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Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta, Sintesi del corso di Storia Moderna

Sintesi del libro di storia moderna.

Tipologia: Sintesi del corso

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MartinaPaoli
MartinaPaoli 🇮🇹

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Scarica Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! GENERARE, PARTORIRE, NASCERE Introduzione Le donne nel passato partorivano con una frequenza assai maggiore rispetto al presente. Per secoli l'essere donna ha coinciso con l'essere madre; la maternità era espressione dell'identità sessuale; su questa si misurava il valore femminile, la posizione e il ruolo della donna nella famiglia. Su questa capacità si concentravano dunque aspettative individuali, familiari, sociali, ma anche forme di tutela, controllo, disciplinamento che avevano il loro epicentro nella famiglia, nell'istituzione ecclesiastica e in quella politica. L'idea stessa di generazione e nascite cambia nel corso del tempo, come muta quella del feto, imponendo la ricodificazione del rapporto con il corpo materno. 1. Rappresentazioni culturali 1. Premessa: rimozioni e dicotomie Solo il corpo femminile possiede la capacità di sdoppiarsi e mettere al mondo mantenendo la propria unità. Alla capacità della donna di partorire è stata opposta quella maschile di “generare”; a quella di produrre corpi, quella superiore di produrre pensieri. In queste convinzioni culturali traspare un'inconscia invidia nei confronti di una prerogativa esclusivamente femminile, il tentativo di elaborare questa differenza all'interno di una scala gerarchica, di un'asimmetrica codificazione dei generi che ribadisse e consolidasse il primato maschile, esaltandone le peculiarità. La religione cristiana ha attuato un profondo cambiamento dal punto di vista simbolico, ma in forme ambivalenti e contraddittorie: esaltazione della Vergine Maria, volta a epurare dalla sua figura le tracce della maternità corporea, esonerandola dai dolori del parto, dal sangue e dalle sofferenze, riservate invece a Eva e alle sue discendenti. E' la scena della nascita a essere esaltata, non quella del parto; è il bambino che viene al mondo, non la madre nell'atto di darlo alla luce. Viene esaltata la maternità spirituale mentre quella corporea viene lasciata nell'ombra e caricata di valenze negative, come un qualcosa di animalesco e vergognoso; sul parto permane l'alone di impurità. 2.La terra e il seminatore Un'analogia profondamente radicata nella cultura occidentale ha collegato il corpo della donna alla terra lungo la linea della fertilità. A sua volta la terra veniva spesso rappresentata come madre che custodiva nel suo grembo i semi, che dava frutti agli uomini e li nutriva. La terra era madre, come lo era la Natura. Nei secoli precedenti il V in Grecia, la terra assimilata al corpo femminile era spesso descritta come un territorio vergine che produceva spontaneamente ogni nutrimento per gli uomini, nelle rappresentazioni successive essa diventa un campo, cioè uno spazio segnato dalla cultura e dalla fatica dell'uomo, un “possedimento” che il contadino-padrone rende fertile. L'importante riscrittura da un lato assegna alla donna un ruolo più passivo nella generazione, dall'altro la presenta come una proprietà del contadino-marito, il quale ara e semina il “suo” campo per produrre frutti che gli appartengono. Le conseguenze implicite evidenziano inoltre il primato del rapporto patrilineare rispetto a quello matrilineare, cioè la maggior rilevanza del rapporto padre- figlio/a. La madre in numerose rappresentazioni e opere vene descritta come mera ospite dell'embrione, come ad esempio Aristotele che ne darà le basi scientifiche, Platone, Sorano d'Efeso, e altri. Seguendo l'evoluzione metaforica, quando il seme si sviluppa, diventa “fiore” e poi “frutto” e così viene appunto chiamato il feto. E se il feto è il frutto, la madre è l'albero da cui germoglia e in cui cresce: questa è la metafora più ricorrente per indicare lo stato di gravidanza. La nascita era dunque vista come la caduta di un frutto ormai maturo. Anche per questo la durata della gravidanza era concepita come variabile, dal settimo al nono, decimo mese: il frutto si staccava da sé quando raggiungeva la sua maturazione. In campo sessuale, l'atto era concepito solo in chiave di fecondazione. Nel secondo Settecento si afferma un nuovo interesse politico nei confronti della nascita, il corpo della donna veniva sempre inteso come un campo, ma non un campo qualunque o un terreno di proprietà privata, ma come il “semenzaio dello stato”, dove maturano i “cittadini non-nati”. 3.Il maschio come “principio della generazione”: generati da uomo, partoriti da donna Fin dalle origini l'attenzione del pensiero medico-filosofico greco s'incentra sulla fecondazione, momento iniziale del processo riproduttivo nel quale entra in gioco il contributo maschile. Il corpo della donna era la copia imperfetta di quello maschile, caratterizzata da una serie di minorità. Il seme maschile era più forte del seme femminile (si credeva che entrambi mettessero a disposizione i loro semi per la fecondazione), e la sua prevalenza determinava la nascita di un maschio; ma per Aristotele, la generazione era frutto esclusivo dell'azione del seme maschile che agiva sulla materia fornita dal corpo femminile, il quale al contrario non produceva alcun seme, ma solo una secrezione. Il ruolo dei due sessi nella generazione risultava dunque fortemente gerarchizzato, in sostanza solo al maschio era attribuita la capacità di generare, mentre il ruolo della donna era svilito, ridotto a mera funzione di contenimento: il suo corpo nutriva ciò che il seme maschile aveva generato; il maschio era attivo e la femmina passiva. Senza piacere non poteva esserci fecondazione, perché voleva dire che non c'era stata emissione di seme; a sua volta la fecondazione era prova di un'emissione di seme, quindi di un piacere sessuale condiviso (se una donna avesse concepito a seguito di uno stupro, voleva dire che aveva provato piacere). Queste differenti teorie continuarono ad essere oggetto di ampie discussioni e rielaborazioni nei secoli successivi. Tuttavia le teorie di Aristotele non vennero accantonate, anzi conobbero un rinnovato successo soprattutto le basso medioevo. 4. Figli maschi/figlie femmine: gerarchie della generazione Poiché “chi è generato assomiglia a chi lo ha generato, ne conseguiva che il fine della generazione, cioè la generazione perfetta, era la produzione di un figlio maschio somigliante al padre. La nascita di una figlia femmina rappresentava di per sé un allontanamento dalle finalità, ma necessario alla natura, al fine di perpetuare la specie negli animali. La determinazione del sesso era spiegata dal filosofo attraverso il principio del calore del seme: il seme più caldo dava origine a un maschio; la nascita di una femmina era invece il risultato di un seme più freddo e scadente. Si prospettavano quattro livelli nella gerarchia della generazione: un maschio assomigliante al padre, un maschio assomigliante alla madre, una femmina assomigliante al padre e una femmina assomigliante alla madre. Altre teorie correlavano la determinazione del sesso. Ad esempio Anassagora era determinato dalla provenienza del seme: se era prodotto dal testicolo destro, dava un maschio, in caso contrario una femmina. Anche per Galeno l'opposizione destra/sinistra era fondamentale, ma riferita all'utero. 5. Partorire con il corpo/partorire con la mente Alla capacità della donna di procreare con il corpo la cultura greca ha contrapposto una speculare capacità dell'uomo di “partorire con la mente”. L'analogia si coniuga con le gerarchie di genere e di conseguenza il partorire con la mente proprio dei maschi, è più nobile del partorire con il corpo proprio delle donne. Secondo Socrate i nati di donna sono destinati alla morte; i figli della mente invece sono immortali, dunque la riproduzione maschile è la sola che possa garantire l'immortalità, mentre quella corporea femminile rivela la sua limitatezza. Egli definisce la sua filosofia come maieutica (arte della levatrice/ostetrica). Come a una donna che sta per partorire si affianca una donna che l'aiuta, così all'uomo che genera pensieri si affianca un altro uomo che lo aiuta attraverso le domande a elaborare i concetti in un travaglio intellettuale attraverso cui si produce la verità. La radicata convinzione della loro inferiorità intellettuale risultava rafforzata da questa rappresentazione che opponeva in una dualità oppositiva il partorire con il corpo e il partorire con la mente, la maternità e il pensiero. Una figura femminile doppiamente feconda, nel corpo e nella mente, sarebbe risultata all'immaginario maschile troppo potente e dunque minacciosa, accentuando l'invidia e la paura inconscia. femmina: se la pelle della faccia della gravida era liscia e chiara, avrebbe avuto un maschio; se invece era macchiata, sarebbe nata una femmina. Secondo Galeno, la bellezza dei figli era da porre in relazione al piacere provato durante l'accoppiamento. Altri sostenevano che l'occhio della madre fosse come una specie di pellicola che imprimeva sul feto quanto essa fissava, e per questo motivo si raccomandava loro di tenere davanti agli occhi immagini belle, per mettere al mondo bambini ben fatti. Analogo potere era riconosciuto all'immaginazione della madre: valore ampiamente riconosciuto e ritenuta alla base della creatività artistica. Questa teoria enfatizzava da un lato la profonda comunicazione tra madre e feto, dall'altro il potere del corpo materno. Ne derivava un'immagine forte della fecondità femminile, che attribuiva alla donna un ruolo attivo e determinante, se non nel concepimento, almeno nello sviluppo del feto. Anche i desideri non soddisfatti della donna potevano imprimersi sul corpo del feto sotto forma di macchie o segni simili alla cosa desiderata, le cosiddette voglie appunto. Le quali nel Seicento venivano interpretate come capricci e come indice di scarso autocontrollo. 4. Indicazioni, pratiche e divieti tra medicina e tradizione Sorano distingueva le cure della gravidanza in tre fasi: quelle volte a conservare il feto, nella prima parte della gravidanza, quelle volte ad alleviare i disturbi, nella seconda parte, e infine quelle che servivano a preparare la donna a sopportare il parto. Particolarmente delicato era il primo stadio, quando la gravida doveva evitare ogni tipo di eccesso, di movimento o emozione, regolare la dieta, passeggiare senza sforzo, non sollevare pesi, né svolgere lavori pesanti. Molti i consigli anche sull'abbigliamento: non si dovevano indossare abiti troppo stretti, tacchi troppo alti e si doveva far uso di fasce o cinture per sostenere il ventre negli ultimi mesi di gravidanza. Quanto all'alimentazione, si doveva seguire una dieta equilibrata, non mangiando ne poco, ne troppo. Le gravide dovevano riguardarsi dalle temperature troppo calde o troppo fredde, che avrebbero alterato l'equilibrio degli umori. Nefasti erano considerati, per tutto il periodo della gravidanza, i rapporti sessuali che potevano causare l'aborto, oppure un parto prematuro: poiché il corpo poteva essere o del marito o del figlio, non poteva essere condiviso da entrambi. Documentata dalle fonti è la violenza sessuale che spesso comprometteva la vita della donna e del feto. Si riteneva che un'eccessiva produzione di sangue potesse causare un accumulo nell'utero, che avrebbe potuto perfino procurare l'aborto per causa di soffocazione. Un complesso sistema di divieti e obblighi di carattere rituale regolava la vita della donna incinta, al fine di proteggere il bambino e garantire un buon parto. Non doveva ad esempio portare collane al collo, né incrociare le gambe, né tantomeno vedere i morti. I rimedi tradizionali mescolavano insomma medicina, religione e magia. Numerosi libri che raccolgono queste “ricette” per le gravide vengono stampati nel Cinque- Seicento. Ciò che è importante sottolineare è come il corpo della donna per tutta la durata della gravidanza fosse al centro di un forte controllo sociale, normato e costantemente sorvegliato, in primis dalla suocera, principale garante presso la famiglia e la comunità del rispetto delle regole. 5. Non solo bambini: mostri e mole Una credenza, lungamente condivisa sia in ambito scientifico che popolare, dal mondo antico fino al Settecento, riteneva che le donne potessero concepire e mettere al mondo non solo bambini, ma anche mostri o masse informi e carnose, dette mole. Fin dal mondo greco era accreditata l'opinione che potessero nascere esseri mostruosi, metà uomini e metà animali, a seguito della fusione di semi di specie diverse. Aristotele contestava questa tesi, riportando la spiegazione all'interno delle patologie della fecondazione, rappresentate da un deterioramento del seme che lasciava spazio alla materia, in una progressiva alterazione delle forme. Altri scienziati latini sostenevano che la nascita di mostri era da ritenersi collegata ad accoppiamenti avvenuti durante il periodo mestruale, a causa della forza distruttiva attribuita al sangue mestruale. Nella realtà sociale fin dall'antichità la nascita di una creatura gravemente malformata era sempre interpretata, analogamente ad altri fenomeni eccezionali, come un segnale degli dei, i quali punivano gli uomini appunto anche nella procreazione (sterilità o nascita di mostri). L'essere deforme era dunque immediatamente rifiutato e abbandonato, nelle acque o in luoghi disabitati, più che ucciso, perché si temeva che la sua anima potesse perseguitare i viventi. Nella cultura cristiana la nascita di un mostro era collegata alla decisione di Dio di inviare un segnale agli uomini e di punirli per i loro peccati. Il sentimento che suscitavano era l'orrore. Spesso s'intrecciava anche a una visione apocalittica: la nascita di mostri era uno dei segnali della fine del mondo. A partire dal secondo Cinquecento e soprattutto nel corso del Seicento, si fece strada un nuovo approccio che vedeva i mostri in un'ottica più positiva ed erano visti come giochi della natura, più stupefacenti che orribili. Iniziarono così a diventare oggetti da spettacolo, in cui folle di visitatori curiosi erano pronti a pagare per vedere le loro esibizioni. Nella seconda metà del Seicento e soprattutto nel Settecento, il sentimento che suscitano non è più di divertimento né di orrore, ma piuttosto disgusto per la difformità che presentano. L'esistenza di mole e mostri poneva problemi non irrilevanti sul fronte della pratica del battesimo. Il battesimo infatti presupponeva che la creatura fosse umana e viva. L'orientamento che prevalse nel Concilio di Trento fu quello di battezzarli con la formula “si tu es homo” (se sei uomo). 6. La lotta contro l'aborto e la difesa del venter Nel mondo antico l'aborto provocato era “moralmente accettato e giuridicamente lecito”. Nell'arte della levatrice rientrava anche la capacità di far abortire somministrando farmaci. Quanto fosse realmente diffusa questa pratica è motivo di discussione tra gli storici, di fatto però l'aborto era utilizzato come pratica contraccettiva all'interno di un discorso sulla necessità di controllare le nascite. Nessuna legge lo limitava; il feto era considerato parte del corpo materno, fin tanto che era nell'utero, non ancora essere umano. La prima legge penale contro l'aborto venne emanata durante l'impero romano: con essa si puniva la donna che avesse abortito all'insaputa del marito. E' interessante osservare come la norma fosse stata scritta non con l'intenzione di tutelare il feto, ma la patria potestas del padre e il suo ius vitae necisque (diritto di vita e di morte) su mogli e figli. Un radicale cambiamento avviene con il cristianesimo, quando l'aborto viene condannato moralmente e perseguito in quanto uccisione di una creatura, al pari dell'infanticidio. L'unanime condanna che univa le istituzioni ecclesiastiche e quelle politiche non comportò la scomparsa dell'aborto dalla pratica sociale, ma solo il suo confinamento nella sfera della clandestinità. Nella prima età moderna, l'onore delle donne e la tutela sei figli non riguardava più solo la famiglia, ma la comunità ecclesiastica e civile, congiunte nella comune vigilanza sul corpo femminile fecondo. Lo Stato assumeva il ruolo sostitutivo della figura del marito-padre nel caso in cui questi non esistesse o fosse temporaneamente impossibilitato a svolgere la sua funzione di controllo del corpo femminile davanti alla comunità. Il che evidenzia l'alleanza tra Chiesa e Stato, uniti nel comune obbiettivo di preservare l'onore delle donne (che rifletteva l'onore della comunità) e di porre sotto controllo la loro fecondità. 7. I reclusi per “gravide illegittime” Durante la Controriforma vennero creati nei paesi cattolici i primi reclusori per gravidanze illegittime, ospizi dove le nubili, rimaste incinte al di fuori del matrimonio, si ricoveravano, talora spontaneamente, più spesso costrette, per lasciare poi il bambino all'istituto degli esposti. Lo spirito che animava questi reclusori era al tempo stesso morale e repressivo: rimuovere dalla comunità ogni traccia di scandalo, nascondendo agli occhi di tutti le peccatrici, salvaguardando allo stesso tempo la vita del nascituro. L'intento rieducativo-punitivo traspariva dalle norme severe che regolavano una vita quotidiana scandita dal lavoro e dagli offici religiosi: confessioni, orazioni, messe, veglie erano alternate con lavori e punizioni, volti all'espiazione e al ravvedimento. Poiché secondo il diritto canonico, il padre della creatura era tenuto a farsi carico degli alimenti anche nel caso di figli illegittimi, le partorienti erano obbligate a denunciare l'autore della gravidanza. 3. Il parto 1. Una prova dolorosa, un rischioso passaggio Parto come “guerra”: era una prova di particolare rilievo, nella quale si dava misura del proprio valore, della capacità di sopportare il dolore e di affrontare la paura. Su questo momento si appuntava lo sguardo della famiglia e della comunità e ne sarebbe derivato apprezzamento o biasimo. Un disvalore sociale marchiava le donne sterili o che non riuscivano a portare a termine la gravidanza, mentre rispetto e onore circondavano chi moriva durante il parto. Una donna non era veramente tale se non diventava madre: questo evento realizzava le aspettative familiari e sociali, ridefiniva la sua collocazione nella famiglia, al punto che, in alcune società, una donna entrava veramente nella famiglia del marito non dopo le nozze, ma dopo il parto. Le partorienti non combattevano da sole, ma erano affiancate da una pluralità di figure femminili, in primis la levatrice: quella del parto era una scena femminile, da cui gli uomini erano generalmente esclusi. Anche quando medici e chirurghi cominciarono a intervenire in alcune città urbane, lo facevano limitatamente a particolari funzioni. Una figura maschile specializzata nell'assistenza al parto si diffonderà a partire dal Sei-Settecento. Le precarie condizioni igieniche nelle quali si svolgeva, gli ausili e strumenti, infezioni puerperali; le stesse condizioni fisiche delle partorienti, spesso compromesse da denutrizione e rachitismo, erano fattori che incidevano sulla mortalità materna. Nel mondo cristiano s'impose alle partorienti l'obbligo di confessarsi prima del parto. 2.Prepararsi all'evento La preparazione al parto era in primo luogo una preparazione religiosa: aiuto alla divinità. Ma la vita quotidiana registrava pochi cambiamenti soprattutto per le donne dei ceti subalterni che continuavano a lavorare senza risparmiarsi fino al momento del parto. L'identificazione dell'avvicinarsi del travaglio dipendeva dalla capacità della partoriente di leggere i segnali del corpo. All'inizio del travaglio i bambini venivano subito allontanati; gli uomini si facevano da parte; il marito andava a chiamare la levatrice, mentre le donne preparavano la partoriente e la stanza. Il parto è una liberazione, come indica il verbo italiano “sgravarsi”, che vuol dire appunto liberarsi di un peso. Si preparava quindi la stanza: le finestre e le porte venivano chiuse, le fessure tappate, non solo perché il freddo e le correnti d'aria erano considerati estremamente pericolosi, ma anche per non lasciare entrare gli spiriti maligni. La stanza veniva poi attrezzata con gli oggetti indispensabili: una bacinella d'acqua calda per lavare la madre e il bambino, olio d'oliva per i massaggi e le visite interne, cuscini e spugne per asciugare il sangue e i liquidi; stracci per pulire; bevande; forbici o altro per tagliare il cordone ombelicale; un cuscino per posarvi il bambino e fasce per avvolgerlo. Si accendeva il focolare, per avere un ambiente caldo, acqua calda o per cucinare, perché la partoriente veniva alimentata durante il travaglio o dopo il parto. Vari oggetti scaramantici venivano messi nella stanza: minerali o vegetali come la mandragola o alcune pietre come il corallo. 3.La scena del parto: luoghi, figure, pratiche Il travaglio era un percorsi che si svolgeva in casa. Gli ospedali di maternità si diffusero in Europa solo nel secondo Settecento. In torno alla partoriente stavano una serie di figure femminili: familiari, amiche e vicine di casa, e soprattutto la levatrice, il cui ruolo era centrale. Il marito stava fuori dalla porta e la sua presenza all'evento era sostituita da oggetti simbolici. Nei parti più difficili si praticava la concussione: la donna veniva collocata in un lenzuolo, preso ai quattro lati e scosso. Poiché il travaglio poteva durare a lungo, la partoriente veniva alimentata con cibi e bevande nutrienti perché non perdesse le forze. Per favorire la dilatazione del collo uterino, la levatrice ricorreva a dilatazioni manuali. Per aumentare le contrazioni, si ricorreva a sostanze stimolanti come pepe e aceto, in grado di provocare sternuti o vomito. In fase espulsiva assumevano diverse posizioni: accovacciata, in ginocchio, in piedi, seduta (sedia ostetrica, tagliata a mezza luna al centro, ai lati due sostegni arrotondati per appoggiarsi; sulle ginocchia di un'altra donna) e distesa a letto. L'espressione del dolore non era repressa, anzi rientrava nel rituale, non solo era culturalmente accettata, ma incentivata. Chi avesse partorito senza sofferenza sarebbe risultata sospetta, le partorienti dunque gridavano forte e le loro grida si sentivano nel vicinato, accentuando il carattere semi-pubblico dell'evento. Alle grida della madre s'intrecciava infine il pianto del bambino, segno tangibile della sua venuta al mondo. Nel diritto antico, perché un figlio potesse ereditare dalla madre doveva nascere vivo, anche se questa vita durava pochi istanti; in caso contrario non avrebbe ereditato e la dote della madre, qualora fosse morta, sarebbe ritornata alla famiglia di origine. Il pianto del neonato era collegato, precariamente sospeso tra il mondo dei vivi e quello dei morti, appartenente al primo, ma non ancora del tutto separato dal secondo. Per questo presunto contatto con il mondo degli spiriti, madre e figlio erano considerati impuri. Impurità e peccato si sovrapponevano a rimarcare una situazione che esponeva la donna all'influenza diabolica e la escludeva temporaneamente dalla comunità. 4.Credenze e regole Per questa impurità madre e figlio erano allo stesso tempo in pericolo e pericolosi, bisognosi da un lato di protezione, dall'altro di essere separati dal resto della comunità; venivano dunque isolati e protetti per un periodo, dopo il quale di svolgeva la cerimonia di purificazione, per il bambino si concludeva con il battesimo. Lo scopo di questi rituali era quello di rimarcare il cambiamento di ruolo e di stato di una persona nella famiglia e nella comunità. La separazione poteva però avere un aspetto positivo sul piano psicologico e sociale: era uno spazio di tempo che consentiva alla donna di elaborare la sua nuova condizione di madre, di prendere contatto con il bambino, di ridefinire il rapporto con il marito, ma caratterizzata da nuovi ruoli, doveri e relazioni. In questo periodo la madre e il bambino andavano innanzitutto difesi dagli spiriti maligni. Davanti alle porte o sopra il letto venivano messi oggetti a cui si attribuisce un potere dissuasivo: come amuleti o talismani. In maniera ambivalente però anche la presenza della nuova madre era pericolosa per gli altri: la puerpera poteva portare disgrazie nelle case altrui, far appassire le piante, causare malanni. Per i primi 8-10 giorni la madre non poteva alzarsi dal letto, dovevano seguire una dieta particolare, non potevano svolgere certi lavori, mettere le mani in acqua, respirare cattivi odori. Essendo impura la madre non partecipava alla cerimonia del battesimo, che si teneva nei primi giorni successivi la nascita. 5.Rituali di purificazione Il periodo di marginalità si chiudeva con il rituale della purificazione che reintegrava la donna nella comunità. Terminata la quarantena, la donna usciva di casa per la prima volta per recarsi in chiesa, al mattino presto, con il capo coperto, sola o più raramente accompagnata da una persona, a volte un bambino piccolo. Qui doveva aspettare fuori dalla porta, con una candela accesa, il prete che la introduceva dentro; una volta all'interno il sacerdote l'aspergeva con l'acqua benedetta e recitava un salmo. Conclusa la cerimonia, la donna faceva un dono alla chiesa e tornava a casa. Questa cerimonia aveva un carattere ambivalente: da un lato un valore positivo sul piano pratico e sociale consentivano alla puerpera di recuperare le forze fisiche e psichiche; d'altro canto però queste regole avevano dei riflessi negativi nella percezione del corpo rimarcandone gli aspetti indicibili e vergognosi. L'esperienza della maternità risultava così segnata nel vissuto delle donne da una contraddizione profonda, sospesa tra esaltazione e vergogna. Mettendo al mondo un figlio, la donna adempiva al suo dovere familiare, sociale e religioso, realizzava la sua identità femminile e acquistava un nuovo ruolo nella famiglia, ma nello stesso si esponeva a rischi che non avevano a che fare solo con la morte, ma con il contatto con gli spiriti, conosceva l'esclusione temporanea dalla comunità, sperimentava insomma quanto di negativo la cultura attribuiva al corpo femminile nella sua funzione materna e lo introiettava. Proprio nel momento della sua realizzazione come madre, la donna si percepiva “sporca”, debole, pericolosa. Il disvalore attribuito all'esperienza corporea della maternità minava il vissuto della maternità, introducendo nell'autorappresentazione elementi di debolezza e negatività. 6.L'infanticidio Nello spazio tra la nascita naturale e quella sociale si colloca con maggior frequenza l'infanticidio, l'uccisione del neonato, un fenomeno di lunghissima durata e transculturale. Da un lato si snoda la storia di una pratica utilizzata per secoli sia dalle famiglie per regolare o selezionare le nascite, sia dalle madri nubili: nel corso dell'età moderna la maternità fuori dal matrimonio era motivo di disonore. Nel mondo antico il rifiuto del neonato era considerato legittimo e socialmente accettato a condizione che fosse deciso dal padre, anche se più spesso si manifestava sotto forma di esposizione. Nel mondo cristiano si trattava invece di una grave infrazione alla legge di Dio. Leggi severe contro l'infanticidio vengono varate in tutta Europa tra il Cinquecento e il Settecento: le donne venivano mandate al rogo, impalate, sepolte vive; spesso portate al patibolo con il cadavere del bambino, con una spettacolarizzazione dell'evento che aveva evidenti finalità dissuasive. Dai processi giudiziari si ricava un profilo sociale dell'infanticida piuttosto preciso: in genere era una donna sola, povera, che viveva del frutto del proprio lavoro, spesso serva o contadina, che pagava gli esiti di un rapporto casuale o di una violenza. Si parla anche di infanticidio selettivo, in cui previlegiavano la nascita dei maschi rispetto a quella delle femmine. 5.La nascita sociale 1.Premessa In tutte le culture la nascita naturale è seguita da una seconda nascita, quella sociale, che sancisce, attraverso un rituale, l'ingresso del nuovo nato nella famiglia e nella comunità, il suo riconoscimento come membro dell'una e dell'altra. Alcuni aspetti del rituale si impongono come significative costanti: da un lato l'incidenza della differenza di genere, dall'altro il ruolo esercitato dal padre e l'irrilevanza della figura materna. Se la nascita materiale è opera della madre, la nascita sociale è spesso agita dal padre: è il padre che celebra il rito, mentre la madre è assente. Quanto al genere del neonato, esso determina sempre varianti significative, volte a evidenziarne le gerarchie. La levatrice funge da figura di mediazione, è colei che assiste alla nascita naturale, che consegna il neonato al padre e lo accompagna al battesimo assieme a lui. Rappresenta un elemento di continuità e saldatura tra la nascita naturale e quella sociale e nello stesso tempo funge da collegamento tra la madre e il padre. 2.Nel mondo antico Nel mondo antico il rituale della nascita esprimeva il potere del padre: era lui infatti che decideva se accogliere o rifiutare il neonato e assumeva un ruolo centrale nel rito. 3.Nel mondo cristiano Malgrado alcuni elementi di continuità, il cristianesimo attua, una profonda rottura, espressione al tempo stesso della nuova concezione della nascita e dei valori della religione. La nascita sociale è sancita dal sacramento del battesimo. Chi ha ricevuto il battesimo acquisisce una doppia cittadinanza: terrena e celeste. Vari aspetti del rituale sottolineano questa ri-nascita: la conca battesimale che rievoca l'utero materno, l'acqua che richiama il liquido amniotico,... La morte di un neonato privo di sacramento si prefigurava come un evento doppiamente luttuoso, che privava la creatura sia della vita terrena che di quella eterna. Tutti i bambini avevano pieno accesso al battesimo, a tutti era garantita la rinascita spirituale e l'accoglienza sociale. Come tutti i riti di passaggio, anche questo si suddivideva nelle tre fasi della separazione, del margine e dell'integrazione. Il suono delle campane annunciava a tutti l'ingresso nella comunità di un nuovo cristiano. La madre non aveva alcun ruolo, né partecipava al rito, in quanto impura; il padre partecipava alla cerimonia ma come spettatore; i genitori erano affiancati da nuovi padri e madri spirituali: i padrini e le madrine che si facevano garanti della crescita spirituale del bambino. Ne risultava fortemente ridimensionata la figura paterna, sostituita da un lato da quella del sacerdote e dall'altro da quella del padrino e della madrina. Nel corso del XIII secolo anche la scelta del nome passò alla Chiesa, il cui risultato fu una mediazione che affiancava al nome di un santo, spesso quello del giorno battesimale, imposto dalla Chiesa, quello scelto appunto dai genitori. Da evidenziare, come ulteriore aspetto di rottura rispetto al mondo antico, la presenza delle donne al rito della nascita sociale, sia nella veste di madrine che in quella di levatrici. La loro ammissione al sacramento come madrine spirituali rappresentò un elemento di valorizzazione del genere femminile. 4.Il battesimo tra Riforma e Controriforma (500) Nel corso del Cinquecento il battesimo fu al centro della spaccatura che contrappose la religione protestante da quella cattolica, per quanto riguarda il valore da attribuire al sacramento stesso. Lutero riconobbe il battesimo come sacramento ma attribuendogli più il significato di un ingresso del bambino nella comunità dei credenti, e non come un evento risolutivo ai fini della salvezza. Per Calvino il rito aveva un valore di un impegno che la famiglia e la comunità assumevano nei confronti del nuovo nato. Gli anabattisti invece negavano la validità del battesimo dei bambini e ammettevano solo quello degli adulti. Tali concezioni avevano ricadute rilevanti sull'idea della salvezza e del destino delle anime dei bambini mori senza battesimo. Il Concilio di Trento riaffermò invece il valore cruciale del sacramento ai fini della cancellazione del peccato originale, ribadendo l'efficacia nella trasmissione della Grazia e quindi della salvezza eterna. Il rituale venne codificato in modo più rigoroso, attraverso una serie di norme dettagliate che miravano non solo a combattere gli abusi, ma anche a disciplinare comportamenti che assumevano ormai il valore di appartenenza alla Chiesa romana. La Chiesa romana si impegnò nella loro applicazione dotandosi di strumenti di controllo e verifica sul territorio.. Nello stesso tempo evidenziava anche l'interiorizzazione da parte della popolazione, soprattutto dei paesi cattolici, di timori e angosce per il destino dei bambini morti senza battesimo. 5.La doppia morte e la costruzione del Limbo Nell'orizzonte cristiano, alla doppia nascita corrisponde una doppia morte: quella del corpo e quella dello spirito, con la privazione della vita eterna. Un neonato morto senza battesimo le assommava tragicamente insieme, anche se non aveva commesso alcuna colpa individuale, a causa appunto del peccato originale. Il Limbo (XII secolo) fu immaginato come un luogo in cui potevano trovare collocazione tutte quelle anime che non si erano macchiate di peccati individuali, ma che avevano il peccato originale, vuoi perché nate prima dell'avvento di Gesù Cristo, vuoi perché morte senza battesimo come i neonati. 6.Rituali sostitutivi del battesimo Reclusi nel Limbo per l'eternità, privi di norme, a partire dal XII secolo erano sepolti fuori dal cimitero. Si pensava che il loro spirito tormentasse i vivi con agguati notturni. Per neutralizzare tali forze negative, nel medioevo si conficcavano dei pali nei cadaveri dei neonati morti senza battesimo. In questo scenario che combinava esclusione dal Paradiso, assenza di sacra sepoltura e inquietudine eterna, non c'è da stupirsi che la morte di un neonato senza battesimo fosse considerata come la più tragica delle eventualità, che colpiva i genitori, ma anche la comunità intera. Per sottrarlo a quel tragico destino, la pietà popolare aveva inventato molteplici rituali correttivi. Nei paesi mediterranei questi riti consistevano spesso nell'assicurare la salvezza eterna del bambino ancora chiuso nell'utero materno, battezzando il corpo della madre. In altri luoghi si credeva che il feto potesse essere purificato dalla stessa madre, attraverso l'assunzione dell'eucarestia. Ma il rituale più diffuso era quello della resurrezione temporanea. Si riteneva che il bambino morto, grazie a un miracolo, potesse tornare in vita il tempo strettamente necessario a ricevere il battesimo. Tale credenza si consolidò con la costruzione di veri e propri santuari deputati a questo. Il cadavere vi veniva portato, deposto sull'altare, si aspettava che desse qualche presunto segno di vita, per procedere al battesimo e alla sepoltura in terra consacrata. Il bambino riceveva così un nome, una degna sepoltura e soprattutto la garanzia della vita eterna. La Riforma cercò di stroncare il fenomeno ma non sempre con successo, infatti tale rituale continuò a persistere clandestinamente fino alla promulgazione del Codice civile napoleonico, che abolì attraverso delle norme questa pratica. 7.Il taglio cesareo post mortem E' in questo orizzonte, caratterizzato dal rilievo assunto dal battesimo, che si afferma la pratica del taglio cesareo post mortem, operazione praticata dopo il decesso della donna. L'operazione cominciò ad essere promossa nel tardo medioevo dai teologi, con il fine di salvare l'anima del bambino che non avesse fatto in tempo a nascere a causa del decesso della madre prima o durante il parto (divieto di operare il taglio cesareo sulla donna in vita). A sancirne l'obbligatorietà in tutto il mondo cattolico fu il Concilio di Trento: che stabilì che si dovesse praticare il taglio cesareo immediatamente dopo la morte della donna per estrarre il bambino e battezzarlo. Malgrado ciò l'intervento fu scarsamente praticato, sia per motivi culturali che medici. Le levatrici e i medici preferivano ricorrere ad altri espedienti per assicurare il battesimo al bambino nel corso del denigratoria che individuava nella loro incompetenza e rozzezza la causa della perdita di tante vite. Nell'orizzonte illuministico a risultare svalutato era il loro sapere tradizionale, basato sulla manualità e la tradizione orale. Nel secolo dei Lumi il sospetto che gravava sulle levatrici derivava dal loro analfabetismo. Gli elementi di distanza culturale si coniugavano con le gerarchie di genere, accentuando l'inferiorità delle levatrici. In realtà questa campagna di denigrazione nasceva anche da un evidente conflitto professionale: l'aspirazione dei chirurghi ad esercitare l'ostetricia e a rompere un monopolio femminile di lunghissima durata. Esse non restarono certo silenziose: quelle in grado di scrivere reagirono, da un lato appunto svelando le finalità implicite in queste accuse, dall'altro contestando la presunta superiorità del sapere medico, una conoscenza teorica non si traduceva di per sé nella capacità pratica di aiutare una partoriente, per la quale si richiedeva invece un'abilità manuale. 3.”Dare lumi”: nascita delle scuole ostetriche Se le levatrici erano ignoranti e rozze, perché non istruirle? E' sull'onda di questa convinzione che prendono il via nel secondo Settecento in molti Stati europei iniziative di formazione rivolte alle levatrici: corsi e scuole indirizzate in primis alle donne, quindi anche ai chirurghi. Caratterizzati dal fatto che chi vi insegnava era quasi sempre un chirurgo, che i corsi per le allieve ostetriche erano distinti da quelli per i chirurghi e che l'insegnamento mirava non solo a fornire nozioni anatomiche, ma a formare la figura inculcando modelli di comportamento e rispetto delle gerarchie professionali, ridisegnando in sostanza un nuovo modello di levatrice. In alcuni casi la scuola era annessa all'ospedale e si configurava come scuola-convitto, consentendo la permanenza delle allieve durante il periodo d'insegnamento. Per l'addestramento pratico, ci si avvaleva di modelli, fatti di cera, terracotta o pelle, che riproducevano il bacino e l'utero gravido. Al termine dei corsi dovevano superare un esame davanti a una commissione formata dai chirurghi e dei medici, che rilasciava loro il diploma abilitante alla professione. 4.Un nuovo modello di levatrice L'addestramento era fondato su fantocci e macchine, che implicava una concezione del parto riduttiva, focalizzata sulla parte espulsiva, facendo perdere la visione d'insieme di un evento che coinvolgeva la persona nella sua interezza e nel quale le reazioni emotive sono elementi di non secondaria importanza ai fini di un esito positivo. Queste scuole si aprirono non solo alle vedove o alle maritate, ma anche alle giovani e nubili. Un mestiere che da secoli era stato fondato sulla maturità e l'esperienza diretta diventava una professione aperta alle giovani, sicuramente più plasmabili e pronte a interiorizzare nuovi modelli e gerarchie professionali. La formazione infatti mirava anche a ridefinire i compiti e l'ambito di intervento rispetto a quelli dei chirurghi, con una riduzione delle competenze e degli spazi d'azione delle levatrici e un'intensificazione del controllo sul loro operato nel territorio effettuato dal medico. Poche famiglie erano disposte a privarsi per lunghi periodi di una manodopera preziosa; molti mariti non volevano lasciar andare a scuola le loro mogli; molte donne erano restie ad allontanarsi dal paese. Va inoltre considerato il diffuso analfabetismo, che in Italia limitava l'accesso delle donne alle scuole. Il numero delle levatrici diplomate rimase a lungo scarso, spesso anche laddove esistevano scuole ostetriche, per questo motivo si lasciarono praticare le levatrici non diplomate nella consapevolezza che il loro operato era insostituibile. Nel Lombardo-Veneto arrivarono a distinguere le levatrici in tre categorie: le approvate, le abusive e le “tollerate”. Solo la legge Crispi sulla tutela dell'igiene e della sanità pubblica (1888) porrà le basi del welfare in Italia, rendendo obbligatoria l'istruzione delle condotte e gratuita l'assistenza ai poveri. Sarà lo stesso Crispi a por fine, nel 1894, alle secolari proroghe nei confronti delle mammane prive di diploma. 5.Diplomate contro abusive: una concorrenza secolare La creazione delle scuole ostetriche aprì nel mondo delle levatrici una spaccatura tra approvate e abusive. Molte sostennero la necessità dell'istruzione e se ne fecero promotrici. Esse rivendicavano la tradizione femminile del mestiere in nome della difesa del pudore, ma all'interno di una nuova identità professionale che richiedeva appunto conoscenze scientifiche, preparazione teorica e studio, non solo acquisizione di abilità manuali. Proprio per non diventare mere infermiere del parto puntavano ad una professionalizzazione che avrebbe garantito occupazione e riconoscimento da parte delle istituzioni e dei medici. Si venne così a creare un'estesa conflittualità tra le mammane tradizionali, forti del prestigio di cui godevano presso la popolazione, dell'appoggio dei parroci e in molti casi anche dai medici locali, e le giovani levatrici uscite dalla scuola, fiere del loro diploma e con precise aspettative di lavoro. Furono queste giovani a denunciare per prime le vecchie mammane, la cui concorrenza le privava del lavoro promesso. Questa contesa finì per coinvolgere la popolazione, in molte località infatti, la gente si schierò dalla parte delle vecchie levatrici, rifiutando una figura che per caratteristiche e pratiche non corrispondeva alla tradizione. Queste contese si protrassero fino alla fine dell'Ottocento. 8.Il medico sulla scena del parto 1.L'affermazione del chirurgo-ostetrico Le istanze pubbliche di salvaguardia della popolazione, che asi sono affermate nel corso del Settecento, portano a una valorizzazione dell'ostetricia come branca della medicina e all'affermazione della figura del chirurgo-ostetricante. Ospedali per partorienti e cliniche ostetriche furono aperti nelle maggiori città europee, con lo scopo precipuo di fornire ai chirurghi non solo le conoscenze teoriche o sezioni anatomiche, ma possibilità di osservazioni dirette del parto e di un addestramento altrimenti di difficile accesso nel territorio 2.Il forcipe: le “mani di ferro” simbolo della nuova ostetricia Anche la produzione tecnico-operatoria conobbe un rapido incremento, con la moltiplicazione dello strumento ostetrico: nuovi dispositivi per l'estrazione del feto vivo, come i forcipi e le leve. Era questa la rivoluzionaria scommessa del chirurgo-ostetricante: salvare non solo la madre, ma anche il bambino. Il forcipe promettevano di arrivare laddove le mani di marne delle levatrici risultavano impotenti. Rappresentava il simbolo del progresso e della sconfitta della morte. Ma saperlo usare correttamente richiedeva un lungo addestramento, senza il quale si producevano gravi danni alla madre e al bambino, con lacerazioni e rotture dell'utero e compressione delle ossa del cranio del nascituro. Accanto al forcipe va ricordata anche l'introduzione della leva in quanto utilizzata per correggere la posizione del feto nel parto e forzarne l'uscita. Altri due strumenti ebbero un impatto decisivo nella pratica e nell'immaginario ostetrico: il pelvimetro (consentiva di ottenere la misura del diametro del bacino) e lo stetoscopio (consentiva di percepire i battiti del feto, attestandone la vitalità). Un'altra operazione che si diffuse fu l'episiotomia, cioè l'incisione laterale del tessuto alla base della vagina per allargarne l'apertura e facilitare l'inserimento dello strumento. Anche il parto prematuro artificiale entrò a far parte della pratica ostetrica nel 1756. E nel secondo Settecento cominciò ad esser avviata anche la pratica del cesareo sulla donna in vita. 3.Ostetricia attiva/ostetricia aspettante: un conflitto di prospettive e pratiche L'ostetricia attiva si radicava nella concezione meccanicistica in cui il corpo era descritto come un insieme di pezzi, fili, ruote. Il parto era presentato come un'operazione naturale meccanica, suscettibile di dimostrazione geometrica (un certo volume che doveva esser estratto sa una cavità data). Il parto si riduceva così a un problema matematico, la cui risoluzione dipendeva dalla relazione tra i dati numerici del recipiente (ossa del bacino) e del contenuto (testo del bambino). L'applicazione del meccanicismo in campo ostetrico si tradusse in una desacralizzazione dell'evento. La corrente aspettante affondava le sue radici invece nella concezione organicistica della natura, rielaborata alla luce delle nuove teorie di Newton. Questa concezione aveva portato a una ripresa della rappresentazione della natura come organismo fecondo, dotato di una potenza autonoma e misteriosa. All'origine dei decessi nel parto stavano, secondo i vitalisti, errori umani o alterazioni prodotte dalla società allo stato di natura. La contrapposizione teorica tra le due correnti aveva importanti ricadute sul fronte terapeutico: per gli uni l'ostetrico doveva avere un ruolo attivo nel parto e intervenire con strumenti e/o operazioni per evitare possibili rischi alla madre e/o al bambino; per gli altri doveva invece lasciar agire la natura, rispettandone tempi e modalità. 4.Differenze europee I chirurghi-ostetricanti erano attivi non solo nelle capitali, ma anche in città più piccole e nei paesi, e seguivano partorienti di tutte le classi sociali, nei parti difficili come in quelli naturali. Questa tendenza si consolida nel corso dell'Ottocento. La presenza dei chirurghi-ostetricanti rimaneva limitata ai parti difficili, ma essi riscontravano difficoltà ad intervenire anche in questi casi. Questa forte differenziazione è da ricondurre principalmente a ragioni culturali e di mentalità: in quest'area larghi settori della pubblica opinione consideravano “incidente” che le donne si facessero visitare da un maschio, fosse anche per motivi di salute: si trattava pur sempre di esporre quelle parti del corpo che erano non a caso vergognose e ciò confliggeva profondamente con il senso del pudore e della decenza. C'era una grossa resistenza da parte delle levatrici a chiamare i chirurghi anche nei parti difficili, sia per non ammettere la loro sconfitta professionale, sia per non scontentare la famiglia. La Chiesa fondava il proprio potere di controllo sulla sessualità femminile, difendendo questo monopolio dall'invadenza della scienza e dello Stato. 5.Levatrici e chirurghi-ostetrici: il nodo delle operazioni manuali Alle levatrici competeva l'assistenza ai parti fisiologici, ai chirurghi-ostetrici quella dei parti difficili, con il complesso di operazioni non soltanto strumentali che questi comportavano. Si arrivò a proibire alle levatrici la pratica di quelle operazioni manuali interne che rientravano nella loro tradizione e che i chirurghi avevano imparato proprio da loro, e vennero riconosciute come “operazioni chirurgiche”. E' evidente che tale divieto privava la levatrice di qualsiasi possibilità di azione all'insorgenza di difficoltà nel parto, mettendola in una situazione critica sia dal punto di vista professionale che morale, costretta a scegliere in molte situazioni tra il rispetto della legge e la salvezza della partoriente e del bambino. Il fatto è che l'attribuzione di questi interventi rivestiva un'importanza cruciale rispetto al ruolo delle due figure del parto: in un momento in cui l'operatività strumentale era ancora scarsamente diffusa, proibire alle levatrici queste pratiche manuali, al di là del significato simbolico di intaccare la loro arte tradizionale, voleva renderle dipendenti nell'assistenza, semplici infermiere da parto. Acquisirle per i medici significava al contrario assicurarsi un diritto di presenza molto più ampio, aggirando ciò che da loro stessi era riconosciuto come il maggior ostacolo alla loro presenza: l'avversione delle partorienti. L'obbiettivo reale era il pieno controllo del parto. Si preferì dunque introdurre una normativa che cozzava contro il buon senso e metteva a rischio la vita delle partorienti ma che serviva a promuovere la figura dell'ostetrico e una medicalizzazione del parto che faticava a imporsi nella realtà sociale. 9.Gli ospedali di maternità 1.Madri nubili e povere al servizio della formazione Nel secondo Settecento vengono istituiti in tutta Europa gli ospedali di maternità, cioè sotto la direzione e l'organizzazione medica. La loro creazione segna una tappa cruciale nella storia della nascita e in quella dell'ostetricia, da un lato perché pone le basi di quel processo di ospedalizzazione del parto che si svilupperà poi nel Novecento, dall'altro perché in queste istituzioni si codificano pratiche e modelli terapeutici che si diffonderanno successivamente; in oltre in essi si attua quella sperimentazione clinica destinata ad incidere nella storia dell'ostetricia. Tra tutte le innovazioni del Settecento,questa è quella che rappresenta più compiutamente l'insieme delle finalità messe in campo dalle istituzioni politiche nel campo della nascita, assommando in sé i molteplici obbiettivi: demografici, scientifici, assistenziali. Questi ospedali erano funzionali alla formazione dei chirurghi-ostetricanti e delle levatrici, ma si ponevano anche con lo scopo di fornire alle madri illegittime e /o povere un ricovero segreto, al fine di prevenire l'infanticidio e di contrastare l'altissima mortalità degli esposti. Le “illegittime” avevano diritto all'anonimato; potevano tener segreto il loro nome ed entrare velate. Nei paesi cattolici normalmente lasciavano il bambino nell'istituto degli esposti, prestandosi per un certo periodo all'allattamento. Questa possibilità, che segna una netta differenza tra i paesi cattolici e protestanti, dove le madri erano tenute a portare con sé i propri figli quando uscivano dall'ospedale. L'istituzione degli ospedali di maternità segna una significativa innovazione anche sul piano della lotta contro l'infanticidio. Il dell'utero, con tratti fortemente umanizzati fin dai primi mesi di gravidanza. Era ormai assodato che il feto aveva un proprio cuore e una propria circolazione sanguigna e questa autonomia fisiologica si coniugava per molti medici a un'indipendenza sensitiva che lo rendeva impermeabile alle emozioni materne. Se da un lato le nuove teorie scientifiche assegnavano una nuova importanza alla madre nella fecondazione, dall'altro, accentuando l'autonomia del feto, ne ridimensionavano la forza e l'influenza nella gravidanza, riducendola a una mera funzione di nutrimento e contenimento. 3.Il teologo Cangiamila e la campagna per il cesareo post mortem Cangiamila lanciò una vera e propria campagna per la preservazione della vita fetale, che si concretizzava in una serie di proposte articolate: dal tradizionale controllo sulle madri nubili alla creazione di ospizi per partorienti povere e illegittime, alla formazione delle levatrici. Un particolare rilievo assumeva la pratica del taglio cesareo, promossa ed incentivata in quanto funzionale agli obbiettivi di salvezza sia terrena che spirituale del feto, tanto che il gesuita ne proponeva l'esecuzione su tutte le donne che morivano durante la gravidanza, anche quelle che erano ai primi mesi. La diffusione del suo testo diede vita a una capillare campagna di difesa degli embrioni e di promozione del taglio cesareo sulle donne morte durante la gravidanza. Dopo la promulgazione, anche le autorità politiche ne imposero la pratica. 4.La salvaguardia del “cittadino non nato” Non erano solo gli ambienti religiosi a essere attraversati da una nuova sensibilità nei confronti del feto: una particolare attenzione si affermava anche nel mondo laico, in particolare in quei settori medici permeati dal pensiero illuminista, attivi sul piano del contrasto alla mortalità e della difesa della cittadinanza. Se il neonato risultava a tutti gli effetti un cittadino, il feto appariva in questa prospettiva come un “cittadino non nato”. Se il corpo della madre nella gravidanza era “quasi proprietà dello Stato”, non meno lo era il “tenero embrione”, “speranza della patria”. Ne derivavano nuovi doveri di tutela per medici e amministratori pubblici, i quali non dovevano limitarsi a controllare la nascita, ma l'intero processo di gravidanza. Tra le altre iniziative volte a tutelare la vita del feto, trovava spazio anche quella della pratica del taglio cesareo, ma solo se finalizzata alla nascita di un feto vitabile (cioè in grado di vivere autonomamente), se eseguita cioè dopo la metà della gravidanza e un attento accertamento del decesso della madre. Le diverse prospettive religiose e laiche risultano evidenti nelle leggi sul cesareo post mortem emanate in Europa nella seconda metà del Settecento. Negli stati cattolici nei quali era più forte l'influenza della chiesa, la pratica venne resa obbligatoria a qualsiasi epoca di gravidanza, affidata sia al chirurgo, sia ad altre persone, a prescindere dalla volontà della famiglia e con la previsione di pene severe in caso di inadempienza. Negli stati protestanti, dove prevalente risultava la finalità laica, l'operazione veniva demandata alle valutazioni del medico e alle volontà della famiglia, senza alcun vincolo. Malgrado le norme, la pratica del cesareo post mortem continuò a incontrare forte resistenza non solo tra la popolazione, ma anche negli ambienti medici, soprattutto quando si affermò una nuova idea della morte come processo, non come passaggio istantaneo. Questo cambiamento di prospettiva alimentava ancora di più la paura della morte apparente, soprattutto tra i medici, i quali temevano di affondare il bisturi in un corpo non realmente morto. Si aggiungeva a questo la diffusa ostilità delle famiglie, per le quali operare sul cadavere di una donna che aveva già lungamente sofferto nel parto era considerato una vera barbarie. 5.Il taglio cesareo sulla donna in vita E' in questo contesto che prende il via anche la pratica del taglio cesareo sulla donna in vita. Il taglio cesareo implicava la scelta di privilegiare la vita del bambino rispetto a quella della madre, e di aprire l'utero, attribuendo al chirurgo un potere fino ad allora impensabile per ragioni morali ed etiche. Vanno sottolineati i problemi rilevanti tecnico-operatori che poneva un intervento del genere, ai quali la medicina non era in grado di far fronte e che determinavano la morte quasi certa della madre; per cui il cesareo equivaleva di fatto a un omicidio. A metà settecento questo orientamento appariva sensibilmente mutato: nel nuovo clima culturale e scientifico, la pratica venne riproposta e sostenuta. L'operazione cominciò ad essere praticata tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento con le inevitabili conseguenze di un'altissima mortalità materna, indotta per lo più da emorragie o setticemie. Il mondo ostetrico dell'Ottocento si divise in due parti: una maternal sect, più favorevole alla vita della madre e una fetal sect, orientata alla salvezza del feto. Nella scelta tra salvare la loro vita o portare alla luce un figlio potenzialmente sano, era il secondo a prevalere, in quanto più utile alla società. 6.Salvare la madre o il bambino? Chi era la figura autorizzata a decidere chi salvare: il marito, il medico o la donna stessa? Per alcuni a compiere la scelta doveva essere il marito, per altri i medici stessi nel loro ruolo di “giudici veri e naturali”; per altri ancora questa era materia su cui doveva pronunciarsi la Chiesa. Pochissimi erano quelli che ipotizzavano una libera scelta della donna: essa rimaneva quasi sempre l'oggetto di discorsi e poteri conflittuali. Perfino sul suo diritto a essere informata i pareri erano divisi tra quanti sostenevano esser superfluo metterla al corrente dei possibili esiti del taglio cesareo e coloro che ritenevano invece accettabile tenerla all'oscuro del rischio mortale cui andava incontro. Le fonti dimostrano come nell'orientare questa scelta fossero determinanti i fattori di classe sociale. Il medico pagato dalla famiglia non agiva senza il consenso della stessa, come invece poteva accadere negli ospedali o sul territorio quando si trattava di partorienti povere. In ogni caso si trattava di parti disastrosi, in cui la scelta si poneva al termine di un vero calvario, dopo vari quanto inutili interventi, quando ormai la condizione della partoriente era disperata. Le donne delle classi agiate, più seguite durante la gravidanza, avevano modo di prevenire simili situazioni, ricorrendo per tempo all'aborto terapeutico o al parto prematuro provocato. Fu l'applicazione dei principi di sepsi e antisepsi a inaugurare, nel corso del Novecento, la nuova epoca del taglio cesareo, rendendolo sicuro e salvifico anche per la madre. 7.La difesa della vita (fetale): il pronunciamento del Sant' Uffizio Nonostante l'acceso dibattito e i vari quesiti posti al Sant' Uffizio, la Chiesa fino agli anni Ottanta dell'Ottocento si era sempre astenuta dall'intervenire sulla questione della scelta tra embriotomia e taglio cesareo, non ritenendo di avere le conoscenze necessarie per esprimere un giudizio morale. Tale posizione cambiò decisamente sul finire del secolo, quando il Sant' Uffizio definì in modo preciso i limiti dell'intervento ostetrico, affermando l'illiceità di ogni operazione che potesse pregiudicare la vita del feto, e sostenendo in modo chiaro, anche se indiretto, la priorità della sua salvaguardia. Con una svolta cruciale nella sua politica, la Chiesa metteva al centro la difesa del feto e ne conseguiva la condanna di ogni forma di aborto, pure terapeutico. Ma cosa determinò un cambiamento così radicale nella politica della Chiesa? In un contesto ancora segnato da un'altissima moralità materna per cesareo, la decisione appare influenzata da una serie molteplice di fattori, riconducibili non solo alla scena del parto, ma anche a quelle trasformazioni sociali e politiche che connotavano più ampiamente il secondo Ottocento, minacciando il potere ecclesiastico: il radicalismo del positivismo e del marxismo, il diffondersi delle teorie malthusiane, le rivendicazioni delle donne, la perdita del potere temporale. Era giunto il momento per la Chiesa di riprendere pienamente l'egemonia nel campo della morale sessuale attraverso l'affermazione di una norma universale, valida per la scienza come per la popolazione. L'intransigente difesa della vita del feto si poneva sia come reazione ai processi di modernizzazione in atto, sia come riaffermazione di quel ruolo cruciale nel controllo sulla sessualità, che la Chiesa aveva sempre esercitato. 8.Allattamento materno e nuove cure dell'infanzia Nasce l'immagine della nuova famiglia borghese, nucleare e affettivamente coesa, e nello stesso tempo è il segnale di una nuova attenzione nei confronti dell'infanzia che coinvolge non solo le madri, ma anche i padri, e che si manifesta attraverso nuove pratiche di cure. Allattare non è più solo un obbligo morale o un implicito completamento del parto, ma un “dovere naturale”, espressione di quell'essere madre a cui la Natura destina la donna; in quanto tale esperienza di per sé piacevole e gratificante, momento fondativo di duraturi legami d'affetto. In piena rottura rispetto a una tradizione secolare che considerava disdicevole per le donne delle classi privilegiate allattare i figli, questa moda si afferma nelle elites colte dell'aristocrazia e borghesia illuminata, sostenuta da una vera e propria campagna promossa da medici, filosofi, scienziati. In questa prospettiva l'allattamento al seno va di pari passo con l'abbandono dei busti durante la gravidanza e con la messa al bando delle fasce che impedivano al bambino ogni movimento nei primi mesi di vita. La prima clinica pediatrica venne aperta a Napoli nel 1886. Sono molte le credenze e le pratiche tradizionali ad essere contestate dai pediatri: dalla nocività del colostro, riconosciuto ora invece come ottimo purgante naturale per il bambino, all'uso delle fasce, allo scarso ricorso al bagno, fino al baliatico. Alcune di tali pratiche vengono anzi individuate come concause dell'alta mortalità; si ritiene per tanto che vadano combattute e sradicate. Una vera e propria campagna contro le fasce, per l'allattamento al seno e il bagno quotidiano viene alimentata in tutta Europa da una fitta produzione di manuali, libri di igiene, almanacchi, che vanno a codificare comportamenti e regole di una cura dell'infanzia moderna e illuminata, fondata sui nuovi principi d'igiene. Nel clima della Rivoluzione e nell'età liberale, l'abbandono delle fasce quasi il valore simbolico di liberazione dell'individuo da costrizioni e catene imposte dalla società. Le levatrici vengono invitate a divulgare presso la popolazione “consigliare a tutte le madri di allattare al propria prole”. Ma al contrario, l'aristocrazia e la borghesia conservatrice, risultarono a lungo refrattarie ad adottare queste nuove mode, sia sul versante dell'igiene che su quello dell'abbigliamento. Ancora a metà Novecento in molte aree l'uso delle fasce risulta documentato anche perché consentiva un più facile trasporto e gestione del bambino durante il lavoro. L'allattamento mercenario addirittura si intensificò in alcune realtà tra Sette e Ottocento, soprattutto con l'industrializzazione che costrinse numerose donne al lavoro in fabbrica o comunque in luoghi diversi e/o lontani da casa. L'allattamento risultava inconciliabile con questi nuovi impieghi e per questo le donne del proletariato si affidavano alle balie. Saranno soprattutto le iniziative della filantropia ottocentesca a favore delle madri povere, con la creazione di asili per lattanti e ambulatori pediatrici, a diffondere nel secondo Ottocento anche tra le classi subalterne i nuovi principi di cura e assistenza dell'infanzia e saranno proprio le donne dell'aristocrazia e borghesia liberale a farsene carico, impegnando in quest'azione risorse economiche e umane. 9.Riforme e leggi a difesa del neonato Molti governi illuminati sostennero queste campagne mediche, con l'obbiettivo di contrastare la mortalità infantile, attraverso la promulgazione di leggi e regolamenti tendenti a proteggere la vita dei “cittadini neonati”. Mentre i codici penali identificavano l'infanticidio come delitto contro la persona, prevedendo pene severe, venivano varate nuove norme sulla registrazione delle nascite, con l'istituzione dei registri di stato civile. Secondo il Codice napoleonico, il neonato doveva essere presentato negli Uffici municipali entro tre giorni dalla nascita dal padre, dal medico o dalla levatrice, alla presenza di due testimoni, per la stesura dell'apposito atto. Come la nascita, anche la morte divenne oggetto di un controllo più rigoroso, nel tentativo di scongiurare l'infanticidio. Alcune leggi imposero l'obbligo del certificato medico per la sepoltura dei neonati, contrastando l'abitudine di seppellirli senza alcun accertamento. Anche la vaccinazione fu al centro di una grande campagna nell'Ottocento, e divenne obbligatoria per molti bambini in molti Stati europei. La legislazione ottocentesca è segnata anche dal fiorire di norme più puntuali, volte a estirpare pratiche tradizionali dannose, come quella di “somministrare oppiacei ai bambini per indurne il sonno”. 11.Le molteplici rivoluzioni del Novecento 1.La tutela della maternità Le trasformazioni economiche e sociali dell'Ottocento avevano introdotto radicali cambiamenti nel modo di vivere la gravidanza e il parto. La Rivoluzione industriale aveva spinto milioni di donne in fabbriche insalubri, in condizioni di lavoro pesantissime, senza alcuna forma di assicurazione e tutela: nessuna astensione dal lavoro o riduzione di orario era prevista per la maternità, né prima, né dopo il parto. Le malattie, gli aborti, i parti precoci indotti da lavorazioni nocive aumentarono sensibilmente. Dopo il parto, infatti, le operaie riprendevano subito il lavoro, lasciando i neonati alle vicine di casa, in asili improvvisati e miseri dove venivano precocemente svezzati, con conseguente aumento della mortalità infantile. garanzie, grazie alla presenza di un nuovo strumento: quell'incubatrice che si rivelava indispensabile per i neonati pretermine o sottopeso. La sicurezza e il rifiuto del rischio per sé e per il bambino giocarono un ruolo cruciale nell'orientare la scelta delle donne. “La nuova concezione esige che si nasconda ciò che un tempo bisognava ostentare o addirittura simulare: il dolore”: le grida della partoriente che un tempo inondavano le strade erano ormai ritenute indecenti e socialmente inaccettabili. Il cerimoniale ospedaliero imponeva l'allontanamento del marito e dei parenti fin dal momento del ricovero, una serie di interventi di purificazione, l'immobilizzazione della donna a letto durante la fase del travaglio, controlli e visite ostetriche; al momento del parto la collocazione in una sala del tutto simile a quelle operatorie con le gambe immobilizzate. Nessuna intima o riservatezza, nessuna considerazione dei bisogni particolari, scarse informazioni sui trattamenti; l'espressione di sentimenti o sofferenze appena tollerata; l'ansia e la paura trattate come sintomi di sfiducia verso l'autorità medica. In sintesi ciò che si richiedeva alla partoriente era una totale delega all'autorità medica, cioè una passività ubbidiente. Anche la relazione madre-figlio alla nascita era rigidamente codificata: tagliato il cordone ombelicale, il bambino era sollevato per i piedi, separato dalla madre, lavato in acqua corrente, visitato e rivestito e infine condotto al nido, dove, restava fino alle dimissioni. I rapporti con la madre erano scanditi da tempi e intervalli rigorosi. Gli anni del secondo dopoguerra vedono la scomparsa della figura della balia e l'affermarsi del modello della casalinga consacrata al lavoro di riproduzione e cura e soprattutto dal trionfo del biberon. La medicina sostiene e incentiva l'uso del latte in polvere che lo prefigura come migliore e più sicuro di quello materno, oltre che come strumento di una nuova emancipazione materna. 6.”L'utero è mio e lo gestisco io”: contraccezione e aborto nel movimento femminista Lo slogan che il movimento delle donne gridava nelle piazze negli anni Settanta metteva in campo un principio nuovo nella storia di genere: quello dell'autodeterminazione sul proprio corpo. Non si trattava solo di rivendicare diritti civili e politici, ma di affermare una libertà di scelta che si declinava sia sul versante della sessualità che su quello della maternità. Per la prima volta nella storia, le donne rivendicavano pubblicamente il diritto di decidere se, quando e come avere un figlio; la maternità non era più intesa come dovere morale o destino biologico, ma come scelta. Il contraccettivo ormonale si diffuse negli anni Sessanta assieme ad altri metodi contraccettivi, nell'ambito di una nuova prospettiva di programmazione delle nascite e di progressiva riduzione della natalità. Per alcune, questa libertà di scelta si concretizzava nel rifiuto della maternità, sul quale incideva anche la distanza da un modello materno vissuto come subalterno. Molte invece cercavano nuovi percorsi che declinassero maternità e realizzazione di sé, maternità e gioia. Ne scaturivano rivendicazioni di una piena cittadinanza sociale, richieste di servizi che permettessero di coniugare lavoro e maternità (asili nido e scuole materne). Il crescente coinvolgimento dell'opinione pubblica e l'appoggio dei partiti di sinistra portò, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, alla promulgazione di leggi sull'interruzione volontaria della gravidanza nella maggioranza dei paesi occidentali. L'opposizione della Chiesa e dei partiti cattolici fu particolarmente forte. Negli stessi anni vennero cancellate le leggi che vietavano la propaganda e l'uso dei contraccettivi. Si tratta di leggi importanti, che segnano una tappa cruciale nella storia delle donne, che fonda la cittadinanza femminile sul principio di autodeterminazione del proprio corpo. 7.Nato di donna: una nuova prospettiva sul parto Al centro della critica stavano la Chiesa da un lato e la medicina dall'altro, individuate come responsabili di una repressione delle donne. L'illuminazione violenta, l'ambiente rumoroso, il repentino taglio del cordone ombelicale, l'immediata separazione dalla madre, procedure tutte attuate in nome dell'igiene e della sicurezza, erano esperienze traumatizzanti per il bambino, che aveva invece bisogno di essere accolto con delicatezza, assicurandogli tranquillità, penombra, contatto con la madre e attaccamento al seno immediato. Anche in questo contesto si trattava di una prospettiva nuova che rivedeva i rituali ospedalieri alla luce di questo soggetto e dei suoi bisogni. 8.Per un parto senza dolore: peridurale e psicoprofilassi Dopo secoli e secoli, una medicina più attenta ai bisogni delle donne cominciava ad affrontare il complesso tema del dolore del parto sia sul versante della ricerca che su quello delle tecniche volte ad alleviarlo. Tra fine del secolo e l'inizio del Novecento, l'interesse scientifico per la somministrazione dell'anestesia alle partoriente conobbe un rapido incremento. Durante il parto furono sperimentate come analgesici diverse sostanze come il cloruro d'etile, di metilene, il protossido d'azoto, soluzioni di cocaina,.. Queste sostanze presentavano però delle complicazioni non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico: privavano la madre della consapevolezza del parto durante la fase finale; intensificavano l'applicazione strumentale e avevano riflessi sulla vivacità del bambino alla nascita. Solo poco dopo venne inaugurata l'anestesia epidurale spinale che ha il vantaggio si sedare il dolore, lasciando la madre vigile durante il parto. 9.”Riprendiamoci il parto” Per alcune “riprendersi il parto” voleva dire sottrarsi all'esperienza del parto medicalizzato, per altre recuperare la portata emotiva dell'evento, riportandolo all'interno della sfera affettiva, per altre ancora reinserirlo in una prospettiva naturale e non patologica, rispettando anche le esigenze del bambino; per tutte sfuggire “ad un destino femminile di sofferenza passiva”. Nel '64 venne fondata a Parigi una clinica in cui le donne incinte frequentano corsi di preparazione condotti con diverse metodiche e al momento del travaglio e del parto vengono lasciate libere di scegliere la posizione e le persone che partecipano all'evento. In queste esperienze il padre acquisisce un ruolo inedito rispetto al passato, con un coinvolgimento che lo vede presente e partecipe sia durante la gravidanza che alla nascita. Si tratta dell'espressione di una nuova intimità e solidarietà della coppia, che porta a una netta rottura della tradizionale separazione di genere nel parto. Intanto in varie città si costituiscono associazioni di ostetriche femministe per il parto a domicilio. In Italia la legge 405/75 istituiva dei consultori familiari, oltre a prevedere l'informazione contraccettiva, si pone l'obbiettivo dell'”assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile”. Nel 1985 l'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) pubblica un documento importante e di svolta, nel quale si avanzano una serie di raccomandazioni per una corretta assistenza al parto fisiologico, sottoponendo a critica l'eccessiva medicalizzazione e tutta una serie di pratiche ospedaliere ritenute prive di giustificazione scientifica. Tra queste, la rasatura del pube, la rottura artificiale delle membrane fatta di rutine, l'obbligo della posizione supina durante il travaglio e il parto. Riconoscendo il concetto di “Benessere psichico della donna”, nel quadro di un'attenta e preliminare valutazione dei rischi, si raccomanda come fattore positivo l'accompagnamento e la presenza di una persona familiare, la libertà di movimento e di libera scelta delle posizioni durante il travaglio e il parto, l'immediato contatto con il bambino, l'allattamento precoce e inoltre il rispetto dei valori e della cultura di ogni donna. Nel 1988 il Parlamento europeo emana la Carta europea dei diritti della partoriente 10.Vedere nel segreto dell'utero: l'ecografia. Con la messa a punto dell'ecografia, tra gli anni Sessanta e Settanta, la medicina raggiunge un obbiettivo perseguito: osservare ciò che l'involucro del corpo nasconde, quanto avviene nel segreto dell'utero. L'ecografia diventa lo strumento per eccellenza per controllare medicalmente la gravidanza, per monitorarla. Negli anni Novanta si diffondono altre tecniche, come l'amniocentesi o la villocentesi, che consentono la diagnosi di patologie prenatali e l'individuazione di difetti cromosomici. E' evidente che lo strumento intercetta e amplifica una domanda sociale: il desiderio dei genitori di vedere il bambino prima della nascita, di identificarne il sesso e le caratteristiche. 11.I nuovi orizzonti della fecondazione artificiale Tra i cambiamenti radicali che investono il campo della riproduzione nel Novecento, quello della fecondazione artificiale risulta il più rivoluzionario da punto di vista sia scientifico che culturale e sociale, perché mette in atto cambiamenti profondi che investono, oltre che la maternità e la nascita, anche i ruoli sessuali e la famiglia. Posto in essere come metodo positivo dalla politica, in quanto funzionale al progetto di potenziamento demografico. L'esito più evidente è l'ulteriore rottura del rapporto tra sessualità e riproduzione. Se i metodi contraccettivi avevano reso indipendente la sessualità dalla riproduzione, con le tecniche di fecondazione artificiale è la riproduzione stessa a sganciarsi dal rapporto sessuale con una dissociazione dei corpi che annulla la sessualità nell'atto procreativo. L'impiego di spermatozoi o di ovociti di donatori/trici scinde il legame tra filiazione e genitorialità, creando una dicotomia tra padre e/o madre biologico e padre e/o madre sociale. Ne risultano ridisegnate la filiazione ela genetorialità, da secoli basate sui legami di sangue, con una separazionetra funzione biologica e funzione sociale. Il corpo della donna si configura così, sempre più come contenitore, tramite funzionale reperibile sul mercato. 12.Alle soglie del terzo millennio La maternità è generalmente riconosciuta non più come un obbligo o come un destino, ma come una scelta che una donna può compiere in piena libertà, decidendo se, quando e come avere un figlio. Ma la tecnologia può essere uno strumento o al contrario un ostacolo nel percorso di libertà femminile. Anche l'esperienza corporea della maternità sta uscendo dall'angolo buio della vergogna e dell'invisibilità nel quale era da secoli confinata: la valorizzazione del corpo.
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