né gli ostacoli mi possono impedire di venirvi a vedere (la donna amata) (sia che) mi sia trasformato in un nudo spirito oppure in carne ed ossa (verrò a trovarvi in qualunque modo)”. CANCIÓN 3: è il testo più famoso legato a questa vicenda drammatica (la condanna all'esilio). E’ una canzone petrarchesca all’italiana: 5 strofe di 13 versi con commiato finale di 8 versi. Schema metrico: abC abC cdeeDfF (minuscole: versi settenari; maiuscole: versi endecasillabi) 1. “Il fiume Danubio circonda con un calmo fruscìo d'acqua corrente e chiara un'isola che potrebbe essere un Locus amoenus, scelto perché riposasse chi non si trovasse nelle stesse condizioni in cui mi trovo io ora: lì c'è un’eterna primavera (luogo paradisiaco, descrizione idilliaca) che appare sempre sui prati ricoperti di fiori; gli usignoli che con il loro canto (dolci lamenti) fanno rinnovare il piacere o la tristezza (accompagnano lo stato d’animo di chi li ascolta) che non interrompono mai, cantano continuamente giorno e notte. 2. Io sono stato collocato qui o, per meglio dire, imprigionato e costretto a rimanere in questo territorio straniero; (tutto ciò per punizione) possono fare ciò nei confronti di qualcuno che, come me, è capace di sopportare questo castigo e in chi si condanna da solo (ammissione di colpa, riconosce di aver infranto il volere del re) c'è solo una cosa che mi fa soffrire (se dovessi morire qui, esiliato e da solo in una terra straniera) che gli altri possano pensare che sono morto per il dispiacere di questo esilio, ma non è così, perché in realtà, semmai dovessi morire qui sarà solo per le pene d'amore. 3. Il corpo è in potere e nelle mani del mio Signore ( Carlo V) che può disporne a suo piacimento Ma c'è qualcosa sulla quale nemmeno l’imperatore ha potere: la mia anima, che rimane libera per sempre e anche se dovesse sopraggiungere la morte io continuerò a provare liberamente i miei sentimenti d'amore, solo l'amore potrà condurmi alla morte. (potrò morire solo per il dolore di questo amore lontano) 4. Adesso è inutile continuare a parlare senza nessuna utilità di questa mia condizione, mi trovo in uno stato di estrema necessità, perché in un attimo, per un unico gesto sconsiderato che ho compiuto ho perso tutto il favore di Carlo V al servizio del quale avevo dedicato tutta la mia vita. E dopo tutto questo pensano di spaventarmi? Io morirò senza paura, che lo sappiano, perché la mia sfortuna in un attimo mi ha tolto sia il favore del re che qualsiasi forma di paura. (non mi ha lasciato nessun motivo per cui avere paura) 5. Danubio, fiume divino, che attraversi con le tue onde cristalline popoli fieri queste mie parole solo a te possono essere affidate perché escano fuori dai limiti di questa isola e se dovessero essere trovate da qualcuno su una riva deserta seppelliscile, perché sulle tue rive si fermi il loro cammino. 6. (Io mi auguro che qualcuno le trovi) Ma se non dovesse essere così (se dovessero morire nelle acque del Danubio) tu, mia canzone, non devi lamentarti, io mi sono ben preoccupato di affidarti alle acque, avresti una vita più breve se dovessi prendere il destino di altre canzoni (otras: canzoni) che mi sono morte in bocca (che non ho potuto scrivere). Di chi è la colpa lo capirai lì (nel regno della morte) perché presto lo sentirai da me (è probabile che io muoia)”. “SOBRE LOS AMIGOS NAPOLITANOS” SONETO 19 (dedicata a Giulio Cesare Caracciolo, poeta napoletano, amico e confidente di Garcilaso). “Giulio, dopo che io partii piangendo da chi mai s’allontana il mio pensiero e lasciai quella parte della mia anima che stava dando al corpo vita e forza vado esigendo a me stesso il giusto conto del mio bene, e sento in tal maniera mancarmi tutto il bene, che ho paura che mi mancherà l’aria sospirando. E con questo timore la mia lingua prova 12. e adesso in questo modo il dolore ha avuto la meglio sulla ragione tanto che non mi sopporta mi tratta come una serpe velenosa e ora lui mi teme, mi evita. A causa del dolore di Mario per l’amore non corrisposto di Violante, Mario ha abbandonato tutte le sue attività: l’equitazione, l’esercizio delle armi, non vuole più vedere il suo migliore amico, passa le sue giornate a piangere con la sua cetra: Garcilaso si vede costretto ad intervenire con questa ode per intercedere presso Violante per il suo amico disperato. Da un lato cerca di intercedere, dall’altro, velatamente, minaccia la dama sprezzante, ricordandole il famoso mito di Ifi e Anassàrete: Anassarete era una bellissima fanciulla dell’isola di Cipro: Ifi se ne innamorò perdutamente e la corteggiò senza posa, ma Anassarete non ne volle sapere mai nulla, lo guardò sempre con disprezzo. Il povero Ifi, disperato, un giorno si impiccò davanti alla casa di Anassarete, la quale contemplò il cadavere penzolante davanti alla sua casa, e neanche in quel momento fu toccata da un sentimento di umana pietà. A quel punto, la dea dell’amore Afrodite, indignata per questo atteggiamento, trasformò la ragazza in una statua di pietra, come di pietra era stato il suo cuore nei confronti di Ifi). 13. Tu non sei stata generata dalla dura terra non puoi essere così insensibile, così ingrata; perché sei una donna piena di virtù, l'unico tuo difetto è questo tuo modo crudele in cui tratti Mario Galeota. 14. Attenta a te, non commettere lo stesso errore di Anassàrete, che si pentì troppo tardi del suo atteggiamento sdegnoso e ora la sua anima brucia con il marmo (venne trasformata in statua di marmo). 15. Si stava rallegrando del male altrui (quello di Ifi) il suo petto impietrito quando guardando dalla finestra contemplò il cadavere del miserabile amante che pendeva, 16. con un cappio legato al collo con il quale Ifi si uccise, liberandosi dalle catene dell’amore, (nemmeno in quel caso fu mossa a pietà) e con questo suo ultimo gesto di disprezzo comprò l’eterno castigo (punizione) di Venere. Nelle strofe 17- 18- 19 assistiamo alla metamorfosi di Annassarete in una statua di marmo: il suo cuore è stato di pietra nei confronti di Ifi, quindi Afrodite la trasforma in marmo freddo, come freddo è stato il suo cuore. Il sangue perde la sua forma finché, nella strofa 20, si compie la metamorfosi: 20. finalmente si trasforma in duro marmo e la gente, in verità, non si meravigliò più di tanto per questa trasformazione perché si considerò vendicata l’ingratitudine di Anassarete. 21. Signora, non mettere alla prova la dea Nemesi (dea della vendetta) con le sue frecce, ti basti che le tue virtù, la tua bellezza, i tuoi pregi siano cantati dai poeti 22. non dare loro materia che possa rinnovare il mito, evita di essere così spietata col povero Mario Galeota, evita che i poeti celebrino nei loro versi un caso triste e memorabile perché corri il pericolo di trasformarti anche tu in un duro marmo”. “T EMAS MITOLÓGICOS” SONETO 13: è il sonetto più celebre di Garcilaso (tratta il mito di Dafne e Apollo: dopo aver ucciso il serpente Pitone, Apollo andò a vantarsi della propria impresa con Cupido, il quale, sopraffatto dalla gelosia, gli giurò vendetta: preparò due frecce, una dorata, destinata a far nascere l'amore; l’altra di piombo, che faceva prosciugare l'amore. Cupido scoccò la freccia d'oro verso Apollo e quella di piombo verso la ninfa Dafne (figlia del dio-fiume Peneo), così che, appena Apollo la vide, se ne invaghì perdutamente, invece, Dafne, appena vide Apollo, iniziò a fuggire impaurita. Apollo iniziò a inseguirla, ed era più veloce della sventurata che, una volta giunta presso il fiume Peneo, rivolse una disperata preghiera al padre, chiedendogli di trasformarla in un'altra forma per sottrarsi alla non corrisposta passione di Apollo. Così Peneo la trasformò in un albero d'alloro: i suoi capelli e le sue braccia diventarono rami ricchi di foglie, il suo corpo si ricoprì di corteccia; i suoi piedi assunsero la forma di solide radici; il suo dolce volto svanì sotto gli occhi increduli di Apollo che, giunto proprio in quel momento, la avvolgeva in un abbraccio disperato e, piangendo, faceva crescere ulteriormente l’albero. Fu così che la pianta di alloro divenne sacra ad Apollo, il dio della poesia, per questo i poeti venivano ornati con una corona d’alloro). “A Dafne già crescevano le braccia (si allungavano) trasformate in lunghi rami; vidi (io) che si trasformavano in foglie verdi i capelli, che erano più lucenti dell'oro (erano di un biondo talmente lucente che oscurava l’oro); le tenere membra che si stavano ancora muovendo, agitando (“bullendo”) si coprivano di aspra corteccia; i piedi candidi, diafani, sprofondavano nella terra e si trasformavano in contorte radici. (Apollo) causa di un tale danno, a forza di piangere, faceva crescere questo albero perché lo innaffiava con le sue lacrime. Oh male così grande! (quello che soffre Apollo: più la contempla, più piange) piangendo, fa crescere con le sue lacrime (innaffiando l’albero) la causa e la ragione per cui piangeva! (è stato proprio Apollo a determinare questa metamorfosi). SONETO 29 (tratta il mito di Leandro e Ero: il giovane Leandro, che viveva ad Abido, ogni notte attraversava a nuoto l’Ellesponto (lo stretto dei Dardanelli) per raggiungere la sua amata Ero, una sacerdotessa di Venere che viveva a Sesto, sulla costa opposta. Ero, tutte le notti, collocava una lanterna sulla sua finestra per indicargli il cammino, ma una notte, una tempesta spense la luce della lanterna, e il povero Leandro, disorientato e sopraffatto dai flutti, morì annegato. Il mattino seguente, Ero contempla sulle rive il cadavere del suo amato Leandro ed il dolore è talmente insopportabile che la povera Ero si suicida, gettandosi da una torre. “Leandro il coraggioso mentre attraversava a nuoto il mare, bruciando tutto nel fuoco della passione amorosa, il vento si fece più forte con un impeto furioso e anche le acque cominciarono ad agitarsi. Vinto dallo sforzo affannoso, non potendo contrastare la forza delle onde, angosciato della perdita della sua amata più della vita che sta per perdere (sa che sta per morire, ma soffre di più perché sa che, morendo, perderà per sempre la sua amata Ero), allora, come poteva, diede vigore alla sua voce stanca rivolgendosi alle onde in questo modo, ma fu invano perché la sua voce non fu mai sentita dalle onde (“dellas”): “O onde, visto che non si può evitare che io muoia, vi prego, fatemi raggiungere Ero per l'ultima volta, prendetevi pure la mia vita, ma fatelo al ritorno.” (ma a causa del rumore della tempesta le sue parole non furono mai sentite dalle onde). “GLI AMORI DI GARCILASO”  Guiomar Carrillo;  Elena de Zúñiga (sua moglie dal 1525);  Isabel Freyre;  Beatriz de Sá;  andrebbe aggiunta anche un’altra donna, citata nel suo testamento;  e la dama napoletana, che sembrerebbe essere Caterina di San Severino. Le prime 4 donne sono le più importanti, poiché ebbero un’importanza decisiva nella sua biografia. GUIOMAR CARRILLO: figura che fino a circa 20 anni fa era avvolta nel mistero, perché l'unica traccia di una relazione importante nella vita di Garcilaso (probabilmente anteriore al matrimonio con la nobile ELENA DE ZÚÑIGA (dama di doña Leonor de Austria, sorella dell'imperatore e moglie di Francisco I di Francia), avvenuto nel 1525) si era potuta dedurre da un passaggio del suo testamento. Garcilaso scrisse il testamento nel marzo del 1529, quando aveva circa 30 anni, e si trovava a Barcellona in attesa di imbarcarsi diretto in Italia per accompagnare Carlo V a Bologna, poiché il 24 febbraio 1530 fu incoronato imperatore dal Papa. Dunque Garcilaso lascia Toledo, viaggia verso Zaragoza (dove si trattiene un mese), poi va Barcellona, dove si imbarca per Genova, dalla quale poi va a Bologna. I viaggi per mare all’epoca erano pericolosissimi per la presenza di pirati Turchi che spesso attaccavano le navi cristiane e facevano prigionieri per poi chiedere il riscatto, dunque, chi si metteva in viaggio non aveva la certezza di arrivare a destinazione né di fare poi ritorno a casa. Perciò Garcilaso decide di fare testamento, nel quale, oltre a citare i suoi 3 figli (Garcilaso de la Vega, Íñigo de Zúñiga e Pedro de Guzmán, avuti con sua moglie Elena de Zúñiga) e stabilire il mayorazgo del suo primogenito legittimo, cita anche un “Don Lorenzo mi hijo”, preoccupandosi dell'educazione di questo suo figlio: vorrebbe che studiasse lettere, e poi scegliesse se intraprendere gli studi di religione o legge, ma comunque dispone che sia mantenuto fino a quando non sarà in grado di sostentarsi autonomamente. Quando, nel 1529, Garcilaso scrive questo testamento, era già sposato da 4 anni con Elena de Zúñiga, dalla quale ha già avuto i primi 3 figli, ma nessuno di questi si chiama Lorenzo ⟶ corrente ideologica nata nel cuore dunque questo Don Lorenzo è nato fuori dal matrimonio, avuto da un'altra donna. Il dubbio sull’identità di questa donna ha tormentato gli studiosi fino al 1998, quando María del Carmen Vaquero Serrano ha potuto rintracciare, tra le carte conservate nell’Archivio de los Condes de Cerillo, la “Carta de donación y mejoría que hizo y otorgó la muy magnífica señora doña Guiomar Carrillo al señor don Lorenzo Suárez de Figueroa, su hijo” (di Guiomar Carrillo) redatta nel 1537 (quando Garcilaso era già morto). Questa carta è un documento ricchissimo di informazioni preziose per la biografia di Garcilaso, poiché si capisce che la madre di Don Lorenzo Suárez de Figueroa è doña Guiomar Carrillo, che ebbe una relazione con Garcilaso, del quale rimase incinta. Lei era toledana, nata e cresciuta nello stesso quartiere di Garcilaso, dunque erano amici di infanzia, e questa amicizia si è poi trasformata in amore. Entrambi erano persone libere, di classe sociale simile, dunque avrebbero potuto sposarsi senza nessun ostacolo, soprattutto dopo la nascita del figlio, eppure ciò non avvenne. La risposta a ciò è legata alla guerra de los comuneros, che vide Toledo contro Carlo V. Quando scoppiò la rivolta, Garcilaso si schierò al fianco di Carlo V, mentre suo fratello Pedro Laso de la Vega (il padre di Garcilaso nipote) e doña Guiomar si schierarono con i comuneros. Carlo V vinse la battaglia ed esiliò i rivoltosi, tra cui anche il fratello di Garcilaso, che venne mandato in esilio in Portogallo, dove rimase fino al 1527, quando, dopo una lunga opera di intercessione, poté far ritorno nei suoi territori castigliani. Dunque Guiomar fu mal vista da Carlo V, motivo per il quale non permise mai a Garcilaso di sposarla; gli troverà un'altra sposa, politicamente più accettabile (Elena). L’egloga è composta di 47 strofe di 8 versi endecasillabi, utilizzando lo schema metrico dell'ottava rima, chiamata anche octava real: ABABABCC (combinazione metrica di 8 versi, di cui i primi 6 presentano una rima alternata, mentre il distico finale presenta una rima baciata). 1. Garcilaso si propone di cantare nei suoi versi la bellezza, l’ingegno e la virtù di Doña María, se solo il destino alle volte non si accanisse contro di lui. 2. Potrebbe farne oggetto del suo canto non solo in vita, ma addirittura nell’aldilà. 3. La sorte si accanisce contro di lui, e lo tormenta, lo distrae costantemente, Lo allontana dalla patria (allusione all’esilio), dalla donna amata, mette alla prova la sua pazienza, e ciò che più lo fa soffrire è che gli strappa di mano quella carta dove lui si accingeva a scrivere le sue lodi, sostituendole con pensieri vani. 4. Ma lui confida che Apollo e le 9 muse lo assisteranno in modo che possa cantare le sue lodi, 5. anche se lui si vede costretto a dedicarsi alla carriera militare (poiché non era il primogenito, quindi non era l’erede del patrimonio di famiglia: doveva guadagnarsi da vivere, dedicandosi alla carriera ecclesiastica o a quella militare), era votato al sanguinario dio della guerra Marte, eppure, tra un’impresa militare e un’altra, ha trovato il tempo di dedicarsi alla poesia. 6. E allora, illustre Maria, presta attenzione al suono umile del suo strumento, il suo è un cantare semplice, forse indegno di arrivare alle tue orecchie; ma a volte sono più graditi l’ingegno e il cantare semplice che testimoniano un animo sincero, piuttosto che l’artificio del poeta dotto. 7. Per questo motivo lui merita di essere ascoltato da lei, come omaggio alla sua poesia semplice; lui le offre quello che può, date le condizioni precarie della sua vita, a lui basta che lei lo riceva con animo ben disposto. In queste strofe che precedono l’elogio di Maria, Garcilaso canta di 4 ninfe del suo amato fiume Tago (le 4 figlie di Don Pedro e Doña María): Filodoce, Dinamene, Climene e Nise, la cui bellezza non ha pari. 8. Vicino al fiume Tago, in un’amena solitudine, si trova un boschetto di salici verdi rivestito di edera, che va salendo lungo i tronchi fino alla cima, tessendo una sorta di rete fitta attraverso la quale non passano i raggi del sole. Fino a questo prato arriva l’acqua del fiume Tago, che rallegra l’edera e, con la sua musica, anche le orecchie di chi la ascolta. 9. Il Tago si muove così lentamente che gli occhi riescono a seguire il movimento della corrente, sembra quasi immobile. Una di queste 4 ninfe tirò fuori la testa dalle acque del fiume in cui viveva, pettinando i suoi capelli d’oro, e la sua attenzione fu richiamata da questo prato ameno. 10. La mosse quel luogo pieno d’ombra, il vento calmo, l’odore di quel prato bagnato pieno di fiori, (…. descrizione dettagliata del locus amoenus). 11. Una delle 4 sorelle ha scoperto questo angolino idilliaco all’ombra e si reimmerge nelle acque e va subito a raccontarlo alle sorelle, pregandole di andare lì con lei portando con sé “su labor”. 12. Le sorelle non si fanno pregare a lungo, si mettono a nuotare e raggiungono il verde prato. 13. Le 4 ninfe stanno ricamando. Trovano un posto nascosto e si mettono a lavorare attentamente. 14. Dopo aver setacciato bene questa sabbia, la utilizzano insieme alle alghe trattate, in modo tale da diventare un filo sottile con il quale ricamano i loro arazzi (tele). 15. Ognuna delle 4 sorelle va tessendo scene diverse. 16. Filodoce, ricamava l’amore che mosse la dolorosa lingua di Orfeo (il mito di Orfeo). 17. Filodoce rappresenta Euridice morsa sul suo bianco piede dal serpente velenoso che si era nascosto tra l’erba, dunque nel momento stesso in cui perde la vita: pallida, come una rosa colta prima del tempo: è rappresentata nel momento in cui l’anima si separa dal corpo. 18. Viene raffigurato anche Orfeo: marito coraggioso che scese fino agli inferi per recuperare la sua amata Euridice, che però perde di nuovo per la sua impazienza di guardarla ancora, e si lamenta invano per i monti solitari per la sua tragedia. 19. Dinamene rappresenta il mito di Apollo e Dafne. Apollo, assorto nella sua caccia viene colpito da una freccia dorata di Cupido, che vuole vendicarsi per un’offesa ricevuta da lui. La freccia dorata gli provoca un amore irrefrenabile nei confronti di Dafne. 20. Cupido ha ferito Dafne con una freccia dalla punta di piombo, che provoca odio. Dafne cerca di sottrarsi ad Apollo, che la segue, lei corre disperatamente, ferendo i suoi piedi nudi nel bosco, tanto che Apollo rallenta la sua corsa, preoccupato delle ferite che Dafne si provocava. 21. Nel sonetto 13 Garcilaso aveva rappresentato l’inizio della metamorfosi di Dafne; mentre qui si rappresenta l’intera scena della corsa della ninfa fino ad arrivare alla metamorfosi in alloro. Nonostante questa corsa disperata, Dafne sarebbe stata comunque raggiunta da Apollo, ed ecco che le sue preghiere vengono accolte e si comincia a trasformare in albero di alloro: le braccia si trasformano in rami, i capelli che un tempo erano più lucenti dell’oro, ora si trasformano in foglie, i piedi affondano nel terreno trasformati in radici. Apollo comincia a piangere e le lacrime alimentano la pianta dell’alloro, che bacia e abbraccia. 22. Climéne rappresenta il mito di Adone e Venere, con il cinghiale che uccide con le sue zanne il povero Adone coraggioso, che lo ha affrontato in un bosco fitto di querce e di rupi. 23. Il povero Adone, disteso in terra, con il petto squarciato dalle zanne del cinghiale, i suoi capelli sparsi sul suolo, tinge con il rosso del suo sangue le rose bianche, dando vita ai fiori “anemoni”. 24. Venere, addolorata, è quasi svenuta sul corpo di Adone, e raccoglie l’ultima parte dell’aria che dava vita al suo amato, per il quale aveva abbandonato gli dei dell’Olimpo. 25. Nise decide di non rappresentare un mito: vuole rappresentare la gloria del fiume Tago. 26. Dunque rappresenta il percorso del fiume Tago, gonfio d’acqua. 27. 28. E rappresenta anche le ninfe, che escono dal fitto dei boschi e si avvicinano alla riva in modo frettoloso. Le ninfe hanno un aspetto triste, afflitto, e portano dei cesti pieni di rose rosse, che vanno spargendo sul corpo di una loro compagna, una ninfa morta. 29. Tutte, con i capelli sciolti (in segno di lutto) piangevano una bella ninfa giovane, la cui vita era stata troncata prima del tempo; posta vicino all’acqua, sul prato tra i fiori, come un cigno bianco che ha perso la vita sul prato verde. 30. Una di queste ninfe, la più bella di tutte, con l’aria triste, separata dalle altre, incide sulla corteccia di un albero delle parole, che non sono altro che l’epitaffio di questa ninfa morta. Nell’epitaffio parla la stessa ninfa morta: 31. “Sono Elisa, pronunciando il mio nome risuona e si lamenta il monte pieno di caverne, testimone del dolore che tormenta il pastore Nemoroso (lo stesso dell’egloga 1), che continua ad invocare il mio nome, e si sente un eco del fiume Tago, che pare rispondere a bocca piena, portando veloce il mio nome fino al mare di Lusitania, donde confido che sarà ascoltato”. La perdita della donna amata è il tema comune di questi arazzi. 35. Nel momento in cui i raggi del sole si nascondono dietro le montagne (tramonto), lasciando il posto alla luna, e i pesci cominciano a saltare nel fiume, le Ninfe fanno ritorno alle acque del Tago, passeggiando sulle rive del fiume. 36. Le Ninfe stanno per fare ritorno nelle loro dimore, quando all'improvviso sono trattenute dal dolce suono di due zampogne che accompagnano il canto di due pastori ⟶ corrente ideologica nata nel cuore canto amebeo (canto alternato: i pastori cantano alternandosi) e quindi si fermano, attratte da questo canto. 37. I pastori stanno facendo il loro mestiere: è l’ora del tramonto, dunque le loro pecore devono fare ritorno all’ovile per passare la notte, ma il lavoro è meno faticoso se lo si esegue cantando. 38. Presentazione dei due pastori: uno si chiama Tirreno, l’altro Alcino. Sono entrambi abili pastori, anche se giovani pronti a cantare insieme alternandosi (l’uno risponde all’altro). 39. Comincia il canto amebeo, il cui oggetto è l'amore, quindi ognuno dei due pastori canta la donna amata (Flérida per Tirreno, Filis per Alcino). L'ottava di Tirreno è costellata di confronti che permettono di cantare le doti di Flérida, che è “più dolce e saporita della frutta del recinto altrui, più bianca del latte, più bella di un prato fiorito d’aprile”. “O Flerida, ti prego, corrispondi al mio amore, affrettati, perché al mio rientro con il bestiame, avrò piacere di trovarti”. 40. Alcino esprime il suo desiderio che arrivi la notte per potersi ricongiungere con la sua amata. “O bella Filis, possa io essere per te amaro più della ginestra, possa essere privato della tua presenza, come un tronco privato dei suoi rami, se non è vero che io desidero che arrivi la notte più del pipistrello, perché così vedrò la fine di un giorno che è durato più di un anno (per me è stato eterno visto che ero lontano da te). 41. Tirreno paragona Flérida alla primavera (Favonio e Céfiro: due nomi di un vento di primavera) l’apparizione di Flérida provoca gli stessi effetti dell’arrivo della primavera: questi venti restituiscono fanno sbocciare i fiori che colorano le rive del Tago di rosso, bianco e azzurro; allo stesso modo, quando arriva la mia Flérida, fa rifiorire la mia allegria. 42. Alcino parla di un vento furioso e irrefrenabile che riesce ad abbattere le querce secolari e addirittura agita e muove il mare a tal punto da incresparlo con le onde. La furia di questo vento impetuoso è poca rispetto a quella di Filis quando si arrabbia con lui. 43. Tirreno ribadisce che è primavera, quindi cresce il grano, producendo l’alimento per il bestiame, il verde monte offre cibo alle bestie selvatiche, la cornucopia straborda con le sue ricchezze, ma se Flérida allontana il suo sguardo, tutto si trasformerà in sterpaglie spinose (Flérida ha il potere di far fiorire o spegnere la vita, sia nei campi, che nel cuore del suo amato). 44. Alcino dice che, lo stesso potere di Flérida lo ha anche Filis. “Se solo Filis tornasse in queste terre, che ora sono segnate dalla sterilità (dovuta alla siccità estiva), tutto rapidamente tornerebbe alla vita (tornerebbe la prosperità e la felicità)”. 45. Tirreno cita vari alberi: il pioppo(caro ad Ercole), l'alloro (caro ad Apollo), il mirto (amato da Venere), il salice (l'albero preferito di Flérida). “Anche se questi alberi sono cari agli dei, questi ultimi tacciano, perché il salice è l'albero preferito della mia amata Flérida, e quindi devono considerarlo tutti “l’albero per eccellenza”. 46. Anche Alcino ricorre a confronti con gli alberi: “il frassino, il faggio sono tutti alberi bellissimi, ma chiunque ti abbia visto, mia amata Filis, confesserà che la tua bellezza è superiore”. I confronti sono fatti con elementi della natura, come i fiori, gli alberi, i venti, perché è il canto di due pastori, quindi i termini appartengono al contesto in cui vivono, fatto di elementi naturali. 47. Questo fu il canto di Tirreno e Alcino, e una volta concluso, i due pastori continuarono il loro cammino accelerando un po’ il passo, e poiché si avvicinano alle ninfe, quando esse sentono il rumore dei loro passi avvicinarsi, per non essere viste, si tuffano nelle acque e cominciano a nuotare per tornare a casa, e l'acqua che si increspa (a causa del tuffo) produce una bianca spuma che copre le onde cristalline del fiume. Dunque, la 3 egloga è divisa in 3 parti:  una parte iniziale, segnata dalla dedica a doña María Osorio Pimentel (la moglie di Don Pedro de Toledo) in cui Garcilaso fa riferimento alla sua natura di poeta-soldato dicendo “tomando ora la espada, ora la pluma”, il che ha lasciato pensare che si trovasse nel bel mezzo di una campagna militare (forse l’ultima a cui prese parte, quella di Provenza, in cui poi morì);  una parte centrale in cui avviene la descrizione delle tele che stanno tessendo le 4 ninfe (che molto probabilmente sono le 4 figlie del Vicere e sua moglie);  una parte finale, che è la parte della vera e propria egloga, con il canto amebeo affidato ai pastori Tirreno e Alcino. Ritornando all’ottava 31, vediamo che la quarta tela, quella intessuta da Nise, rappresenta la morte della bella Ninfa Elisa, pianta dal pastore Nemoroso. Questa ottava presenta l’epitaffio che una delle Ninfe incide sulla corteccia di un pioppo. La ninfa è la stessa Elisa (amata dal pastore Nemoroso e prematuramente scomparsa) che parla in questo epitaffio. Il “mar de Lusitania” (Oceano Atlantico Lusitania: Portogallo) è un riferimento alle origini ⟶ corrente ideologica nata nel cuore portoghesi della donna cantata, che fino a pochi anni fa si identificava in Isabel Freyre, ma Vaquero Serrano ha avanzato l’ipotesi che, questa Elisa è un'altra donna amata da Garcilaso: Beatriz de Sá. BEATRIZ DE SÁ: sua cognata, moglie di suo fratello maggiore Pedro Laso, che trascorse il suo esilio in Portogallo, dove la conobbe, e si sposarono nel febbraio 1526. Sfortunatamente, questo matrimonio durò pochi anni, poiché Beatriz, intorno al 1530, morì di parto. Abbiamo questa data orientativa perché Vaquero Serrano, qualche anno fa, nell’Archivio general de Simancas, ha scovato una lettera scritta dall’Imperatrice Isabel al fratello, datata 11 marzo 1530, in cui comunica la notizia della morte di Beatriz, che era una delle sue dame. Quindi probabilmente, la morte dI Beatriz avviene alcuni mesi prima di questa data. Pochi mesi dopo il matrimonio, Pedro Laso ottiene dall’imperatore il permesso di fare rientro in Spagna, dove visse con la moglie e dove Garcilaso ebbe modo di frequentarli. SONETTO 16 Para la sepultura de Don Hernando de Guzmán (dedicato al fratello minore di Garcilaso, anch’egli soldato, morto e sepolto a Napoli nel 1528). Questo sonetto si presenta come un epitaffio in cui parla proprio il defunto, spiegando cosa lo ha condotto alla morte. Sebbene avesse preferito morire in battaglia, non è morto durante l'assedio francese alla città di Napoli, ma per un’epidemia di peste. “Non le odiose armi francesi poste contro il petto animoso, non colpi e frecce avvelenate nelle mura delle fortezze difese con munizioni; non le scaramucce pericolose, non quel tremendo rumore fatto ad imitazione di quello che fu creato per Giove (Zeus) dalle abili mani del dio Vulcano (colui che nella sua fucina forgiava i fulmini per il dio Zeus al fulmine è associato il rumore del tuono, con il quale allude al ⟶ corrente ideologica nata nel cuore rumore della polvere da sparo delle armi da guerra) niente di tutte queste cose poterono sottrarre una sola ora al mio destino mortale (non mi hanno ucciso loro) e non perché mi sono sottratto alle armi ma un'epidemia di peste in un solo giorno mi ha tolto al mondo e mi ha sepolto qui, Napoli, così lontana dalla mia patria. (Partenope: Napoli) SONETTO 17 (Garcilaso si lamenta per questa sua condizione di perenne insoddisfazione e tormento, e nel farlo riprende la canzone 126 di Petrarca ⟶ corrente ideologica nata nel cuore vv. 7-11: «e’l ciel seren m'é fosco, / e duro campo di battaglia il letto. / Il sonno è veramente, qual uom dice, / parente de la morte, e’l cor sot-tragge...»). “Pensando che il cammino fosse dritto mi sono imbattuto in così tanta sventura che non riesco a trovare sollievo (alla mia sofferenza d'amore) nemmeno nella pazzia o qualcosa che mi dia un minimo di soddisfazione: cammino per i vasti campi che mi sembrano stretti; la notte chiara illuminata dalla luna mi sembra oscura, qualunque compagnia mi risulta fastidiosa, e il letto per me è un duro campo di battaglia. Del sonno, se ce n’è uno, quella parte che è associata all’immagine della morte è l’unica in cui trovo sollievo (imago mortis). Così che, comunque sia, sto talmente male che adesso penso che ho sofferto di meno prima, anche se comunque ho soffermo molto”. SONETTO 23 (è uno dei sonetti più celebri, in cui Garcilaso canta il tema del carpe diem e del tempus fugit: bisogna cogliere l’attimo perché il tempo fugge e la bellezza presto svanirà). Questo sonetto ebbe come modello il sonetto di Bernardo Tasso pubblicato ne “Gli amori” (1534 ), dunque rappresenta il debito di Garcilaso con i poeti italiani. “Cogliete il dolce frutto della vostra spensierata primavera (carpe diem) e fatelo adesso che sul vostro volto appaiono il rosso e il bianco (rosa: il colore rosso, rimanda alla passione d'amore che caratterizza la gioventù; azucena: il giglio, rimanda al colore bianco che indica l’onestà, la purezza e la castità) e fintanto che il vostro sguardo ardente e onesto ora accende il cuore, ora lo trattiene (ispira passione ma poi la vostra onestà la frena: misto di passione irrefrenabile e pudore verginale); e fatelo fintanto che i capelli dorati sono mossi, disordinati e scompigliati dal vento prima che l’avanzare del tempo, la vecchiaia copra di neve la bella chioma (prima che con la vecchiaia i vostri capelli diventino bianchi) perché il vento gelato della vecchiaia farà appassire la rosa (tempus fugit) e farà cambiare tutto”. SONETTO 31 (Garcilaso stabilisce un legame familiare tra lui, l'amore, la gelosia e l'invidia). “Nella mia anima è stato generato da me stesso un dolce amore e mi sono rallegrato enormemente di questo sentimento che è nato come se fosse un figlio a lungo desiderato (Garcilaso è padre dell’amore); Più tardi, da esso è nata un’altra creatura che ha distrutto ogni pensiero d’amore e ha trasformato i piaceri in pene aspre e insopportabili tormenti (l'amore è diventato padre di un sentimento distruttivo: la gelosia). La gelosia è un nipote crudele, che dà vita al padre ma uccide il nonno! (la gelosia va alimentando l’amore, ma distrugge chi ha dato vita all’amore: Garcilaso, per la paura di essere vittima di un tradimento) Io non ti riconosco come mio nipote (avevo dato vita a un sentimento che mi dava gioia, e adesso vivo nel tormento) perché sei cresciuto così deforme da come ti avevo creato? O gelosia, ma a chi somigli? tu sei figlia dell’amore e dell’invidia (l’invidia è la madre della gelosia) eppure tua madre non ti riconosce, si spaventa nel vedere il mostro che ha partorito”. La fonte di questo sonetto è un sonetto de “Le Rime” di Jacopo Sannazzaro, nel quale definisce la gelosia come “il terribile freno degli amanti”. Una traduzione di questo sonetto di Sannazzaro è il sonetto 39, 6 (considerato spurio perché non tutti i manoscritti lo contengono. Non è un sonetto impeccabile sul piano metrico: ci sono versi dodecasillabi, e da Garcilaso non ci si aspetta una simile distrazione. C’è anche chi pensa che questa traduzione sia stata fatta all’inizio della sua carriera). “PETRARCHISMO E ANTIPETRARCHISMO” Nelle opere di Garcilaso si scorge un netto riferimento al Canzoniere di Petrarca, per questo viene associato alla corrente petrarchista, ossia quel fenomeno internazionale d’imitazione della poetica di Petrarca nel quale troviamo i temi di gelosia, la caducità della bellezza, la morte, la tenera nostalgia di un amore lontano, la rimembranza dei giorni felici. Ciò nonostante, cerca la sperimentazione: mette in atto tutte le forme linguistiche e abbandona la metrica spagnola in favore della metrica italiana. Tutte le sfumature sentimentali scaturiscono dalla figura della donna idealizzata e irraggiungibile, che portava il poeta a sentimenti di sofferenza, ma, a differenza di Petrarca, Garcilaso dà libero sfogo a questi sentimenti: le egloghe sono un esempio abbastanza tangibile (si basano su miti, pastori, ninfe e lamenti d’amore) e sono le tappe di una presa di coscienza dell’amore immaginato in 3 situazioni diverse ma con sfondo tragico: in ciascuna il poeta è la vittima di questo amore mancato. SONETTO 38 (debito petrarchesco, dal “Canzoniere”, canzone 134). “Ho continuamente il viso bagnato di lacrime, (non smetto di piangere) e io continuo a sospirare, ciò che mi fa soffrire di più è il non osare dirvi, (o amata) che per colpa vostra sono arrivato a questo stato; (l’amore per voi, che mi consuma, mi ha ridotto in questo stato prestito petrarchesco, tratto dal verso 14 del ⟶ corrente ideologica nata nel cuore Canzoniere, canzone 134) vedendo dove mi trovo e per quali strade sono giunto qui seguendo un percorso difficile, (la strada che mi ha portato sulle vostre orme era stretta) se voglio tornare indietro per fuggirvi, (smettendo di inseguirvi) svengo, nel voltarmi e vedere la strada che ho alle mie spalle (mi scoraggio); e se voglio seguirvi fino all'alta cima, ad ogni passo che faccio mi spaventano gli esempi infausti di quelli che mi hanno preceduto; (che hanno fatto questo lungo cammino, ma sono caduti prima di me, non sono giunti al traguardo) soprattutto, mi manca il lume della speranza con il quale io ero solito camminare per i foschi territori del vostro oblio”. (questo verso che chiude il sonetto è considerato tra i migliori). (Il poeta è indeciso sul da farsi a proposito di questo amore che non osa nemmeno confessare alla donna amata: da un lato vorrebbe fuggire via dall’amore e dalla donna amata, ritornando sui suoi passi; ma gli mancano le forze, quasi sviene, contemplando alle sue spalle il cammino già fatto. Vorrebbe quindi proseguire, pensando che ormai il più è fatto, che la meta è vicina, invece no: si scoraggia perché vede gli esempi tristi di quelli che lo hanno preceduto e che sono caduti lungo questo cammino in salita. Pensa di non avere le forze per arrivare fino in cima, ma soprattutto gli manca l’incoraggiamento di una speranza ancora viva, avrebbe bisogno di uno stimolo in più). SONETTO 6 (debito petrarchesco, dal “Canzoniere”, canzone 164. Ritorna l’immagine del cammino impervio, una strada piena di difficoltà, che lo ha portato in un punto in cui ha paura a muoversi). “Ho paura di muovermi, sono rimasto bloccato lungo questo cammino impervio; se provo a fare un passo, mi sembra di essere trascinato per i capelli (e riportato in questo punto morto). Ma mi trovo in una condizione tale, che con il fiato della morte sul collo, vorrei cambiare stile di vita, mettere in pratica i miei buoni consigli; so quale sarebbe la strada migliore da percorrere, eppure scelgo la peggiore, (dietro questo verso c’è Petrarca: canzone 164, commiato) o per una cattiva abitudine o perché è questo il mio destino. Ho seguito sempre la strada sbagliata e non riuscirò a cambiare adesso, anche se so cosa dovrei fare per salvarmi, non mi ostino più a lottare, devo accettare questa mia inclinazione naturale, la morte sicura, e che in qualche modo desidero, (perché segnerà la fine del mio dolore) mi fa ormai disperare della possibilità di trovare un rimedio al mio dolore”. JUAN BOSCÁN Pur facendo parte della scuola di Garcilaso, Juan Boscán non riesce ad adempire completamente alla grandezza trasmessa; riesce ad essere “grande” solo attraverso la traduzione spagnola del Cortegiano. Nella CARTA 70, Boscán piange la morte del suo amico Garcilaso, prematuramente scomparso, nei versi toccanti di due sonetti, scritti in castigliano antico. Il 2° sonetto di questa carta di Boscán: “Garcilaso, tu che hai sempre aspirato al bene e lo hai perseguito sempre con tale forza che lo hai raggiunto interamente dopo appena pochi passi Tu, dimmi, perché non mi hai portato via con te quando sei morto? Io sono sicuro che se tu avessi il potere di modificare ciò che è scritto non ti dimenticheresti di me: o mi vorresti al tuo fianco o almeno prima di andartene ti saresti congedato da me e se questo non fosse stato possibile dopo saresti tornato a prendermi e portarmi da te”.
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