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Gender studies, primo parziale, Appunti di Sociologia di Genere

Tutta la prima parte del corso per la prima prova parziale

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 17/04/2023

Alice98765
Alice98765 🇮🇹

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Anteprima parziale del testo

Scarica Gender studies, primo parziale e più Appunti in PDF di Sociologia di Genere solo su Docsity! PATRIARCATO E DOMINIO MASCHILE Ci sono diversi modi di fare gender studies, che sono un insieme di materie diverse. Due concetti di base: patriarcato e dominio maschile, che verranno affrontati attraverso il contributo di Sylvia Walby, sociologa di Londra a cui dobbiamo una delle teorizzazioni del patriarcato più riconosciuta a livello internazionale, e di Pierre Bordieu, sociologo francese che ha pubblicato un libro chiamato La domination masculain. Patriarcato: concetto usato nella letteratura sociologica e femminista per descrivere e spiegare le disuguaglianze di genere. In origine il concetto si usava per indicare la dominazione del padre nella famiglia (da qui la sua etimologia), e si usava per descrivere sia disuguaglianze di genere (padre vs madre, figlie) sia di tipo generazionale (padre vs figli), quindi era strettamente legato all’ambito familiare. Nel corso del tempo il concetto è stato applicato ad aree che vanno oltre quella familiare. Oggi si può definire come un insieme di strutture e pratiche che istituiscono, riproducono e legittimano la dominazione maschile sul mondo intero, e in particolare sulle donne e sulle sessualità eterodivergenti. L’analisi del concetto di patriarcato della Walby parte dalle critiche, anche di senso comune, che emergono quando usiamo il concetto di patriarcato nella vita quotidiana: 1. Astoricità e universalismo: il patriarcato non permette di dare rilevanza a situazioni estremamente diverse. Oltretutto se è una caratteristica che esiste sempre uguale nel tempo e nello spazio, allora qualcuno può obbiettare che abbia origini naturali, dunque spiegandolo con il fattore biologico. 2. Determinismo strutturale: “eh ma il concetto di patriarcato non ha rilevanza perché non tiene conto del comportamento delle persone, enfatizza le differenze strutturali”. Una definizione troppo semplice di patriarcato sottolinea solo l’aspetto strutturale, come se fosse qualcosa che esiste indipendentemente da noi, che sta sopra di noi e basta. 3. Omogeneizzazione: parlare di patriarcato in senso generale rischia di ricondurre la stessa definizione ad ambienti ed esperienze diverse. A partire da queste critiche Walby elabora una teoria del patriarcato come insieme di strutture pratiche, in particolare ci invita a vedere il patriarcato come composto da sei strutture principali: 1. Modo di produzione: piano economico, rimanda alla distribuzione sessuata dei compiti lavorativi (compiti di cura vs. lavoro retribuito). Ciò che avviene in relazione ai compiti di cura è una vera e propria forma di sfruttamento lavorativi. Il lavoro delle donne è appropriato dagli uomini attraverso le relazioni matrimoniali; l’uomo al massimo garantisce alla donna un reddito di sussistenza (prospettiva marxista). La condizione di sfruttamento uomini-donne può essere equiparata a quella che si realizza nella sfera lavorativa tra padrone e lavoratore. 2. Relazioni nel mercato del lavoro: rimanda all’esclusione o alla segregazione delle donne nel mercato del lavoro retribuito (seconda struttura sul piano economico). Nella società contemporanea questa struttura non si realizza attraverso l’esclusione, ma più frequentemente si realizza attraverso forme di segregazione occupazionale che relegano le donne a ruoli marginali nella sfera produttiva. Si parla di segregazione orizzontale per indicare la segregazione delle donne in professionalità meno riconosciute che ottengono solitamente minore retribuzione, e segregazione verticale, ovvero segregazione delle donne alla base della struttura gerarchica di un determinato settore lavorativo. Questi due tipi di segregazione producono una svalutazione e un deprezzamento del lavoro femminile con conseguenze che vanno oltre la sfera economica => tutte le strutture sono collegate tra loro!! 3. Stato: riferimento all’esclusione delle donne dalle istituzioni statali ma anche dalle risorse e dal potere che queste istituzioni distribuiscono. Può avvenire direttamente (escludere apertamente le donne dalle istituzioni statali) oppure in forma indiretta, che è una conseguenza della prima (esclusione dei temi femminili dalle agende statali). Lo Stato rappresenta una delle più visibili strutture del patriarcato, una delle più capaci di impattare. Non è però una struttura monolitica, è composto da diverse istituzioni che sono in grado di riprodurre o sovvertire la struttura patriarcale. 4. Violenza maschile: dev’essere pensata non solo come pratica avvenuta, ma soprattutto come possibilità. La struttura in questo caso è creata dalla potenzialità, dalla possibilità che questa violenza avvenga e dalla conseguenze che questa possibilità porta sul comportamento delle donne. La maggior parte delle donne modifica i propri comportamenti e la propria condotta perché questa violenza POTREBBE succedere. 5. Sessualità: il patriarcato regola la sessualità femminile in base al doppio standard e regola anche l’eterosessualità. La struttura della sessualità agisce attraverso pratiche basate sul doppio standard, es. conquistatore/puttana. Inoltre c’è anche il controllo delle sessualità eterodivergenti: l’imposizione dell’eterosessualità come unica forma di sessualità accettata. Per essere accettata una donna deve sposarsi con un solo uomo e stare con lui tutta la vita -> si torna alla prima struttura. 6. Cultura: una serie di discorsi riprodotti e diffusi attraverso media, scuola, religione, industria culturale, pornografia che creano e riproducono una determinata idea del maschile e una certa idea del femminile. Queste mantengono la gerarchia tra uomini e donne, ma al contempo producono effetti negativi sia sugli uomini che sulle donne. Perché pensare al patriarcato in termini di strutture? Permette di spiegare i limiti evidenziati all’inizio, perché si tratta di una struttura universale che comunque si manifesta in forme diverse nel tempo e nello spazio. Permette di spiegare perché disuguaglianze di genere esistono anche in forme e spazi diversi, e perché il patriarcato sopravvive nel tempo. Sopravvive nel tempo perché in alcuni periodi certe strutture sono più rilevanti di altre, e perché la scomparsa di una struttura che lo forma non porta a quella del patriarcato. Walby sottolinea il cambiamento tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo: prima il patriarcato si esprimeva soprattutto nel modo di produzione, ora è principalmente attivo nella cultura. Ricapitolando, dobbiamo pensare al patriarcato come una struttura cumulativa, un sistema a tre livelli: pratiche patriarcali sostengono strutture patriarcali che sostengono il sistema patriarcale. Da dove viene il patriarcato? Spoiler: non c’è una risposta univoca, ci sono molti approcci differenti che si diversificano soprattutto in base all’origine e alle strutture primarie su cui si basa il patriarcato. Es. approccio marxista: il patriarcato deriva dal capitalismo, poiché sostiene il capitalismo stesso. Femminismo radicale: strutture primarie nella sessualità, nelle relazioni, nell’amore. Ma perché le donne non si ribellano abbastanza al patriarcato? Si collega al dominio maschile Un terzo meccanismo è quello del consenso: si riferisce al modo in cui l’ordine sociale della dominazione è inscritto nel dominato attraverso l’apprendimento e l’acquisizione di disposizioni. Fa riferimento al processo con cui l’ordine sociale dominante viene interiorizzato dai dominati. Non si tratta di una complicità cosciente: non è cosciente l’azione di chi domina né l’azione di chi subisce. Non è né una sottomissione passiva ad un vincolo esterno né una libera adesione alla dominazione. Va oltre al sistema coscienza-incoscienza perché non ce ne rendiamo conto. Una persona sottoposta a violenza simbolica acquista un atteggiamento che non rientra così chiaramente nelle normali categorie di “libertà” o “costrizione”. La maggior parte delle volte non ce ne rendiamo conto, e non perché siamo scemi ma perché la violenza simbolica è efficace. Il dominato non può non dare al dominatore il consenso, non è una scelta effettiva se non si ha davvero la possibilità di scegliere, perché la sua comprensione della situazione e della relazione si basa sugli stessi strumenti di conoscenza che ha un comune con il dominante, che fanno apparire questa relazione come naturale. Tornando a Gramsci, l’ideologia crea una visione del mondo che è efficace perché passa dalle classi dominanti a quelle dominate, facendo sì che le ultime non possano che vedere il mondo attraverso le categorie sociali elaborate dal dominante. In questo senso non riescono a vedere il proprio ruolo nella produzione e riproduzione della dominazione. Il dominio nato dalla violenza simbolica si fa invisibile perché viene costantemente naturalizzato. In sintesi come funziona la violenza simbolica? • Misconoscimento -> naturalizza e nasconde la disuguaglianza • Denegazione -> riduzione simbolica della disuguaglianza, che in realtà la rinforza • Consenso -> riproduce e perpetua la disuguaglianza La violenza simbolica non è un concetto che Bordieu applica solo al dominio maschile, ma anche per dire nelle analisi delle istituzioni scolastiche. Per Bordieu il dominio maschile è la più efficace tra le ideologie, la più pervasiva, la più resistente, è l’esempio per eccellenza della violenza simbolica. “La divisione tra i sessi sembra rientrare nell’ordine normale delle cose, come si dice talvolta per parlare di ciò che è normale, naturale, al punto da risultare inevitabile. La forza dell’ordine maschile si misura dal fatto che non deve giustificarsi: la visione androcentrica si impone in quanto neutrale non ha bisogno di enunciassi in discorsi mirati e legittimarla? L’ordine sociale funziona come un’immensa macchina simbolica tendente a ratificare il dominio maschile sul quale esso si fonda.” La violenza simbolica è efficace quando riesce a silenziare i dominati; lo fa togliendo loro le categorie per comprendere la loro condizione di dominazione, perché queste categorie vengono nascoste, romanticizzate, eufemizzate, vengono rese naturali e meno distanti attraverso i processi visti precedentemente. La violenza simbolica mostra la sua efficacia quando una voce particolare diventa monolitica e quindi naturalizzata, in modo che l’altra non esista: tanto più è efficace un’ideologia (vedi il dominio maschile), tanto più non avremo prospettive altre. “Le più efficaci tra le ideologie sono quelle che non hanno bisogno di parole, che non chiedono altro che il complice silenzio”. Genere, sesso, eteronormatività Il concetto di genere non ha un significato univoco, è un concetto che nasce dalla sedimentazione di una serie di prospettive storico-sociali ed è tuttora molto dibattuto. Ci focalizzeremo su come questo concetto è evoluto nel tempo e il rapporto tra genere e sesso. Innanzitutto prima del genere esistono una serie di contributi in cui si affronta la questione di genere senza utilizzare esplicitamente la parola genere. Il termine genere viene usato per la prima volta nel linguaggio anglosassone negli anni ‘70. L’analisi degli effetti sociali del corpo sessuato è visibilmente centrale di opere a partire dal 18esimo secolo. Per esempio nel 1791 Olympia de Gouges pubblica la Dichiarazione dei diritti delle donne e delle cittadine, che critica la neonata Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Mary Wollstonecraft nel 1792 pubblica un testo che mette in discussione la costituzione americana e la sua prospettiva. Stewart Miller in cercare titolo nel 1869 mette in discussione la posizione diminuita delle donne come cittadine all’interno della società. Marx e Engels nel Manifesto del partito comunista. Quindi ci sono delle letture precedenti. Prima del genere le riflessioni sugli effetti sociali del corpo sessuato si concentravano su questioni di identità e questioni di potere, erano riflessioni che si interrogavano su che questioni di identità e questioni di potere, cioè erano riflessioni che si concentravano su cos’è una donna, cosa fa, cosa crea, che cosa la distingue da un uomo. Dall’altro lato erano riflessioni riguardanti le dinamiche di potere: che cosa implica nascere in corpo donna? Come si spiegano le disuguaglianze tra uomini e donne? Tuttavia, non esisteva ancora il concetto di genere: anche quando si intuiva che ci fosse qualcosa di più oltre a quel corpo sessuato, il sesso era la spiegazione; sesso e genere spesso si sovrapponevano, si confondevano fra loro. Identità e differenze di potere venivano ricondotte a differenze biologiche su cui intervenivano poi le differenze sociali. Prendiamo ad esempio Parsons, che vede la famiglia come un organo centrale nei processi di produzione e stabilizzazione della società industriale. Per Parsons la famiglia è un’organizzazione particolarmente efficiente perché era basata su una chiara divisione sessuale del lavoro: le donne svolgono una funzione espressiva, che ha a che vedere con le relazioni interne alla famiglia, il mantenere l’armonia e provvedere alla cura e alla sicurezza dei bambini, alla gestione emotiva della famiglia. In tutto questo, la spiegazione di questi effetti sociali viene ricondotta al dato biologico: la donna è principalmente la sua biologia, cioè è in grado di svolgere efficacemente e efficientemente la funzione espressiva in virtù della capacità sua e del suo corpo di essere madre. Gli uomini svolgono una funzione strumentale, con un focus sulle relazioni esterne tra la famiglia e la società. L’origine delle differenze di genere dev’essere cercata nella differenza biologico-sessuale, da cui deriverebbero differenze attitudinali. Le donne hanno un ruolo di cura per via della maggiore fragilità causata dalla maternità. Il discorso cambia a partire dagli anni Settanta: nel 1972 viene pubblicato Sex, Gender and Society di Oakley e nel 1975 viene pubblicato The traffic in women. Dobbiamo aspettare gli anni Settanta perché il termine “genere” entri a far parte del linguaggio comune. Per Oakley la persistenza del sesso va ammessa, ma altrettanto bisogna fare con la variabilità del genere. Il sesso è assunto come dato di fatto, il genere si inserisce sul sesso, viene percepito come una costruzione sociale che parte dal dato biologico. C’è il sesso, che ha a che vedere con le caratteristiche biologiche, e il genere, che si ricollega agli aspetti culturali. Per Rubin uomini e donne sono sì diversi, ma questa diversità deriva da un motivo che non ha niente che vedere con la natura. Anche qui quindi il concetto di genere è qualcosa di connesso al sesso, il quale esiste e non viene messo in discussione nella sua esistenza biologica. Nel momento in cui nasce il concetto di genere è elaborato principalmente come strumento concettuale volto a comprendere il rapporto tra natura (corpo) e cultura (identità) e si sviluppa in diretta connessione con il concetto di sesso. In questo momento non viene messa in discussione la naturalità del sesso biologico, a differenza delle future teorie costruttiviste. Il sesso ha dunque a che fare con le differenze biologiche, fisiche e fisiologiche tra donne e uomini, comprendenti sia le caratteristiche primarie (apparato riproduttivo) sia le caratteristiche secondarie (voce, muscolarità, barba); il genere con le caratteristiche sociali e culturali associate all’essere uomo o donna. Queste prime riflessioni cos’hanno in comune? • Tutte vedono il sesso come qualcosa di naturale • C’è un approccio esclusivamente binario, uomini-donne, maschile-femminile, non c’è spazio per altro • Genere e sesso sono un binomio; il genere deriva in qualche modo dal sesso, si può distanziare ma ha comunque una base su cui si attacca • Non affrontano la questione della sessualità, genere e sesso vengono affrontati separatamente dalla sessualità, diversamente dalla teoria queer; l’eterosessualità è quindi data per scontata. Rubin e Oakley adottano una prospettiva essenzialista. Le prime teorizzazioni sul genere partono dall’esperienza di donne bianche eterosessuali, quindi chiaramente mancano degli elementi, delle teorizzazioni. Arriveranno poi a contribuire a questo dibattito soggettività che prima non venivano considerate né in ambito accademico né in ambito sociale. La sedimentazione di visioni diverse arriva lentamente perché per esempio la seconda ondata femminista è stata un’ondata primariamente costituita da donne bianche eterosessuali, in cui c’era un’esclusione sistematica delle donne nere e delle donne lesbiche. Si tratta di una conoscenza che non emerge solo in ambito accademico, da cui però è influenzata, ma inizialmente l’elaborazione del concetto di genere nasce fuori dall’accademia, da persone che in alcuni casi sono diventate accademiche ma che non lo erano magari mentre elaboravano queste teorie. Quello trattato durante la scorsa lezione è un approccio essenzialista, e fa riferimento alle dimensioni biologiche e fisiologiche della differenza sessuale, che producono delle culture di genere specificamente e ontologicamente diverse, ovvero ciò che viviamo come genere trova una base all’interno della nostra biologia. Individua la differenza sessuale come origine della dimensione simbolica del genere, e questa differenza sessuale viene identificata anche il motivo per cui si crea una gerarchia tra i generi. In particolare la capacità della donna di essere madre diventa la base su cui costruire disuguaglianze di genere e il maschile come soggetto universale dominante. Arriviamo pian piano alla prospettiva del decostruzionismo, che influenzerà molto la teoria queer. Sostiene che il corpo non esiste al di fuori dell’esperienza che se ne ha, dei significati che ad esso sono attribuiti in un dato contesto sociale. Il corpo è un prodotto sociale, non è biologia da questo punto di vista. Il nostro corpo esiste solo perché creato nell’interazione. L’opposto del filo di ragionamento che aveva portato a vedere i processi di costruzione del genere a partire dall’evidenza del corpo, il decostruzionismo argomenta che occorre smontare questi processi fino in fondo coinvolgendo l’ipotesi stessa che si sta un corpo-stampella su cui vengono gettati i vestiti-modelli di genere. Si inizia a mettere in discussione il corpo come base oggettiva attraverso cui si crea il genere. Se il sesso non esiste, su cosa si basano le nostre differenze? SOLO SUL GENERE, che è solo una potentissima costruzione sociale. Le nostre differenze sono solo discorsi. Ma perché esiste ancora questa costruzione sociale? A cosa serve? Serve a portare avanti l’eterosessualità come forma naturale è superiore della sessualità -> eteronormatività Storia del femminismo Oggi parleremo della storia del femminismo, in modo breve, per fare ordine in una serie di idee e concetti già sentiti da altre parti e per sviluppare un vocabolario comune. Quello di cui parleremo è la storia delle ondate femministe sviluppatesi in un contesto occidentale. La storia del femminismo nel contesto occidentale è normalmente organizzata e raccontata come il susseguirsi di una serie di ondate (waves), concetto usato per categorizzare le diverse fasi del femminismo ed è stato proposto perché rende l’idea di qualcosa che va un po’ avanti e poi torna un pelino indietro, proprio come l’onda. Il concetto di ondata evidenzia come nella storia del femminismo si siano alternati momenti di espansione delle lotte e conseguentemente dei diritti, a cui però si sono susseguiti dei momenti di resistenza, immobilità, veri e propri passi indietro dati dalla reazione alle richieste dei movimenti femministi; questi passi indietro sono chiamati backlash. Il concetto di ondata è usato in modo puramente euristico, per semplificare una realtà che è molto complessa, prima di tutto perché è un concetto che è stato elaborato pensando alla storia femminista all’interno del contesto statunitense e anglosassone, e che viene riportato senza criticità molto spesso anche in altri contesti. Le ondate del contesto statunitense e anglosassone non si sono sempre sviluppate con la stessa intensità ad esempio anche solo nel contesto europeo. Il concetto di ondata va preso anche con le pinze perché è sì vero che la storia del femminismo è fatta da passi avanti e momenti di stallo, però questo non significa che il movimento femminista sia sparito. Semplicemente in alcune fasi c’è stata più visibilità nello spazio pubblico, più riconoscimento, più disponibilità della società ad accogliere le istanze femministe. Prima delle ondate esisteva qualcosa che poteva essere letta come forma di movimentazione femminista, che però non si inserisce nelle ondate femministe innanzitutto per una questione di intensità della mobilitazione, dato il concetto di ondata si riferisce a forme di mobilitazione che coinvolgono un numero ampio di persone e poi anche perché il concetto di femminismo non era ancora stato inventato: non si parlava di femminismo prima della prima ondata. Prima del femminismo si utilizza il concetto di protofemminismo, che si riferisce alle forme di femminismo sviluppatesi prima dell’avvento dei movimenti femministi del 19esimo e 20esimo secolo, quindi prima che il concetto di femminismo si sviluppasse. Il concetto di femminismo nasce circa parallelamente alla prima ondata come insulto nei confronti delle suffragette: essere definite femministe era un indulto verso le donne che si battevano per il diritto di voto. Cristine de Pizanne, originaria di Pizzano, che, sposata alla corte francese, resta vedova e si trova a dover gestire, da donna, all’interno di un contesto estremamente patriarcale, gli affari di famiglia. Dalla sua esperienza scrive un libro chiamato La città delle dame in cui inizia a raccontare le difficoltà di essere donna all’interno di un contesto maschile, l’impossibilità di occuparsi degli affari di famiglia in quanto appartenente al genere femminile. Mary Wollstonecraft scrive A vindication of rights of women, un testo fondamentale per l’evoluzione dei diritti di accesso all’educazione delle donne. Nasce in contrapposizione a L’Emile di Rousseau e con l’idea che le bambine non avessero bisogno dello stesso tipo di educazione dei bambini, che le materie e l’accesso stesso alle possibilità educative dovesse essere differenziato. È un testo che ha avuto un impatto fondamentale sull’idea che di potesse essere una parità nell’accesso all’educazione. Olympie de Gourges scrive La declaration des femmes et des citoiens criticando La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Tutto questo viene prima di tutto ciò che siamo soliti a pensare come femminismo. Prima ondata La prima ondata femminista si riferisce principalmente ai movimenti delle donne inglesi e americane per il diritto di voto, le cosiddette suffragette, e indicativamente la sua storia va dal 1848 (Seneca Fall Convention) al 1920 (introduzione del 19esimo emendamento nella Costituzione americana, che dà il diritto di voto solo alle donne bianche). Come nasce la prima ondata? Nel luglio del 1848 quattro donne americane erano impegnate nel movimento contro lo schiavismo da anni, soprattutto in un un’ottica di beneficienza; in particolare, erano impegnate a promuovere i diritti della popolazione nera e l’idea che lo schiavismo dovesse essere abolito. Nel 1848 si recano, insieme ai loro mariti e ai loro figli, a Londra all’Antislavery Convention, una convention internazionale che promuoveva l’abolizione dello schiavismo nelle colonie e, nonostante il loro impegno fondamentale nello sviluppo del movimento antischiavista, si vedono relegate nel pubblico, non gli è permesso partecipare attivamente alla discussione. Questo le porta, nel momento successivo in cui si rincontrano, a riflettere sulle difficoltà di riconoscimento delle donne come vere e proprie cittadine all’interno dell’allora società americana. È importante ricordare che ai tempi, nella costituzione federale, le donne non avevano ancora il diritto al voto, erano ancora sottoposte al controllo da parte dei propri mariti, previsto dalla legge coloniale. Quindi anche nel momento in cui le colonie americane si erano ribellate, non si erano fatti passi avanti rispetto alla condizione delle donne e al loro accesso alla sfera pubblica. Tutto questo le porta innanzitutto ad elaborare la cosiddetta Dichiarazione dei sentimenti, riprendendo la Dichiarazione di Indipendenza americana e parafrasandola e trasformandola in un vero e proprio testo femminista, di richiesta di rivendicazione dei diritti delle donne. La Dichiarazione di Indipendenza americana è un testo che si rivolge al Re d’Inghilterra rivendicando i diritti delle colonie e presentando la storia della monarchia come una storia di ricorrenti offese e usurpazioni perpetrate dal re nei confronti delle colonie. Loro cosa fanno? Riprendono le parole usate e le parafrasano, trasformando il testo per parlare del rapporto tra uomini e donne. Ci sono riferimenti espliciti alla questione religiosa: parte della prima ondata femminista si sviluppa all’interno di una realtà fortemente ancorata anche ad aspetti religiosi, dunque si trovano riferimenti esplicita al fatto che siamo tutti uguali poiché creati dallo stesso Dio, perché l’epoca era quella. Sempre nel 1848 le stesse donne organizzano la Seneca Fall convention: circa trecento uomini e donne si riuniscono a Seneca Fall per sostenere la causa dell’uguaglianza tra uomini e donne. Nel corso della convention viene letta e sottoscritta la Dichiarazione dei sentimenti, arrivando ad ottenere anche la firma di un piccolo gruppo di uomini. Due altre convention vennero tenute a breve tempo in altri Stati americani, ed è da queste convention che prende avvio il movimento femminista americano della prima ondata, che trasse ispirazione dalle prime mobilitazioni che si stavano realizzano nel contesto inglese sempre per il diritto di voto. Dalla Seneca Fall Convention passano poi altri vent’anni circa prima che il diritto di voto delle donne bianche venga riconosciuto. Sebbene la prima ondata femminista fosse un’ondata interamente composta da donne bianche di classe media che partecipavano al movimento Antislavery Society facendo beneficenza, molte delle sue proponenti facevano anche parte del movimento abolizionista e questo favorì parzialmente e in modo limitato un coinvolgimento anche delle donne nere all’interno della prima ondata femminista nel contesto statunitense. Trovarono quindi spazio anche donne afroamericane come Sejourner Truth: donna nera nata schiava, resa libera quando in alcune delle colonie viene abolito lo schiavismo, è considerata tra le capostipiti del black feminism. Inizia a partecipare al movimento femminista e nel 1851 pronuncia un discorso conosciuto come Ain’t I a woman? con il quale viene simbolicamente marcato l’inizio formale di un vero e proprio movimento femminista nero. Ain’t I a woman è tanto una critica verso a chi impediva alle donne di avere gli stessi diritti degli uomini quanto una critica alla bianchezza del movimento femminista, che non riusciva a riconoscere pienamente le donne nere come donne. Effetti della prima ondata: le battaglie della prima ondata si sono concentrate principalmente sulla presenza delle donne nello spazio pubblico, e quindi al centro delle battaglie della prima ondata c’era prevalentemente la richiesta del diritto di voto. C’era ancora l’idea all’interno di questa ondata che bastasse garantire alle donne gli stessi diritti degli uomini all’interno della società per come era strutturata al tempo per migliorare le condizioni femminili. La prima ondata infatti non critica le strutture esistenti, non mette in discussione che quello che c’è di negativo, pensa che basti garantire alle donne la possibilità di accesso perché si ottenga un’emancipazione femminile. Indubbiamente gli effetti più evidenti della prima ondata si hanno sul diritto di voto: quando nel 1920 viene emanato il 19esimo emendamento della Costituzione americana, che appunto garantiva il diritto di voto alle donne bianche, il movimento femminista aveva ottenuto il diritto di voto in gran parte del contesto occidentale, non in Italia però :)). Sicuramente questa è una delle vittorie della prima ondata femminista, e ci sono anche delle conseguenze come l’introduzione del termine femminismo nel linguaggio comune: nato come un termine dispregiativo negli anni ‘10, viene poi rivendicato dalla prima ondata e inizia a fare parte del discorso comune. Quindi c’è anche il riconoscimento di una parte delle donne all’interno di una mobilitazione. Successivamente alla prima ondata si assiste ad una frammentazione del movimento su più questioni: diritti riproduttivi ed aborto legale (temi sviluppati principalmente dalla seconda ondata), espansione delle opportunità educative, miglioramento delle condizioni lavorative delle donne, e negli Stati Uniti si assiste ad una partecipazione forte delle donne ai movimento anti linciaggio. Ogni volta che c’è un’ondata c’è da tenere conto che a seguire ci sono dei movimenti che vanno a limitare gli effetti potenziali della movimentazione femminista, i cosiddetti backlash; vediamo quali  1971  Nascono i primi asili nido, anche se alcuni erano già stati elaborati negli anni trenta e pensati principalmente per madri lavoratrici ma erano pensati per casi marginali, casi rari, non come servizio offerto su base universale. Il primo asilo non vincolato alla condizione lavorativa della madre nasce nel 1969 a Bologna; da questa sperimentazione nasce un modello che poi viene esportato a livello nazionale e anche in nord Europa.  1970  Legge sul divorzio  1975  Modifica del diritto di famiglia: -Sostituzione della potestà del marito con "responsabilità genitoriale" condivisa dei coniugi - > anche la madre può partecipare all’educazione dei figli -Uguaglianza tra coniugi (anziché potestà maritale); -Introduzione della separazione dei beni; -Maggiore età a 18 anni (prima 21) La storia dell’ottenimento del diritto all’aborto e alla contraccezione nel contesto italiano inizia nel 1972, l’8 marzo, quando a Roma si tenne una manifestazione a Campo de’ Fiori proprio per il diritto all’aborto. Più o meno negli stessi anni vennero avviate una serie di iniziative di cliniche di aborto clandestino, fra cui quella creata dal Partito Radicale la cui protagonista fu Emma Bonino, che portarono nel 1973 alla fondazione del Centro di informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto e della clinica CISA a Firenze, che praticava illegalmente l’interruzione volontaria di gravidanza. Nello stesso anno successe un caso che scosse le coscienze della popolazione italiana, il caso di Gigliola Pierobon, una contadina veneta 17enne arrestata per aver abortito. È a partire da questi fatti storici, dalle mobilitazioni del movimento femminista a partire dagli anni settanta che nel 1978 arriviamo alla legge 194. Negli stessi anni inizia una discussione sulla questione della violenza di genere. È importante ricordare che negli anni settanta il nostro codice penale era il codice Rocco, elaborato durante l’epoca fascista, che vedeva la violenza sessuale non come un delitto contro la persona ma come un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume, qualcosa che non ledeva la persona ma semplicemente poteva irritare il buon costume della comunità. Il codice Rocco prevedeva ancora la possibilità di sistemare le cose, in caso di violenza sessuale, con il matrimonio riparatore, ovvero lo stupratore poteva non rispondere assolutamente del delitto contro la moralità pubblica se semplicemente rimediava sposando la persona violentata. Negli anni settanta una serie di fatti di cronaca ebbero un effetto fondamentale nello spiegare il cambiamento di percezione che si ha nei confronti della violenza di genere. Il primo caso in questione è stato quello di Franca Viola, una giovane donna siciliana che rifiuta il matrimonio riparatore anche con il sostegno della famiglia, e fece scalpore perché fu la prima volta che successe a livello pubblico. Sempre in quegli anni ci fu il delitto del Circeo, che vide due giovani donne violentate, è una delle due uccisa, da un gruppo di quattro uomini nella zona del Circeo appunto. Questo delitto fece scalpore sia per la brutalità con cui fu consumato (una delle due vittime uccisa, l’altra lasciata all’interno del bagagliaio di una macchina poiché creduta morta) sia per il processo che vi seguì. Il processo contro i violentatori fu uno dei primi processi a cui partecipò attivamente il movimento femminista. Questi due fatti sconvolsero l’opinione pubblica e portarono allo sviluppo di una riflessione politica sulla violenza di genere, che prima era quasi assente. Il dibattito sulle norme contro la violenza sessuale iniziò nel ‘79, con Nilde Iotti presidente della Camera, ma ci si arrivò definitivamente solo nel ‘96. Questo perché quella legge andava a mettere in discussione altri ambiti di controllo dell’uomo sulla donna, una serie di diritti di possesso che molti uomini dell’epoca - e parlamentari- ritenevano legittimi, normali, naturali. Nel 1981 si arrivò all’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore. Negli anni ottanta nacquero i primi centri d’ascolto e rifugio per donne maltrattate, o per iniziativa di associazioni o per iniziativa di piccoli comuni, quindi si arriva ad una loro sistematizzandone solo a partire dagli anni novanta. La legge che trasforma la violenza sessuale in delitto contro la persona arriva solo nel 1996, e anche qui a seguito delle riflessioni emerse sulla base di un fatto di cronaca che aveva scosso l’opinione pubblica. Nel 1992 un istruttore di scuola guida violentò una ragazza che aveva prenotato una lezione con lui, e nel corso del processo l’istruttore non venne condannato in primo grado poiché il giudice riteneva che la ragazza indossasse dei jeans troppo stretti perché si riuscissero a sfilare senza il suo consenso. Questa sentenza generò una reazione da una parte dell’opinione pubblica che portò pian piano alla ridiscussione e ridefinizione dell’attuale legge sulle norme contro la violenza sessuale. La seconda ondata femminista ha in sé due nascite, che rimandano ad una divisione interna di base: si distingue infatti tra un movimento femminista liberale e un movimento femminista radicale. Le due nascite rimandano, da un lato, alla pubblicazione nel 1963 di The feminine mystique di Betty Friedan, e dall’altro al movimento di liberazione delle donne. The feminine mystique è un testo fortemente ispirato a Il secondo sesso di Simone de Beauvoir e che viene pubblicato da Betty Friedan, una delle capostipiti del movimento femminista liberale statunitense. La pubblicazione di questo libro nasce da una ricerca condotta da Friedan sulle sue compagne di college, un questionario somministrato loro qualche anno dopo la laurea che voleva indicare la percezione della loro vita nel momento in cui, dopo essersi laureate, avevano trovato marito ed erano tornate a fare le mogli e le madri. La mistica della femminilità è un libro che fa nascere la seconda ondata femminista liberale perché porta un numero incredibile di donne a riflettere sulla propria condizione, cioè al fatto che ciò che il ruolo di mogli e madri che era stato rifiutato proprio dalle loro madri negli anni sessanta era stato poi da loro accettato, ed è un libro che a partire anche dall’esperienza della stessa Friedan riflette sull’efficacia di una certa ideologia nel riportare le donne all’interno di una condizione di dipendenza dal marito. La seconda nascita nella seconda ondata si riferisce invece al movimento di liberazione delle donne che si sviluppa negli anni settanta negli USA ed è un movimento che si sviluppa di pari passo con le mobilitazioni della New Left, del movimento per i diritti civili e del movimento contro la guerra in Vietnam e che è fortemente influenzato anche dalle mobilitazione studentesche del ‘68. Quindi è un movimento che già dall’inizio adotta un approccio nettamente più radicale. Qual è allora la differenza sostanziale tra movimento femminista radicale e movimento femminista liberale? Il movimento femminista liberale ritiene che il suo obbiettivo sia lottare per l’emancipazione della donna nella società, mentre quello radicale lotta per la liberazione della donna dalla società. L’emancipazione della donna rimanda ad un’idea simile a quella espressa dalla prima ondata, e cioè che le donne possano trovare il loro posto, il loro spazio all’interno della struttura già esistente, cioè che ci sia una possibilità di riconoscimento delle donne all’interno delle istituzioni e delle strutture sociali così per come esistono. Es: non c’è bisogno di smantellare l’idea di matrimonio, c’è bisogno di emancipare le donne dentro il matrimonio. La prospettiva radicale si pone all’opposto: individua in una serie di istituzioni sociali, come il matrimonio, la monogamia, il sistema educativo strutturato in un determinato modo, degli spazi in cui non è possibile la liberazione delle donne; spazi che devono essere sostanzialmente smantellati e ristrutturati. La prima nascita quindi rimanda al femminismo liberale, a questa idea che le donne possano trovare emancipazione all’interno della società esistente, ovvero la società non richiede di essere totalmente smantellata e ricostruita, più o meno va bene così e migliorerà semplicemente garantendo la partecipazione femminile ad essa, ed è sostanzialmente in linea con quanto detto sulla prima ondata. Nasce a partire dalla pubblicazione nel 1963 di The feminine mystique e nel 1966 porta, nel contesto statunitense, alla nascita della National Organization for Women, che nella sua dichiarazione di intenti specifica che il suo obbiettivo è portare le donne alla piena partecipazione all’interno della società americana mainstream: anche qua non viene messa in discussione la struttura della società; l’importante è garantire ed espandere i diritti di partecipazione delle donne assumendo tutti i privilegi e le responsabilità in uguale partnership con gli uomini. Nel 1969 nasce la prima organizzazione ci si batte per il diritto all’aborto negli USA, la NARAL (National Association for the Repeal of Aborotion Laws), che poi si trasforma in Planned Parenthood. Questa parte dell’ondata porterà avanti le sue battaglie principalmente attraverso attività di lobbying, ovvero di pressione sulle istituzioni e sulle forze istituzionali; quindi le strategie saranno principalmente strategie istituzionali, di intervento, di mobilitazione all’interno o attraverso i canali istituzionali (per es. elaborazione proposte di legge). Nel 1967 viene elaborata, nel contesto statunitense, la Bill of Rights for Women, in cui si evincono quelli che sono stati i principali temi della battaglia del movimento femminista liberale. I. “Equal Rights Constitutional Amendment” (no discriminazioni in base al sesso) -> modifica volta ad eliminare discriminazioni in base al sesso II. Discriminazione sessuale sui luoghi di lavoro III. Congedi di maternità e benefici sociali per le famiglie. IV. Detrazioni fiscali per aiuti domestici e childcare per genitori che lavorano. V. Istituzione di asili nido VI. Desegregazione dell’educazione VII. Formazione professionale per le donne quindi di un’organizzazione che ha assunto posizioni politiche più radicali ma lo fa attraverso strumenti istituzionali più vicini al femminismo liberale. Il primo vero e proprio movimento femminista radicale nel nostro Paese è il Movimento di liberazione della donna, nato tra il 1969 e il 1970 all’interno del Partito radicale. I suoi obbiettivi erano in particolare la legalizzazione dell’aborto e la creazione degli asili nido; ruolo fondamentale fu quello di Emma Bonino. Nel 1970 nasce Rivolta femminile, il primo vero e proprio gruppo separatista italiano, e lo fa attraverso un manifesto chiamato “Sputiamo su Hegel”. Fortemente influenzata dalla posizione di Simone de Beauvoir, Rivolta femminile - e il suo manifesto - nasce con l’obiettivo di mettere in discussione tutte le radici del pensiero occidentale - Hegel come simbolo del pensiero occidentale. «Della grande umiliazione che il mondo patriarcale ci ha imposto noi consideriamo responsabili i sistematici del pensiero: essi hanno mantenuto il principio della donna come essere aggiuntivo per la riproduzione dell'umanità». La donne è vista come altro rispetto alla norma maschile; qui c’è tutta Simone de Beauvoir. Il movimento femminista radicale della seconda ondata si sviluppa dall’idea che il personale sia politico e che il dominio maschile si eserciti principalmente attraverso istituzioni personali quotidiane, come il matrimonio, la maternità e le pratiche sessuali: non è più solo una questione di leggi. Questo nasce come effetto della constatazione della distanza tra potenziale e reale condizione delle donne nel secondo dopoguerra nel contesto occidentale. A fronte di leggi che avrebbero potuto consentire un qualche tipo di equilibrio, questo non si era realizzato e quindi la questione non poteva risiedere soltanto nelle leggi, ma in quelle istituzioni intermedie tra la legge e la vita quotidiana. Ovunque le richieste erano concentrate su retribuzione, educazione, asili/servizi di conciliazione, contraccezione e aborto. All’interno della seconda ondata femminista possiamo notare un doppio focus: da un lato un focus sulle donne come gruppo sociale oppresso e dall’altro un focus strettamente collegato alla teorizzazione di Simone de Beauvoir sul corpo femminile come primo luogo/strumento di questa oppressione. È a partire dal corpo che in questa fase si concepisce l’oppressione femminile: si torna ad una visione essenzialista del genere. Il corpo è al centro, e l’identità femminile è ancora percepita come strettamente legata a qualcosa di oggettivo, obbiettivo, che esiste, una base solida; in particolare si fa riferimento alla capacità del corpo femminile di generare vita. Un altro aspetto importante è lo sforzo teorico rispetto alla prima ondata: ancora oggi i riferimenti teorici, i concetti elaborati, le teorizzazioni sono del femminismo della seconda ondata. È il femminismo della seconda ondata che inizia a produrre concettualizzazioni teoriche, per opporsi a quella visione del mondo basata sul principio maschile che era stata prodotta attraverso le teorie elaborate dagli uomini. I principali limiti della seconda ondata rimandano alle caratteristiche fisiche delle persone che parteciparono o che ebbero maggiore spazio all’interno della seconda ondata: donne bianche eterosessuali cis di classe medio-alta, un gruppo molto ristretto rispetto alla popolazione femminile. Michelene Wandor, in Once a feminist, dice “We were criticised for being all white and middle class: neither criticism was wholly true, but there was a real truth behind the criticism. As sisters we were too similar; or in stressing sisterhood and our common oppression and strengths as women, we repressed and ignored differences which should have been recognised [...]The political—and personal—struggle now needs a larger, more diverse “we”, who will combine in resistance to all the overlapping oppressions.”. Non è che all’interno del femminismo della seconda ondata non partecipassero anche soggettività che non si riconoscevano nelle donne bianche cisgender eterosessuali di classe media, ma trovarono poco spazio e visibilità. Le critiche principali arrivarono proprio sulla questione della classe, della razza e dell’eterosessualità. La prima critica fondamentale arrivò in relazione alla classe sociale. Su questo piano la maggior parte delle critiche di sviluppa in ambito britannico, perché era soprattutto in questo contesto che si era sviluppata una consolidata tradizione femminista marxista o socialista (che appunto porterà avanti la critica alla questione di classe), che nasceva con il tentativo di coniugare la lotta di classe e la lotta contro il patriarcato. Nel contesto americano la critica alla seconda ondata sulla questione di classe fu portata avanti principalmente dal femminismo nero: Angela Davis pubblicò un testo fondamentale chiamato Women, Race and Class. Quindi in questo contesto la questione di classe viene inglobata dalle critiche il femminismo nero porta alla seconda ondata. La seconda critica è relativa all’eccessiva eterosessualità espressa dal femminismo della seconda ondata e si sviluppa a partire dall’esperienza delle femministe lesbiche. Il rapporto tra femministe lesbiche e seconda ondata è un rapporto complesso. Queste aderirono fin dall’inizio alla frangia radicale del femminismo della seconda ondata, e la patalogizzazione della categoria lesbica (l’idea che la loro identità venisse resa una patologia) venne interpretata come una minaccia alla libertà di tutte le donne, perché il rendere la categoria lesbica una patologia serve a controllare sia le donne lesbiche che tutte le donne (cfr. Foucault: qualsiasi identità, nel momento in cui viene costruita, può diventare uno strumento di normalizzazione). Koedt disse che “Essere etichettate come lesbiche è l’ultimo avviso che stai lasciando il territorio della femminilità”: quello che venne denunciato dalle femministe lesbiche fu la mancata presa in considerazione da parte del femminismo della seconda ondata del fatto che la stigmatizzazione nei confronti del lesbismo serviva a controllare anche e prima di tutto le donne eterosessuali, e quindi la difficoltà del femminismo della seconda ondata di percepire l’eteronormatività come qualcosa che riguardava anche loro. I conflitti interni tra femministe lesbiche e movimento radicale della seconda ondata emersero fin dall’inizio. In realtà a la posizione delle militanti del movimento lesbico fu difficile in qualunque contesto, perché ci fu una difficoltà a trovare spazio tanto all’interno del movimento gay quanto all’interno del movimento femminista; soffrivano di una doppia esclusione a livello politico, che portò alla creazione di una serie di collettivi dedicati esclusivamente alle condizioni delle femministe lesbiche. Terza critica: razza. Tra tutte le critiche interne alla seconda ondata, la critica che proviene dal femminismo nero è quella che ha impattato maggiormente sull’evoluzione del femminismo della terza ondata, anche perché è stata una delle critiche più in grado di creare alleanze più che contrasti. Se all’inizio ha messo in discussione tutta la seconda ondata, il femminismo nero è stato ed è un femminismo in grado di creare alleanze tra gruppi oppressi. Nasce come corrente interna della seconda ondata del femminismo radicale e ha l’intenzione di far emergere la doppia oppressione che vivevano le donne nere: razzismo e patriarcato, e anche capitale. Il principale contributo del femminismo nero al dibattito e ai gender studies rimanda al concetto di intersezionalità, ovvero l’idea che la nostra identità non abbia caratteristiche monolitiche ma che si formi nell’intersezione di una serie di identità che possono essere espressione di sistemi di oppressione. Nel momento in cui parliamo di Black feminism ci riferiamo al contributo delle donne nere alla seconda ondata, ma le origini del Black feminism sono antecedenti alla seconda ondata, esiste una sorta di proto femminismo nero che rimanda a ciò che le donne nere avevano fatto durante la schiavitù. Il backlash della seconda ondata è sicuramente che l’ottenimento dei diritti nella maggior parte del contesto occidentale fa sì che la battaglia si ritenga completata. E solitamente i backlash nascono proprio dall’illusione di essere arrivate, di avere ottenuto ciò che era necessario per svincolarsi dall’oppressione patriarcale. Però c’è da tenere a mente la critica al concetto di backlash, ovvero che è un concetto che enfatizza alcune fasi visibili dei movimenti dimenticando che il movimento è sempre lì: non è che tra la seconda e la terza ondata il movimento femminista ha smesso di esistere, semplicemente le sue forme di attuazione sul piano pubblico si perdono per qualche anno. Terza ondata La terza ondata fa riferimento alla fase del femminismo che nasce negli anni ‘90 dall’ascolto delle critiche della seconda ondata, dalla considerazione della sua incompletezza: era un movimento troppo omogeneo che aveva gettato su tante categorie di donne una visione del mondo che apparteneva alle donne bianche eterosessuali di classe media. Mira a pluralizzare il concetto di femminilità per promuovere la rappresentatività, promuove le coalizioni tra soggetti oppressi e va a considerare contemporaneamente multiple forme di oppressione. Fatto scatenante: torniamo negli USA, si tratta di un processo che avviene nell’ottobre del 1991: è il caso Anita Hill vs. Clarence Thomas. Anita Hill era un’assistente di Clarence Thomas, che era un giudice in via di conferma alla Corte Suprema americana, e lei denunciò lui per molestie sessuali sul luogo di lavoro: queste molestie si concretizzavano in fatti che ancora oggi molti di noi faticherebbero a percepire come tali: complimenti ipersessualizzati, commenti sull’abbigliamento di lei, discorsi sulla prestanza sessuale di lui… tutte micro violenze di cui ancora non si capisce la gravità. È lì il punto: certe forme di violenza vengono fortemente sanzionate in modo sempre più chiaro, altre rimangono, facciamo più fatica. Hill fece un esposto che non viene accettato dal procuratore, ma la stampa venne a sapere dell’accaduto e allora si andò a processo. Processo che si tradusse in un nulla di fatto: Thomas non venne condannato e anzi, venne confermato alla Corte Suprema. È significativo che, se certi comportamenti non vengono sanzionati, questi verranno poi ripetuti in modi diversi e sempre peggiori. Quello che ci interessa è soprattutto la reazione a questo processo: è proprio ciò che accade durante il processo Hill vs. Thomas e il fatto che quest’ultimo venga confermato alla Corte Suprema che alimenta il dibattito pubblico che porta alla nascita della terza ondata femminista. Uno dei testi che è considerato fondamentale per capire la terza ondata è Becoming the Third Wave di Rebecca Walker: “Per me, le audizioni non avevano a che fare con il determinare se Clarence Thomas molestasse o meno Anita Hill. Si trattava di controllare e ridefinire l'entità della credibilità e del potere delle donne. L'esperienza di una donna può minare la carriera di un uomo? La voce di una donna, il senso di autostima e di ingiustizia di una donna, può sfidare una struttura basata sull'assoggettamento del nostro genere? La testimonianza di Anita Hill ha minacciato di fare questo e altro ancora. Se diretto rispetto alla terza ondata. Ci sono dei potenziali backlash: i rischi sono quelli della radicalizzazione delle posizioni, cioè che la call out culture porti chi è additato come responsabile a radicalizzare ancora di più le proprie posizioni impedendo quindi dei tentativi di educazione. Altro backlash è l’idea che la call out culture possa creare ansie da prestazione e impedire a persone (non solo uomini) che sarebbero intenzionate ad avvicinarsi al movimento femminista di partecipare attivamente. L’aggressività di alcune pratiche potrebbe spaventare nella fase iniziale una persona che non si sente ancora pienamente capace di articolare un determinato tipo di discorso e partecipare a determinati spazi. Simone de Beauvoir e Il secondo sesso Senza questo testo non esisterebbero i gender studies! È stata una filosofa francese e ha dato uno dei contributi più essenziali alla concettualizzazione teorica della condizione femminile, e in particolare all’analisi della condizione femminile nell’immediato secondo dopoguerra. Durante tutto il testo Simone de Beauvoir utilizza il concetto di sesso, ma le sue riflessioni guardano ad aspetti sociali e quindi anticipano le riflessioni più sistematiche sul concetto di genere, ovvero: il concetto di genere non esiste ancora, infatti lei parla di sesso, però le sue riflessioni si concentrano su aspetti sociali (≠ sesso). Il secondo sesso viene pubblicato nel 1942 per la prima volta, ma già nel 1940 de Beauvoir inizia una riflessione a partire da un intento autobiografico: voleva scrivere la sua autobiografia, e mentre inizia a riflettere sui temi da trattare si chiede che cosa la definisca. E la prima identità, il primo aggettivo attraverso cui si definisce è “donna”. È dalla consapevolezza della centralità dell’identità di genere nella definizione della nostra identità più in generale che parte la sua riflessione. Partendo dalla consapevolezza che la propria identità in quanto donna andava poi a definire larga parte di tutta la sua identità, inizia a riflettere più profondamente sul significato di essere donna e la situazione delle donne nel mondo. Scrive che “se devo definire me stessa, devo prima di tutto che io sono una donna. Tutte le altre affermazioni derivano da questa verità di base. Un uomo non deve mai posizionare se stesso come un individuo di un certo sesso; che egli sia un uomo è ovvio”. Prima di essere un intellettuale lei era una donna; Il secondo sesso nasce da un viaggio che Simone de Beauvoir fece negli Stati Uniti in cui si confronto con altre donne intellettuali rendendosi conto che anch’esse scontavano la propria identità femminile, che la loro identità in quanto donne veniva prima della loro identità in quanto intellettuali. È quindi a partire da questa riflessione sulla centralità dell’identità di genere nella definizione di ciò che è una persona con un apparato genitale femmine che parte la riflessione sviluppata nel libro. Come già detto, Il secondo sesso vede la luce già nel 1940 ma viene pubblicato nel 1949; si compone di due parti: 1. “I fatti e i miti”, che analizza il modo in cui l’identità femminile è stata costruita attraverso una serie di discipline che spaziano tra biologia, filosofia e psicologia; mostra come il pensiero occidentale sia finalizzato a costruire l’identità femminile come altro; 2. Focus sull’esperienza quotidiana dell’identità donna attraverso una serie di passaggi biografici. Il secondo sesso da un lato diventa emblema per tutto il femminismo del 20esimo secolo, e a seguire ha avuto un grande impatto nello sviluppo del pensiero femminista, della pratica femminista e dei gender studies. Dall’altro lato l’opera di Simone de Beauvoir è oggetto di una serie di critiche, che partono anche da punti distanti tra loro: • viene censurata dalla chiesa cattolica perché mette in discussione una serie di istituzioni di base dell’idea cattolica sulla famiglia e sulla vita: mette in discussione l’immagine idealizzata della famiglia, del matrimonio, della maternità; la chiesa cattolica definì Il secondo sesso come l’incarnazione dell’immoralità • viene criticata dalla Sinistra francese, perché troppo borghese per la sua estrazione, per il livello di istruzione raggiunta, per la sua posizione sociale, e perché il suo pensiero era considerato troppo borghese; in quell’ambiente si riteneva che la questione femminile fosse un problema di serie b, e in particolare che il problema delle donne e del patriarcato si sarebbe magicamente risolto con la rivoluzione del proletariato. • viene criticata anche dal movimento femminista, perché rinforza una concezione essenzialista dell’identità femminile, ovvero universalizza una certa condizione femminile che a conti fatti apparteneva soltanto alle donne occidentali bianche. Per comprendere dove si origina il pensiero di Simone de Beauvoir dobbiamo considerare la fase storica in cui inizia a a scrivere: il secondo dopoguerra francese Da un lato la 2gm aveva favorito i processi di emancipazione delle donne all’interno di alcune sfere sociali, in particolare il lavoro. Le donne erano state invitate fortemente al mercato del lavoro per sopperire alla mancanza di mano d’opera dovuta alla guerra. Alla fine della guerra, le donne erano dovute tornare a fare quello che facevano prima, e nelle città dell’epoca erano ampiamente diffusi una serie di messaggi che enfatizzavano una visione femminile classica, un’idea di donna la cui identità si realizzava soltanto attraverso i ruoli di moglie e madre; questo spiega anche il pensiero molto rigido di de Beauvoir sulla maternità e il matrimonio, che non erano una scelta bensì un obbligo per la maggior parte delle donne. Le leggi sul divorzio in Francia arrivano negli anni Settanta, insieme alla prima legge sull’aborto. Il pensiero di de Beauvoir si sviluppa in dialogo con quello di Sartre. Sartre è considerato il massimo esponente della prospettiva esistenzialista, che parte dall’idea che ogni essere umano nasce libero e che soprattutto ogni essere umano è costretto ad essere libero. All’interno di questa libertà ciascuno può scegliere la via della trascendenza o la via dell’immanenza. La via della trascendenza è la via della progettualità, della trasformazione del mondo; è propria di coloro i quali scelgono di trasformare la realtà che li circonda, di non accettare passivamente ciò che il mondo è ma di trasformarlo. È una via di attività e non passività. Quando distinguiamo queste due vie, è importante ricordare che soltanto un soggetto può agire, un oggetto non è dotato di volontà autonoma. La via dell’immanenza è invece quella dell’accettazione delle cose così come sono, la via della passività. De Beauvoir dice che questa possibilità di scelta tra immanenza e trascendenza è propria di chiunque dal momento che ognuno è costretto ad essere libero. E si chiede perché così tanti uomini scelgano la via della trascendenza, mentre così tante donne scelgano quella dell’immanenza accettando una condizione di passività e subordinazione. La risposta prevalente dell’epoca sarebbe stata che c’era qualcosa di innato nelle donne che le rendeva naturalmente passive, naturalmente incapaci alla trascendenza, naturalmente più propense alla immanenza. Simone de Beauvoir spiega in tutta la sua opera come invece l’immanenza femminile sia il risultato di un processo di socializzazione, di un certo livello di identità femminile che viene costruito, ripetuto, riproposto costantemente, di un modello femminile che si basa sull’idea di passività. In particolare, Simone de Beauvoir spiega l’immanenza femminile come il risultato di un processo di costruzione sociale dell’identità di donna come “altro”, generalizzato. Nella costruzione del pensiero occidentale l’uomo viene costantemente presentato come la norma, il soggetto universale, e questa costruzione trasforma tutto ciò che non è uomo in “altro”. L’identità femminile di conseguenza è stata costruita come altro, e quindi viene molto spesso ricondotta a un senso negativo, a un’identità eccessivamente naturale, connessa alla natura ed è proprio questa combinazione tra donna e natura che spiega in parte la sua subordinazione. Nel momento in cui l’uomo viene presentato come soggetto universale, tutto il resto diventa Altro. Simone de Beauvoir scrive che “l’uomo è definito come un essere umano e la donna come una femmina”, e ogni volta che si comporta come un essere umano le viene detto che imita l’uomo. Questo perché siamo abituati a pensare il soggetto universale in termini maschili. Il problema non è tanto il riconoscimento della differenza tra uomini e donne, che de Beauvoir non nega. Il problema è che su questa differenza viene costruito un sistema in cui l’alterità equivale all’inferiorità. Il problema non è tra maschile e femminile, tra uomo e donna, il problema è la costruzione della disuguaglianza sulla differenza. Inoltre, le definizioni socialmente costruite del maschile e del femminile hanno definito un ordine gerarchico non reversibile tra i sessi, in cui nonostante i due sessi siano necessari l’uno all’altro questa necessità non è mai stata concettualizzata nei termini di una condizione di reciprocità tra loro: nonostante maschile e femminile si definiscono a vicenda, la costruzione del pensiero illuminante fa sì che percepiamo l’esistenza di un ordine gerarchico in cui uno di questi due poli non ha bisogno dell’altro per essere definito. Se costruiamo il maschile come soggetto universale, la definizione del maschile non necessità del femminile. “La donna è definita differenziata in relazione all’uomo e non viceversa; la donna è incidentale, l’inessenziale opposto all’essenziale. Lui è il Soggetto. Lei è l’Altro”. È nel processo in cui la donna viene trasformata in un altro inferiore, e quindi inferiorizzata, che la stessa viene condannata all’immanenza, cioè trasformata in oggetto rispetto al soggetto maschile. Il problema sta proprio nella costruzione sociale della donna come altro, come oggetto passivo condannato all’immanenza. E Simone de Beauvoir si chiede come sia successo, come la donna si ritrova ad essere concepita e a concepirsi come altro rispetto all’uomo. E per rispondere analizza il corpo femminile, o meglio i processi sociali che agiscono su di esso, cioè come la donna diventi un oggetto costretto all’immanenza in virtù di una gerarchia basata sulla biologia del corpo, dal momento che è proprio questo corpo femminile che trasforma la donna in oggetto. Riassumendo quindi • soggetto -> ha capacità di azione -> trascendenza • oggetto -> non può agire -> immanenza. * l’eterno femminino ha la funzione di romanticizzare la condizione di oggettificazione delle donne; con le parole di Bordieu possiamo dire che è una forma di misconoscimento. Il secondo sesso analizza la condizione femminile attraverso fasi ed eventi biografici per mostrare come, progressivamente, attraverso una serie di rinforzi culturali, la donna sia ricondotta nella condizione di oggetto; lo fa attraverso l’analisi della pubertà, del matrimonio, e della maternità, la parte più conosciuta in termini di critica. La maternità rappresenta, nel pensiero di Simone de Beauvoir, il processo di trasformazione della donna in oggetto più rilevante e rientra come parte integrante del mito dell’eterno femminino: quando ci immaginiamo l’essenza della femminilità siamo portati a pensare che la maternità ne sia parte integrante. C’è da ricordare che le donne nel periodo in cui scriveva Simone de Beauvoir non potevano assolutamente scegliere se diventare madri o meno. De Beauvoir sapeva bene cosa significasse, dal momento che lei scelse di non essere madre. Anche per questo fu fortemente criticata rispetto a ciò che scriveva ne Il secondo sesso perché accusata di parlare di qualcosa di cui non sapeva. In quegli anni le pressioni sociali rispetto a chi non aveva figli erano particolarmente forti, in modo diretto e indiretto, e allo stesso tempo c’era una condanna sociale se non una vera e propria criminalizzazione dell’aborto (in Francia fu legalizzato solo nel 1975 con la legge Veil). Si è vere donne quindi soltanto se si è madri: era indubbiamente vero nel ‘49, ma è vero anche adesso; più o meno velatamente la società ci ricorda ancora che il nostro pieno compimento avviene soltanto nella maternità. “Le donne all’epoca - e ancora oggi - sono costrette a capitolare”. La sua analisi della maternità parte dalla riflessione critica su quello che lei descrive come il “tormento che molte donne conoscono nell’essere legate mani e piedi dall’amore e dalla maternità senza aver dimenticato i loro precedenti sogni.”: il problema non è la maternità in sé, i fatti biologici non sono in sé un problema, il problema è la costruzione sociale della maternità che, impedendo alle donne di esser qualsiasi altra cosa se non madri, impedisce loro la via della trascendenza, della progettualità, di avere un impatto sul mondo, rendendole oggetto. La maternità intrappola la donna nella sua biologia, la riporta allo stato di solo e puro corpo passivo, perché quando una donna diventa madre/rimane incinta il suo corpo non le appartiene più, diventa un oggetto di proprietà sociale all’interno di un sistema patriarcale, quindi di chi sta al vertice di quel sistema. Simone de Beauvoir dice che la donna “non fa realmente il bambino, il bambino si fa dentro di lei” e che nella maternità, la donna “è un essere umano cosciente, un libero individuo che diviene strumento passivo della vita.” La maternità rendendo la donna passiva, oggetto, diviene ostacolo alla vocazione umana di trascendenza. Di nuovo! Non è la maternità in sé, è la maternità all’interno di una determinata costruzione sociale che la trasforma in una gabbia. Nella maternità la donna è “alienata, ella diviene in parte altra da sé”; usa l’alienazione come concetto perché è un processo in cui vengono espropriati i mezzi di produzione, la forza lavoro e il prodotto del suo lavoro, che diviene poi qualcosa di sociale, che appartiene alla società. Alienata nel suo stesso corpo la donna “si arrende” alla “gratuita crescita cellulare su cui non ha controllo”: sono parole forti, ma cercava di scioccare una società in cui la maternità non era problematizzata, era narrata solo come un percorso romanticizzato. L’assenza di controllo che caratterizza lo stato di maternità, contribuisce a rendere la donna un Oggetto, passiva e immanente. “La gravidanza è soprattutto un dramma che si svolge nell’intimo della donna che la sente nello stesso tempo come un arricchimento e come una mutilazione; il feto è una parte del suo corpo ed è un parassita che la sfrutta; lo possiede ed è posseduta da lui; riassume tutto l’avvenire e, portandolo, si sente vasta come il mondo; ma questa stessa ricchezza la annichilisce, ha l’impressione di non essere più niente. Una nuova esistenza si manifesterà e giustificherà la sua esistenza*, ella ne è fiera; ma si sente anche in preda a forze oscure, e sballottata, violentata.”. * la maternità ha una funzione essenziale, di nuovo, per il riconoscimento sociale della donna. Betty Friedan e Shulamith Firestone Parliamo di testi chiave del femminismo radicale e del femminismo liberale; da un lato guarderemo il pensiero di Betty Friedan, dall’altro considereremo il pensiero di Shulamith Firestone. In realtà il femminismo radicale ha molte altre esponenti, però Firestone, tra le pensatrici della frangia radicale della seconda ondata, elabora una prospettiva più radicale delle altre. Femminismo liberale Betty Friedan: The feminine Mystique - La mistica della femminilità È un testo pubblicato negli USA nel 1963; Friedan lo scrive sulla base di un questionario inviato alle sue ex compagne di college circa vent’anni dopo l’anno di laurea. La maggior parte delle compagne di college erano donne bianche di classe medio-alta che avevano potuto studiare fino al college, non era una cosa scontata negli anni quaranta negli Stati Uniti. Friedan scrisse loro per sapere come stava andando la loro vita: l’idea era capire se queste donne, che avevano raggiunto il mito americano previsto per le donne, cioè trovare marito, costruire una famiglia, occuparsi della casa, fossero realmente soddisfatte e pienamente felici della situazione in cui si trovavano. Nelle risposte che ricette era evidente che la realtà quotidiana delle donne era descritta come qualcosa di particolarmente oppressivo, una situazione in cui non si sentivano affatto realizzate realizzate e pienamente felici; molte di loro lamentavano l’utilizzo di psicofarmaci e antidepressivi, qualcosa che lo società americana dell’epoca non aveva proprio visto. Il problema era che nel momento in cui presentavano questo loro disagio non riuscivano a dargli un nome perché loro stesse (cfr. Bordieu) non riuscivano a vedere il mondo se non con gli occhi dei dominanti, quindi non riuscivano a capire esattamente cosa non andasse nella propria esistenza. Per questo i questionari fecero emergere quello che Friedan definì “the problem that has no name” (= il problema che non ha nome), descritto come un senso di disagio e frustrazione che segnava le loro vite, nonostante apparissero confortevoli e agiate. Nel libro Friedan sosteneva che questo problema fosse esattamente la mistica della femminilità, concetto che riprende molto quello di eterno femminino di Simone de Beauvoir. Per mistica della femminilità Friedan intendeva gli effetti normativi e disciplinanti della cultura, cioè come la cultura va a strutturare un sistema di norme, di comportamenti, di aspettative sociali, di obbiettivi socialmente legittimati. La mistica della femminilità è determinato un sistema culturale che aveva permesso alle figlie di accettare ciò che le madri avevano rifiutato. Friedan partì da statistiche e dati le rimostrare che anche se sulla carta la condizione femminile era migliorata, nella realtà le donne americane dell’epoca sceglievano di tornare a ruoli estremamente tradizionali. Alla fine degli anni Cinquanta l’età del matrimonio era scesa di quattro anni rispetto al 1920. La percentuale di donne iscritti al college era passata dal 47% del 1920 al 35% del 1958, quindi pur avendo la possibilità di studiare le donne sceglievano in minoranza di farlo. Il 60% delle studentesse lasciava il college per sposarsi prima di diventare “non-desiderabile” nel mercato matrimoniale. C’era l’idea, anche tra le persone che frequentava il college, che il college servisse solo per trovare il marito “giusto”, con un certo livello di istruzione, un certo grado di finanze e accesso a risorse economiche. La maggior parte delle ragazze non si iscrivevano al college per raggiungere un obbiettivo di emancipazione ma per trovare marito. Per spiegare questa discrepanza tra possibilità e il fatto che le donne non coglievano queste accresciute possibilità garantite ad esempio sul piano legale, Friedan elaborò il concetto di mistica della femminilità, che può essere intesa come una vera e propria ideologia che nel corso degli anni Cinquanta, grazie all’azione dei mass media, delle scienze sociali e psicologiche, delle istituzioni scolastiche, degli esponenti politici..., aveva esaltato le “peculiari virtù femminili”. Cioè: la casalinga americana che svolgeva al top i suoi lavori domestici era presentata dai media americani come l’invidia delle donne di tutto il mondo. La mistica della femminilità fa riferimento a un processo di costruzione sociale, ad un insieme di narrative, di discorsi, di immagini che contribuiva ad esaltare il ruolo classico della donna come la sua massima aspirazione. La creazione della casalinga americana come modello da invidiare era funzionale anche all’intero di uno scontro ideologico che si realizzava nell’ambito della Guerra Fredda tra Stati Uniti e URSS; il modello della casalinga americana si contrapponeva nettamente al modello di donna presentato dai messaggi dell’URSS, che era una donna con aveva ruoli più o meno parificati rispetto a quelli maschili. Era più potente ciò che stava succedendo nel dopoguerra che ciò che era successo in guerra, poiché questa è un tempo eccezionale in cui le regole normali della società vengono sospese (periodo di anomia). La Guerra Fredda era un periodo difficile, di stabilità con tensioni che è durato parecchio, quindi la sfida posta dai messaggi dell’URSS era ancora più potente per gli Stati Uniti, perché non era un periodo eccezionale di guerra, ma stavano permettendo alle donne di diventare scienziate, di andare nello spazio in un periodo “normale”. Il problema che non ha nome era in parte già stato riconosciuto a livello mediatico quando La mistica della femminilità è stata pubblicata, c’era stata una certa attenzione all’aumento del ricorso a tranquillanti, alcolici tra le donne, ma i media ritenevano che il problema delle donne fosse nella loro troppo ambizione o nell’essere troppo scolarizzata, sostanzialmente si erano allontanate troppo da quelli che erano i suoi obbiettivi naturali. Tant’è che vennero istituiti dei corsi per il recupero del “ruolo femminile”. “La mistica della femminilità” dice che il più alto valore e l’unico obbiettivo per le donne è il completamento e la realizzazione della propria femminilità. La femminilità è così misteriosa e intuitiva e vicina alla creazione dell’origine della vita che la scienza dell’uomo può non essere mai capace di comprenderla. L’errore, dice la mistica, la radice dei problemi delle donne in passato, è che le donne hanno invidiato gli uomini, hanno cercato di essere come gli uomini, invece di accettare la propria natura, che può trovare realizzazione solo nella passività sessuale, nel dominio maschile e nell'amore materno”. Quando viene pubblicato, il libro ha un impatto fondamentale nel femminismo liberale marcandone l’inizio perché ha un successo editoriale senza precedenti, viene ripubblicato più e più volte. Provoca inoltre una reazione che porta molte donne a scrivere alla Friedan dicendo che si erano riconosciute nella descrizione offerta dal libro, che avevano provato un senso di liberazione dall’angoscia e dalla frustrazione a cui adesso potevano dare un nome. oppressione della razza e della classe sociale. Seguendo la prospettiva del femminismo radicale, lei suggerisce che la liberazione della donna possa avvenire soltanto attraverso una rivoluzione che lei descrive come un processo di appropriazione, di presa di controllo sui mezzi di riproduzione, anche qui riprendendo una prospettiva marxista, in cui il sottoproletariato viene sostituito con le donne. Anche nell’inizio del pensiero di Firestone si vede la forte influenza di Simone de Beauvoir, perché anche per lei la differenza biologica crea le basi per il dominio. Parte quindi dal corpo, che è considerato come qualcosa di concreto che determina una differenza che si materializza nella capacità di riproduzione delle donne. La Firestone si concentra più sulla crescita dei figli piuttosto che la maternità, quindi il problema per lei non sta solo nel periodo della maternità, ma anche nella divisione dei compiti successivi. La donna deve concepire il figlio, allattarlo e accudirlo, e questo la pone in una condizione di debolezza protratta nel tempo che richiede la protezione del padre/compagno. Il problema per Firestone è che questa condizione di debolezza naturale, dovuta alla capacità biologica della donna di dare la vita, è stata istituzionalizzata dentro una struttura oppressiva, ovvero la famiglia nucleare monogama (cfr. Simone de Beauvoir). Quindi il problema non è nella biologia, che è oggettiva e naturale, bensì nella creazione di istituzioni oppressive su quella biologia. La struttura oppressiva per eccellenza nel pensiero di Firestone è la famiglia nucleare monogama, e tutto quello che esiste nella società tende a giustificarne l’esistenza. Amore romantico Tutto nella società tende a legittimare l’importanza della famiglia nucleare monogama eterosessuale, ovvero la struttura che Firestone considera quella oppressiva per eccellenza. Uno dei principali problemi della sua epoca, che secondo Firestone è fondamentale per comprendere come si mantiene la centralità della famiglia nuclearizzò monogama, è l’amore romantico. Questo è problematizzato da una larga parte del femminismo radicale. Quando si parla di amore romantico, si parla di un tipo specifico di amore che nasce a partire dal 19esimo secolo in concomitanza con la trasformazione del modo in cui si intendono i rapporti tra le persone. Prima dell’Ottocento i matrimoni erano combinati per questioni economiche. A partire dall’Ottocento un cambiamento delle norme sociali relative alle relazioni fa sì che emerga uno specifico tipo di amore, l’amore romantico, che dà la possibilità, reale o fittizia, di scelta. Firestone problematizza questa idea di libertà connessa all’amore romantico dicendo che è un ideologia che rende sì le donne libere, ma soltanto di scegliere il loro padrone. L’ideologia dell’amore romantico vincola le donne alla ricerca di un uomo in un contesto storico in cui questo non sarebbe così necessario, dal momento che le donne avevano possibilità ad esempio di lavorare. Le donne quindi non hanno più il bisogno naturale di sposarsi, eppure l’amore romantico vincola questa ricerca e le predispone alla sottomissione, dal momento che l’imperativo di amare grava diversamente sui due sessi: trovare l’amore a livello sociale è molto più rilevante per le donne rispetto a quanto lo sia per gli uomini. Siamo più abituati a concepire che un uomo che stia single per tutta la vita, ma c’è ancora difficoltà a concepire una donna senza un compagno. Inoltre l’amore romantico toglie alle donne tempo per altro, in particolare per il lavoro culturale. Sostiene che nei secoli la pressione sociale che è stata posta sulle donne rispetto a questa necessità di ricercare costantemente l’amore e l’approvazione da parte di un uomo abbia fatto sì che le donne non si concentrassero su nient’altro, che questo diventasse il compito principale della loro vita. Questo ha limitato la capacità di scardinare quel meccanismo culturale che rende l’uomo soggetto universale, perché occupandosi solo di amore le donne non hanno avuto tempo di occuparsi di nient’altro. L’amore romantico agisce come strumento di controllo sulle donne anche perché fa credere alle donne che il loro valore sia determinato dalla capacità di ricevere amore, attenzioni e approvazione da un uomo. Essere venerate non è avere la libertà, essere venerate come oggetti non essere libere. “La sua intera identità è determinata dall’amore della sua vita. Gli è reso possibile amare se stessa soltanto se un uomo la trova meritevole di amore”: la capacità della donna di riconoscere il proprio valore dipende largamente dall’aver ricevuto amore da un uomo. L’amore romantico, come tutte le ideologie, è solo una libertà apparente, è solo formalmente una libertà che però riconosce le donne solo per quello che sarà il loro padrone. Inoltre, ha anche la funzione di sfruttare il lavoro emotivo femminile. Permette, all’interno del nucleo familiare monogamo, di deputare la donna la gestione di tutta la parte affettiva ed emotiva. Quindi se le donna sono una classe di parassiti che vivono del lavoro economico degli uomini, che vivono ai margini dell’economia maschile, anche il contrario è vero: la cultura maschile era ed è parassita, perché si nutre della forza emotiva delle donne senza reciprocità. Infine l’amore romantico ha un’ultima funzione: dando a ciascuna donna un obbiettivo individuale e competitivo, separa le donne nascondendo una condizione comune di sottomissione. Sessualità Firestone si concentra sulla sessualità in senso strettamente eterosessuale, non mettendone in dubbio la naturalità. Nel pensiero di Firestone e in generale in quello del femminismo della seconda ondata sia il problema sia la sua soluzione vanno cercate nella quotidianità, e quindi anche nella sessualità. C’è un invito a pensare la rivoluzione come pratica quotidiana che realizziamo nelle sfere, nelle istituzioni, nelle pratiche che attraversiamo tutti i i giorni. Critica la monogamia, perché la monogamia vincola la sessualità alla famiglia nucleare e all’amore romantico. L’idea che dobbiamo avere una relazione monogama è sostenuta dal mito dell’amore romantico, e insieme sostengono la struttura oppressiva per eccellenza, la famiglia nucleare. Critica la legittimazione della sessualità solo se rivolta alla procreazione; l’accesso alla contraccezione a quell’epoca era davvero limitato e l'aborto non era legalizzato. Critica l’erotismo centrato solo sui genitali e la penetrazione, quindi sostanzialmente improntato al piacere maschile. Qui c’è un forte collegamento con il pensiero di Luce Irigaray, la quale sostiene che il pene sia l’unico organo sessuale riconosciuto e la sessualità femminile sia negata poiché esiste solo in funzione dell’uomo. Firestone sostiene che una pratica di controllo della propria sessualità e una strategia di liberazione femminile parta proprio dall’autoerotismo. La liberazione sessuale ha due prospettive: da un lato viene vista come emancipazione, empowerment, strumento della rivoluzione femminile, riappropriarsi della propria sessualità come mezzo per ribadire la propria esistenza di donne all’interno di un mondo in cui la sessualità femmine è pensata solo come funzionale alla procreazione. Ma allo stesso tempo può essere uno strumento di possibile oppressione se realizzata nell’ambito della struttura patriarcale, perché la sessualità può essere sfruttata dall’ordine patriarcale per rimarcare la subordinazione delle donne. C’è una consapevolezza, un vero e proprio scontro su queste pratiche, che vede contrapporsi una frangia che ritiene che la liberazione sessuale sia fondamentale per la rivoluzione e chi ritiene che non possa esserci una vera rivoluzione sessuale all’interno di una società patriarcale. Infanzia Altra istituzione che sostiene la struttura oppressiva della famiglia nucleare monogama. La società ha creato l’infanzia come fase specifica del corso della vita, e soprattutto di pari passo con sviluppo del pensiero pedagogico si è creata un’idea che l’infanzia sia una fase particolare della vita in cui i bambini richiedono particolari attenzioni. Se da un lato ha impedito lo sfruttamento del lavoro minorile, dall’altro ha anche trasformato i bambini in soggetti che richiedono una costante attenzione e cura, che all’interno di società patriarcali in cui non esiste un welfare ben sviluppato grava sulle donne. Quindi la creazione dei bambini come gruppo speciale, secondo lei, ha una funzione strumentale nel vincolare le donne nella loro condizione di immanenza. Firestone scrive che l’aumento e l’esagerazione della dipendenza dei bambini ha fatto sì che il collegamento diretto tra donne e maternità si sia esteso oltre ogni limite. Non è solo che il tempo maschile è quello femminile vengono usati diversamente, ma che a partire dalla nascita del pensiero pedagogico c’è stata una progressiva anticipazione delle attenzioni e delle richieste di intervento. Inoltre, si può dire che il tempo dell’infanzia si sia esteso, perché restiamo in una condizione di forte dipendenza dalla famiglia molto a lungo, e le condizioni storico-sociali la rendono ancora più lunga, ma c’è anche una continua anticipazione l’attenzione costante al bambino come essere speciale. La soluzione al problema sta nella rivoluzione, che però implica soluzioni radicali. La soluzione al problema della donna, per essere una soluzione radicale, deve arrivare ad eliminare la differenza biologica nella riproduzione. A partire da questa idea, elabora una vera e propria utopia femminista in cui questa eliminazione della differenza biologia passa attraverso le nuove tecnologie e la diffusione dei compiti di crescita ed educazione nella società. Firestone dice che “l’obiettivo finale della rivoluzione femminista deve essere, a differenza di quella del primo movimento femminista, non solo l’eliminazione del privilegio maschile, ma della stessa distinzione dei sessi: le differenze genitali degli esseri umani non avranno più alcuna importanza culturale”. Per lei la contraccezione e la creazione di asili sono soluzioni timide, perché aiutano le donne ma non si pongono il problema del perché siano le donne a dover crescere i figli. La soluzione radicale va cercata nello sviluppo di tecnologie di riproduzione artificiale che liberino il corpo femminile dal peso della maternità “La riproduzione della specie da parte di un sesso a beneficio di entrambi sarebbe sostituita almeno dalla possibilità di scegliere la riproduzione artificiale. La dipendenza del bambino dalla madre (e viceversa), verrebbe sostituita da una dipendenza molto più breve da un piccolo gruppo di altri in generale”. Quindi non solo lo sviluppo di tecnologie di riproduzione renderebbe le donne libere di scegliere se diventare madri, ma si ipotizza anche una fase in cui la cura del figlio è svincolata dalla sua produzione. Firestone propone ancora la costituzione di households, una sorta di comuni che sostituiscano la famiglia. Ognuna di queste doveva essere composta da dieci persone che decidevano di riunirsi in una comune per un tempo che stava tra i sette e i dieci anni. Queste dovevano prendersi cura di bambini che potevano essere “nati naturalmente” da persone che partecipavano alle comune, da altre persone che avevano avuto figli ma non volevano occuparsi di compiti di cura e da bambini che portava gli schiavi dagli Stati in cui esisteva ancora la schiavitù verso gli Stati in cui era già stata abolita; era un percorso clandestino, e Harriet si guadagnò il soprannome di Moses perché non aveva mai perso nessuno, nessuno era mai stato lasciato indietro. Nel suo racconto dell’Underground Railroad, Harriet disse che “c’erano due cose a cui avevo diritto: la libertà e la morte. Se non potevo avere l’una, avrei avuto l’altra”. Questa del dover scegliere tra la vita e la morte è un punto focale del femminismo nero, dal momento che questo si distingue dalla seconda ondata proprio perché combattere era una questione di sopravvivenza, non solo di emancipazione e liberazione. Altra figura fondamentale fu Milla Grandson, che ebbe un ruolo importante nella costituzione della cosiddetta “Scuola di mezzanotte”; è anche chiamata Midnight Teacher. Nel periodo della schiavitù c’è da ricordare che gli schiavi non avevano la possibilità di imparare a leggere e scrivere, anzi in molti casi era considerato illegale anche insegnarlo. Milla Granson aveva imparato a leggere e scrivere grazie alle interazioni con la sua padrona, e iniziò durante la notte a fare corsi di scrittura agli schiavi, e iniziò anche a firmare documenti falsi di liberazione in modo tale che questi schiavi potessero scappare. 1ª fase del femminismo Nero Corrisponde più o meno alla fase dell’abolizionismo dello schiavismo. Per quanto riguarda la partecipazione delle donne nere alla prima ondata femminista, possiamo fare riferimento a Sojourner Truth e il suo Ain’t I a Woman?. Quel testo, così come tutto quello che viene dopo, all’interno della riflessione delle donne nere e della prima ondata femminista va letto come critica contro il razzismo e il classismo del movimento (le donne nere criticano che il movimento femminista non tenga conto delle differenze tra donne dovute principalmente alla questione di razza e alla questione di classe), ma anche come una critica alla presunta debolezza e vulnerabilità della donna. Vedremo come il femminismo Nero rivendica la forza delle donne, poiché parte proprio dalla resistenza di cui sopra. Erano donne che rischiavano la loro vita e contemporaneamente salvavano quella degli altri, quindi partiamo da un’idea di femminilità che si struttura come forza, come capacità di pensare vie alternative per la propria sopravvivenza: è un cambiamento forte rispetto a quelle descrizioni che in controluce emergono nel pensiero di Simone de Beauvoir, di Shulamith Firestone o di Betty Friedan, che nel momento stesso in cui rivendicano una maggiore posizione per le donne all’interno della società non arrivano a sottolineare la forza delle stesse. Il femminismo Nero muove una critica proprio al modo in cui fino a quel momento viene pensata la donna e la femminilità. Nelle critiche al sistema patriarcale che troviamo elaborate dal femminismo della seconda ondata vediamo che da un lato c’è una richiesta di maggiore partecipazione delle donne alla società o di liberazione delle donne dalla società, ma nel momento stesso in cui si richiede questa cosa il femminismo della seconda ondata fatica a riconoscere la forza delle donne. 2ª fase del femminismo Nero Corrisponde più o meno alla seconda ondata femminista. Il black feminism nasce ufficialmente in questa fase, e il termine viene coniato intorno al 1977, cioè compare per la prima volta all’interno di un manifesto di un collettivo femminista dell’epoca, il Combahee River Collective, che definisce il Black feminism come un femminismo che analizza e lotta la simultaneità delle oppressioni di razza, classe, genere e sessualità. Nasce quindi come risposta politica allo specifico assetto di molteplice esclusione e oppressione che caratterizzava le condizioni di vita e l’esperienza quotidiana delle donne nere. Il suo obiettivo è rivendicare una voce, per raccontare un’esperienza di vita e di femminilità diverse rispetto a quelle delle femministe della seconda ondata. Si presenta fin da subito come la forma più radicale del femminismo, perché prende necessariamente in analisi tutte le forme di oppressione esistenti. Nel manifesto del Combahee River Collective si legge che “Se le donne Nere fossero libere, significherebbe che chiunque altro lo dovrebbe essere, dal momento che la nostra libertà implicherebbe la distruzione di tutti i sistemi di oppressione”. Il femminismo Nero parte dalla constatazione che all’interno della società dell’epoca, in una piramide di gerarchia sociale, all’ultimo gradino se non sotto c’erano le donne nere. Il femminismo nero nasce dalla critica al solipsismo bianco (Adrienne Rich, 1979) ad una cecità ed autoreferenzialità del femminismo della prima e della seconda ondata, che porta le femministe a pensare che tutte le donne sono bianche e tutti i neri sono uomini, si erano completamente dimenticate dell’esistenza delle donne nere, assumendo nella descrizione delle donne soltanto la prospettiva delle donne bianche. Il femminismo nero rivendica un’altra prospettiva sulla donna e sulla femminilità, perché il mancato riconoscimento della donna nera fa sì che il femminismo diventi una critica alla femminilità più che un‘affermazione della femminilità. Il femminismo della prima e della seconda ondata, concentrandosi soltanto sull’esperienza delle donne bianche, enfatizza la questione della vulnerabilità, della passività, della debolezza. Il femminismo Nero, partendo dall’esperienza delle donne schiave che all’interno delle piantagioni elaborano sistemi di resistenza a un’oppressione che metteva in discussione la loro stessa vita, non può non riconoscere il fatto che la femminilità si esprime anche attraverso forza, capacità positive. Perché è così importante ripensare l’identità della donna e la questione della femminilità? Perché la critica che muove il femminismo Nero al femminismo della seconda ondata è che se non andiamo a ripensare queste basi, andiamo a riprodurre gli elementi tipici del sistema di oppressione, se non andiamo a cambiare il vocabolario e la narrativa di base sulla donna, andiamo a riprodurre ciò che il sistema patriarcale già pensa della donna, ovvero che erano deboli, che non avevano, o perlomeno non dimostravano, abbastanza forza. Audre Lorde dice che “Gli strumenti del padrone non distruggeranno mai la casa del padrone”: è un invito a ripensare e cambiare radicalmente il vocabolario della lotta femminista e dei gender studies. In questo senso quello che fa il femminismo nero di fronte alla necessità di smantellare gli strumenti del padrone è ripensare una serie di concetti base del femminismo fornendo una lettura alternativa rispetto a quella elaborata fino a quel momento dalla prima e dalla seconda ondata femminista. Femminilità Il primo concetto su cui si interroga il femminismo nero è quello di femminilità, e l’analisi parte dalla constatazione che fino a quel momento tutte le riflessioni prodotte sulle donne e sulla loro condizione ed identità erano intrinsecamente prodotte da donne bianche: Simone de Beauvoir quando scrive Il secondo sesso ha in mente una donna bianca, Shulamith Firestone, Betty Friedan nel momento in cui scrive un libro basato su interviste a donne che avevano frequentato il college non lo scrive considerando la prospettiva delle donne nere. In quello che era stato prodotto fino a quel momento si evidenzia un’intrinseca bianchezza della categoria “donna”, e questo si notava anche da una scarsissima rappresentazione delle donne nere all’interno dei prodotti culturali dell’epoca: la femminilità nera era espressa in tre principali stereotipi. 1. Mammy: domestica nera, solitamente schiava, che custodisce e si prende cura della famiglia bianca. “Mammy” è il modo in cui negli Stati del sud si pronuncia la parola mamma, ed è uno stereotipo che emerge già nei racconti dei soldati che avevano partecipato alla guerra di Secessione negli Stati Uniti, e che raccontando della loro infanzia romanticizzano la figura della domestica nera un po’ burbera, un po’ scorbutica, ma che usa questi lati del suo carattere soltanto per proteggere la famiglia bianca, a cui è legata come se fosse la sua. Anche perché non ha figli suoi, perché probabilmente sono stati venduti. Ma si prende cura dei figli della famiglia bianca come se fossero i suoi. Rappresenta quindi questo stereotipo di donna nera pronta ad accudire, accettata perché si rende disponibile alla cura della famiglia bianca, il cui carattere scorbutico è accettato poiché funzionale alla protezione dei bianchi. 2. Jezebel: una figura biblica che si trova nel Libro dei Re dell’Antico Testamento, ed è da una regina idolatrata ad Israele. Poi diventa all’interno delle rappresentazioni della femminilità nera lo stereotipo della seduttrice, della donna ipersessualizzata, di colei che seducendo inganna. È uno stereotipo di seduzione, manipolazione, idolatria. 3. Sapphire: protagonista di una serie tv americana che rappresentava lo stereotipo della moglie scorbutica, quella che borbotta e rimette in riga marito e figli. Questi erano gli stereotipi attraverso cui era ed è tutt’oggi pensata la femminilità nera. Queste immagini (slide 11) dimostrano come ancora oggi, quando rappresentiamo la femminilità nera, usiamo con qualche variazione questi tre stereotipi. Gli stereotipi citati sopra hanno in comune il fatto che suggeriscono che le donne nere non possono essere buone mogli e madri: Mammy non è una madre, è madre di altri ma non è madre lei in prima persona; Jezebel non è né moglie né madre, è seduttrice e manipolatrice; Sapphire è moglie ma è scontrosa, aggressiva, arrabbiata, non è docile. Mentre l’eterno femminino è un mito contraddittorio che ha dentro la femme fatale e la moglie santa, qua andiamo verso una narrazione molto chiara che sottolinea che le donne nere siano intrinsecamente inadatte ai ruoli femminili classici di moglie e di madre. Quello che il Black feminism insegna è che la costruzione della femminilità nera controlla le donne nere tanto quanto controlla le donne bianche, favorendo l’oppressione di entrambi i gruppi. Gli stereotipi sulla femminilità nera insegnano alle donne bianche che cosa devono o non devono essere per essere considerate vere donne; insegnano alle donne bianche che per essere vere donne devono essere esteticamente curate, madri devote, mogli gentili, docili. Insistono tutti insieme sullo stesso punto, seppur da angolature diverse. Tutto questo ha prodotto effetti materiali sulla vita delle donne nere negli Stati Uniti: le femministe Nere lottavano per la loro sopravvivenza, e questo non valeva allo stesso modo per le femministe della seconda ondata. Quest’idea di femminilità nera come intrinsecamente inadatta al ruolo di madre si è tradotta in programmi di sterilizzazione forzata, che negli USA sono stati protratti dal 1933 fino agli anni Settanta in alcuni Stati e informalmente anche dopo. ! Documentario The State of Eugenetics, che parla delle pratiche di sterilizzazione forzata che hanno riguardato principalmente le donne nere, ma anche più in generale persone di colore, persone con disabilità mentale, rappresentati della popolazione Rom, che sono stati sottoposti a vere e proprie pratiche di eugenetica secondo un programma iniziato nel 1933. In North Carolina ad esempio si stima che tra il 1933 e il 1977, quando è stata abolito il programma di eugenetica, il 65% delle donne nere, cioè il 25% della popolazione dello Stato, fosse stato sottoposto a sterilizzazione forzata. La lettura di queste dinamiche attraverso il concetto di intersezionalità è un tentativo di andare oltre quelle che sono le interpretazioni moniste dell’oppressione e quelle che sono le interpretazioni additive. Le interpretazioni moniste identificano una linea di oppressione/privilegio e fanno discendere tutte le altre oppressioni/privilegi da quella. Es. New Left: idea che risolto il problema di classe si risolva automaticamente anche tutto il resto. L’interpretazione additiva fa la semplice somma delle oppressioni, e non tiene conto che le diverse oppressioni “si costituiscono tra loro”. Il concetto di intersezionalità aiuta a guardare le azioni intrecciate reciproche delle oppressioni, che non possono essere analizzate né gerarchicamente né disgiuntamente; si costituiscono a vicenda. bell hooks dice che “L’intersezionalità non ha a che vedere con il vincere il gioco dell’oppressione, ma è prendere coscienza che le persone fanno esperienza delle cose diversamente e così evitare che vengano replicate strutture di potere che escludono e opprimono”, è uno strumento che dev’essere usato per cambiare la propria prospettiva. Il concetto di intersezionalità complica l’idea di gerarchia sociale perché implica l’idea che ciascuno di noi di volta in volta possa, al contempo, essere oppresso e oppressore. Da qui si origina anche una prospettiva pratica in termini di attivismo che è quella del posizionamento come metodologia che richiede al soggetto di identificare il proprio grado di privilegio in relazione ai fattori di razza, classe, educazione, reddito, abilità, genere, cittadinanza, età… L’intersezionalità non dev’essere soltanto uno strumento che ci aiuta a capire che ci sono persone più in difficoltà rispetto ad altre, ma è uno strumento che dovrebbe aiutarci anche a capire dove ci collochiamo noi all’interno di questo sistema, andando a promuovere una riflessione sul privilegio. Video della donna nera al ted talk: l’obiettivo è quello di elaborare uno strumento operativo per riconoscere cose che normalmente restano invisibili se guardiamo la realtà attraverso soltanto un sistema di oppressione vantaggio per volta. Se anche le persone più consapevoli da un lato della violenza della polizia contro gli afroamericani e dall’altro contro la violenza sulle donne, fanno fatica a riconoscere quello che succede nell’intersezione fra questi due sistemi di oppressione. Ricordiamo la questione di posizionamento e posizionalità, quindi l’idea che lo strumento dell’intersezionalità non riguarda tanto il modo in cui andiamo a leggere la realtà con cui ci confrontiamo, quanto il modo in cui andiamo a leggere la nostra posizione all’interno della realtà; quindi dall’intersezionalità deriva una richiesta di valutare il proprio grado di privilegio, dove ci collochiamo nelle scale di oppressione|privilegio. La pratica politica del black faminism parte dagli ultimi, dagli emarginati, da chi si trovava nell’ultimo gradino di una determinata piramide sociale, se le donne nere fossero liberati significa che tutti sono liberati, perché la condizione delle donne nere riflette tutti i maggiori sistemi di oppressione. Questa attenzione agli ultimi porta il black feminism a rielaborare il concetto di marginalità. Questa rielaborazione la dobbiamo principalmente a Bell Hooks, che in un articolo del 1989 rielabora il concetto distinguendo tra una marginalità più prime e una che viene definita come positiva. Il pensiero di Bell Hooks sulla marginalità invita a riconoscere che i soggetti marginali all’interno di un determinato sistema sociale sono coloro che hanno più capacità di riconoscere quelli che sono i limiti del sistema e sono i soggetti maggiormente in grado di immaginare vie alternative e una trasformazione del sociale. Questo riconoscimento della marginalità come spazio di apertura radicale e quindi positiva, non significa romanticizzare o normalizzare la situazione marginale, lei distingue tra la marginalità imposta da strutture oppressive che permane e quella scelta, quindi quella positiva, che implica un’auto consapevolezza di quello che emerge da quella marginalità, che si acquisisce attraverso la consapevolezza della propria capacità di vedere il sistema dall’esterno, dal margine, che implica una potenziale possibilità di apertura radicale. È importante capire che la marginalità reale, materiale, è una precondizione necessaria per la marginalità positiva, ma al contempo non è detto che una marginalità reale si traduca in marginalità positiva. Se andiamo a vedere come evolvono le strategie del Black feminism, ci rendiamo conto che queste nascono dalla capacità creativa, di radicale apertura di soggetti costretti in una condizione di marginalità materiale, che si trasforma in marginalità positiva. La marginalità positiva si traduce in una diversa costruzione del soggetto politico, mentre il femminismo bianco parte dalla constatazione della vittimizzazione delle donne, quello nero si sviluppa primariamente dalla capacità di resistenza delle donne. Pratica femminista non come qualcosa che deve salvare le donne, ma che dia spazio ad un’apertura radicale e positiva. L’associazione delle donne nelle realtà femministe non si basa più solo sulla condivisione di una posizione subalterna, ma anche sulla condivisione della capacità di ri immaginare la società, quindi positiva. Citazione di Alice Walker, scrittrice afro-americana: invito a riconoscere la marginalità positiva in gesti quotidiani, micro, perché chiunque si collochi nei margini di un sistema di oppressione non può attaccare sempre il sistema apertamente, i rischi sono eccessivi. La marginalità positiva ha anche un’implicazione sempre sulle pratiche politiche del femminismo in relazione al tema delle coalizioni e solidarietà tra altri soggetti politici subalterni. Il black feminism è un movimento femminista che fa delle alleanze la sua forza, che pur criticando il movimento femminista della seconda ondata, cercò un dialogo con quest’ultimo. Il principio di intersezionalità (quindi l’idea che i sistemi di oppressione lavorano costituendosi tra di loro), implica una maggiore consapevolezza che non basti occuparsi di un sistema di oppressione alla volta e si traduce in pratica politica, che porta alla messa in relazione di diversi gruppi subalterni, soggetti politici marginalizzati (movimento operai). Angela Davis sintetizza il principio di creare coalizioni con “i muri ribaltati diventano ponti”, invito a cercare alleanze, famiglia non legata da legame di sangue. Men and masculinity studies Si tratta di una parte dei gender studies che si sviluppa a partire dagli anni Ottanta e che si preoccupa di analizzare l’identità maschile e le sue trasformazioni.Questo interesse per l’identità maschile e per i masculinity studies emerge prima di tutto, dal punto di vista teorico, da una necessità di smantellare quel soggetto universale maschile che resta nel background di tutta l’analisi dei women studies elaborata nella prima fase di costruzione del pensiero di gender studies. Ad un certo punto ci si rende conto che concentrandosi solo sull’identità femminile si rischia di rendere ancora più non problematica l’identità maschile e le problematiche. Ma l’interesse dei men’s studies deriva anche dalla consapevolezza che non tutti gli uomini beneficiano del sistema patriarcale nello stesso modo e e che il sistema patriarcale ha delle richieste per gli uomini che sono tanto gravose quanto quelle previste per le donne.I men and masculinity studies sono una specializzazione degli studi di genere che pone al centro della riflessione di genere l’analisi dell’identità maschile, che cosa definisce in un dato tempo spazio l’identità “uomo”, i modelli sociali della maschilità, quindi come variano le aspettative di ruolo collegate all’identità maschile e cosa gli uomini fanno per essere riconosciuti come tali e le trasformazioni che interessano l’identità maschile (se e cambiata e come). Secondo Alan Petersen il contributo dei masculinity studies è stato quello di andare a smascherare la maschilità nella sue pretese di naturalità e di immutabilità. Nascono come un tentativo di andare a problematizzare quel soggetto non problematico che è l’uomo. Si sono sviluppati attorno a quattro temi principali, contenuti anche nella maggior parte delle pubblicazioni, che guardano:  La divisione del lavoro (donna camionista, uomo infermiere)  La dotazione del potere (relazioni tra uomini e donne e gli squilibri di potere tra gruppi di uomini, come il potere patriarcale viene distribuito in modo diseguale tra diverse categorie di uomini)  L’organizzazione della sessualità (aspettative sociali sulla sessualità)  La gestione della vita affettiva (come gli uomini gestiscono l’espressione sociale della propria intimità e stati emotivi, quali emozioni è permesso esprimere agli uomini e quali no). Se i Women Studies sono stati in larga parte emersi in ambito filosofico i Men’s studies hanno radice profondamente sociologica. L’interesse per l’analisi dell’identità maschile inizia a svilupparsi tra la metà degli anni 80 e l’inizio degli anni 90 negli Stati Uniti, perché in questo periodo inizia una riflessione dal basso dell’identità maschile, è proprio nell’ambito di tre diversi movimenti sociali che nasce una problematizzazione dell’identità maschile e di come si sta trasformando:  Movimento degli uomini mitopoietici: ancora attivo, che nasce alla fine degli anni 70 inizio 80 da Robert Blee; movimento che sosteneva che l’identità maschile fosse in crisi perché l’uomo si era allontanato troppo dalla natura, a causa dello sviluppo della società industriale, che aveva allontanato l’uomo dai suoi istinti. Il movimento sosteneva che l’industrializzazione avesse creato una separazione tra la vita privata e sfera lavorativa, allontanato l’uomo dal suo ruolo in famiglia e avesse favorito con il consumo di massa la perdita dei valori tipicamente maschili. Per recuperarla gli uomini dovevano recuperare il rapporto con la natura, con la loro parte selvaggia, organizzavano dei campi di sopravvivenza in contesti selvatici (tipo scout).  Movimento degli uomini femministi: si collega a quello della seconda ondata, che aveva iniziato a capire che il femminismo potesse essere positivo anche per l’identità maschile, ad esempio l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro ha fatto sì che gli uomini potessero ridefinire la loro identità, quindi non solo collegata al lavoro, al successo economico e produzione, ma anche con i figli, l’area affettiva ecc.…  Movimento dei Men’s rights: nasce negli anni ’80 negli Stati Uniti e parte dalla stessa riflessione dei mitopoietici e dalla stessa volontà dei pro-femministi di liberare gli uomini dai ruoli di genere oppressivi. Il problema viene identificato nel femminismo, che avrebbe prodotto un’immagine falsata degli uomini (aggressivi e oppressori) e avrebbe enfatizzato i privilegi maschili portando le donne ad allontanarsi dai ruoli classici. Il pensiero di questi movimenti porta allo sviluppo di una riflessione che trova il suo compimento in una serie di pubblicazione che vanno dagli anni Ottanta a metà degli anni Novanta; in particolare il punto di svolta è identificato con la pubblicazione nel 1995 di Masculinities, di Raewyn Connell, sociologa australiana e donna trans. La pubblicazione sistematizza il dibattito, facendo sì che non resti solo nell’ambito accademico. Si tratta di un’opera che, a partire da una serie di analisi empiriche condotte su diversi gruppi di uomini che partecipavano per esempio al movimento femminista o uomini di classe operaia, cerca di dimostrare l’esistenza di diverse maschilità, mette in discussione l’idea che l’identità maschile sia un blocco monolitico, e che sostiene che le diverse maschilità siano associate a diverse posizioni di potere all’interno di un sistema gerarchico di tipo che porta gli uomini a posizionarsi in modo diverso rispetto alla mascolinità egemonica. Non sono modelli ma posizioni o posizionamenti Mascolinità Complice Il primo posizionamento è quello che nella mascolinità di Connell prende il nome di Mascolinità Complice, dove si collocano la maggior parte degli uomini, questo perché la mascolinità egemonica, nella vita quotidiana non esiste, è solo un modello/ideologia verso cui tendere, quindi nella realtà, di maschi realmente egemonici non c’è nessuno. È quel posizionamento che porta gli uomini a non mettere in discussione l’ordine dei generi, ad aderire al modello egemonico, senza avere comunque la possibilità di raggiungerlo. È la posizione che viene assunta dagli uomini che non hanno tutte le caratteristiche della mascolinità egemonica, ma non la mettono in discussione. Connell scrive: “la mascolinità complice si concretizza nei molti uomini nella società che non possono vivere e raggiungere l’ideale della mascolinità egemonica ma comunque beneficiano della sua posizione dominante”. Cioè le mascolinità complici, pur non potendo raggiungere l’egemonia, comunque beneficiano del fatto che l'egemonia c’è in qualche modo, ci guadagnano. Chi si posiziona in questa mascolinità, non mette in discussione l’ordine dei generi, ma non può comunque aspirare al vertice, proprio perché l’egemonia non esiste. Beneficiano però in parte, di quell’ordine gerarchico, che li pone al vertice di altri uomini, sopra altri uomini, e sopra le donne. Mascolinità Marginalizzata Questo posizionamento fa riferimento ad altri uomini che non hanno accesso all’egemonia, in virtù però di caratteristiche che sono immodificabili o difficili da modificare. Molto spesso, è una mascolinità che emerge lungo le linee del colore della pelle, della classe sociale, ecc, anche se non sempre queste categorie riflettono la posizione marginalizzata. Non è detto che in tutti i contesti, questa marginalizzazione si realizzi lungo queste linee, ma è frequente. Questa mascolinità, può mettere in discussione altri ordini di dominazione, per es. razza. Ma non mettono in discussione l’ordine di dominazione del genere. Anzi, in molti casi, per poter ambire all’egemonia adottano proprio sull’ordine dei generi, gli stessi comportamenti oppressivi del maschio egemonico, cioè cercano di raggiungere l’egemonia attraverso l’adozione degli stessi comportamenti di genere propri del maschio egemonico. Esempio: mascolinità della classe operaia o comunità nere. Mascolinità Subordinata Si differenziano queste, perché non cercano di raggiungere l’egemonia, anzi cercano di metterla apertamente in discussione, quindi in questo caso la critica è diretta verso l’ordine dei generi. Si caratterizzano per pratiche che vanno contro ciò che definisce l’essenza della mascolinità egemonica. Connell porta come esempi: uomini gay e uomini che partecipano a movimenti femministi. Questa mascolinità rappresenta una minaccia diretta all’ordine dei generi e quindi fortemente stigmatizzate dalla mascolinità egemonica. Ricapitolando: I tentativi delle mascolinità complici e della mascolinità marginalizzate di raggiungere l’ideale egemonico irraggiungibili, quindi destinati ad un fallimento, vanno a rinforzare, a validare, il modello egemone. Più provi a raggiungerlo, è mano ci riesci, più quel modello si rafforza. La mascolinità, nel nostro consenso, si esprime anche attraverso il consumo di carne, soprattutto di quella rossa, è una serie di ricerche condotte dalla Hooks, mostrano come gli uomini che non adottano questo stile di consumo basato appunto sul consumo di carne rossa, tendano costantemente a giustificarsi, e questo bisogno di farlo all’interno delle relazioni omosociali, dimostra la consapevolezza che il modello egemonico prevede in quel caso il consumo di carne, tendono a ratificare l’importanza di quella pratica simbolica, per definire ciò che è egemonico. Il concetto di mascolinità egemonica di collega al concetto di patriarcato, ma non equivale con il patriarcato. La mascolinità egemonica è un concetto che ci aiuta a capire come il patriarcato legittima, cioè fa riferimento a un concetto che sostiene l’ordine patriarcale. Connell scrive ““la configurazione delle pratiche di genere rappresenta la risposta attualmente accettata al problema della legittimità del patriarcato, che garantisce la posizione dominante degli uomini e la subordinazione delle donne”, cioè la mascolinità egemonica semplicemente identifica l’ideologia che sostiene l’ordine patriarcale, che domina su questo ordine, quindi sia sugli uomini che sulle donne. In questo senso, la gerarchia della mascolinità, ci aiuta ad avere un’idea più complessa del concetto di patriarcato, perché evidenzia come all’interno del patriarcato si realizzi una gerarchia dei benefici, l’idea che non tutti gli uomini beneficiano completamente del patriarcato, e che uomini più o meno aderenti al modello egemonico, ottengano più o meno benefici, dal sistema patriarcale. Il fatto che la mascolinità egemonica crei questa dinamica costante di ricerca, di tentativi, fa sì che la ricerca della mascolinità si concretizzi in una serie di sforzi funzionali al patriarcato. Ma comunque alcune caratteristiche innate (colore della pelle, nazionalità) possono impedire anche a chi si sforza di corrispondere al modello.In questo senso, i Masculinitiy Studies, vanno a pensare la definizione di patriarcato, che può essere quindi definita come un sistema sociale in cui beni, privilegi, poteri, ecc, sono distribuiti in modo iniquo che favorisce gli uomini rispetto alle donne, uomini che corrispondono all’idea di mascolinità. In questo senso anche le mascolinità complici e marginalizzate ottengono qualcosa dal patriarcato, sebbene siano risorse e privilegi che sono meno desiderabili e meno evidenti. Crisi all’interno del Modello Egemonico Il modello tradizionale di mascolinità, quello egemonico, sembra essere entrato in crisi, a causa di una serie di trasformazioni sociali, economiche politiche, e culturali, che si riflettono per esempio, in una serie di fenomeni che notiamo anche quotidianamente. Come interpretiamo queste trasformazioni? C’è una prospettiva ottimista e una pessimista.  Prospettiva Ottimista: in letteratura si riferisce al tema delle Mascolinità Inclusive. È stata elaborata prevalentemente da Eric. Anderson e che sostiene che queste trasformazioni debbano essere lette come un cambiamento positivo e la diffusione di mascolinità inclusive, cioè in grado di fare proprie una serie di pratiche, tipicamente associate alla femminilità o alla mascolinità non egemoniche, è letta come qualcosa che sta cambiando positivamente la società, e Anderson sostiene che la diffusione delle mascolinità inclusive, avrebbe per esempio, prodotto una diminuzione dei livelli di omotransfobia tra i giovani uomini rispetto al passato, è un aumento anche della capacità delle proprie espressioni rilevati da una serie di studi psicologici. Qual è il problema della prospettiva delle mascolinità inclusive? È che la maggior parte di ricerche che abbiamo sono state condotte su giovani uomini con elevatissimi livelli di istruzione, ovvero giovani maschi americani che frequentano il college e che quindi rappresentano una fetta abbastanza limitata della popolazione maschile nel suo complesso. In realtà la rappresentazione di mascolinità non egemoniche nei prodotti culturali non produce per tutti gli uomini una reazione di apertura, ma anzi in alcune categorie porta a comportamenti totalmente opposti, ad un’idea di doversi difendere dall’ “ideologia gender”.  Prospettiva pessimista: si tratta della prospettiva delle mascolinità ibride, un po’ più complessa, che si pone in un’ottica molto più critica, molto meno ottimista rispetto a quella delle mascolinità inclusive. Interpreta le trasformazioni che stiamo osservando in un modo molto più critico, sostenendo che le nuove mascolinità che vediamo sempre più presenti rappresentate a livello culturale, stanno semplicemente creando un nuovo ordine di genere, una nuova mascolinità egemonica. Questo concetto è stato elaborato in un articolo del 2014, in cui si parla di una selettiva incorporazione di performance ed elementi identitari associati a mascolinità marginalizzate o subordinate e con la femminilità, esempio: uomo che si trucca. Questa prospettiva presta attenzione alle dimensioni di potere e disuguaglianza, in sintesi quindi ci dice che non tutti gli uomini hanno le stesse possibilità di diventare maschi inclusivi, perché questa possibilità dipende da fortemente dalla classe sociale e dal capitale culturale. Selezionare selettivamente alcuni elementi delle mascolinità non egemoniche, dipende dalla tua posizione di potere. In questo tipo di mascolinità, l'incorporazione è selettiva e controllata, cioè non prendiamo tutto, prendiamo quel che basta, ma manteniamo tante altre cose che enfatizzano la nostra mascolinità. Sottolinea appunto che la possibilità di essere maschi inclusivi, dipende dalla classe sociale e dal capitale culturale, che alcune pratiche simboliche della mascolinità non egemonica, sono incluse e altre sono escluse. Esiste un’inclusione fittizia che si limita ad elementi stilistici e non ad una reale presa di posizione rispetto all’ordine dei generi, quanto piuttosto ad una cooptazione di alcuni elementi stilistici di mascolinità non egemoniche, che vengono anche cooptate dal mercato. Perché la prospettiva delle mascolinità ibride è particolarmente interessante? Perché evidenzia che l'obbiettivo primario dell’egemonia è quello di rendersi naturale, rendersi invisibile, l’egemonia funziona meglio quando non la vediamo. “La più forte delle ideologie è quella che non richiede il complice silenzio” dice Bordeaux, quindi l’egemonia si deve nascondere per essere efficace. Demetriou “la migliore strategia che l’egemonia può porre in essere, per sopravvivere, è quella di adattarsi al mondo che la circonda, ibridandosi di ciò che non è egemonico per nascondersi ancora meglio”. Si deve adattare. Nel momento in cui l’iper virile di Mitch diventa problematico, l’egemonia deve inglobare elementi delle mascolinità non egemoniche. Nel momento in cui il mondo si pluralizza e diverse mascolinità diventano più visibili e più forti, più evidenti, l’egemonia può sopravvivere solo appropriandosi di alcune caratteristiche di mascolinità non egemoniche. Le mascolinità ibride secondo Bridges, utilizzano 3 principali meccanismi/processi, attraverso cui si manifestano:  Primo: “Discursive Distancing,” cioè Presa di distanza discorsiva, una modifica della prossimità relazionale, che si realizza quando vengono prese le distanze dalle maschilità che sono state oggetto di una critica femminista senza però aderire ai valori del femminismo. Quindi da un lato si dice che non ci si riconosce in una serie di mascolinità aggressive e competitive, ma non si aderisce alla prospettiva del femminismo. La mascolinità ibrida si distanzia dalla mascolinità egemonica che è più superficiale che reale. SLIDE per link articolo da leggere e statistiche sul lavoro domestico.  Secondo: Strategic Borrowing, “prendere strategicamente in prestito”, questa mascolinità permette agli uomini tendenzialmente egemonici, bianchi di classe media etero, di prendere strategicamente in prestito elementi stilistici delle mascolinità non egemoniche senza soffrire forme di discriminazione. Esempio: se si truccava Jonny Depp nessuno si scandalizzava, adesso sì. Si realizza quando un uomo vicino all’egemonia, che ha un maggior parte dei modelli di mascolinità egemonica, e l’enfatizzazione dell’eteronormatività, ovvero l’idea che l’eterosessualità sia l’unico comportamento normale, è altrettanto centrale nella mascolinità egemonica; dunque un uomo, per essere considerato tale, deve dimostrare continuamente la sua eterosessualità. Per farlo deve distanziarsi da ciò che è percepito come femminile, e in questo senso l’identità gay diventa un principio di differenziazione, cioè diventa un modo per costruire la propria identità in termini avversivi. Che cosa è associato, come stereotipi, alle identità gay? L’essere effemminati, il vestirsi di rosa, il parlare con una voce acuta, le movenze non mascoline. In questo senso l’omotransfobia diventa un meccanismo attraverso cui differenziarsi dal contrario e ribadire la propria identità maschile. David Plummer, in una ricerca condotta sui giovani uomini all’interno delle scuole medie americane, evidenzia che già in giovanissima età i ragazzi cominciano a parlare di sessualità attraverso la denigrazione sistematica dell’omosessualità. C.J. Pascoe nel 2007 pubblicò uno studio sulle scuole superiori americane, chiamato Dude, you are a fag. Masculinity and Sexuality in High School, dove dimostrava la frequenza attraverso cui l’identità gay era utilizzata in termini avversivi per rinforzare la propria identità mascolina. Nella maggior parte dei casi quello emerge dalle ricerca condotte all’interno dei masculinity studies è che questi insulti non si riferiscono al reale orientamento sessuale della persona insultata, quanto più al fatto che un certo comportamento è da considerarsi una roba da femmine, eccessivamente femminile, quindi debole e subordinato. In questo senso l’omotransfobia serve ad affermare un ordine gerarchico e a riaffermare la propria mascolinità. È però anche espressione di una fragilità maschile, di quella continua richiesta di riaffermarsi come uomini; è importante calorie ciò per scardinare i meccanismi che portano all’omotransfobia. Nel 2019 Guizzardi e Trappolin fanno una ricerca su ragazzi e ragazze delle scuole superiori italiane, da cui emerge che l’omosessualità risulta molto più problematica per i ragazzi rispetto a quanto non lo sia per le ragazze. In particolare, quasi un terzo del campione maschile considera l’omosessualità come una malattia (28,1%), dello stesso parere è solo il 12,4% del campione femminile. Inoltre più di un terzo dei maschi (34,8%) si rapporto con l’omosessualità in termini conflittuali esprimendo nei confronti delle persone gay odio (22,6%) e repulsione (12,2%), mentre questo stessi atteggiamenti sono riservati alle ragazze lesbiche solo nel 9,8% dei casi. Viceversa, guardando al campione femminile si nota come le ragazze mettono in luce un rapporto decisamente meno conflittuale nei confronti della differenza che attribuiscono ai gay: solo nel 9,9% dei casi si dichiarano sentimenti di odio e repulsione nei loro confronti. Per quanto riguarda il rapporto con il lesbismo, le ragazze che esprimono odio o repulsione raggiungono il 13,5% del totale. Perché l’omosessualità maschile rappresenta un problema maggiore rispetto al lesbismo per i giovani uomini? Perché le mascolinità subordinate mettono in discussione l’ordine dei generi, quello che la mascolinità gay rappresenta è un rischio per la mascolinità egemonica. Il lesbismo, dato che è qualcosa fatto dalle donne, che sono già subordinate nella scala gerarchica, non rappresenta così tanto un pericolo per l’ordine dei generi quanto possono farlo le mascolinità gay. In un ordine dei generi in cui la mascolinità è al vertice quello che succede a livello femminile è meno “importante”, meno “pericoloso”. Kimmel dice che “La maschilità deve dunque essere dimostrata, e, appena dimostrata, è nuovamente messa in discussione e va difesa un’altra volta […]. La maschilità viene definita più in termini negativi (ciò che un uomo non è) che in termini positivi (cosa egli è). […] Gli uomini hanno paura degli altri uomini. L’omofobia è il principio organizzatore centrale della nostra definizione culturale di maschilità […]. L’omofobia tra origine dal timore che altri uomini possano smascherarci, mettere in discussione la nostra maschilità, rivelare al mondo e a noi stessi che non siamo all’altezza del nostro ruolo, che non siamo veri uomini”.  Violenza di genere: Se diciamo che la mascolinità si struttura attraverso un processo di distanziamento e dominazione del principio femminile, è intuibile il collegamento tra la costruzione di un certo tipo di mascolinità e violenza di genere. Fred Pelka, vittima di violenza sessuale, descrive la violenza sessuale dicendo che “L’assalto è un atto di presa di controllo, un’espressione di potere e una rivendicazione della propria forza o virilità”. La violenza contro le donne, nell’ambito degli studi sulla mascolinità, emerge come la combinazione di una serie di fattori socio-culturali, tra cui: -La necessità di provare la propria mascolinità. Jeremy Posadas scrive che “La paura di essere percepiti come femminili e, quindi, inferiori, spinge gli uomini ad agire nel modo più maschile che conoscono”; se si pensa ai processi di socializzazione di genere, la violenza rappresenta una costante (es. corsie di giochi per bambini piene di pistole, oggetti che esprimono violenza, videogame violenti). La questione della violenza maschile in questo senso si collega quindi ad un processo di socializzazione che parte dall’infanzia e che inizia attraverso piccoli eventi che collegano la mascolinità alla possibilità dell’uso della violenza. Emerge come collegato a quel -Processo di dominazione della femminilità quale elemento di costruzione dell’identità maschile. E si collega poi a quello che in letteratura è stato definito come -Male entitlement (o sense of entitlement maschile), espressione non completamente traducibile in italiano che rimanda alla sensazione di avere un diritto. In questo caso, quando parliamo di male entitlement, si tratta di una sensazione di avere un diritto sul mondo, e in particolare sulle donne. Anche il male entitlement è frutto di un processo di socializzazione all’interno di una cultura che costantemente ti ricorda che “il mondo è fatto per te”, che il mondo è costruito attorno a te. Si collega a tanti atti e messaggi che diamo per scontati, a tutte quelle micro forme di socializzazione, per esempio quando a casa il padre non si alza per sparecchiare, ma lo fa la madre. Un altro esempio: nella cultura pornografica, l’idea che il piacere femminile sia funzionale a quello maschile. O l’assumere che una donna sia lesbica solo perché non ci sta. Queste sono tutte espressioni della sensazione di avere un diritto di possesso sul mondo. Quindi il male entitlement si acquisisce nel tempo attraverso una serie di rinforzi culturali diretti e indiretti che spesso vanno a coinvolgere anche il piano mediatico, che riproducono i tradizionali ruoli di genere, che rendono la donna e tutto ciò che circonda l’uomo più in generale come funzionale all’uomo stesso. Possiamo fare riferimento anche a delle forme mediatiche attraverso cui si va a stigmatizzare eventuali forme di ribellione, per es. diversi telefilm RAI in cui le donne inventano stupri per vendicarsi dell’uomo in questione -> quando questo messaggio viene ripetuto da tre serie diverse in un anno è problematico, perché stigmatizza eventuali forme di ribellione al diritto maschile di possesso del corpo femminile. Un altro esempio di male entitlement è il cat calling. - Una serie di posizioni politiche. Nel 2013 Kimmel pubblica Angry White Men (ripubblicato poi nel 2017), un libro che predice l’elezione di Trump attraverso una serie di analisi su differenti fenomeni nel contesto statunitense (mass shootings, gruppi suprematisti bianchi, il movimento dei men’s rights, quello dei fathers’ rights): intervistando uomini che partecipavano a queste realtà o analizzando le dichiarazioni di persone che avevano compiuto omicidi di massa, Kimmel cerca di vedere il collegamento che c’è tra la crescita del razzismo e del populismo e la mascolinità; nota in particolare come questi sentimenti e queste posizioni politiche si manifestino con maggiore evidenza tra i maschi bianchi della classe media americana. Collega quindi, all’interno di questo testo, la crescita del razzismo e del populismo ad una mobilità discendente che i maschi bianchi della classe media americana stavano conoscendo sul piano economico, e che questi uomini interpretavano come l’effetto di una serie di leggi che favorivano l’uguaglianza sociale, l’emancipazione femminile e della popolazione di colore. Collegano quindi la propria caduta sociale e il ridimensionamento delle proprie possibilità di vita all’aumento delle opportunità per altre categorie sociali; in particolare, l’aumento di sentimenti populisti e razzisti viene collegato da Kimmel ad una discrepanza tra ciò su cui questi uomini sentivano di avere di diritto e la loro reale condizione. È un meccanismo simile a quello degli anni ’80, quando nascono i Men’s rights, che evidenziavano ai tempi una crisi della mascolinità data anche ad esempio dalla diminuzione dei tassi di occupazione maschili perché negli Stati Uniti erano finiti i finanziamenti all’industria del dopoguerra. E anche tra il 2010 e il 2013 negli Stati Uniti si realizza uno scenario simile, che va a penalizzare le possibilità lavorative di uomini che non si erano mai preoccupati della loro collocazione occupazionale. A partire appunto dall’idea che razzismo e populismo rispondano ad una sensazione di essere stati derubati del sogno americano - sogno prettamente maschile – Kimmel elabora il concetto di aggrivied entitlement, un diritto percepito come acquisito per nascita che veniva dato per scontato.
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