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Generare, partorire, nascere. Una storia dall'antichità alla provetta di Nadia Maria Filippini, Sintesi del corso di Storia Moderna

Per la prima volta in Italia, il volume ricostruisce la storia del parto e della nascita in Occidente dal mondo antico ai nostri giorni, analizzandone gli snodi e i cambiamenti più significativi: la fondazione del discorso medico-scientifico nella Grecia antica, la svolta impressa dal cristianesimo, l'affermarsi della figura del chirurgo-ostetrico nel Settecento, la medicalizzazione del parto, fino alla rivoluzione delle tecnologie riproduttive del Novecento. In un percorso appassionante riperco

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 07/02/2020

luisa_chirila
luisa_chirila 🇮🇹

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Scarica Generare, partorire, nascere. Una storia dall'antichità alla provetta di Nadia Maria Filippini e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta- Nadia Maria Filippini INTRODUZIONE La storia del parto rappresenta un capitolo fondamentale della storia delle donne non solo per l’evidente ragione che le donne partoriscono e partorivano nel passato con una frequenza assai maggiore del presente, passando molti anni della loro vita feconda in stato di gravidanza. Dunque il parto era un evento che incrociava frontalmente la biografia femminile. Per secoli l’essere donna ha coinciso con l’essere madre. La maternità era espressione dell’identità sessuale. Su questo si misurava il valore femminile, la posizione e il ruolo della donna nella famiglia, in alcune società perfino il suo ingresso effettivo in quella del marito. Forte controllo da parte dell’istituzione ecclesiastica e di quella politica. Poteri molteplici hanno agito e interagito sul corpo femminile fecondo in modo diverso nel corso del tempo, ci sono diverse teorie e concetti riguardo il corpo femminile, la gravidanza e la stessa scena del parto furono per secoli campo di invisibili battaglie volte ad affermare gerarchie professionali e primati discorsi. Gli scontri che hanno investito negli ultimi decenni la questione dell’aborto, o quella della fecondazione assistita, non sono una peculiarità dei nostri giorni, ma un elemento nella storia, specialmente contemporanea. Le donne non sono state solo degli oggetti passivi nella storia poiché hanno attivato forme di solidarietà femminile e complicità, dato via ad alleanze temute e segrete per aggirare le norme e ricavare spazi di autonomia e diritto. La storia del parto e della nascita non si iscrive solo in quella sociale e istituzionale, ma nel più ampio orizzonte di quella culturale, della mentalità e religione, inoltre sia il parto che la nascita rappresentano facce diverse dello stesso evento. Esiste una continua rappresentazione della maternità con varie sfaccettature. Nel libro vengono analizzate e i diversi pensieri che si sono sviluppati nel corso dei secoli. Viene analizzato il piano dell’immaginario, delle paure, delle ossessioni; i sospetti di pratiche magiche, stregoneria, infanticidio, fenomeni che hanno percorso e ossessionato il pensiero occidentale. I luoghi, le pratiche, le figure e i rituali che accompagnano la gravidanza, il parto e la nascita sono insomma il frutto di una serie complessa di fattori, analizzando non solo la storia delle donne ma anche quella sociale e culturale. Si è messo in luce le rappresentazioni culturali e oltre che quelle medico- scientifiche integrando il piano dei rituali con quello delle pratiche terapeutiche. Si è cercato di cogliere il vissuto delle donne. Si va dal mondo antico all’età contemporanea per i molti elementi di continuità che esistono tra il mondo greco- romano e quello medievale non solo sul piano medico – scientifico ma anche quello della rappresentazione e delle pratiche, malgrado alcuni significativi cambiamenti introdotti dalla religione cristiana. Sono state segnalate anche certe credenze, quest’ultime nonostante il loro abbandono dal pensiero colto rimangono in vigore nella tradizione popolare assai più a lungo, fino al Novecento e perfino ai nostri giorni. 1. RAPPRESENTAZIONI CULTURALI Solo il corpo femminile possiede la capacità di sdoppiarsi e mettere al mondo mantenendo la propria unità. Tuttavia, questo fatto non ha trovato nella cultura occidentale un’iscrizione simbolica o un adeguato rilievo a livello rappresentativo. Ci fu una corposa costruzione culturale, le cui basi affondando nella cultura greca, ha teso a sminuirne il valore in diversi modi. Alla capacità della donna di partorire è stata opposta quella maschile di genere. Traspare in queste operazioni culturali un’inconscia invida nei confronti di una prerogativa esclusivamente femminile. Ne è discesa una dicotomia generazione/parto, corpo mente/mente, maternità/guerra che ha profondamente permeato la cultura occidentale (largamente influenzata dal pensiero greco) caratterizzando il genere. La religione cristiano ha attuato un profondo cambiamento dal punto di vista simbolico. Il mistero dell’incarnazione ha posto al centro nella rappresentazione sacra la nascita, del tutto marginale nel mondo antico, e ha esaltato la figura della Vergine Maria, ma a questo si è intrecciato una costruzione teologica volta a epurare dalla sua figura le tracce della maternità corporea. Esonerandola dai dolori del parto, del sangue e dalle sofferenze. È la scena della nascita a esser esaltata, non quella del parto. È il bambino che viene al mondo, non la madre nell’atto di darlo alla luce. Ciò che viene valorizzato della maternità nel cristianesimo con un’accentuazione sempre più forte nel passaggio tra medioevo ed età moderna, è soprattutto l’aspetto spirituale o la funzione materna. Lo stesso termine maternità nasce con questa accezione: viene coniato in ambito ecclesiastico nel XII secolo per indicare la maternità simbolica che lega la Chiesa, sposa di Cristo, ai suoi fedeli. La maternità corporea con tutti i suoi attributi viene lasciata sempre di più lasciata sempre più nell’ombra e caricata di valenze negative, come qualcosa di animalesco e vergognoso. Sul parto permane l’impurità. Si è consolidata così una frattura destinata a perdurare a lungo nei secoli tra due aspetti dello stesso evento. C’era un’esaltazione della maternità come ruolo e funzione da un lato con una forte svalutazione della maternità corporea e dunque del parto dall’altro. Partiamo dalla fecondazione e vediamo prima di tutto le sue rappresentazioni e metafore. Un’analogia profondamente radicata nella cultura occidentale ( ma riconcorrente anche in culture) ha collegato il corpo della donna alla terra lungo la linea della fertilità. La donna era terra, come la terra accoglieva e custodiva il seme, lo nutriva e lo faceva germogliare in un periodico generare. Altre analogie erano il vaso o il forno. La donna rappresentata come la terra, è stato un elemento metaforico che si snoda come un filo rosso attraverso i secoli in una larghissima continuità. Page Dubois ha individuato un’importante ricodificazione metaforica nella Grecia del V secolo, destinata a permanere a lungo nel tempo. Nei secoli precedenti la terra era assimilata al corpo femminile era spesso descritta come un territorio vergine che produceva spontaneamente ogni nutrimento per gli uomini, nelle rappresentazioni successive essa diventa piuttosto un campo, cioè uno spazio segnato dalla cultura e dalla fatica dell’uomo. La donna venne rappresentata come una proprietà del contadino – marito, il quale ara e semina il suo campo per produrre frutti che gli appartengono. La variazione metaforica rende il contro di una profondo cambiamento della società greca. Evidenziano il primato del rapporto patrilineare rispetto a quello matrilineare, cioè la maggior rilevanza del rapporto padre – figlio/a. La madre era vista solo come una mera ospite dell’embrione. Quindi, ne risulta ribadito il legame di sangue che unisce in maniera diretta i figli al padre, non alla madre che li ha partoriti. Pertanto, c’era appunto la priorità del legame paterna, come sosterrà Aristotele, il quale darà basi scientifiche a queste rappresentazioni. La metafora della terra (donna) e del seminatore (uomo) viene utilizzata non solo in campo letterario – Page Dubois -ma anche in quella medico – filosofico. Dal mondo greco, passa a quello romano e successivamente in quello medievale e moderno. Seguendo l’evoluzione metaforica, quando il seme si sviluppa, diventa fiore e frutto e cosi viene chiamato appunto il feto che si sviluppa fecondi nello spirito e anche la mente ha bisogno di un accoppiamento spirituale per generare, cioè di una bella persona che consenta di portare alla luce le cose concepite in una comunione spirituale feconda. Da un lato dunque sta la riproduzione, dall’altra la produzione dello spirito, collegate da una specularità analogica che segna tutte le fasi. I nati di donna secondo questa filosofia sono destinati alla morte; i nati di donna infatti sono destinati alla morte; i figli della mente invece sono immortali. Dunque la riproduzione maschile è la sola che possa garantir l’immortalità, mentre quella corporea femminile rivela la sua limitatezza. La colpa originaria della donna risulta essere proprio quella di mettere al mondo figli imperfetti e destinati alla morte. A questo si aggiunge una forte radicale convinzione dell’inferiorità femminile. Infatti una figura femminile doppiamente feconda, nel corpo e nella mente, sarebbe risultato all’immaginario maschile troppo potente e dunque minacciosa, accentuando l’invidia e paura inconscia che sta alla base di queste elaborazioni. Il parto di Zeus, cioè la nascita di Atene, è un mito per molto aspetti emblematico per la sua polisemia simbolica, che esprime allo stesso tempo l’invidia nei confronti della capacità riproduttiva femminile, la volontà maschile di impossessarsene e il desiderio di una filiazione sottratta alla mediazione del corpo delle donne. Le nascite divine erano straordinarie poiché le divinità nascevano dalla testa o dalla coscia, come Dioniso. In questo senso la nascita di Atene, che viene al mondo dalla testa di Zeus, non fa eccezione. Il parto/ la guerra: il parto come guerra Dicono che noi donne, vivendo in casa viviamo senza pericoli e l’uomo ha i pericoli della guerra. Ragionamento insensato. Vorrei tre volte trovarmi nella battaglia anziché partorire una volta sola. Euripide - tragedia Medea. Questo è un discorso molto complicato, nel quale si denuncia l’infelicità delle donne, motivandone le ragioni, a partire da quell’aver nel marito un padrone da esse stesse comprato con la dote. Un discorso facente parte di un ragionamento sulla subordinazione e le sofferenze delle donne, nel quale rientra anche il parto come esperienza specificatamente femminile. Si assimila il parto alla guerra, Medea pone in campo una rappresentazione di genere radicata nella cultura greca, secondo la quale tra le due esperienze esisteva una vicinanza non legata alla solo evidenza che fossero le donne a mettere al mondo i guerrieri ma ci sono dietro complesse corrispondenze. In sostanza il parto stava alla donne come la guerra era per gli uomini. Questo dimostrava il loro valore, identità e prova della loro natura. Il parto era la guerra delle donne e questa metafora attraversa la cultura occidentale da un lunghissimo tempo, durante il quale si rappresentano i generi. Questa correlazione era riproposta nel mondo greco in diverse forme. Parto e guerra erano anche accomunate dalla stessa parola: ponos. Quest’ultima parola era usata per designare sia i dolori del parto ma anche per indicare una lunga guerra come quella di Troia. Di una donna in travaglio si diceva che lottava contro i dolori del parto. Anche il dolore di un combattente ferito in battaglia poteva essere assimilato a quello di una donna in travaglio. Il parto era come una lotta. Una donna attraverso il parto dimostrava la sua forza e il suo valore. Una donna dimostrava di essere veramente tale solo con la maternità e la nascita di un figlio, in Grecia, suggellava il matrimonio e l’entrata della moglie in quella del marito. Analogamente il marito dimostrava il suo coraggio e valore combattendo. UOMO=GUERRIERO, DONNA=PARTO. A rimarcare l’analogia, va sottolineato che entrambi gli avvenimenti si svolgevano in un gruppo separato di genere: alla guerra partecipavano solo gli uomini, al parto solo le donne (costante che rimane invariata fino al Seicento, momento in cui anche gli uomini possono assistere alla scena del parto). Tuttavia, l’infrazione dell’uno o dell’altra comportava sospetti e accuse di stregoneria. Allo stesso modo veniva compreso anche l’onore nei due casi. Pari onore era attribuito alle donne che morivano di parto, anch’esse immortalate con il nome sulla tomba. Pure il soldato morto in guerra e la donna di parto erano distinti da una particolarità: quella di veder raffigurata la loro morte nei rilievi funerari. L’uomo e la donna risultavano dunque distinti da due capacità opposte e speculari. La donna mette al mondo e l’altro di dare la morte. Gli studi antropologici hanno messo in luce come l’identità maschile si fondi, fin dai primordi dell’umanità, sulla capacità di combattere contro animali e uomini ( caccia e guerra) cioè di confrontarsi con la morte. Secondo Walter Burkert spiega come nel mondo antico “caccia, sacrificio e guerra” sono simbolicamente interscambili. Medea nell’omonima tragedia si lamenta del fatto che al parto non fosse attribuito lo stesso valore riconosciuto al combattimento, che le donne venissero di condurre una vita sicura e tranquilla nella casa, di vivere senza pericoli, un’accusa rincorrente nella letteratura e filosofia. Medea con tale metafora vuole denunciare lo squilibrio in termini di valorizzazione sociale. Qua si tocca uno degli aspetti caratterizzanti della cultura greca. Esaltazione della battaglia che fa del guerriero l’eroe per eccellenza. Invece la guerra delle donne quella combattuta nel chiuso delle case, per dare la vita e non la morte, resta esclusa dal racconto pubblico, dalla raffigurazione e dalla sfera pubblica. Pertanto, il parto e la guerra sono sempre state componenti essenziali della rappresentazione di genere a seconda delle epoche e dei contesti. Per esempio la si può ritrovare nel linguaggio medico: nella disputa sul taglio cesareo, nel Settecento viene utilizzata dai fautori dell’intervento per sostenere il dovere del sacrificio materno, in analogia con quello dei soldati. Anche nella cultura popolare del nord dei tempi recenti si afferma: Il parto non è per la donna quello che la guerra è per l’uomo? All’inizio del 900 ritroviamo i racconti autobiografici delle contadine che descrivono il parto come una guerra e una sfida mortale nelle peggiori situazioni. In Nietzsche esiste una forte correlazione della donna come madre e l’uomo come guerriero. La donna è il riposo del guerriero e la madre dei suoi figli poiché la guerra sta all’uomo come la maternità alla donna. Attorno a queste due figure si incentra la visione del fascismo, ossia la donna come madre e uomo come guerriero. S’incentra attorno a questa visione il progetto fascista nazionalista. La sofferenza del parto è stata rielaborata sul piano culturale come sul versante filosofico- scientifico. Questa tematica fu analizzata da molti, tra cui Aristotele. Egli affermava che le fatiche della gravidanza e le doglie del parto fossero legate alle abitudini di vita delle donne, all’eccessiva sedentarietà che causava un dannoso ristagno dei residui, affermando che le donne abituate a faticare partoriscono con una più facilità. Questa tesi sarà ripresa, a distanza di secoli, soprattutto nel 700 ma non solo. In seguito in base alle errate interpretazioni degli antropologi nelle colonie africane, che scambiarono il silenzio delle partorienti come assenza di dolore, come un dato fisiologico non culturale. A questo nel passato si è intrecciato il pensiero religioso, secondo cui i dolori del parto risultavano cosi iscritti nella volontà di Dio, come disposizione soprannaturale che accomunava tutte le donne alla loro prima madre Eva. Non solo la sofferenza risultava pertanto ineludibile ma richiedeva piena accettazione. Questa concezione si conserva e si arricchisce di ulteriori elementi nel passaggio alla religione cristiana, soprattutto dopo il IV secolo, quando si intensificano misoginia e disgusto per la sessualità. Polarizzazione tra uomini e donne sempre più accentuata poiché nel Medioevo si enfatizzano le colpe di Eva, prototipo del genere femminile, la sua maggiore responsabilità nel peccato originale, la sua debolezza e fragilità morale. La colpa di Eva si caricava di risvolti attinenti alla sfera sessuale, a quel peccato che la spingeva a cercare l’uomo. Attraverso i dolori del parto la donna espiava in tal modo non solo la disubbidienza originaria, ma quel peccato carnale che risultava essere una delle prime conseguenze della caduta. La chiesa dunque invitava le donne ad accettare pienamente i dolori del parto come espiazione delle loro colpe. Perfino la morte nel parto rientrava in questo orizzonte, come suprema espiazione del peccato carnale. La correlazione colpa/sofferenza/espiazione viene ripresa nel Settecento anche all’interno delle dispute teologiche sulle pratiche ostetriche in particolare quando si doveva scegliere tra la vita della madre o quella del bambino come argomento a favore della vita di quest’ultimo: le stesse difficoltà del parto insomma erano interpretate come segnali di volontà divina, punizioni speciali per colpe individuali. Simile argomentazioni sono riprese anche in campo medico, secondo il quale la madre partoriente era soggetta a tanti affanni per il peccato originale. Si sosteneva il sacrificio della madre, in questo modo nella cultura occidentale la sofferenza è stata strumentalizzata: nel senso che è stata vista come insita a una natura regolata dalla legge divina, quindi come dato immutabile e fisso. Una donna che avesse partorito senza sofferenza, soprattutto il primo figlio, sarebbe risultata sospetta di rapporti con il demonio. Questa prospettiva ha avuto pesanti ripercussioni anche in campo medico – scientifico, distogliendo la ricerca sia dall’indagine sulle cause del dolore, sia messa a punto di tecniche e farmaci atti a contrastarlo. Si dovrà aspettare l’illuminismo e poi il positivismo perché si registri un cambiamento di tendenza e solo a partire dalla metà dell’800 sarà apertamente avviata, nei paesi anglosassoni e poi comunisti, la sperimentazione di pratiche e tecniche volte ad alleviare i dolori del parto. Una simile rappresentazione ha alimentato per secoli un’esaltazione della sofferenza che appare come una delle caratteristiche più rilevanti della cultura del parto in area occidentale e che sua volta enfatizza e sostanzia una rappresentazione del femminile in senso sacrificale. La si ritrova nei racconti autobiografici di molte donne nel primo Novecento: stava alla base di battute sadiche che circondavano la partoriente. E perfino negli anni 90 viene riproposta in alcune correnti favorevoli al parto naturale che esaltano la sofferenza come un’esperienza preziosa delle donne, il passaggio positivo della maternità, decidendo in tal modo il destino delle donne a un’inesorabile condanna. Il cristianesimo introduce una profana rottura con il mondo antico per quanto riguarda la rappresentazione della nascita: il mistero della reincarnazione di Dio pone infatti l’evento al centro della scena religiosa. Il dies natalis di Gesù, fissato nel VI secolo nel periodo degli antichi Saturnali romani, diviene assieme alla Pasqua, a partire dal XII, una delle più importanti feste liturgiche. Con il cristianesimo dunque la nascita acquisisce una rilevanza e una valenza simbolica insistente nel mondo greco – romano. Non così avviene in merito al parto, il quale non solo continua a non essere raffigurato ma diviene anzi oggetto di una vera e propria rimozione simbolica nella costruzione teologica della maternità verginale di Maria. La Madonna infatti concepisce “senza conoscere uomo” e mette al mondo Gesù Cristo restando vergine: l’esaltazione della nascita s’intreccia con la cancellazione simbolica del parto e la maternità viene epurata dai suoi tratti corporei. Maria è madre, ma non partorisce come le altre donne: parto e nascita vengono distinti con un’operazione culturale che attribuisce loro una differente valenza. Questa operazione è pensiero medievale e moderno. C’erano i più variati svariati metodi empirici che ogni cultura aveva messo a punto sia per appurare lo stato di gravidanza, che per indovinare il sesso del nascituro. Ma la prova decisiva era una sola: la percezione di movimento del bambino, che si poteva avvertire, secondo Ippocrate, in tempo differenziati a seconda del genere del feto. Era la donna stessa ad avere certezza della gravidanza dall’ascolto di quanto avveniva nel suo corpo: era lei a comunicarlo alla famiglia e alla comunità e questa parola aveva una rilevanza giuridica, dal momento che a partire dal diritto romano, la madre trasmetteva al suo frutto la propria condizione di libera o schiava non al momento del concepimento o della nascita, ma durante la gravidanza, anche se era la nascita a rappresentare il passaggio cruciale perché tale diritto diventasse effettivo. I medici si limitavano a registrare quanto la donna riferiva di aver percepito, a trarne indicazioni e suggerimenti terapeutici. Questo lo si può capire dalle testimonianze femminili di età moderna, che una recente ricerca storica ha raccolto negli archivi, dimostrano in effetti come le donne fossero attente a tenere il conto del loro ciclo, a registrare e a interpretare i cambiamenti del loro corpo. La medicina antica concepiva lo sviluppo fetale come il succedersi di fasi distinte e progressive, questo ancora dall’età greca con Sorano d’Efeso. Come aveva rimarcato Aristotele la durata della gravidanza era variabile; da sette a dieci mesi. Non c’era un termine fisso per la nascita come non vi era per la maturazione del frutto di un libero. Il cristianesimo coniugò questa concezione scientifica con la teoria dell’animazione del feto, cioè dal momento nel quale Dio infondeva l’anima nella sua nuova creatura. Fare un bambino perfetto voleva dire innanzitutto farlo maschio. La nascita di un maschio non realizzava solo le aspirazioni più profonde della società patriarcale, ma rappresentava anche, la forma più alta della generazione, essendo il corpo maschile il prototipo perfetto. I libri di medicina di ogni epoca sono ridonanti di suggerimenti sui modi atti a raggiungere questo scopo: coniugano teorie sulla fecondazione con credenze astrali, con poteri attribuiti alla farmacopea tradizionale. Il feto maschio rendeva bella pure la madre durante la gravidanza, migliorando il suo aspetto fisico. Tutti i sogni prognostici leggibili sul corpo materno erano di segno positivo, al contrario di quelli di un feto femmina se la pelle della faccia della donna era liscia e gravida. Attorno al feto c’erano molte credenze, come il potere riconosciuto all’immaginazione della madre o alle voglie delle donne. Di qui le raccomandazioni che ritornano in alcuni testi di medicina pratica, a soddisfare prontamente i desideri delle donne incinte, per prevenire danni sul nascituro. Ma pari passo con responsabilità e accentuazione, questo aspetto può determinare al contrario una colpevolizzazione della donna, con un cambiamento significativo di prospettiva nel corso del 600. In tale secoli vari autori insistono sull’inaffidabilità delle donne, interpretando le voglie come capricci e i desideri come indice di scarso autocontrollo. Solo alla metà del 700 cadrà definitivamente a fine secolo in sede scientifica, con l’affermarsi di un’altra idea dello sviluppo embrionale, all’insegna di una più marcata autonomia e indipendenza del feto dal corpo della madre. Nella tradizione popolare invece questa credenza avrà permanenza lunga, fino al Novecento. La gravidanza è una lunga navigazione in mare spesso burrascoso sul quale la donna incinta e il suo bambino vagano per lo spazio per nove mesi, scrive nel 600 il medico Francois Marceau con un’efficace metafora. C’erano molti consigli medici per salvaguardare la salute della madre e prevenendo l’aborto. Sorano distingueva le cure della gravidanza in tre fasi: quelle volte a conservare il feto, quella volta ad alleviare i disturbi e infine che quelle che servivano a preparare la donna a sopportare il parto. Particolarmente delicato era il primo stadio, quanto la gravida doveva evitare ogni tipo di eccesso di movimento o emozione, regolare la dieta. Raccomandazioni che Sorano indirizzava alla sua ricca clientela dell’aristocrazia romana e che vengono riprese nei testi successivi. La donna doveva mantenersi serena e allegra, doveva evitare tosse e vomito e i cattivi odori. Molti consigli anche sull’abbigliamento: non si dovevano indossare abiti troppi stretti, che comprimessero l’addome, tacchi troppo alti che compromettessero l’equilibrio, mentre si doveva far uso di fasce o cinture per sostenere il ventre negli ultimi mesi di gravidanza. Quanto all’alimentazione, si doveva eseguire una dieta equilibrata, non mangiando né poco, né troppo. Le donne incinte dovevano riguardarsi dalle temperature troppo calde, troppo fredde, che avrebbero alterato l’equilibrio degli umori, cercando di proteggersi dal vento e dalla pioggia. Nella seconda fase si doveva sfuggire agli eccessi. In realtà tutte queste raccomandazioni risultavano spesso erano evase nella realtà sociale. Le donne delle classi popolari continuavano a lavorare duramente e senza precauzioni, sia nei campi sia nella attività artigianali, come si denunciava nel 700. Altrettanto drammatica erano le fonti che testimoniavano le violenze sessuale, che spesso compromettevano la vita della donna e del feto. Giovanni Marinello, nel Le medicine partenenti alle infermità delle donne (1563) elenca tra le cause più frequenti di aborto le violenze sopra il luogo della matrice a causa di mariti violenti. Principalmente erano quelli della bassa classe del popolo e dei contadini a maltrattare le donne fino a portarle all’aborto. Esisteva un complesso sistema di divieti e obblighi di carattere rituale che variavano a seconda dei contesti e rimasti vivi nella tradizione popolare in molte realtà fino al primo Novecento, regolava la vita della donna incinta al fine di proteggere il bambino e garantirle un buon parto. Numerosi libri, diffusi tra 500 e 600 e diffusi da parroci e notabili con l’obiettivo appunto di dare alle donne del popolo. Ciò che è importante sottolineare è come il corpo della dona per tutta la durata della gravidanza fosse al centro di un forte controllo sociale pesantemente normato e costantemente sorvegliato, in primis dalla suocera, principale garante presso la famiglia e la comunità del rispetto delle regole. Una credenza largamente condivisa sia in ambito scientifico che popolare, dal mondo antico fino al Settecento, riteneva che le donne potessero concepire e mettere al mondo non solo bambini ma anche mostri o masse informi e carnose dette mole. Ciò di misterioso avveniva nel corpo femminile nel corso della gravidanza era oggetto di ipotesi o fantasie nelle quali si articolavano in maniera diversa a seconda delle epoche e dei contesti, rappresentazioni culturali, credenze religiose. La rappresentazione dei mostri non ha un evoluzione lineare, né progressiva. Fin dal mondo greco era accreditata anche in sede scientifica, l’opinione che potessero nascere esseri mostruosi, metà uomini e metà animali, a seguito della fusione di semi di specie diverse; un’idea che trovava riflesso nei miti che raccontavano di unioni di donne con vari animali. Tale concezione, fu all’origine della ferma condanna morale espressa dei teologi medievali, che inserirono gli accoppiamenti durante il ciclo tra i peccati mortali. Tuttavia, l’idea di una possibile generazione mista, contro natura, rimase radicata e variamente riproposta in sede scientifica anche in età moderna. Nella realtà sociale fin dall’antichità la nascita di una creatura gravemente malformata era sempre interpretata, analogamente ad altri fenomeni eccezionali come epidemie o siccità, come un segnale degli dei, i quali punivano gli uomini appunto anche nella procreazione con la sterilità e la nascita di mostri. L’essere deforme era immediatamente abbandonato e rifiutato, nelle acque o luoghi disabitati, più che ucciso perché si temeva che la sua anima potesse perseguire i viventi. Nel passaggio alla cultura cristiana, questa idea viene ripresa e ampliata, per sottolineare la fragilità morale insita nella natura umana: la nascita di un mostro era collegata alla decisione di Dio di inviare un segnale agli uomini e di punirli per i loro peccati, con accentuazioni che variavano nell’uno e nell’altro senso, a seconda degli autori e delle epoche. I mostri facevano parte di quel sistema di segni profetici che indicavano al tempo stesso la volontà di Dio e la sua collera. Le caratteristiche stesse della mostruosità erano ritenute espressione di colpe, che si potevano leggere nelle fattezze della deformazione, seconda una lettura somatica che si diffonde a partire dal medioevo. Particolarmente diffusa era la teratoscopia, cioè l’arte della divinazione attraverso i mostri. Spesso s’intrecciava anche a una visione apocalittica: la nascita di mostri era uno dei segnali della fine del mondo, secondo l’Apocalisse di Esdra. A partire dal 500 questi “esseri”, e soprattutto nel 600, erano visti come delle creature stupefacenti che orribili. Entravano a far parte al pari di stranezze e meraviglie della natura, con la loro esibizione nelle fiere e mercati delle città. Fenomeno che si intensificò in tutta Europa nel 500. Tutto ciò a causa di una visione scientifica e filosofica, secondo la quale i mostri erano visti in un’ottica più che positiva, come mirabilia, opere mirabili di una natura infaticabilmente creativa che generava anche nelle situazioni più strane e con tutti i materiali a sua disposizione questi esseri. Ovviamente spesso facevano la fortuna dei loro genitori e di chi gestiva le loro sorti. Nella seconda metà del 600 e soprattutto nel 700 tra le élite colte si afferma un nuovo approccio, all’interno di una ripresa della filosofia aristotelica; i mostri vengono cosi naturalizzati. Le cause della loro nascita rintracciate nella materia del concepimento, nell’anatomia femminile e dello sviluppo del feto. Il sentimento che suscitano non è più divertimento né orrore, ma piuttosto disgusto per la difformità che presentano. L’emergere di un discorso più rigorosamente medico e scientifico nell’analisi della cause porta a escludere l’intervento diretto di Dio e dall’altro a far cadere quell’ammirazione e divertimento che avevano dominato nel Cinque – Seicento. Dibattiti secolari suscitarono in sede scientifica, a più riprese le mole, una nozione di lungo periodo nella storia della medicina. A differenza dei mostri, queste erano prive di movimento, ma come i primi, erano ritenute frutto del deterioramento del prodotto del concepimento. La donna in questo caso presentava tutti i sintomi della gravidanza, anche se non percepiva i movimenti del feto, ma partoriva una massa informe, spesso dopo molti mesi o anni: oppure non partoriva affatto, pregiudicando cosi la propria salute. In questo caso le mole si solidificavano sempre di più. Erano giudicate molto pericolose, quasi sempre mortali per la donna. Insomma, sapere davvero cosa accadeva nel corpo del parto prima del parto era quasi impossibile. La fantasia popolare ricamava su questo fantasie che si coniugavano anche con l’immaginario dell’utero quale animale inquieto e autonomo all’interno del corpo femminile. Certe levatrici riferivano di aver visto mole che camminavo o volavano o che cercavano di tornare nella matrice una volta estratte. L’esistenza di mole e mostri poneva problemi non irrilevanti sul fronte della pratica del battesimo. I mostri erano da considerarsi creature umane o no?? Il battesimo infatti presupponeva che la creatura fosse umana e viva. La mola dunque non andava sicuramente battezzata, ma come ci si doveva comportare con i mostri?? L’orientamento che prevalse nel Concilio di Trento fu quello di battezzarli con la formula se sei uomo. quale si dava misura del proprio valore, della capacità di sopportare il dolore e di affrontare la paura. Un disvalore sociale marchiava le donne sterili o che non riuscivano a portare a termine la gravidanza, mentre rispetto e onore circondavano chi moriva durante il parto. Il parto era manifestazione del carattere individuale, ma al tempo stesso anche dell’identità sessuale; una donna non era veramente tale se non diventava madre. Questo evento realizzava le aspettative famigliari e sociali, ridefiniva la sua collocazione nella famiglia. Nell’antica Roma dopo aver messo al mondo tre figli le veniva concesso il diritto di astenersi dai rapporti sessuali con il coniuge. Prova dunque come rito di passaggio e le partorienti in questa battaglia non erano da sole poiché erano affiancate dalle levatrici e a partire dal basso medioevo medici e chirurgi iniziarono a intervenire in alcune città urbane in maniera limitata con particolari funzioni ma la gestione del parto rimaneva nelle mani della levatrici. Una figura maschile specializzata nell’assistenza al parto si diffonderà con varie periodizzazioni a partire dal 600 – 700 dal Nord Europa. Questa separazione di genere ribadiva il carattere identitario dell’evento. I padri come si è detto non assistevano alla scena del parto. Il secondo aspetto connesso al parto era la vicinanza dell’evento alla morte. La nascita e la morte, che al giorno d’oggi rappresentano due eventi inconciliabili e antitetici, erano invece concepite nel passato come due eventi vicini separati da un confine incerto e labile poiché la nascita era prossima alla morte e poteva facilmente in questa convertirsi, cosi come dare la vita poteva volere dire perdere la vita. Ogni donna arrivata al momento del parto ha la morte alla porta, si diceva nel medioevo. Madre e figlio, l’una nel mettere al mondo, l’altro nel venire al mondo erano esposti al rischio di scivolare nell’evento opposto. Un rischio non limitato al momento puntuale del parto ma esteso al puerperio. Anche la vita del bambino, legata a quella della madre. Le precarie condizioni igieniche nelle quali si svolgeva, specie in campagna e nelle montagne, cioè nella maggior parte delle situazioni, le stesse condizioni fisiche partorienti, spesso compromesse da denutrizione e rachitismo, erano fattori che incidevano sulla mortalità materna. Le statistiche riportano una percentuale di mortalità ( calcolata sul totale dei parti) oscillante tra l’1 e il 3% in antico regime. Per avere un’idea di cosa questo significasse davvero nella vita di una donna in termini di rischio, bisogna moltiplicare questo dato per il numero delle gravidanze, in media elevato (circa 5 parti): si ottiene cosi una percentuale variabile tra il 5 e il 15%, il che rendeva il parto una delle prime cause di morte femminile in età feconda. Di questo rischio le partorienti erano ben consapevoli come traspare dalle fonti materiali e scritte, dalle testimonianze del tempo di un passato anche recente. Un esempio può essere gli scritti delle classe aristocratiche mettono in evidenza la paura della morte e della sofferenza, appena confessata nelle corrispondenze più intime, seppur sempre intrecciata al senso del dovere e dell’accettazione. Non stupisce dunque che in età moderna, in città come Venezia, si fosse diffusa l’abitudine di fare testamento negli ultimi mesi di gravidanza. I registri notarili rimandano formule stereotipate e rincorrenti, nella quale si intravede la consapevolezza del rischio. Per questa evenienza concreta c’era anche l’abitudine di confessarsi e fare qualche preghiera e si intensificavano gli atti di devozione e di preghiere rivolte alle divinità. La preparazione al parto era dunque in primo luogo una preparazione religiosa: la partoriente chiedeva agli dei di aiutarla e lottare contro i dolori del parto o a dio di accettare le sue sofferenze e soprattutto di salvare la vita del bambino, come spesso si invocava nel mondo cristiano. Ma la vita quotidiana registrava in realtà pochi cambiamenti soprattutto per le donne dei ceti subalterni che continuavano a lavorare senza risparmiarsi fino al momento del parto anche se i medici erano contrari a sforzi e consigliavano di intensificare il riposo. L’identificazione dell’avvicinarsi del travaglio dipendeva ancora una volta dalla capacità della partoriente di leggere i segnali del corpo, tanto più all’interno di una concezione che considerava variabile la durata della gravidanza e in assenza di strumenti diagnostici. Le fonti testimoniano questa capacità delle donne. All’inizio del travaglio i bambini venivano subito allontanati, spesso alloggiati presso i vicini di casa, gli uomini si facevano da parte, il marito andava a chiamare la levatrice, mentre le donne preparavano la partoriente e la stanza. Questa preparazione aveva rituali simbolici e rituali, oltre che pratici. Si scioglievano tutte le cinture e i nodi che stringevano il corpo della donna. Il parto dunque è una liberazione, come indica apertamente il termine usato ancora oggi in alcune lingue (delivery) o come il verbo italiano sgravarsi che vuol dire appunto liberarsi di un peso. Liberazione della madre ma anche del bambino che cercava di uscire alla luce dopo essere stato in un posto angusto, quasi una prigione. Si preparava dunque la stanza attrezzata con gli oggetti indispensabili, si accendeva il focolare, vari oggetti scaramantici di cui ci dà dettagliate informazioni per il mondo romano Plinio. Si trattava di minerali e vegetali messi nella stanza o direttamente sul corpo della partoriente. Il travaglio era un percorso, a volte anche molto lungo (poteva durare qualche giorno) che si svolgeva in casa. Il locale era molto variabile, a seconda della classe sociale della partoriente ma pur sempre nel mondo occidentale (a differenza di altre culture) un luogo domestico, nell’accezione più ampia del termine. Gli ospedali di maternità si diffusero in Europa, nel secondo Settecento ed erano inizialmente riservati alle madri nubili e povere. Nelle case dell’aristocrazia romana veniva adibita una stanza speciale, dotata di un unico accesso, alla cui porta venivano messi di guardia tre uomini e tre donne liberi. Nelle case popolari si partoriva nella camera da letto, oppure d’inverno la cucina. Nelle campagne e in montagna più spesso le donne partorivano nella stalla, dove le famiglie trascorrevano anche le serate. Entrambe le tradizioni si conservarono fino al 900. Intorno alla partoriente stavano una serie di figure femminili ( famigliari, la suocera, le vicine di casa). Soccorrere la donna in travaglio era considerato un forte atto di solidarietà femminile. Il marito stava fuori dalla stanza, ad aspettare dietro alle quinte. Tuttavia in qualche raro contesto in età moderna, la presenza del marito è attestata anche durante il parto, a coadiuvare la levatrice, soprattutto in condizioni di isolamento. Un discorso a parte merita il parto a corte, dove la presenza del padre è al contrario ben documentata data la rilevanza della nascita dell’erede, cui erano connessi diritti di successione e la stessa stabilità politica, il parto assumeva una forte connotazione politica. Era regolato da un cerimoniale e seguito da un gran numero di persone e controllato dagli alti funzionari cui spettava il compito di verificare l’identità e la legittimità del neonato. La partoriente inoltre non era veramente libera poiché si adeguava alle consuetudini vigenti, suggerite da chi l’assisteva (esempio può essere la posizione del parto) La scena del parto era caratterizzata da una folla di donne ma anche di voci e grida. L’espressione del dolore non era repressa, anzi rientrava nel rituale, non solo era culturalmente accettata ma perfino incentivata nell’Europa cristiana. Anche in questo caso la ragione culturale è evidente: poiché la sofferenza del parto rappresentava la punizione del peccato originale e ogni partoriente doveva accettarla come espiazione, chi avesse partorito senza sofferenza sarebbe risultato sospetta, contravvenendo alle legge di Dio. Le partorienti dunque gridavano forte e le loro grida si sentivano nel vicinato accentuando da un lato il carattere semi – pubblico e dall’altro riperpetuando cosi modelli di comportamento. C’era una forte accentuazione drammatica anche negli stessi racconti autobiografici. Questa espressività avesse anche un’altra funzione, ben nota alle levatrici, ossia quella di esplicitare la paura. In questo senso poteva essere liberatoria e positiva. Questo dato culturale che caratterizzava i paesi europei fu alla base di un forte fraintendimento nel confronto di diverse culture: quando i colonialisti videro le donne africane partorire silenziosamente, ne dedussero a torto che il loro parto fosse indolore; si diffuse cosi l’opinione che presso le tribù primitive partorire fosse più facile. Ma anche in quel caso, invece il comportamento delle donne africane di molte tribù soffocano ancor oggi le loro grida perché considerano vergognoso esprimere la sofferenza e perché ritengono che ciò danneggi il bambini o che disonori il bambino. Alle grida della madre s’intrecciava infine il pianto del bambino, segno tangibile della sua venuta al mondo, prova della sua nascita anche dal punto di vista giuridico. Nel diritto tardo antico (base di molti diritti medievali e moderni) perché un figlio potesse ereditare dalla madre doveva nascere vivo, anche se questa vita durava pochi istanti; in caso contrario non avrebbe ereditato e la dote della madre, qualora fosse morta, sarebbe ritornata alla famiglia di origine. Il pianto era ritenuto una prova inequivocabile anche nel mondo cristiano come nascita spirituale. Questo dunque non era solo atteso ma salutato con gioia talora stimolato dalle levatrici; una tradizione che si conserva a lungo nei secoli. L’assenza di pianto in un neonato vitale era interpretata come segno di santità; la nascita dei santi era spesso caratterizzata da un venire al mondo silenziosamente. Nel mondo cristiano il pianto era collegato alla condizione di peccato che affliggeva l’umanità o i genitori. Si riteneva che il bambino piangesse per il peccato originale che lo macchiava e implorava dio per esserne liberato. Il bambino era visto come il vero protagonista del parto, la madre era un soggetto passivo. Concezione fortemente radicata. Per questo la nascita di una femmina era vista come un fattore di maggior rischio per la madre essendo meno attiva e meno forte del maschio. Nell’intento di individuare le leggi della natura, la medicina antica si era soprattutto a definire le regole che caratterizzavano il procedimento del parto, dal un lato la maturità del bambino (non doveva nascere prematuramente) dall’altro la posizione che assumeva nel travaglio (che doveva essere cefalica). Il parto naturale o legittimo era quello che rispettava questo insieme di tempi e figure. Ogni altro tipo di parto era definito per differenza contro – natura o illegittimo (cioè non conforme alla legge). Il feto in posizione cefalica = parto naturale. Scipione mercurio, nel riproporre tale definizione, suggerisce di ampliarla inserendo tra i requisiti del parto naturale anche la nascita di una creatura normale con tutti i suoi membri compiuti e con la forma umana. C’era l’idea culturale che collegava l’uscita per i piedi alla morte, non alla nascita. Nascere per i piedi era un evento infausto. Tutti i parti contro natura erano ritenuti di per sé pericolosi. Nel parto naturale non c’era un assistenza medica poiché non c’erano raccomandazioni e bastavano gli sforzi della madre, in quelli contro natura sì, aiutando il feto a ritornare nella posizione cefalica e ad ordinare in questo modo i procedimenti naturali. Solo nel 500 accanto alla versione cefalica fu introdotta quella podalica, una manovra compiuta per estrarre il bambino attraverso i piedi, che già Sorano aveva ammesso ma che poi era caduta in disuso. Fino alla veniva riproposta forzatamente la posizione cefalica, le altre erano ritenute pericolose. Le levatrici in questo modo intervenivano portando anche a gravi emorragie e lacerazioni alla partoriente. ragione in questo caso era legata al lavoro delle donne nelle botteghe e nelle manifatture, all’esigenza di esser libere per svolgere un’attività essenziale per le famiglie. Non è casuale che il baliatico raggiunga massima espansione nelle città manifatturiere o commerciali, come Londra, tra 600 – 700, o Lione, dov’era diffusa la lavorazione della seta. Nella tarda età moderna, per sovraccarico di presenze, anche gli ospizi degli esposti inviavano a balie esterne sempre più numerosi trovatelli, essendo insufficienti quelle interne, offrendo alle contadine un’ulteriore risorsa economica. Quest’espansione del fenomeno alimentò un vastissimo mercato, facendo della balia, una figura di lavoratrice tra le più diffuse della storia europea, anche se va sottolineato il carattere particolare di questo lavoro, in cui ciò che si vendeva era una produzione del corpo, non solo una prestazione d’opera. Il mercato baliatico aveva le proprie regole, tariffe, spesso codificate da contratti. In questi accordi i padri avevano il ruolo esclusivo che passavano appunto tra il padre del bambino e il marito della balia. In alcune realtà, come in Francia, il baliatico fu regolamentato per legge già nel XIV secolo. La pratica rimase in vigore fino alla prima metà del 900, malgrado l’offensiva condotta dagli Illuministi nel secondo settecento a sostegno dell’allattamento materno. Un’ordinanza reale nel 1350 fissava salari e forme di intermediazione valide per tutto il regno. Uffici pubblici di baliatico esistevano in varie città europee in età moderna. I medici rendendosi conto dell’inutilità delle loro raccomandazioni, i medici concentrarono l’attenzione soprattutto sull’individuazione delle caratteristiche della buona balia, per mettere le famiglie in condizione di effettuare una scelta corretta. Una serie di norme rigorose codificavano lo stile di vita e il regime dietetico della balia. Da molti punti di vista, dunque il latte era per le contadine e le donne dei ceti popolari era un bene prezioso poiché non averlo o perderlo era una vera disgrazia. C’erano molti obblighi da rispettare, tra cui astenersi dal sesso, evitare alterazioni d’umore, curare la pulizia personale, condurre una vita non troppo sedentaria ma non faticosa. L’allattamento del neonato poteva esser assunto da parenti, amiche o vicine di casa, come si riscontra ancora oggi in molte culture extraeuropee. Il periodo successivo al parto e alla nascita era ritenuto denso di pericoli e rischi, sia per la vita della madre che per quella del bambino, una fase particolarmente delicata nella quale i due esseri erano in bilico. La nascita e la morte erano concepiti nel passato, come si è detto in precedenza: madre e figlio nel partorire e nel nascere erano esposti al rischio di morire. Lo stato di una donna dopo aver partorito veniva paragonato dalla medicina a quello di una persona gravemente ferita e come tale facilmente a gran rischio di dover soccombere, secondo una similitudine molto usata. Una paura che rimane radicata a livello popolare fino all’800 – 900. Per motivi analoghi anche la vita del bambino era fortemente a rischio, a causa dei parti prematuri, dei travagli molto lunghi, delle poche conoscenze riguardo le malattie neonatali, delle scarse condizioni igieniche. La mortalità era altissima. Quest’ultima risulta più intensa nel primo anno di vita. Confrontando varie ricerche europee nell’antico regime, è stata calcolata tra il 200 e il 250%. Inoltre una lunga tradizione interpretava la nascita del bambino come sostituzione della perdita di un familiare. Si considerava normale che dopo la morte di un vecchio della famiglia, nascesse un bambino che ne riprendeva il nome, come se le due vite arrivassero e partissero dallo stesso luogo ultraterreno. Il neonato era visto come un essere precario tra questi due mondi. Per questo contatto con il mondo degli spiriti, madre e figlio erano considerati impuri, l’impurità del bambino derivava anche dal contatto con il sangue della madre. Impurità e peccato esponevano la donna all’influenza del diavolo e la escludeva dalla comunità. La puerpera aveva il diavolo era in peccato che qualcuna definisce chiaramente come il peccato originale. Per questa impurità madre e figlio erano allo stesso tempo in pericolo e pericolosi, bisognosi da un lato di protezione, dall’altro di essere separati dal resto della comunità. Venivano dunque isolati e protetti per un periodo variabile nelle diverse culture, che l’Occidente cristiano aveva generalmente fissato per la madre, nel termine di 40 giorni, ereditando dalla tradizione ebraica la rilevanza simbolica del numero, dopo il quale si svolgeva la cerimonia di purificazione. Per il bambino invece si concludeva con la cerimonia del battesimo. Questo periodo di marginalità, al di là della differenziazione dei contenuti è proprio di tutti i riti di passaggio che scandiscono nelle società tradizionali i cambiamenti fondamentali della vita degli individui, rappresenta la prima delle tre sequenze invariabili che l’antropologo Arnold Van Gennep individua come ricorrenti in tutte le culture: la separazione, il margine e la reintegrazione. Lo scopo di questi rituali era quello di rimarcare il cambiamento di ruolo e di stato di una persona in famiglia e nella comunità. Per la donna il suo divenire madre e per il bambino diventare figlio. La separazione poteva avere in quest’ottica una funzione positiva non tanto sul piano sanitario ma anche su quello psicologico e sociale: era uno spazio difeso e protetto in cui la donna tornava alla normalità nella sua condizione di madre, in grado di rielaborare la sua nuova condizione con nuovi ruoli, doveri e relazioni. In questo periodo la madre e il bambino andavano innanzitutto difesi dagli spiriti maligni che si aggiravano attorno a loro come le streghe, si credeva che potessero portare via il bambino o scambiarlo con un altro. C’erano molte credenze attorno a questi tabu. Per evitare che entrassero nella casa si provvedeva a chiudere bene porte e finestre. All’interno della casa la condotta era normata da rigide regole e ferrei divieti, che variano in base ai contesti e delle epoche, secondo radicate tradizioni locali. Anche la presenza della madre era pericolosa per gli altri, essa poteva causare malanni, far appassire le piante. Dall’alto medioevo fino agli anni ’50 e 60 del 900, in varie zone d’Europa, le madri non potevano uscire di casa: avrebbero potuto vedere le streghe e gli spiriti. Esse dovevano seguire una dieta particolare con uovo e pane, doveva evitare di svolgere certe attività, mettere le mani in acqua, respirare cattivi odori. L’infrazione a questi divieti poteva comportare gravi conseguenze: la malattia presa durante il puerperio non sarebbe più passata. Il dettaglio delle regole ma anche la loro durata cambiava poiché la donna in campagna riprendeva a lavorare duramente. Essendo impura, la madre non partecipava alla cerimonia del battesimo che si teneva nei primi giorni alla nascita come aveva codificato il Concilio di Trento (1545). Questo non voleva dire che non potesse esser visita all’interno della casa, anzi, una tradizione già molto diffusa in età medievale e moderna voleva dire che amiche e parenti andassero a trovare la madre appena partoriente per festeggiare l’evento. Il periodo di marginalità si chiudeva con il rituale della purificazione che reintegrava la donna della comunità e sanciva la ripresa della normalità. Le forme di ritualità conoscono anche in questo caso varianti che derivano dal sommarsi di tradizioni religiose culturali diverse. La religione ebraica imponeva alla donna di recarsi al tempo portando al sacerdote l’offerta di un agnello, una colomba o una tortora, al termine dei 40 giorni, in casa della nascita di un maschio. 80 nel caso della nascita di una femmina. Una differenziazione di genere che rimarca come più grave l’impurità derivante dalla nascita di una femmina. Terminata la cosiddetta quarantena, la donna usciva di casa per la prima volta per recarsi in chiesa al mattino presto con il capo coperto, sola o più raramente accompagnata, sola o più raramente accompagnata da una persona, a volte un bambino piccolo. Qui doveva aspettare fuori con una candela accesa, il prete che la introduceva dentro, mentre la donna teneva in mano la sua stola. Conclusa la cerimonia, la donna faceva un dono alla presenza della levatrice. Questa cerimonia assume diversi nomi in Europa, in italiano si diceva andare a farsi benedire. L’esperienza della maternità risultava cosi segnata nel vissuto delle donne da una contraddizione profonda, sospesa tra esaltazione e vergogna, tra forza e debolezza. Mettendo al mondo un figlio la donna adempiva al suo dovere familiare, sociale, religioso, realizzava la sua identità femminile che si esponeva a rischi che non avevano a che fare solo con la morte, ma con il contatto con gli spiriti, conosceva l’esclusione temporanea dalla comunità. Nel momento della sua realizzazione come madre, la donna si percepiva come sporca, debole, pericolosa. Il disvalore attribuito all’esperienza corporea della maternità minava il vissuto della maternità con elementi di debolezza e negatività. Nello spazio tra la nascita naturale e quella sociale si colloca con maggior frequenza la pratica dell’infanticidio, l’uccisione del neonato, un fenomeno di lunghissima durata e transculturale, seppur diversamente presente sulla scena sociale. Si snoda cosi la storia di una pratica utilizzata per secoli sia dalle famiglie per regolare o selezionare le nascite, sia dalle madri nubili. Si ricordi che nel corso dell’età moderna, la maternità fuori dal matrimonio diventa sempre di più motivo di disonore e non c’era un adeguata accoglienza sociale nei confronti dei figli illegittimi. C’è una storia fatta di paure, ossessioni, incubi. Quelli della madre cattiva che annienta i propri figli dopo averli creati, di nemici che li rapiscono. C’era l’associazione dell’infanticidio con rituali magici, spesso connessi al cannibalismo, di cui vengono sospettate le minoranze religiose. Ne furono accusati prima i cristiani nel mondo romano, poi gli ebrei nel mondo cristiano, gli eretici, le streghe (spesso le levatrici). Questa ossessione si condensa contro minoranze sospette o in repressioni pianificate (ebrei). Esiste una profonda rottura che divide il mondo antico da quello cristiano e che risulta collegato alla diversa rappresentazione del feto/neonato. Quanto si è detto a proposito a dell’aborto vale anche per l’infanticidio. L’interruzione involontaria della gravidanza, soppressione o abbandono del neonato facevano parte di una gamma di azioni affini. Nel mondo antico era legittimo e socialmente accettato a pari dell’aborto, a condizione che fosse deciso dal padre. Nel mondo cristiano invece si trattava di legittima infrazione alla legge di Dio, padre appunto di tutte le creature, era una grave infrazione per il quale c’erano penitenze pubbliche. La percezione della sua gravità subisce nei secoli diverse gradazioni e tra il medioevo e l’età moderna che si verifica una frattura nella storia dell’infanticidio poiché in questa fase si focalizza l’attenzione sulla figura della madre infanticida, che emerge nell’immaginario collettivo come una donna che gestisce una sessualità libera, lussuriosa e sciolta da vincoli coniugali, mentre il padre rimane una figura nell’ombra e nell’impurità. Criminalizzazione del peccato da parte della giustizia laica poiché l’onore della donna era legato a quello della città, tutto ciò è incluso in un processo di disciplinamento della sessualità femminile. Leggi severe contro l’infanticidio vengono varate in Europa in tempi diversi da quella di Bamberga (1507) alla Constitutio Criminalis Carolina (1532) emanata da Carlo V, che sta alla base degli ordinamenti giudiziari fino al 700. Le donne venivano mandate al rogo, impalate e sepolte vive, spesso portate al patibolo con il cadavere del bambino per spettacolarizzare dell’evento che aveva finalità dissuasive. Viene incrementata la sorveglianza testimonia una vicinanza simbolica tra madrina e levatrice fortemente sentita dalla comunità. Questo faceva della levatrice e la comare per eccellenza, la madre mistica di tutto il paese. Nel corso del 500 il battesimo fu al centro di una rielaborazione teologica e dogmatica molto profonda, all’interno della spaccatura tra la religione protestante e cattolica. In generale si può dire che la divaricazione portò la religione protestante ad accentuare il carattere di nascita della comunità cristiana, mentre la religione cattolica confermò oltre a ciò il carattere salvifico. Il concilio di Trento riaffermò invece il valore cruciale del sacramento ai fini della cancellazione del peccato originale, ribadendo l’efficacia della salvezza eterna. Il rituale venne codificato in modo più rigoroso. C’era l’obbligo del battesimo precoce, tenere i registri battesimali, l’importanza dei genitori spirituali con la diffusione della morte eterna quindi si diffuse il battesimo. Lutero, invece pensava che il battesimo era si un sacramento però lo vedeva più come l’ingresso dei bambini alla comunità piuttosto che con fini di salvezza. Per la Chiesa cattolica il battesimo assicurava la salvezza eterna. Nell’orizzonte cristiano, alla doppia nascita corrisponde una doppia morte: quella del corpo e quella dello spirito con la privazione della vita eterna. Un neonato morto senza battesimo, anche se non aveva nessuna colpa individuale, a causa appunto del peccato originale non poteva entrare a far parte della comunità dei credenti e non poteva accedere al Regno dei Cieli poiché non si era verificato il battesimo quindi era accomunato da entrambe le morti. Tale esclusione dal regno dei cieli era ribadita dai divieto di sepoltura. La loro collocazione era nel Limbo ossia un luogo a sé stante all’interno degli Inferi. La costruzione del Limbo avvenne nel corso del XII secolo, all’interno di quella elaborazione teologica della geografia celeste che vide un ampliamento dei luoghi intermedi. Il limbo fu appunto immaginato come il luogo in cui potevano trovare collocazione tutte quelle anime che non avevano colpe individuali ma che avevano il peccato originale. La pena che sarebbe toccata ai neonati era mitissima, secondo la parola di Sant’Agostino. Nel 1912 papa Pio x affermò che i bambini morti senza battesimo andavano al Limbo dove non è né premio né pena perché avendo il peccato originale e quello solo non meritavano il Paradiso ma neppure l’inferno o il Purgatorio. Per vedere il Limbo declassato a mera ipotesi teologica bisogna aspettare il 2007 quando un documento elaborato da una Commissione teologica internazionale e approvato da Benedetto detto XVI ha espresso che i bambini morti senza battesimo siano salvi e godano della visione benefica. La sorte dei bambini morti senza battesimo si prospettava almeno nell’Occidente assai tragica da molti punti di vita. Nel tentativo di coniugare giustizia e rigore, teoria del peccato originale e valore della Grazia, si finiva per negare la salvezza proprio alle creature che non avevano cominciato a vivere e non avevano commesso nessun errore mentre la concedeva ad assassini pentiti o al selvaggi del Nuovo Mondo. Reclusi nel Limbo per l’eternità, privi di nome, a partire dal XII erano sepolti fuori dal cimitero. Il loro spirito tormentato si aggirava nei luoghi dove erano nati. Secondo una credenza a partire dal 400, si divertivano a tormentare i vivi con agguati notturni. In questo scenario che combinava esclusione dal Paradiso, assenza di sacra sepoltura, la morte di un neonato senza battesimo era considerata la più tragica delle eventualità che colpiva non solo i genitori ma anche la comunità intera. Inoltre questo lutto veniva sempre associato a peccati e punizioni divine, prefigurando i genitori come possibili responsabili della tragedia. La pietà popolare, nel corso del medioevo e moderna, aveva inventato rituali correttivi tesi a eludere il rigore di norma che risultava inaccettabile per sottrare il bambino a questo tragico destino per assicurargli almeno la salvezza eterna se non quella terrena. Nei paesi mediterranei questi riti consistevano spesso nell’assicurare la salvezza eterna al bambino ancora chiuso nell’utero materno battezzando il corpo della madre. Oppure c’era il battesimo dei morti praticato sia sui bambini che sugli adulti fin dai primi tempi del cristianesimo e che consisteva nel battezzare un morto mentre una persona viva rispondeva per lui. Condannato dal III Concilio di Cartagine (397), aveva continuato a persistere per secoli. Ma il rituale più diffuso nel Europa del Centro – Nord era la resurrezione temporanea. Si credeva che il bambino morto, grazie a un miracolo potesse tornare in vita il tempo necessario a ricevere il battesimo. Nell’alto medioevo c’erano veri e propri santuari dedicati a questo. Il bambino riceveva cosi un nome, una degna sepoltura e la garanzia della vita eterna. Si sperava in un segno di vita da parte del bambino, un sospiro, una perdita di sangue. La Chiesa lasciava ai vescovi il compito di regolare queste pratiche anche se molti sinodi tra 400 e 500 ne dichiararono l’illegittimità. La riforma cercò di stroncare il fenomeno ma senza tanto successo. La Chiesa controriformista invece continuò a tollerarlo. Alla seconda metà del 700 ci fu una definitiva condanna di queste pratiche con la loro continuazione in maniera clandestina. Con la promulgazione del nuovo codice civile napoleonico e di altri codici europei si riuscì a debellare tale fenomeno con le nuove norme sulle sepolture, con l’obbligo di certificazione medica del decesso cancellando dall’orizzonte la straordinaria ricorrenza del miracolo delle resurrezioni dei bambini non morti. In questo orizzonte, caratterizzato dal rilievo assunto dal battesimo e dal diffondersi dell’ansia sacramentale, che si afferma la pratica del taglio cesareo post mortem, operazione praticata dopo il decesso della donna. L’operazione cominciò ad esser promossa nel tardo medioevo dai teologi, con il fine di salvare l’anima del bambino che non aveva fatto tempo a nascere a causa del decesso della madre prima o durante il parto. Vari concili tra il XII e il XIV secolo, imposero l’obbligo del cesareo post mortem. Anche varie legislazioni civili ripresero questa norma sotto forma di dovere, imposto alle levatrici prima, ai chirurghi poi, ma in realtà la pratica rimase nel medioevo assai rara. A sancire definitivamente l’obbligatorietà in tutto il mondo cattolico fu il Concilio di Trento. Il rituale romanum (1614) stabilì che si dovesse praticare il taglio cesareo immediatamente dopo la morte della donna per estrarre il bambino e battezzarlo. Malgrado ciò l’intervento fu scarsamente praticato sia per motivi naturali che medici. In primo luogo era ritenuto quasi impossibile, proprio alla luce delle convinzioni mediche, che un bambino potesse essere estratto vivo dal corpo della madre. Veniva cosi meno la condizione posta come imprescindibile per la somministrazione del sacramento. In secondo luogo la possibilità di sopravvivenza di questi bambini era ritenuta cosi improbabile che il loro nome era accompagnato dall’appellativo nonnati, termine che ribadiva al tempo stesso l’anomalia di una nascita che si poneva al di fuori dell’ordine della natura e il carattere miracoloso della sopravvivenza. La nascita presupponeva l’evento parto, cioè l’essere spinti alla luce della natura. Per questa ragione le levatrici e i medici preferivano rincorrere ad altri espedienti per assicurare il battesimo al bambino nel corso del travaglio. In caso di rischio di morte della madre, usavano strumenti per cercare di raggiungere la creatura non ancora nata e battezzarla. Questo era un battesimo in utero, facendo riferimento all’uso delle stringhe. Va detto però che questo tipo di battesimo era ritenuta dubbia da vari teologi, sia per ragioni materiali che concettuali. Non era possibile verificare se il bambino fosse ancora vivo perché non era formalmente nato alla luce e infine perché non era possibile accertare la natura umana di ciò che stava venendo alla luce, poteva essere un mostro o peggio ancora una mola. 6. La levatrice La levatrice ha giocato un ruolo centrale nel parto e nella nascita sia nel mondo antico che nell’Occidente cristiano. La levatrice era innanzitutto donna nobile, cioè stimata e apprezzata dalla comunità, che aveva esperienza diretta nella maternità per essere stata a sua volta madre, già avanti negli anni, che possedeva conoscenze relative alla sessualità, oltre che al parto, ed era anche abile. Con la sua arte sapeva aiutare una donna a partorire, suscitando le doglie o al contrario attenuandole con l’ausilio di farmaci. Era anche in grado di procurare l’aborto. Queste caratteristiche di fondo connotano la figura della levatrice, almeno fino al Settecento sia nella città che nella campagna. Si riteneva che era una donna matura, sposata e vedova. Si riteneva che l’esperienza diretta della maternità fosse il primo e fondamentale requisito di una conoscenza che affondava le sue radici non solo nell’acquisizione di saperi e pratiche ma nel suo vissuto personale. Scipione Mercurio, nel 500 scriveva che la levatrice, era quasi quanto una madre sia per età sia perché come una madre, consigliava, confortava ed aiutava. Questo rendeva la levatrice più libera dalle occupazioni domestiche di accudimento dei figli, per un mestiere che chiedeva disponibilità e tempo, le consentiva inoltre di andar via più facilmente per via senza compromettere il proprio onore. La sua condizione civile era o coniugale o vedova, con un’età media/avanzata e una lunga esperienza professionale. Nelle campagne, come emerge da varie inchieste del tempo, ancora nel 700 le levatrici erano tutte donne avanzate nell’età. Il lavoro si tramandava spesso all’interno della famiglia, frequentemente anche il marito praticava un’arte come chirurgo o speciale, secondo quella condivisione di mestiere che caratterizzava le famiglie artigiane in Europa come la francese Louise Bourgeois, levatrice della regina Maria de Medici, era moglie di un chirurgo. Anche in Italia questo dato era ampiamento attestato dalle suppliche presentate alla magistratura di sanità, soprattutto nel corso del 700. Come tutte le arti artigianali, il mestiere richiedeva un lungo apprendistato che si svolgeva accompagnando la levatrice nel suo corso. Le fonti attestano spesso, accanto alla levatrice la presenza di altre figure di aiutanti e collaboratrici. Sorano stesso suggeriva che a seguire il parto fosse un equipe di donne con diverse funzioni. In genere queste aiutanti si occupavano più della madre che del bambino. Nella Firenze del tardo medioevo queste donne venivano chiamate guarda donne, proprio perché si occupavano miratamente della madre, mentre la levatrice seguiva più il bambino. L’area di intervento della levatrici non si limitava solo all’assistenza alla gravidanza e al parto. Platone attesta una conoscenza più ampia nel campo della sessualità che è confermata anche in epoca medievale e moderna. Veniva infatti consultata per problemi connessi con il ciclo mestruale e l’allattamento, nei casi di sterilità e stupro. Le autorità ecclesiastiche e civili ricorrevano a lei per verificare, lo stato di verginità di una donna nei processi per deflorazione con promessa di matrimonio. L’assistenza al parto costituiva però l’attività centrale di un mestiere che si basava su una grande abilità manuale. Lo strumento principale del lavoro era infatti con la mano con la quale sapeva riconoscere i diversi stadi della gravidanza. Un saper fare senza vedere che raggiungeva il massimo livello di abilità nell’esecuzione di quei rivolgimenti manuali interni che si praticavano nei casi di presentazione non naturale del bambino. nell’ambito del controllo delle levatrici era spesso contrassegnato da scambi e collaborazioni: specie nei paesi cattolici, i governi ricorsero alla Chiesa nella lotta contro l’esercizio abusivo della professione, contribuendo in cambio al controllo religioso. Per quanto riguarda l’attività pratica, alle levatrici venne progressivamente vietato di somministrare medicamenti per bocca (competenza dei medici – fisici) e di usare i ferri. Inoltre ai medici – fisici era assegnato il ruolo nei parti difficili. In alcune realtà urbane avanzate, questa distinzione di competenze tra levatrici, medici e chirurghi durante la gravidanza e il parto risultava già affermata nella realtà sociale fin dal 400 come a Firenze e Milano. Ben diversa era la realtà nelle campagne soprattutto, per la difficoltà di reperire medici e per una resistenza della popolazione. Finora si è parlato di levatrice al singolare: in realtà le ricerche hanno dimostrato come fin dal mondo antico esistessero diverse figure di levatrici, con preparazione e competenze differenti. In Grecia accanto alla levatrice esisteva il medico donna. È evidente che pur essendo escluse dagli studi medici fin dal V secolo, molto donne parteciparono in Grecia a quel rinnovamento della disciplina che accompagnò la scuola di Cos. Che tra medici e levatrici vi fosse uno scambio di informazioni e conoscenze è comprovato e anche dichiarato da vari autori, come Galeno e Plinio, i quali citano pareri e discutono su prescrizioni e medicamenti da queste utilizzati. Inoltre abbiamo già visto come molte levatrici fossero mogli di chirurghi – barbieri o medici. D’altra parte, come avrebbero potuto i medici ottenere informazioni sulla fisiologia e le patologie della gravidanza e del parto, se non attraverso la mediazione appunto di coloro che vi operavano?? Proprio per questo Sorano sosteneva che la levatrice migliore dovesse possedere conoscenze teoriche di medicina e chirurgia e una solida esperienza tale da poter consigliare diete, medicinali e adoperare i ferri in caso di bisogno. Oltre a queste figure, a livello più basso, stavano le sagae, che erano al tempo stesso levatrici e streghe. Questa differenziazione di figure perdura anche nel mondo medievale, dove continua ad esser documentata la presenza di donne che esercitavano la medicina e la chirurgia e che intervenivano nel parto per eseguire cesarei. Solo nel tardo medioevo le donne furono escluse dalle università fondate nei centri urbani con una svolta cruciale nella storia di genere. Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che questa emarginazione comportasse di per sé il venir meno di conoscenze teoriche anche di buon livello. C’erano molte levatrici colte, in grado non solo di leggere ma anche di scrivere. Scrivevano libri teorici che furono poi di ispirazione per altri medici. Tra 500 e 600 alcune levatrici colte assunsero un ruolo di mediazione tra la cultura alta e quella popolare, istruendo a loro volta le mammane, trasmettendo tecniche ed esperienze sotto forma di osservazione e/o memorie. Per quanto riguarda l’attività pratica e il ruolo sociale, va detto che lo sviluppo delle città del medioevo, con l’organizzazione di strutture sanitarie e assistenziali, offrì alle levatrici nuove possibilità di impiego. A partire dal 400 la figura della levatrice municipale, che veniva consultata anche per questioni medico – legali nei processi di stupro, aborto, infanticidio. In varie città le levatrici accoglievano nella loro casa le gravidi nubili, assistendo a parti destinati a rimanere clandestini e portando i neonati agli esposti, ampliando cosi il loro guadagno e attività. Chi operava in piccoli o campana aveva una maggior libertà d’azione, minor concorrenza e meno scambi e aggiornamenti. Il processo di professionalizzazione finì per emergere in maniera via via più distinta la nuova categoria delle levatrici abusive, coloro che continuavano a praticare senza licenza, come avevano fatto per secoli le loro antenate. Lo snodo nel Settecento Il 700 rappresenta un periodo di profonda cesura nella storia della nascita, una di quelle fasi di improvvisa accelerazione dei processi di trasformazione che si registrarono talora nel lungo periodo. Il cambiamento coinvolge la scena del parto nel suo insieme di figure, luoghi e pratiche. Si afferma la figura del chirurgo – ostetricante, che introduce strumenti e operazione ostetriche nuove, nascono ospedali per partorienti che impongono diversi rituali e interventi. Si diffondo le scuole ostetriche, si definisce un nuovo modello di levatrice, si avvia insomma quel processo di medicalizzazione che si dispiegherà più ampiamente nel secolo successivo. Si sono verificati trasformazioni sociali rilevanti che hanno al centro la trasformazione stessa del parto e della nascita: è l’immagine del corpo femminile nella sua funzione riproduttiva ad essere completamente rivista, anche alla luce di una nuova rappresentazione del feto che va a ridefinire il concetto di nascita. Alla radice di questi cambiamenti sta un insieme complesso di fattori politici, scientifici, culturali con l’affermarsi di una nuova concezione del corpo. La nascita della biopolitica, cioè del controllo politico dei corpo, avviene in un quadro animato all’incrocio di processi ampi e complessi. Va infine segnata la ripresa di un’iniziativa ecclesiastica forte sul terreno del battesimo, alla luce delle nuove scoperte dell’embriologia. Anche il medico fu attraversato da diverse scuole e orientamenti terapeutici e deontologici cosi diversi che in alcuni casi arrivarono addirittura a dare luogo a denunce penali, specie su temi particolarmente scottanti dal punto di vista etico, come quello del taglio cesareo. Va infine segnalata la ripresa di un’iniziativa ecclesiastica forte terreno del battesimo, alla luce delle nuove scoperte dell’embriologia che dà il via a una vera e propria campagna di promozione della pratica del taglio cesareo post mortem e di battesimo. Il farsi strada del biopotere su un territorio tradizionalmente della Chiesa implica infatti una rielaborazione dei rapporti tra Stato e Chiesa densa di contrasti, tanto più perché inserita sullo sfondo di un processo di laicizzazione della scienza, sotto la spinta dell’Illuminismo e del positivismo. Sarà proprio a partire da questo terreno che la Chiesa rilancia nel 800 la sua riscossa, per la riconquista di un’egemonia centrale appunto sulla difesa della vita fetale. 7. L’istituzionalizzazione della levatrice A partire dalle metà del 700, il parto e la nascita si trovano al centro di interessi di grande rilevanza, diventano affari pubblici e politici sui quali si concentra l’attenzioni di molti. Questa trasformazione avviene soprattutto da una nuova idea di Stato che si afferma con l’Illuminismo. Quella di un corpo sociale la cui stabilità e prestigio internazionale sono correlati prima di tutto al numero degli abitanti. La coincidenza sostanziale tra popolazione e Stato faceva parte della salute e del suo perseguimento un obiettivo politico. Compito del sovrano era quella di sovrastare la mortalità e la malattia e garantire ai cittadini buone condizioni di salute, di curare insomma il corpo sociale, assicurandone il potenziamento. Ne risultavano disegnati il potere e il dovere politico, con un evidente spostamento dalla sfera della morte a quello della vita. La lotta contro la mortalità e a favore dell’incremento demografico s’inscriveva cosi tra i primi obiettivi politici per i quali si organizzava un settore apposito dell’arte di governo: la cosiddetta polizia medica. Indicava una vera e propria strategia di eliminazione delle cause dello spopolamento, presupposto indispensabile dello sviluppo demografico. L’intervento dello stato non si concretizzava più solo in iniziative straordinari volte a far fronte alle epidemie, ma nella messa a punto di progetti complessivi che investivano le istituzioni e i cittadini. La sfera produttiva aveva oramai anche valenze politiche. La nascita era visto come il momento in cui si generava il corpo sociale, si reintegravano le perdite, di conseguenza la mortalità infantile e materna, oltre che un lutto privato, rappresentava una minaccia per l’interesse pubblico. Il bambino si presentava come un capitale sfruttabile per intero. Il corpo femminile nella sua funzione riproduttiva veniva quindi a situarsi in una posizione liminale tra la sfera privata e quella pubblica, con una conseguente riduzione della funzione maritale. La moglie, secondo il fondatore della polizia medica J. P. Frank, era dichiarata proprietà dello Stato e bisognava limitare i pericoli e rimuovere gli ostacoli che possono minacciare la sua vita e la nascita del bambino, quindi del nuovo cittadino. La donna non era più semplice moglie del cittadino. Questo si traduceva in una valorizzazione pubblica della maternità, non priva di risvolti ambivalenti, se da un lato la funzione riproduttiva della donna era esaltata e tutelata, dall’altra veniva caricata di responsabilità e sottoposta a nuove forme di disciplinamento. L’attenzione per la nascita, il desiderio di sopravvivenza e benessere individuale risultavano condivisi dalla maggior parte dell’opinione pubblica. L’interesse politico si coniugava insomma con più diffuse istanze di rifiuto della morte che erano emerse a partire già dal XVI – XVII secolo ma che guadagnarono rapidamente terreno in larghi strati della popolazione. La morte dopo il parto in questa prospettiva era inaccettabile, qualcosa da combattere e prevenire poiché risulta dalle ricerche d’archivio un forte rifiuto della sofferenza e della morte. Esisteva una forte esigenza sociale che chiedeva miglioramenti e soluzioni a un problema umanamente angosciante che colpiva il singolo, ma che usciva dalla sfera dell’individualità per porsi come problema sociale. La mortalità infantile e materna, oltre che un dramma umano, diventava un problema che riguardava la collettività e lo stato. Nella ricerca delle cause di mortalità ad esser messe sotto accusa furono le tradizionali forme di assistenza al parto e con questo le levatrici. già nel corso del XVI – XVII esse erano state accusate di negligenza e ignoranza, nel Settecento vennero fatte oggetto di una vera e propria campagna denigratoria che individuava nella loro incompetenza la causa della perdita di tante vite che alimentava la paura collettiva di crollo demografico e di degenerazione della stirpe nel corso dell’800. Medici, politici scrissero contro di loro e ad essere prese di mira furono soprattutto le levatrici di campagna, ma si finiva per colpire l’intera categoria. Veniva loro criticata la totale mancanza di conoscenze scientifiche che l’assenza di esperienza visiva che hanno invece i medici. Nel sapere illuministico veniva sottovalutato il loro sapere tradizionale, basato sulla manualità e tradizione orale. L’enfatizzazione del progresso scientifico lo confinava nella sfera dell’oscurantismo. Nel medioevo e nella prima età moderno il sospetto che gravava sulle levatrici era legato alle pratiche magiche e al rapporto con il demonio, nel secolo dei Lumi derivava invece dal loro analfabetismo. Venivano giudicate come delle pettegole. Questa campagna di denigrazione nasceva anche da un evidente conflitto professionale: l’aspirazione dei chirurghi a esercitare l’ostetricia e a rompere un monopolio femminile di lunghissima durata. Era funzionale alla loro promozione sulla scena del parto e all’acquisizione di credito sociale da parte delle istituzioni pubbliche. Le levatrici non restarono zitte, quello in grado di scrivere reagirono contro proprio la presunta superiorità del sapere medico cioè le basi teoriche della campagna denigratoria. Il saper vedere non equivale a saper fare. Una conoscenza teorica non si traduceva di per sé nella capacità pratica di aiutare una partoriente, per la quale si richiedeva invece un’abilità Strasburgo aperta da Fried nel 1728, che divenne un polo di attrazione per studenti di tutta Europa, soprattutto tedeschi, austriaci e italiani. Questo nuovo approccio clinico portò importanti risultati sul piano della conoscenza fino alla pubblicazione sul finire del secolo delle prime riviste specialistiche. Il diffondersi di corsi e scuole ostetriche alimentò anche una ricca produzione di manuali, ulteriore elemento di promozione e di reddito per gli ostetrici. Manuali sia per gli ostetrici che per le levatrici; tra il 1618 e il 1815 ne furono pubblicati 245 in 13 stati europei e soprattutto in Germania, Francia e U.K. Anche la produzione tecnico – operatoria conobbe un rapido incremento, con la moltiplicazione dello strumentario ostetrico. Si inventarono strumenti utili a salvare non solo la vita della madre ma anche quella del bambino; salvare la madre senza sacrificare anche il bambino. Un esempio eclatante è l’invenzione del forcipe, il quale serviva per salvare la vita del bambino. Il forcipe rappresentava per molti una tappa fondamentale dell’ostetricia: l’avvio dell’epoca più brillante dell’arte, il simbolo del progresso e la sconfitta della morte. I vecchi strumenti invece erano considerati delle risorse criminali e barbare. Veniva inserito nell’utero per estrarre il bambino nel caso di non progressione lungo il canale del parto. Era il simbolo della nuova ostetricia, il forcipe conobbe uno straordinario successo e una grande diffusione, con la messa a punto di innumerevoli varianti. Ciò provocò una mania operatoria, che raggiunse vertici aberranti sul finire, con un’applicazione vicina al 50% dei parti in alcune cliniche e con esiti del tutto contradditori rispetto alle sue stesse finalità. Saperlo usarlo correttamente, nel modo e al momento giusto, richiedeva infatti un lungo addestramento, senza il quale si producevano gravi danni alla madre e al bambino, con lacerazioni e rotture dell’utero e compressione delle ossa del cranio del nascituro. Alla fine del 800 si calcolava una mortalità del feto pari al 46% e della madre al 28%. Abbiamo inoltre la leva, introdotta per correggere la posizione del feto nel parto e forzarne l’uscita. Inventata nel XVII secolo da un olandese, si diffonderà nel secolo successivo soprattutto in Olanda, Belgio e Francia. Un altro strumento, sarà lo stetoscopio, messo a punto a inizio 800 che appoggiato sul ventre della donna, consentiva di percepire i battiti del feto in avanzato stato di sviluppo quindi per la prima volta si sapeva quanto avveniva all’interno dell’utero imponendosi come un dato verificabile dall’esterno. Non era solo la intima percezione della donna. Fu questa una fase di intensa sperimentazione di varie operazioni ostetriche, alcune delle quali dopo un primo successo vennero abbandonate a causa della loro inutilità e danno. Inoltre, nel secondo settecento venne avviata la pratica del cesareo sulla donna ancora in vita. L’applicazione di questi strumenti e operazioni era molto varia nella pratica ostetrica, con una differenziazione che attraversava l’Europa, lungo correnti di pensiero fortemente divise riguardo al modo di intendere il ruolo del chirurgo – ostetricante nel parto: l’ostetricia attiva o operante e quella aspettante. Termini coniati dagli storici della medicina, l’una sosteneva un maggior protagonismo dell’ostetrico nel parto, l’altra un comportamento di maggior prudenza e attesa, in linea con la tradizione più antica. Queste due si consolidarono a metà 700 da un lato in Francia con Andrè Levret e dall’altro in Gran Bretagna con William Hunter. La contrapposizione teorica tra le due correnti aveva importanti ricadute sul fronte terapeutico; per gli uni l’ostetrico doveva avere un ruolo attivo nel parto e intervenire prontamente con strumenti e/o operazioni per evitare possibili rischi alla madre e/o al bambino; per gli altri doveva invece lasciar agire la natura, rispettandone tempi e modalità. Questa differenza animava polemiche che si complicavano, intrecciandosi a differenti orientamenti deontologici sulla priorità della vita della madre o del bambino. In alcune realtà l’impiego del forcipe raggiungeva percentuali impressionanti , in altre era estremamente basso come le operazioni ostetriche. Gli ostetrici aspettanti accusavano l’invenzione di tale poiché procurava più morti che vite salvate. La penetrazione del chirurgo – ostetrico sulla scena del parto avvenne in Europa con modalità e tempi diversi: Gran Bretagna, Francia del Nord e Paesi Bassi già dall’inizio del 600 e inizio 700. I chirurghi – ostetricanti erano attivi non solo nelle grandi città ma anche in città più piccole e seguivano partorienti di tutte le classi sociali, nei parti difficili come in quelli naturali, l’ostetrico secondo alcune testimonianze del tempo era diventato di moda anche nei parti semplici e naturali all’inizio del 800. Però, nulla di simile era presente nel sud Europa poiché a differenza della Germania o dell’Inghilterra, l’assistenza al parto rimase saldamente nelle mani delle levatrici per tutto XIX secolo e la prima metà del ‘900. Anche in città importanti come Venezia, le partorienti richiedevano di essere assistite dalle donne e son rare quelle che si assoggettino senza ribrezzo o spavento al maneggio di uomini dell’arte. Questa forte differenziazione è da ricondurre a ragioni culturali e di mentalità. In queste aree, larghi settori dell’opinione pubblica consideravano indecente che le donne si facessero visitare da un maschio, fosse anche per motivi di salute. Ciò confliggeva con il senso di pudore, vergogna e indecenza. Solo in punto di morte molte si decidevano a farlo. Un altro fattore era legato alla fiducia che la popolazione nutriva nei confronti delle levatrici, anche quando non erano fornite di diploma. A questo si intrecciava la resistenza delle levatrici a chiamare i chirurghi anche nei parti difficili, sia per non ammettere la loro sconfitta professionale, sia per non scontentare la famiglia, restia talora per motivi economici. Va considerato il ruolo giocato dalla Chiesa. Nei paesi protestanti si afferma più precocemente una nuova etica del corpo che va a infrangere le antiche barriere del pudore in nome della sopravvivenza e della salute. Nei paesi cattolici ciò è ostacolato non solo da un atteggiamento fatalistico di fronte alla morte ma dai valori del sacrificio materno che si sostanziano nella figura della Madonna. La Chiesa fondava il proprio potere di controllo sulla sessualità femminile, difendendo questo monopolio dell’invadenza della scienza e dello Stato. L’affermazione della figura del chirurgo – ostetrico era stata accompagnata da una regolamentazione che affidava ai chirurghi l’assistenza ai parti difficili. La pratica terapeutica risultava cosi ufficialmente e definitivamente scorporata nelle due diverse figure: alle levatrici competeva l’assistenza ai parti fisiologici e ai chirurghi – ostetrici quella dei parti che richiedono complesse operazioni e strumenti per aiutare la donna nel parto come la forcipe. 9. Gli ospedali di maternità Nel secondo Settecento vengono istituiti in tutta Europa gli ospedali di maternità nel senso moderno del termine, posti cioè sotto la direzione e l’organizzazione medica. La loro creazione segna una tappa cruciale nella storia della nascita e in quella dell’ostetricia. Prima di tutto pone le basi di quel processo di ospedalizzazione del parto che si svilupperà poi nel Novecento, dall’altro perché in queste istituzioni si codificano pratiche e modelli terapeutici che si diffonderanno nel territorio. Tra tutte le innovazioni del 700, questa è forse quella rappresenta più compiutamente l’insieme delle finalità introdotte dalle istituzioni politiche in campo della nascita. Questi ospedali erano infatti funzionali alla formazione dei chirurghi – ostetricanti e delle levatrici, ma si ponevano anche lo scopo di fornire alle madri – illegittime o povere un ricovero segreto, al fine di prevenire l’infanticidio. In Germania prevalevano le cliniche universitarie perché in questo paese si dava più conto alla formazione, prima di tutto dei chirurghi. In altri paesi contava di più l’accoglienza delle madri nubili, come nei paesi cattolici o ortodossi. In altri ancora il sostegno alle madri povere ma coniugate. Esse risultavano però accomunate da alcune caratteristiche, eccezion fatta per U.K, erano finanziate per lo più dallo Stato o da altre istituzioni pubbliche e poste sotto la direzione di un chirurgo – ostetrico, che svolgeva anche il ruolo di professore della scuola ed erano riservate a due categorie di donne: alle madri nubili e alle maritate povere. Le prime erano a loro volta divise in paganti e gratuite. In cambio dell’accoglienza gratuita, le povere dovevano prestarsi alla formazione clinica, con una distinzione tra allievi/e. Le maritate si prestavano alla formazione dei chirurghi, le nubili a quella della levatrice. Una distinzione tesa a salvaguardare il pudore delle ragazze. Le illegittime avevano diritto all’anonimato, potevano tener segreto il loro nome ed entrare velate. Nei paesi cattolici normalmente lasciavano il bambino nell’istituto degli esposti. Quindi c’era una differenziazione tra i paesi cattolici e quelli protestati, dove le madri erano tenute a portare sé i propri figli quando uscivano dall’ospedale. Tutto ciò è dato da diversi fattori come mentalità e culture diverse. Lo scandalo che derivava da un illegittimo era considerato molto grave, tanto più in un’epoca nella quale si andavano restringendo i margini dell’accoglienza sociale della maternità illegittima, ancora prima che i codici civili lo sancissero, nel XIX secolo, il divieto di ricerca della paternità e con esso l’obbligo di sostenere le spese del parto e del bambino. La formalizzazione di questo principio nel Codice napoleonico e in altri codici europei segna una svolta rilevante nella storia delle donne: le madri nubili erano lasciate sprovviste di tutela legale. In vari luoghi erano i parroci stessi a spingere le donne, divenute madri per commercio illegittimo, a ricoverarsi nella maternità e abbandonare il bambino. L’istituzione degli ospedali di maternità segna una significativa innovazione anche sul piano della lotta contro l’infanticidio, accentuando la prevenzione contro la repressione. Una giovane rimasta incinta fuori dal matrimonio poteva ricoverarsi e mantenere quell’onore la cui perdita era tra le cause principali di infanticidio. Le donne ricoverate erano effettivamente in larga maggioranza nubili, come hanno appurato le ricerche sui registri d’ingresso. Si trattava per lo più di ragazze appartenenti alla fascia più povera della popolazione; domestiche, sarte o contadine. Molte donne incinte venivano portate all’ospedale e rinchiuse con la forza dai familiari o dalle forze dell’ordine. Tra di esse una minoranza era rappresentata dalle prostitute. Un ruolo determinante era giocato in questo passaggio dalla figura del parroco, cui competeva, secondo le norme, stilare l’attestato di povertà necessario al ricovero. Le maritate o vedove, erano anch’esse per lo più vittime di violenze abbandonate o spinte fuori di casa da un marito brutale o vedove costrette a lasciare i figli nelle mani di altre persone. Nella maggior parte degli ospedali, le norme consentivano alle nubili di ricoverarsi già alcuni mesi prima del parto, quando la gravidanza diventava evidente. Il diritto all’anonimato era garantito in maniera più o meno rigorosa e con modalità differenti. Poche erano le paganti, cui i regolamenti permettevano di sottrarsi alla formazione clinica di risiedere in stanze separate, anche in compagnia di una domestica. Esse continuavano a preferire le case delle levatrici, malgrado molte leggi lo vietassero. La vita interna degli ospedali era improntata a una spiegazioni, mettendo a fuoco l’incidenza di quelle che venivano chiamate cause morali, cioè fattori non organici. Era per loro evidente, come lo sarà per la psicanalisi, che i fattori scatenanti andavano ricercati oltre che nello squilibrio fisiologico prodotto dalla gravidanza e dal parto, anche nel disagio psicologico e sociale che vivevano le madri nubili in una società la cui figura della madre era si esaltata ma all’interno della famiglia legittima, mentre una pesante emarginazione colpiva le gravide illegittime. Strette da leggi che vietavano la ricerca della paternità, respinte dalla famiglia, oppresse dalla povertà, molte non reggevano alla solitudine e al disonore. L’accoglienza presso gli ospizi di maternità, se permetteva ad alcune di celare la colpa, non era spesso che l’ennesimo calvario di sofferenze. Questo disagio colpiva anche le madri povere, vittime di violenza, o abbandonate dai loro mariti, esposte a gravidanze non desiderate, impotenti di fronte alla povertà e al sostentamento dei figli. La messa a fuoco della mania puerperale, quale malattia mentale rientrante nelle patologiche specifiche del puerperio, alimentò una nuova percezione e sensibilità nei confronti dell’infanticidio. L’opinione pubblica, come la giurisprudenza, apparivano sempre disposte a considerare il delitto, specie se compiuto da una donna nubile come un gesto di momentanea follia, un impulso infrenabile nella fase che segue il parto. La giurisprudenza si confrontò con un nuovo approccio medico, all’interno di una revisione che considerava appunto la mania come possibile elemento patologico del puerperio. Il disonore si configurava come elemento attenuante dal punto di vista giuridico, in quanto in grado di alterare il fragile equilibrio psichico della puerpera. Le statistiche giudiziarie dimostravano in maniera forte che le infanticide erano soprattutto madri nubili e povere. Il reato passò da essere considerato delitto efferato a omicidio scusato. Si prevedevano attenuanti per motivi d’onore (1803), ciò si estese nella seconda metà del secolo a tutti i codici europei che distinsero l’infanticidio del bambino illegittimo da quello legittimo. Si trattava di un profondo cambiamento poiché per la prima volta si cercava di cogliere la sofferenza delle ragazze madri, lo squilibrio delle norme. L’infanticida diventava sempre di più una fanciulla disgraziata che soffriva di deficienza transitoria del sentimento materno che si estenderà nel 900 anche alle madri sposate. Va segnalato anche il movimento di emancipazione delle donne che condussero una specifica battaglia a favore della madri nubili, mettendo l’accento sulla loro triste condizione e chiedendo l’abolizione del divieto di ricerca della paternità. Nel 1886 a Milano, viene invocato l’introduzione di sanzioni per gli uomini che si fossero sottratti alle loro responsabilità. 10. Il feto cittadino Una vera rivoluzione copernicana, destinata ad avere profonde ripercussioni non solo in ambito medico, aveva insistito il campo della fecondazione negli ultimi decenni del 600, portando in auge nuove teorie. Sull’onda della rivoluzione scientifica, liberi dagli steccati ideologici degli autori antichi, con l’ausilio della lente ottica, gli scienziati avevano finalmente visto ciò che neppure le sezioni anatomiche, avevano consentito di cogliere a pieno fino a quel momento, cioè che il corpo della donna non era una copia speculare e inversa di quello maschile. Le ovaie non erano i testicoli interni e soprattutto producevano uova. Allo snodo del XVII secolo fu quella ovista a ottenere il più ampio consenso in campo scientifico. L’imporsi di questa teoria nel Settecento comportò conseguenze rilevanti non solo sul piano scientifico, ma anche su quello culturale e del genere. Per la prima volta la donna acquisiva un ruolo di grande rilievo nel concepimento: non forniva solo la materia, né era mero contenitore dell’embrione, ma produceva essa stessa quelle uova nelle quali era contenuto il germe. L’apporto maschile alla generazione ne risultava alquanto ridimensionato: il padre non era più il principio della generazione, ma colui che poteva attivare durante il rapporto sessuale lo sviluppo di ciò che già la donna conteneva nel proprio corpo. Questo cambiamento contribuì a enfatizzare la figura e il ruolo materno, supportando quel determinismo biologico che si impose sul finire del 700, anche se le modalità e le forme in cui avvenne attendono ancora di esser adeguatamente analizzate. Le ricerche volte a suffragare la teoria ovista divennero frenetiche in tutta Europa. L’affermarsi di queste teorie performiste comportò una profonda revisione anche delle teorie dello sviluppo embrionale. I risultati di queste prime ricerche andavano a rivoluzionare non solo le antiche teorie organogenetiche ma l’immagine stessa dell’embrione che vi era collegata, ponendo le basi di una nuova rappresentazione culturale del feto. Esso veniva rappresentato con le caratteristiche di un individuo fin dall’inizio, come un piccolo adulto, in un processo di personificazione sottolineato dalle raffiguraziona, nelle quali era sempre disegnato in posizione verticale, al di fuori dell’utero, con tratti fortemente umanizzati fin dai primi mesi di gravidanza. Era ormai assodato che il feto aveva un proprio cuore e una propria circolazione sanguigna. Questa autonomia fisiologica si coniugava per molti medici a un’indipendenza sensitiva che lo rendeva impermeabile alle emozioni materne. Da un lato le nuove teorie scientifiche assegnavano una nuova importanza alla madre nella fecondazione, dall’altro, accentuando l’autonomia del feto ne ridimensionavano la forza e l’influenza nella gravidanza, riducendola a una mera funzione di nutrimento e contenimento. Ci fu un forte cambiamento nella visione del feto grazie a un gesuita siciliano: Francesco Emanuele Cangiamila. Era un riformatore colto e direttore degli studi del seminario di Palermo. L’interesse per le questioni relative alla generazione e alla nascita, sempre molto presente tra i teologi, risultava rafforzato, a metà 700, dalle rivoluzionarie scoperte scientifiche, per le ricadute che queste comportavano sul piano delle teorie sull’animazione del feto, al centro di un accesso dibattito tra le diverse correnti religiose, divise anche sul destino delle anime dei neonati morti senza battesimo in utero e di quello per resurrezione. Era la rappresentazione del feto che era cambiata poiché per il gesuita il feto fin dai primi giorni di vita si raffigurava come un fanciullino, un bambino non nato, oltre che una creatura amata da Cristo. Alla luce di questa nuova sensibilità, Cangiamila lanciava una vera e propria campagna per la preservazione della vita fetale, che si concretizzava in una serie di proposte articolate: dal tradizionale controllo sulle madri nubili alla creazione di ospizi per partorienti povere e illegittime, alla formazione delle levatrici. Un particolare rilievo assumeva la pratica del taglio cesareo, promossa e incentivata in quanto funzionale agli obiettivi di salvezza eterna che spirituale del feto. Tanto che il gesuita palermitano ne proponeva l’esecuzione non solo sulle donne morte durante il parto (come aveva fissato il Concilio di Trento), ma su tutte le donne che morivano durante la gravidanza, anche quelle che erano ai primi mesi. Il suo libro venne approvato nel XIV secolo, tradotto in latino e in tutte le lingue europee, imposto dai vescovi nelle parrocchie e nei seminari. La diffusione del testo diede il via a una capillare campagna di difesa degli embrioni e di promozione del taglio cesareo sulle donne morte durante la gravidanza, di cui l’Italia fu l’epicentro ma che guadagnò ben presto l’Europa intera. Essa prevedeva l’esecuzione dell’intervento a qualsiasi epoca di gravidanza, fissando pene severe in caso di inadempienza sia per le famiglie che per i medici. Non erano solo gli ambienti religiosi a essere attraversati da una nuova sensibilità nei confronti del feto: una particolare attenzione si affermava anche nel mondo laico, in quei settori medici permeati dal pensiero illuminista, attivi sul piano del contrasto alla mortalità e della difesa della cittadinanza. Il feto appariva al mondo come un cittadino non nato. Il concetto è stato sviluppato da uno dei fondatori della polizia medica, quel Johann Peter Frank che era stato consigliere di vari sovrani europei e direttore degli affari medici della Lombardia austriaca alla fine degli anni 80 del 700. Se il corpo della madre nella gravidanza era quasi proprietà dello Stato, non meno lo era il tenero embrione, speranza della patria, che in essa si andava sviluppando, una semenza cui lo Stato anziché i genitori devono cercare di conservare fino al punto di perfetta maturità. Ne derivavano nuovi doveri di tutela per medici e amministratori pubblici, i quali non dovevano limitarsi a controllare la nascita, ma tutto il percorso che vi sta a monte: l’intero processo della gravidanza. Si puntava a rimuovere le cause delle patologie e degli aborti spontanei. Tra le altre iniziative volte a tutelare la vita del feto, trovava spazio anche quella della pratica del taglio cesareo, di cui trattava in una sezione del suo libro. Veniva proposta il cesareo ma solo se finalizzata alla nascita di un feto vitabile, cioè in grado di vivere autonomamente, se eseguita cioè dopo la metà della gravidanza e un attento accertamento del decesso della madre. Senza queste condizioni l’operazione gli appariva una vera barbarie, ed egli usava parole molte dure parlando di rischio di omicidi in caso di morte apparente della madre, ed erano considerati veri macelli nella realtà sociale. Una posizione come la sua verrà codificata nella medicina legale dell’800. Queste diverse prospettive religiose e laiche risultano evidenti nelle leggi sul cesareo post – mortem emanate in Europa nella seconda metà del ‘700. Negli stati cattolici nei quali era più forte l’influenza della Chiesa, la pratica venne resa obbligatoria a qualsiasi epoca di gravidanza, affidata al chirurgo, sia in caso di necessità, ad altre persone a prescindere dalla volontà della famiglia e con la previsione di pene severe in caso di inadempienza. In altri stati, come la Repubblica di Venezia, dove l’influenza della Chiesa si sente meno rispetto agli altri paesi, la decisione veniva lasciata ai medici. Negli stati protestanti dove risultava la finalità laica, l’operazione veniva demandata alle valutazioni del medico e alle volontà della famiglia, senza alcun vincolo. Malgrado tali norme, la pratica del cesareo post – mortem, continuò a incontrare una forte resistenza non solo tra la popolazione, ma anche negli ambienti medici, soprattutto quando sul finire del secolo si affermò una nuova idea della morte come processo, non come passaggio istantaneo; il che rendeva ancora più problematico intervenire in tempi rapidi, come avrebbe richiesto l’intento di salvezza del bambino. Questo cambiamento di prospettiva alimentava ancor di più la paura della morte apparente, soprattutto tra i medici, i quali temevano di affondare il bisturi in un corpo non realmente morte. Le statistiche elaborate nell’800 soprattutto in alcuni Stati dell’Europa centrale, rilevano inoltre dati sconfortanti, lontani dalle ottimistiche previsioni del Cangiamila: le percentuali di sopravvivenza del bambino risultavano oscillanti tra l’1,3% e il 5%. Si aggiungeva a questa diffusa ostilità delle famiglie, per le quali operare sul cadavere di una vera donna che aveva già lungamente sofferto nel parto era considerato una vera barbarie. Nella seconda metà dell’800 il mondo medico era ormai unanime nel sostenere la liceità dell’intervento a soli fini sanitari e a seguito di una valutazione medica, come sancirono alcune accademie di medicina. Situazioni di scontro sulla pratica tra medici e parroci si registrarono in varie realtà cattoliche. Questi scontri, alimentarono anche ondate di anticlericalismo, spinsero la Chiesa ad assumere alla fine del secolo, principi d’igiene. Indirizzati direttamente alle donne, sono il segnale di una speciale relazione che si instaura tra madri e medici e che fa di questa figura, soprattutto nel 800 positivista, il nuovo sacerdote laico, codificatore di nuove forme di disciplinamento in nome della scienza e del progresso. Nel clima della rivoluzione e nell’età liberale, l’abbandono delle fasce assunte assume quasi il valore simbolico di liberazione dell’individuo da costrizioni e catene imposte della società: nei discorsi dei repubblicani è associato alla riconquista della libertà civile e politica. Le levatrici vengono direttamente investite da queste innovazioni e invitate a divulgarle presso la popolazione, ossia di consigliare a tutte le madri di allattare la propria prole. La penetrazione di queste pratiche di cura fu in realtà molto disomogenea in base ai diversi contesti e classi sociali: le classi della borghesia illuminata e dell’aristocrazia nel nord Europa, ne furono le promotrici come emerge anche dalle scritture private di varie nobildonne che tra 700 e 800, esaltavano le delizie dell’esser madre ben prima che Paolo Mentegazza la teorizzasse nella Fisiologia del piacere. Al contrario, l’aristocrazia e la borghesia conservatrice, come le classi popolari e soprattutto contadine, specie nel sud Europa risultarono a lungo refrattarie ad accettare queste nuove mode, sia sul versante dell’igiene che su quello dell’abbigliamento. Ancora a metà ‘900, come abbiamo detto, in molte aree in specie rurali, l’uso delle fasce risulta ancora in uso anche perché consentiva facile trasporto e gestione del bambino durante il lavoro. L'allattamento mercenario si intensificò in alcune realtà tra 700 e 800, guadagnando il proletariato urbano in tutti i luoghi in cui lo sviluppo economico implicava un forte impiego della forza lavoro femminile è una crescente separazione tra casa e luogo di lavoro. Il ricorso alle balie si diffuse tra le donne meno abbienti fu per esigenze concrete, ossia per l’espandersi dell’industrializzazione del 700 e 800, dal lavoro femminile in fabbrica o comunque in luoghi diversi o lontani da casa. L’allattamento risultava inconciliabile con questi nuovi impieghi. Dunque anche le donne del proletariato si affidavano alle balie. Analoghe ragioni incrementarono l'abbandono dei figli legittimi, fenomeno che raggiunse nell’800 cifre impressionanti. Nelle famiglie aristocratiche e borghesi in cui persisteva il baliatico, si generalizzò nel secondo 700 la moda di alloggiare la balia in casa, consentendo così alla madre un rapporto quotidiano con il bambino, oltre che uno stretto controllo su questa figura. Questo costume, in Italia andò avanti fino agli anni ‘40 e 50 del 900. L’amore materno spingeva le donne della élite a costringere la balia a stare per mesi nella casa, separando in tal modo le povere contadine dal loro neonato e dal loro ambiente, con pesanti ripercussioni sul vissuto personale. Saranno soprattutto le iniziative della filantropia ottocentesca a favore delle madri povere, con la creazione di asili per lattanti e ambulatori pediatrici, a diffondere nel secondo 800 anche tra le classi subalterne i nuovi principi di cura e assistenza dell’assistenza e saranno proprio le donne dell'aristocrazia e borghesia liberale a farsene carico, impegnando in quest’azione risorse economiche. Molti governi illuminati sostennero maggior campagne mediche, con l’obiettivo di contrastare la mortalità infantile, attraverso la promulgazione di leggi tendenti a proteggere la vita dei cittadini neonati. I codici penali identificavano l’infanticidio come delitto contro la persona, prevedendo pene severe, venivano varate norme sulla registrazione delle nascite, con l’istituzione dei registri di stato civile. Secondo il Codice napoleonico, il neonato doveva essere presentato negli Uffici municipali entro tre giorni dalla nascita del padre, medico o dalla levatrice, alla presenza di due testimoni, per la stesura dell’apposito atto. Estesa all’impero, questa riforma fu ripresa con diverse articolazioni dai governi della Restaurazione. Nei territori austriaci Lombardo - veneti era lo stesso parroco ad effettua re la registrazione, assumendo il ruolo di ufficiale civile, secondo le disposizioni del 1816. Come la nascita, anche la morte divenne oggetto di un controllo più rigoroso, nel tentativo di scongiurare l’infanticidio. Alcune leggi, come quella napoleonica o austriaca, imposero l’obbligo del certificato medico per la sepoltura dei neonati, contrastando l’abitudine di seppellirli senza alcun accertamento. L’intento riformatore coinvolse anche gli istituti degli esposti, vere e proprie fabbriche di morte poiché la mortalità che ancora nel’800 superava una percentuale del 50%. I regolamenti ottocenteschi cercarono di ridurla con varie forme. Per esempio con la vaccinazione, volta a debellare le terribili epidemie di vaiolo, fu al centro di una grande campagna nel 800. Il governo francese la promosse già all’inizio del secolo e nel corso dei decenni divenne obbligatoria per i bambini in molti stati europei. Anche le modalità del battesimo furono al centro di molte critiche da parte dei medici che segnalavano i rischi dell’esposizione all’acqua fredda nella cerimonia, i lunghi trasporti, il freddo durante i mesi invernali, accentuati dalla precocità con cui veniva somministrato il sacramento. Quest’offensiva medica sociale e istituzionale, unita al seppur lento e disomogeneo miglioramento delle condizioni di vita portò a una progressiva diminuzione della mortalità infantile. L’età contemporanea Le molteplici rivoluzioni del Novecento Le trasformazioni economiche e sociali del 800 avevano introdotto radicali cambiamenti nel modo di vivere la gravidanza e il parto di molte donne delle classi subalterne. La rivoluzione industriale che aveva coinvolto milioni di donne anche gli stati del sud Europa, aveva spinto le donne per lo più giovani in fabbriche insalubri, in condizioni di lavoro pesantissime senza alcuna forma di assicurazione e tutela. Nessuna astensione dal lavoro o riduzione di orario era prevista per la maternità, nè prima né dopo il parto. Le malattie, gli aborti, i parti precoci indotti da lavorazioni nocive aumentarono sensibilmente come non tardarono a segnalare i medici, che in sintonia con i partiti socialisti e il movimento emancipazionista, denunciarono con forza il fenomeno. Si trattava di una realtà sociale che contrastava in maniera stridente con la parallela esaltazione del ruolo materno e i nuovi modelli di cura. Non stupisce che in questo contesto il movimento di emancipazione assumesse il tema della maternità come leva non solo dei diritti politici ma anche di quelli sociali, facendo della sua tutela un obiettivo imprescindibile, sul quale si registrava un’ampia convergenza che univa liberali, cattolici, socialiste in un comune femminismo materialista che puntava al riconoscimento da parte dello Stato della maternità come funzione sociale. L’introduzione del congedo di maternità per le lavoratrici veniva rivendicato in tutti i cong essi femminili nazionali e internazionali tenuti a Parigi. Nel 1900 si chiedeva anche il diritto alla retribuzione. Sull’onda di questa mobilitazione femminile, condivisa da larghi strati dell’opinione pubblica, tra la fine del 800 e i primi decenni del 900, in molti stati furono varate leggi a tutela delle lavoratrici madri, a cui si affiancarono leggi di protezione dell’infanzia. In prima linea Svizzera, Germania, Austria, poi seguite da Gran Bretagna, Portogallo, Svezia e Italia nel 1902. Il congedo di maternità, inizialmente non pagato e limitato alle prime settimane di parto si estese successivamente alle ultime settimane di gravidanza, con un graduale riconoscimento della retribuzione. La cassa di maternità, primo provvedimento di welfare state, fu istituita in Italia nel 1910, tre anni prima che in Francia. Per quanto ristrette a poche categorie di lavoratrici e limitate nell’applicazione, queste leggi rappresentavano una tappa importante nella storia delle donne, poiché riconoscevano la maternità come funzione sociale. Questo impegno legislativo fu accompagnato in molti casi da un dispiegarsi di iniziative filantropiche che vide in prima fila le donne della élite, spesso aiutate da medici, all’interno di una nuova sinergia volta a sostenere le madri povere e lavoratrici, a combatter e la mortalità, a diffondere principi di igiene e nuovi modelli di cura. Un servizio importante che vide la luce all’inizio del 900 fu l’istituzione di consultori per le madri, dove veniva distribuito latte sterilizzato a basso prezzo, si effettuavano visite mediche e venivano fornite sull’allattamento e le cure del bambino. Si trattava di una svolta significativa perché per la prima volta era la madre a recarsi dal medico, non il contrario, per essere assistita e soprattutto educata a fare la madre, secondo i dettami della pediatria. L’allattamento, come le prime cure, non dovevano essere lasciati all’istinto materno o alla tradizione. Necessitavano di educazione e insegnamento da parte dei medici che per questo scopo iniziarono a scrivere riviste e manuali rivolte alle madri. È evidente come queste istituzioni si ponessero molteplici obiettivi, sociali, sanitari, educativi: aiutare le madri povere, offrire al medico un osservatorio scientifico e scientifico di ampio raggio. Diffondere le nuove regole di allattamento e igiene tra le classi proletarie, al fine di prevenire le malattie e combattere la mortalità. Tra gli anni ‘20 e ‘30 si assiste in tutta Europa a una forte ripresa dell’iniziativa politica nel campo della nascita, con interventi che spaziano dal controllo alla repressione, dall’educazione alla formazione, con la predisposizione di programmi di assistenza, cura, prevenzione e un’attenzione peculiare alla nascita. Questo fenomeno è correlato a alla diffusione di forme di controllo della nascita in larghi strati della popolazione e dall’altro dell’affermarsi di ideologie nazionalistiche e di governi autoritari in diversi stati europei. L’imporsi di nuovi comportamenti sessuali, coniugati alla diffusione dei sistemi contraccettivi aveva portato a una progressiva riduzione della natalità, che si era estesa alle famiglie borghesi e del proletariato urbano, a partire dal nord Europa. In testa stava la Francia con un tasso di natalità del 21%. In Italia era del 33% in costante diminuzione. Questo caldo di nascite, enfatizzato dalle statistiche, aveva rinfocolato quei timori di declino demografico già emersi nel 700, cui erano connesse preoccupazioni di crisi economiche e militari. Allora, in molti paesi europei compresa l’America furono varate leggi a favore della maternità e dell’infanzia. L’affermarsi di regimi nazionalistici negli anni ‘20 e ‘30, accentuò ancora di più la questione demografica, prefigurandola come prioritaria nell’intervento politico. Che lo stato non fosse for4e che del numero dei suoi cittadini - come avevano asserito gli illuministi - era una profonda convinzione di Mussolini. Il numero come potenza era indicativo nella sua politica. L’incremento demografico era inteso come premessa per lo sviluppo di un paese di tardiva industrializzazione, bisognoso di manodopera a basso costo e per quella espansione coloniale che si collegava alle mire imperialistiche del regime. Occorreva incrementare la natalità, cosa che il duce fece nel 1972, lanciando la campagna demografica. Termine che sottolineava il nesso tra imperialismo e aumento delle nascite. Tra gli obiettivi c’era sicuramente anche la volontà di una moralizzazione dei costumi. Doveva esserci secondo il regime un ritorno a modelli di genere tradizionali. La metafora tradizionale del parto e della guerra fu così ripresa e riproposta. La guerra sta all’uomo come la la maternità alla donna. C’è una forte propaganda, controllo, educazione portata avanti da tutti i sistemi del regime politico con la collaborazione di volontari, membri del partito, funzionari. Leggi repressive colpirono i comportamenti anti - natalisti in maniera più pesante di quanto era avvenuto con i governi liberali conservatori. Furono messe al bando la propaganda, l’informazione contraccettiva (1926) venne applicata una tassa sul celibato sempre nello stesso anno, forte lotta contro l’aborto e l’omosessualità è l’aborto, considerato nel nuovo codice penale Rocco (1930) come delitto contro la stirpe. Paternità e numero dei figli diventarono requisiti preferenziali nella carriera. In questa prospettiva la maternità si configurava come un dovere patriottico. Si assisteva così a una riduttiva declinazione della maternità nel senso di mera produzione corporea, dissonante rispetto alle aspettative di valorizzazione sociale espresse dal movimento femminista. popolazione intera. Questo progresso medico incrociava, oltre che le istanze pubbliche anche le crescenti aspettative di sicurezza da parte delle donne e delle famiglie. Non solo il rifiuto della morte emerso in età moderna ma il rifiuto del rischio stesso in un’ottica di prevenzione assoluta per avere il parto perfetto coinvolgendo anche i bambini, reso sempre più prezioso dalla progressiva limitazione delle nascite. Grande impressione suscitavano nell’opinione pubblica o fatti di cronaca in cui la partoriente moriva a domicilio per non aver trovato in tempo un medico, all’insorgere di patologie improvvise. L’ospedale garantiva un’equipe pronta a intervenire in un qualsiasi momento con l’immediata esecuzione delle operazioni che servivano alla salvaguardia della partoriente e del bambino, mettendo questi ultimi al riparo della mortalità. Inoltre offriva al neonato maggiori garanzie, grazie alla presenza di un nuovo strumento; l’incubatrice che messa a punto nel 1880 si rivelava indispensabile per i neonati prematuri o sotto peso. La sicurezza e il rifiuto del rischio per sé e per il bambino giocarono dunque un ruolo nell’orientare la scelta delle donne. Tuttavia all’ospedalizzazione del parto risultarono cruciali anche altri fattori sociali e culturali che nel corso del secolo contribuirono a sostenere e rafforzare tale tendenza. Dagli sconvolgimenti della guerra che avevano portato negli alloggi alla progressiva crisi della famiglia allargata dopo il ‘45, all’emigrazione dalla campagna alla città, ai nuovi modelli abitativi che si imposero in quegli anni, all’affermarsi progressivo di una cultura che separava alla nascita dallo spazio domestico, demandando alla medicina la sua gestione. La sofferenza, il dolore, il sangue, gli umori, che il parto comporta venivano allontanati dalla vita quotidiana, all’insegna di un’immagine di salute di benessere e felicità che caratterizzava in particolare gli anni del boom economico. Il dolore andava nascosto. Nel XX secolo la sofferenza e la morte sostituirono il sesso come principali tabù e anche il parto viene rimosso dalla comunità per il carico di dolore e sconvolgimento fisico ed emotivo che comporta. Nell’ ospedale il parto perdeva la sua specificità poiché la partoriente veniva catalogata come paziente, il parto era un mero processo fisiologico al quale erano applicati le norme ospedaliere, l’adeguamento e l’accettazione delle regole. Il cerimoniale ospedaliero imponeva l’allontanamento dal marito e dai parenti fino dal momento del ricovero, nessuna intimità o riservatezza, nessuna considerazione di bisogni particolari, poche informazioni sui trattamenti, poca empatia nei confronti della paziente. Il dolore era diventato un tabù. La paura e l’ansia erano trattate come sinonimi di sfiducia nei dottori. Ciò richiedeva alla paziente una totale delega all’autoritá medica, cioè una passività ubbidente. Chi non si adeguava era pesantemente colpevolizzato. Anche la relazione madre - figlio alla nascita era rigidamente codificata. I rapporti con la madre erano codificati da norme e intervalli rigorosi. Allo stesso tempo si assiste anche alla progressiva affermazione di strumenti e tecniche come l’uso del cesareo. Una sottolineatura particolare merita l’allattamento poiché dal secondo dopoguerra si verifica la scomparsa della secolare figura della balia, cancellata dal generalizzarsi dell’allattamento materno, dall’affermarsi del modello della casalinga consacrata al lavoro di riproduzione e cura e soprattutto del trionfo del biberon. La diffusione del latte in polvere, commercializzato con il marchio del Glaxo in Gran Bretagna già nel primo Novecento, si impone negli anni del boom economico, sull’onda di una massiccia propaganda delle case farmaceutiche. Anche la medicina lo sostiene e lo incentiva addirittura come migliore e più sicuro del latte materno, oltre che come strumento di una nuova emancipazione materna. Lo slogan che il movimento delle donne gridava nelle piazze negli anni 70 metteva in campo un principio dirompente e radicalmente nuovo nella storia di genere, ossia quello dell’autodeterminazione sul proprio corpo. Il cambiamento di prospettiva rispetto al movimento di emancipazione del 800 era profondamente diverso. Non si trattava più solo di rivendicare diritti civili e politici, ma di affermare una libertà di scelta che si declinava sia sul versante della sessualità che su quello della maternità. Per la prima volta nella storia le donne rivendicavano pubblicamente il diritto di decidere se quando e come avere un figlio. La maternità non era più intesa come diverse morale o destino biologico ma come scelta del tutto personale che spetta alla donna. Il concetto di sessualità, matrimonio e procreazione venivano fortemente messi in discussione. La scoperta di nuovi metodi contraccettivi forniva a questa prospettiva un valido supporto tecnico. Fu un processo di liberazione. Il contraccettivo ormonale messo a punto da Gregory Pincus nel 1956 si diffuse negli anni 60 insieme ad altri metodi contraccettivi, nell’ambito di una prospettiva di programmazione delle nascite, di planning familiare e di progressiva riduzione della natalità, che a partire dagli USA guadagnava in Europa, innescando una rivoluzione contraccettiva con una forte riduzione delle nascite. In vari paesi fu avviato una disposizione di tutte le conoscenze indispensabili per operare scelte consapevoli. Per alcune questa libertà di scelta si concretizzava nel rifiuto della maternità, sul quale incideva anche la distanza sa un modello materno vissuto come subalterno. Molte invece cercavano percorsi che declinassero maternità e realizzazione di se. Ne scaturivano rivendicazioni sociali di una piena cittadinanza sociale, richieste di servizi che permettessero di coniugare lavoro e maternità come asili nido e scuole materne. Insperabili da queste richieste erano quelle relative all’istituzione di consultori sessuali e di una revisione legislativa dell’aborto. Questa tema mobilito il movimento femminista in un’ampia serie di iniziative. Dalle manifestazioni di massa all’organizzazioni di aborti autogestiti alle mobilitazioni nei processi di aborto. Intanto nascevano associazioni e gruppi con lo scopo di fornire sostegno legale e pratico alle donne. Il ci esce te coinvolgimento dell’opinione pubblica e l’appoggio dei partiti di sinistra portò tra la fine degli anni 70 e gli anni 80 alla promulgazione di leggi sull’interruzione volontaria della gravidanza nella maggioranza dei paesi. In Italia una storica sentenza della corte costituzionale dichiarava incostituzionale l’art. 546 del codice penale che vietava l’aborto terapeutico, sancendo per la prima volta il principio di priorità della vita materna su quella fetale. Tre anni dopo nel 1978 il parlamento varava la legge 194, nonostante la forte opposizione della chiesa e dei partiti cattolici fu particolarmente forte. In un clima di pesante scontro sociale, la legge fu sottoposta un referendum abrogativo nel 1981. La vittoria che la riconfermava rivelava quanto fosse cambiata la mentalità collettiva, quanto fosse intimamente penetrato anche tra le donne delle classi popolari e cattoliche il principio della scelta della maternità. Negli stessi anni vennero cancellate le leggi che vietavano la propaganda e l’uso dei contraccettivi. Sono leggi importanti poiché fonda la cittadinanza femminile sul principio di autodeterminazione del proprio corpo. Va tuttavia precisato che il alcune realtà, come in Italia, la loro effettiva applicazione a causa della scarsa diffusione dei consultori pubblici e soprattutto data dall’obiezione di coscienza. All’inizio il movimento femminista fu soprattutto un movimento contro che intrecciava libertà e rivendicazione, autocoscienza e denuncia. Al centro della critica stava la chiesa da un lato e la medicina dall’altro, individuate come responsabili di una repressione delle donne che trovava nella figura della strega il simbolo più esplicito. La critica alla medicalizzazione del parto, la denuncia del biopotere si intrecciava a un lavoro concreto di organizzazione di consultori femminismi e medicina alternativa. Verso la fine degli anni 70 si aprì la strada a un femminismo più maturo incentrato sulla maternità. Si riconosce la maternità come un’esperienza importante e peculiare della donna in una prospettiva di differenza sessuale. Per le femministe era cruciale e rimane l’obiettivo di rendere la donna soggetto responsabile delle scelte che riguardano il proprio corpo, libera da imposizioni e disciplinamenti. Un altro tabù che venne a cadere nel 900, sull’onda dei rilevanti processi si laicizzazione della società era quello che associava la sofferenza al parto come un nesso ineludibile, in quanto iscritto nelle disposizioni. Dopo secoli e secoli, una medicina più attenta ai bisogni delle donne cominciava ad affrontare il complesso tema del dolore del parto, sia sul versante delle ricerche che su quello delle tecniche volte ad alleviarlo. Il percorso in questione è caratterizzato da da polemiche e contrapposizioni, in una vera e propria guerra ideologica che in parte continua anche ai giorni nostri. I primi passi in questa direzione furono avviati già a metà 800 in U.K. Tra la fine del secolo e l’inizio del 900, l’interesse scientifico per la somministrazione dell’anestesia alle partorienti conobbe un rapido incremento, con il susseguirsi di sperimentazioni di sostanze nuove. La ricerca era sostenuta anche dalla richiesta sociale in una realtà femminile sempre più consapevole e combattiva da, diffondersi dei diversi movimenti emancipazionisti, soprattutto nei paesi anglosassoni. Molte donne la richiedevano espressamente. Tutte queste sostanze presentavano però delle controindicazioni non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico, come sottolineavano coloro che le avversavano poiché privavano la madre della consapevolezza del parto durante la fase finale. Solo con l’anestesia epidurale (1909 - von stockel) la donna riuscirà a rimanere vigile durante il parto e allo stesso tempo sedare il dolore. Negli anni 50 questa tecnica si diffuse in particolare in U.K, consolidando una tendenza che si sarebbe affermata con forza negli anni successivi. Una metodica del tutto diversa, basata sulla psicologia, veniva messa a punto negli anni Trenta dall’ostetrico. Critico nei confronti dell’anestesia, sostenitore del parto naturale, convinto che il dolore fosse largamente causato dalla paura che determinava le contrazioni muscolari, l’ostetrico inglese Grantly Dick - Read aveva elaborato un metodo fondato su tecniche di rilassamento muscolare e autocontrollo. Ciò conobbe grande successo nel dopoguerra. Riprendiamoci il parto era il significativo titolo dell’edizione italiana del Birth Book di Raven Lang pubblicato negli USA nel 1972 e poi in Italia nel 1978 dal Gruppo femminista sul parto di Roma. Esprimeva in forma esortativa un’istanza largamente condivisa nel movimento femminista, che se declinata in forme diverse. Per alcune riprendersi il parto voleva dire sottrarsi all’esperienza del parto medicalizzato, per altre recuperare la portava emotiva dell’evento, riportandolo all’interno della sfera collettiva, per altre ancora reinserirlo in una prospettiva naturale e non patologica, rispettando le esigenze del bambino. Una serie di inchieste portava alla luce il senso di impotenza e violenza vissuto da molte donne nella sessualità, nell’aborto, nel parto ma anche la ferma volontà di sottrarsi, di uscire dalla solitudine e dal silenzio. La denuncia pubblica si intrecciava alla volontà di un cambiamento profondo che coinvolgeva l’intera sfera della sessualità, della riproduzione, della maternità corporea. È in questo orizzonte che prendono il via esperienze alternative del parto, nate nella maggior parte dei casi da una feconda sinergia tra femminista e medici di sinistra e esponenti del movimento ecologista, ugualmente critici nei confronti della medicalizzazione. Si tratta di esperienze molto diverse tra loro a seconda del prevalere dell’uno o dell’altro obiettivo, sorte spesso in ospedali di periferia o in cliniche private che diventano poli di attrazione di circuiti nazionali ed europei. Va evidenziato come in queste esperienze il padre acquisì un ruolo inedito rispetto al passato, con un coinvolgimento che lo vede presente e partecipe sia durante la gravidanza che alla nascita. L’umanizzazione del parto avviene dunque in forme che riflettono anche i nuovi rapporti di coppia. Si tratta di un dato innovativo, espressione di una nuova forma di solidarietà e intimità della coppia che porta a una netta rottura della tradizione separazione di genere nel parto. Nascono associazioni sull’onda di questi movimenti femministi per l’assistenza durante la gravidanza. Il Italia nascono i consultori familiari, oltre a prendere l’informazione contraccettiva, si pone Alle soglie del terzo millennio, i movimenti femministi hanno affermato alcuni principi basilari, recepiti anche a livello legislativo seppur con diverse accentuazioni: quello dell’autodeterminazione della donna rispetto alle scelte procreativi è uno di questi, come quello del diritto alla salute. La maternità è generalmente riconosciuta come una scelta che una donna può compiere in piena libertà, non come dovere o obbligo. Le donne hanno la libertà di decidere se e quando avere un figlio, come era negli slogan del movimento femminista. Però queste affermazioni di diritto non le troviamo sempre del tutto nella realtà sociale. L’applicazione di varie leggi emanate degli anni 79 risulta molto disomogenea in Europa, rimessa in discussione o ostacolata. Questo è ciò che avviene in Italia con la legge nr. 194 sull’aborto. A causa dei numerosi obiettori di coscienza, si è verificato un ufficiale richiamo del parlamento europeo nel 2016. Anche la fecondazione assistita resta in alcuni paesi un privilegio pochi, per gli alti costi richiesti e non coperti dalla sanità pubblica. Inoltre la crisi economica rischia di compromettere proprio il primo diritto; di scegliere la maternità senza doverne pagare pesanti conseguenze personali, in termini di lavoro e carriera. Se in molti ospedali si registrano effettivi cambiamenti che vanno nel senso di una maggiore umanizzazione e rispetto della partoriente, con la presenza del padre durante il travaglio. In altre la situazione sembra connotata anche da una pesante medicalizzazione è una scarsa attenzione ai bisogni e sofferenze della donna. Al di queste voci femminili, sono i dati che parlano che evidenza una pesante medicalizzazione con un’incidenza del cesareo che rimane in vari paesi ben al di sopra delle indicazioni dell’OMS. C’è da chiedersi fino a che punto il ricorso a queste nuove pratiche e tecnologie riproduttive affermi o realizzi una reale scelta della donna, fino a che punto sia espressione di libertà. Alcune ricerche hanno messi in luce come dietro al ricorso della fecondazione si celino in alcuni casi motivazioni antiche; il perseguimento di un ruolo ritenuto essenziale, una forma più subdola di obbligo materno a cui la tecnologia rende ancora più difficile sottrarsi e che risulta enfatizzato da una Rinascente mistica della maternità, la quale prefigura una totale consacrazione ai bisogni del bambino. Le gerarchie di genere alla nascita risultano scardinate in molti paesi occidentali. Il sesso del nascituro è indifferente per le coppie. L’affermazione di nuove relazioni di coppia, con la messa in discussione dei tradizionali modelli ha vanificato la distinzione tra figli legittimi e naturali, tra madri legittimi e illegittime, affrancando le madri nubili da una secolare emarginazione sociale fatta di violenze e discriminazioni. Anche l’esperienza corporea della maternità sta uscendo dall’angolo del buio della vergogna e dell’invisibilità nel quale era da secoli confinata: le donne esibiscono con orgoglio il loro stato di gravidanza. Avere il pancione non è più una vergogna. Il parto viene filmato. C’è una spettacolarizzazione che tuttavia rischia di far perdere all’evento proprio la sua preziosa carica di emozione, intimità e relazione affettiva. Soprattutto è svanita la macchia dell’impurità del puerperio. C’è una rivendicazione anche a favore dell’allattamento in pubblico, giudicato disdicevole e perfino proibito in molti luoghi pubblici. Inoltre, come si vede l’uso del web consente l’affermazione di nuovi protagonismi e di forme di aggregazione femminile.
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