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GENERE, GENERAZIONI E CONSUMI. L’Italia degli anni Sessanta (CAPUZZO), Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Sintesi dettagliata del testo.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 01/10/2020

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Scarica GENERE, GENERAZIONI E CONSUMI. L’Italia degli anni Sessanta (CAPUZZO) e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! GENERE, GENERAZIONI E CONSUMI. L’Italia degli anni Sessanta (CAPUZZO) Parte prima. Il consumo: strutture e linguaggi dei nuovi immaginari Dal consumatore al produttore. Percorsi di ricerca su consumi, attori sociali e identità individuali e collettive La riflessione di questo saggio nasce come commento ad altri quattro saggi sull’avvento della grande distribuzione, sul ruolo del consumatore, sul consumo televisivo e sul movimento consumatori in Italia e in Europa. Il punto di partenza è un contrasto che caratterizza l’analisi di chi si occupa dei consumatori in quanto FRUITORI e chi li considera dal punto di vista del MOVIMENTO DEI CONSUMATORI. Secondo quanto emerge da questi studi il consumo si rivela come una grande trasformazione “dal basso”. Una trasformazione che avvenne nella società e nella vita di tutti i giorni, contro l’incomprensione di istituzioni e partiti. Il contrasto scatta quando passiamo a considerare quello che, con una parola di origine anglosassone viene denominato CONSUMERISMO, ovvero movimento dei consumatori. Siamo così ricondotti al nodo centrale degli studi sul consumo, del significato politico della società di massa, dello scarto tra individuo e collettività. Di particolare rilievo risultano gli sviluppi della storiografia dei movimenti dei consumatori negli Stati Uniti. Un primo merito degli studi USA è stato quello di aver portato il consumo al centro della storia contemporanea di quel paese. L’idea che quella del secondo dopoguerra sia stata solo la terza fase di un percorso più ampio di movimenti dei consumatori USA, iniziato a cavallo tra Otto e Novecento, è un dato acquisito. Limiti e contraddizioni, tra la grande crisi e la seconda guerra mondiale: sensibilizzazione delle donne per il miglioramento della condizione delle lavoratrici, la pratica dei boicottaggi, l’impulso alla pressione operaia e sindacale. Questo consumerismo di impronta operaia, popolare e progressista, crollò nell’immediata fase post bellica. Gli umori della guerra fredda e del maccartismo ne tagliarono gli impulsi più avanzati e militanti. Il vuoto lasciato da questi movimenti fu occupato dalle iniziative degli organismi di analisi, informazione di mercato e orientamento all’acquisto. La loro concezione il customer consumer (consumatore cliente) incarnava una concezione ristretta e privatistica della cittadinanza. Altri punti di riflessione che emergono dai quattro saggi: - Interazioni tra produzione, distribuzione e riproduzione. - Possibile abbattimento delle barriere fra produzione e consumo - Identificazione tra pubblico e audience. Consumi, media e identità nel lungo dopoguerra. Spunti per una prospettiva d’analisi. Momento del corteo studentesco (fine anni Sessanta) davanti al negozio Fiorucci di Milano. Alcuni oggetti sfoggiati dai manifestanti sono ancora inseparabili da un’identità di sinistra. Essi facevano parte di una presentazione del sé che colloca il soggetto in una particolare posizione politica. L’esibizione di questi oggetti era in sé un atto politico. Al tempo stesso il fatto stesso di indossare altri indumenti in quel contesto permetteva a chi li portava di evadere completamente il campo della politica. (Le signore dell’alta borghesia che schivavano il corteo per introdursi nel negozio). Da un lato i beni di consumo isolano il soggetto e lo rendono passivo, dall’altro gli stessi oggetti funzionano come attanti, riescono così a creare legami e far nascere una sorta di solidarietà contestatrice. Un terzo significato dei beni di consumo lo ritroviamo nella possibilità di esercitare la fantasia e la creatività, di agire liberamente. Si possedevano oggetti che permettevano la sperimentazione senza che ciò comportasse una presa di posizione pubblica (Fiorucci andava bene sia a destra che a sinistra, inaugurando una forma di consumismo, detta post-conformista, che incitava a sperimentare identità, look e alleanze tra stili di vita). Il soggetto era messo al lavoro in prima persona: lavorare sulla propria immagine, essere innovativi, gestire il proprio stile era diventato un dovere sociale. Questo saggio esplora i legami fra consumi, contestazione e l’emergere di un nuovo consumismo (anni ’80). 1. Media e consumi negli anni Sessanta: i cambiamenti strutturali Secondo uno studio di F. Alberoni, il primo periodo di espansione dei consumi, dal 1954 al 1962 si caratterizza per un consumismo “passivo”, guidato dal modello americano. Nuovi bisogni, desideri e pratiche vengono imposti tramite la televisione, i settimanali femminili e la pubblicità. Il secondo periodo, che va dal 1962 al 1967, è caratterizzato da un consumismo “partecipativo”: la gente comincia a usare nuovi beni di consumo per articolare nuove pratiche identitarie. In particolare per i giovani, che non avevano di fronte una gerarchia sociale netta nella quale integrarsi, l’impatto con la televisione aveva determinato la rottura delle gerarchie e la circolazione delle informazioni, quindi uno sviluppo delle coscienze. Da un punto di vista strutturale, l’Italia durante gli anni Sessanta si trasforma da paese povero a paese non ricco ma vicino alla media europea. La diffusione di questa nuova opulenza sul territorio nazionale aveva contribuito alla formazione di un ceto medio relativamente ricco che si estendeva su tutto il territorio nazionale. In quegli stessi anni una notevole espansione dell’industria cinematografica, discografica ed editoria si accompagnava alla diffusione della televisione. L’apparecchio televisivo veniva posto al centro di una nuova attività sociale condivisa, che sembrava coinvolgere tutti (anche i contadini scendevano dalle colline, portando le proprie sedie da casa, per andare a guardare la Tv al bar o a casa di amici e parenti nelle ore di trasmissione). Sebbene la strategia RAI fosse quella di fare della televisione un medium educativo, non era questa la funzione che aveva l’impatto più profondo sul modo di guardare la Tv di allora. Erano invece i programmi leggeri e di intrattenimento ad impressionare maggiormente il pubblico (Lascia o raddoppia, Il Musichiere, Campanile Sera,…). Questi People of plenty: consumi e consumismo come fattori di identità nella società italiana. Nel 1958 D.M. Potter scrisse un libro basato su un’intuizione: che il “carattere” degli americani si fosse formato intorno alla consapevolezza di essere un popolo ricco e affluente (people of plenty). Veniva così introdotto il concetto che un ruolo non secondario nella formazione dell’identità fosse giocato dalla percezione della propria ricchezza (benessere materiale). Questa idea di affluenza non faceva riferimento a una ricchezza basata sull’accumulazione o sull’investimento, magari abbinata a una vita austera, ma a una ricchezza vistosa e consumistica. Un altro aspetto molto importante pone l’accento sul consumo e la gratificazione personale: la centralità attribuita alla singola persona, alle sue emozioni e alle sue esigenze, e quindi la giustificazione etica a un consumo la cui unica finalità era la libera espressione dell’individuo. L’Italia, negli stessi anni, aveva una memoria storica di povertà e un complesso di inferiorità non solo verso le nuove superpotenze, ma anche verso i paesi europei che lo sviluppo industriale aveva allontanato. L’Italia era così impegnata in una sorta di inseguimento, un processo che alla lunga avrebbe inciso profondamente sulla stessa identità degli italiani e sulla loro autopercezione all’interno della società. La tesi di questo saggio è che questo grande cambiamento sia avvenuto dal basso, tra la gente e che le nuove forme di ricchezza e consumismo si siano diffuse con successo attraverso una molteplicità di canali: cinema, televisione, pubblicità, musica. Ma non basta la presentazione di un messaggio perché questo venga recepito e accettato: esso viene filtrato attraverso le nostre preferenze individuali e attraverso i modelli culturali che abbiamo acquisito. In tal modo, il messaggio originale viene spesso distorto o reinterpretato. Importanti sono anche altri canali, più legati alle nostre azioni quotidiane, come ad esempio il commercio. Già dal 1877 era stato fondato l’emporio Aux Villes d’Italie, poi divenuto La Rinascente, mentre negli anni Trenta comparivano i primi magazzini popolari come Standa e Upim. Ma solo negli anni ’50 si assistette a una trasformazione con il moltiplicarsi dei grandi magazzini e soprattutto con l’apparire dei supermercati. La prima società di supermercati risale al 1957 e fa capo al gruppo Rockefeller. Questo sviluppo incontrerà un gran successo da parte dei consumatori, sollevando le preoccupazioni dei piccoli commercianti. Si svilupperà così una contrapposizione tra gli esercenti tradizionali e i nuovi empori alimentari. La questione vide una prima conclusione nella legge del 1971 che limitava l’espansione i supermercati e grandi magazzini, subordinandola a piani di sviluppo regionali e comunali. Dal punto di vista dei consumatori i supermercati svolsero un ruolo importante. Comparvero in un momento di grande espansione dei consumi, quando per la prima volta le famiglie italiane iniziarono a dotarsi di beni durevoli primari (auto, elettrodomestici, ecc.). Bisogna dire che in Italia i supermercati rimasero un fenomeno ristretto e subordinato all’ambito urbano. Tuttavia l’impatto psicologico che essi ebbero fu fortissimo. Veniva alla luce anche un nuovo modo di rapportarsi ai prodotti: esposizione di una grande varietà di merce, che appariva quasi una materializzazione fisica dell’idea di abbondanza e benessere. In mezzo a questa varietà facevano la loro comparsa i surgelati, i prodotti di marca, i cibi freschi tagliati a pezzi (o comunque trattati) e confezionati. Sappiamo quali meccanismi di difesa psicologica abbiano innescato i prodotti che intaccavano la naturale routine domestica, facendo risparmiare tempo alle donne di casa e insinuando il sospetto che si trattasse di massaie poco attente e amorevoli verso il focolare domestico. Mutarono anche le abitudini dei consumatori: si passò da un giorno indifferenziato nel quale poter fare la spesa a un giorno specifico e aumentò la mobilità per effettuare la spesa. A livello sociale varie inchieste testimoniano come i clienti abituali fossero gli anziani, per i quali i supermercati rappresentavano un diversivo in cui trascorrere il tempo, seguiti dai giovani. Le nuove forme di distribuzione fecero sentire il proprio peso all’interno dell’organizzazione familiare: se prima erano soprattutto le donne a fare la spesa, i supermercati erano frequentati anche da molti uomini. Erano percepiti come uno spazio socialmente “neutro”, in cui chiunque poteva accedere. Si affermò il concetto che “benessere” era uguale a “consumismo”, e cioè che il miglioramento della qualità di vita coincideva con una crescita della quantità dei beni da consumare. Nell’ultimo quarto del Novecento il fenomeno divenne più palese e si svilupparono consumi rivolti maggiormente all’individuo e alla sua soddisfazione personale. La politicizzazione del consumo. La cultura di protesta e l’emergere delle associazioni dei consumatori in Italia e in Europa. Per molto tempo si è voluto pensare che il consumo si configurasse come una sfera del privato, priva di risvolti politici, in realtà si tratta di un’area di conflitti tra attori individuali e collettivi che, agiscono in nome di “interessi” diversi: produttori, pubblicitari, commercianti, ma anche gli stessi consumatori e, soprattutto, le organizzazioni che, in vari modi, hanno tentato di rappresentarli. 1. Consumatori e azione collettiva A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, la maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale ha assistito allo sviluppo di organizzazioni di difesa del consumatore. Più precisamente, queste sono nate nei Paesi Bassi nel 1950, in Francia nel 1951, nella Germania Ovest nel 1953, in Italia nel 1955, e nel Regno Unito nel 1957. Negli Stati Uniti, già sul finire dell’Ottocento apparvero Le Consumers Leagues, che organizzavano manifestazioni e boicottaggi per esercitare pressione su singole aziende, denunciate sia in qualità di produttori che di datori di lavoro; esse promuovevano come fine ultimo la giustizia sociale pubblicando, ad esempio, delle “liste bianche” delle aziende dove i lavoratori venivano trattati con equità. Se già nel 1934 nasce la Consumer Union, durante la depressione economica e dopo fu soprattutto lo Stato Federale a promuovere un’intensa attività legislativa e di regolamentazione e, in generale, gli interessi del consumatore non apparivano così separati da quelli del lavoratore come sarebbe accaduto più tardi. Queste organizzazioni rivolte a tutelare i gruppi di consumatori, hanno promosso lo sviluppo di nuove legislazioni e si sono innestate , per lo più con funzioni consultive, in nuovi enti amministrativi e di controllo con una dimensione internazionale. Nel 1960 venne fondata l’Organizzazione internazionale delle unioni dei consumatori (IOCU) con sede all’Aia nei Paesi Bassi, con lo scopo di coordinare le esperienze dei diversi gruppi di consumatori in tutto il mondo attraverso reti di informazioni, seminari e incontri. Lo IOCU ebbe un ruolo cruciale nel riconoscimento dei diritti del consumatore proposti da Kennedy da parte dell’ONU. La natura di fenomeni come questo si è modificata nel corso del tempo e tende ad assumere colori diversi nelle diverse nazioni, nel loro insieme, queste organizzazioni sembrano testimoniare, con le loro variazioni, proprio i diversi effetti dell’incontro tra caratteristiche strutturali nazionali e tendenze economiche-sociali globali, transnazionali o sopranazionali. Quali che siano i loro scopi precisi e le loro attività, le stesse organizzazioni di tutela del consumatore sono state concepite sotto la categoria “politica del consumo” o “politica del mercato”. In questo quadro, l’aspetto politico delle relazioni di consumo è formulato come uno sbilanciamento di potere tra colo che producono i beni e i servizi e coloro per i quali questi beni e servizi sono prodotti. Tale sbilanciamento è dato dal fatto che i consumatori non riescono a mobilitare le proprie risorse con la stessa efficacia con cui lo fanno i produttori. Le associazioni di difesa del consumatore, in altri termini ci aiutano a mettere a fuoco i limiti strutturali del nostro sistema economico e, simultaneamente, in quanto figlie di questo stesso sistema, ne sono vittime. Queste associazioni si sono infatti spesso trovate a subire i limiti strutturali della loro posizione nel processo economico. È precisamente il carattere “generale” e “diffuso” degli interessi dei consumatori che è stato spesso citato come la ragione per cui emergono delle particolari difficoltà quando si vuole dare loro un’adeguata rappresentanza. Pertanto, l’informazione a tutela del consumatore può essere trattata come un “bene pubblico” che il mercato è incapace di distribuire in una misura socialmente efficiente, tanto da rendere necessario il patrocinio di forze politiche esterne al mercato. Quando questo è avvenuto, però, le associazioni dei consumatori si sono ritrovate in una posizione debole rispetto ai loro sostenitori. Così, i gruppi spesso, hanno avuto bisogno di fornire alcuni “incentivi selettivi” o “benefici esclusivi”. Sembra quindi che per poter crescere e sopravvivere il movimento dei consumatori abbia subito, dal suo emergere nel secondo dopo guerra a oggi, processi di “istituzionalizzazione” o di “commercializzazione” ; le associazione consumeriste sono entrate nel mercato come gruppi privati indipendenti, che hanno offerto ai consumatori una consulenza esperta specialistica, oppure si sono appoggiate a organismi politici (lo Stato) che le hanno inglobate al loro interno e hanno consentito loro di occuparsi maggiormente di questioni meno privatistiche e più strutturali. In Italia è stato soltanto con il consolidamento delle associazione dei consumatori negli altri paesi europei e con il sempre maggiore rilievo acquisto dagli organismi sovranazionali quali il BEUC che la difesa del consumatore ha guadagnato una certa visibilità pubblica anche in Italia. I consumatori sono generalmente rappresentati solo in maniera distorta, sia dalle organizzazioni che offrono sul mercato benefici esclusivi, sia da quelle che si connotano come gruppi di pressione e cercato di incorporare le iniziative dei consumatori allo scopo di promuovere nuovi attori rappresentativi e riguadagnare una certa quantità di consenso sociale. In altri paesi europei come in Francia, l’organo statale controllava e assorbiva , quelle istanze che potevano essere giostrate, come strumenti di pressione, contro altre richieste sociali o economiche. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna invece, tale movimento si è sviluppato soprattutto a livello locale e ha seguito tattiche diverse, attraverso strategie “micro”, offrendo assistenza legale ai singoli consumatori o servizi di consulenza e test comparativi nei loro acquisti quotidiani. È soprattutto in questo periodo che l’offerta di “ informazioni oggettive”, che ha restituito agli attacchi della deregolamentazione, è stata invocata come la soluzione finale ai problemi del consumatore. Si è sviluppato un mercato dell’informazione sulle merci al servizio di una visione pacifica delle relazioni sociali, poiché il consumatore è chiamato a reclamare i suoi diritti rispetto ad un sistema produttivo fondamentalmente conflittuale, fino ad allora in posizione egemonica. Dalla metà degli anni Novanta, la posizione assunta da Nader è che il termine consumatore andrebbe equiparato a quello del cittadino e la legge di tutela del consumatore dovrebbe essere considerata come un aspetto della tutela dei diritti civili. Questa posizione è altamente problematica, e non ha contribuito a considerare le relazioni di consumo al di là dei limiti costituiti del mercato. Lo stesso si può dire dell’innovazione: può condizionare fortemente le relazioni tra i consumatori e tra consumatori, istituzioni e produttori, e non è perciò sempre possibile considerarla come un bene privato; essa potrebbe invece essere più correttamente considerata come un qualcosa che agisce sul mercato, distorcendone o modificandone le condizioni strutturali. Mentre le associazioni continuano ad occuparsi del consumatore, questioni di consumo più ampio, strutturale o sistemico, sono oggi sollevata da campagne specifiche, organismi non governatici e gruppi di ambientalisti che hanno come orizzonte ultimo progetti anche radicali di trasformazione socioeconomica. Parte seconda: Consumi e trasformazioni delle identità femminili e maschili Le immigrate italiane negli Stati Uniti: tra America way of life e usi e consumi dell’Italia Il rapporto tra la modernizzazione e i nuovi consumi da un lato e i cambiamenti nei ruoli di genere dall’altro è una questione controversa. Le tesi di fondo che si contrappongono sono due: la prima evidenzia come l’avvento della società dei consumi di massa, con l’apertura di nuovi spazi pubblici come quelli commerciali, abbia introdotto forme di comunicazione e di socializzazione extradomestiche da cui soprattutto le donne hanno tratto vantaggio. La seconda sottolinea, invece, come questi nuovi spazi siano stati utilizzati per impedire un radicale cambiamento sociale e politico. Per quanto riguarda l’esperienza delle immigrate italiane negli Stati Uniti negli anni ’50 e ’60, è importante dire che fin dalle prime ondate migratorie le donne immigrate erano state bersaglio delle assistenti sociali statunitensi, che volevano insegnare loro la “convivenza civile americana” e l’American way of life: le italiane ricevevano lezioni di igiene, alimentazione, educazione dei figli, arredamento e cucito. Le italiane esercitarono una mediazione fra le due culture, da una parte integrandosi nella nuova società e dall’altra conservando le proprie tradizioni. Il gap generazionale è vistoso, ma ci sono alcuni comportamenti che accomunano le italiane alle figlie nate negli Stati Uniti. Un esempio riguarda i tassi di natalità e la dimensione della famiglia, che sono più bassi. Da un lato la riduzione della prole consentiva alle famiglie il costoso accesso all’istruzione per i figli e il miglioramento dello status sociale, dall’altro una piena adesione al modello individualista di stampo statunitense. La scuola svolgeva un ruolo determinante nell’influenzare i comportamenti dei giovani. Negli Stati Uniti, infatti, i ragazzi italiani scoprono l’adolescenza e rivendicano il diritto di viverla come i loro coetanei americani. Importante anche il ruolo svolto dai consumi americani, indispensabili per l’acquisizione di uno status paritario a quello dei compagni, per esempio per quanto riguarda l’abbigliamento, il cibo, il tempo libero, che erano aspetti diversi dalle usanze delle famiglie immigrate (sandwich americano invece del pane con le melanzane sott’olio e l’aglio). Ma il cibo è fondamentale per gli immigrati perché crea senso di appartenenza e identità e i ragazzi erano costretti dalle famiglie a partecipare ai pranzi domenicali. Per quanto riguarda il rapporto tra la diffusione del lavoro extradomestico, la modernizzazione e i cambiamenti nei ruoli di genere, sono elevatissimi i tassi di occupazione delle donne italoamericane di seconda generazione che non hanno figli, e bassi quelli delle madri. Riguardo al rapporto tra modernizzazione ed emancipazione femminile l’autrice vuole confutare la tesi secondo cui emancipazione = modernità = modello statunitense, perché considerata un modo di vedere semplicistico, che tende a sminuire la grande capacità di adattamento soprattutto delle donne. Un altro tema fondamentale da trattare è quello del rapporto tra consumi ed immigrazione, specialmente la conservazione o l’abbandono di alcune abitudini di consumo all’interno del processo di inserimento del gruppo immigrato. Allo scopo conservatore dei rituali gastronomici dei pranzi domenicali, può contrapporsi la disponibilità a concedere ai più giovani libertà “americane” di tutt’altro consumo, come il cinema. Le generazioni nate all’estero sono le prime, infatti, a voler adottare i comportamenti e i consumi della società di immigrazione, per farsi accettare dai coetanei. Ciò può originare un forte conflitto generazionale, oppure un’efficace mediazione che vede i più giovani come tramite verso la società d’inserimento, e i più anziani come depositari di tradizioni e abitudini della comunità immigrata. Soprattutto in una prima fase gli immigrati cercano di conservare alcune usanze; si parla di “conservatorismo culinario” perché gli immigrati volevano scegliere ciò che mangiavano ed era forte la differenza tra il cibo a cui erano abituati loro e il food americano. Gli italoamericani, con l’apertura di negozi e ristoranti, divennero fornitori e commercianti di prodotti tipici, contribuendo anche alla costruzione dell’immagine multietnica e multiculturale dell’America. L’elemento etnico, come si vede dalla pubblicità, è utilizzato a fini commerciali per garantire l’autenticità del prodotto; la moderna casalinga americana, tuttavia, ha bisogno di una preparazione più facile e veloce, quella tipica del cibo in scatola. Un esempio dell’uso strumentale dell’elemento multietnico è fornito dalla pubblicità della Coca Cola, dove ci sono bambini bianchi e persone di varie nazionalità che vogliono cantare “in perfect harmony”. E questo perché Coca Cola unisce persone da tutte le parti del mondo”. Mascolinità, mutamento, merce. Crisi dell’identità maschile nell’Italia del boom Il termine “identità” indica le caratteristiche dei singoli o dei gruppi sociali, di fronte a processi di trasformazione che generano insicurezza nei soggetti. Non sfugge a tali dinamiche l’identità di genere tra uomini e donne, ma anche all’interno dello stesso genere. La mascolinità è legata in primo luogo agli uomini che sottolineano la disuguaglianza di poteri fra i generi; e, in secondo luogo, proprio a questa disuguaglianza, che è l’elemento principale dell’identità maschile tradizionale. Infatti, l’uomo che dimostri una relazione di sub-alternità o anche solo di parità con il femminile verrà considerato, nella maggior parte dei casi, ben poco “uomo”; e una società in cui le donne sono prossime ad occupare una posizione pari a quella dell’uomo verrà considerata malata e prossima alla decadenza. In questo contesto di cambiamenti alcuni uomini temono la fine della disuguaglianza tra uomini e donne, mentre altri vedono un’opportunità per prendere le distanze dalla mascolinità tradizionale. Questo pluralismo in un genere solo è indice di una crisi culturale. Negli anni ’50 e ’60 ci furono una serie di mutamenti legati alla modernizzazione: presenza delle donne nella sfera pubblica, trasformazione dei ruoli femminili nell’ambito domestico, affermazione dei consumi di massa collegati a nuovi stili di vita. La relazione tra mascolinità e modernizzazione è circolare, biunivoca. Da un lato le crescenti insicurezze maschili spingevano verso una declinazione di genere sempre più esplicita (per esempio nella pubblicità), dall’altro questi mutamenti ebbero un effetto sulla crisi dell’identità maschile tradizionale. La figura dell’identità maschile che aveva avuto la propria apoteosi durante il fascismo adesso vacillava in un’epoca di cambiamenti. la rivista promuoveva in maniera particolare erano i valori associati alla modernità, specialmente il consumismo e il benessere. Invece di una rivoluzione politica si sarebbe verificata una vera e propria “rivoluzione del benessere”. Nel corso degli anni ’50 la rivista “Produttività” si pose come obiettivi l’aumento delle vendite e il conseguimento di un più alto standard di vita. Gli esperti che scrivevano per la rivista insistevano sulla necessità di educare i consumatori in modo da “influenzare e creare nuovi bisogni”. Nel corso degli anni ’50 furono condotte numerose indagini per determinare le preferenze degli italiani e per individuare gruppi di consumo distinti in base all’età, al reddito, al luogo di residenza, all’istruzione e al genere. Ma per promuovere la modernità ci volevano agenti attivi: numerose aziende incrementarono l’uso della pubblicità. I prodotti sponsorizzati erano per lo più legati alla casa e alla famiglia, ambiti considerati femminili. Varie aziende legarono il proprio nome alla modernità, per esempio la Marzotto, un’importante azienda tessile di Vicenza, La Rinascente, la Coca-Cola. Ognuna di queste si rivolgeva alle donne. I consumi effettivi degli anni ’50 indicano che sogni e promesse superarono di gran lunga la realtà. Nonostante il prodotto nazionale lordo fosse raddoppiato, lo stesso periodo fu contraddistinto da una forte inflazione e da un aumento del costo della vita. Nel corso degli anni ’50 il costo di molti articoli era ancora proibitivo per la maggior parte dei consumatori. Il “miracolo economico” non aveva ancora raggiunto la maggioranza degli italiani. La popolazione si considerava moderna per via di quello che desiderava o di quello che consumava? Da una parte si volevano le moderne condizioni di vita, dall’altra si sperava in un ripristino dei ruoli familiari tradizionali proprio attraverso l’aiuto dei moderni servizi e tecnologie. Se chiediamo cosa si pensasse della modernità nell’Italia degli anni ’50, la risposta è polifonica. Le aziende più importanti adottarono il linguaggio e le pratiche della modernità, nel tentativo di persuadere la popolazione a consumare i loro prodotti. Ma molte famiglie italiane non potevano permettersi questi prodotti ed inoltre ci furono molte voci contrarie alla moderna società dei consumi. La parità si acquista ai grandi magazzini? Boom economico e trasformazione del modello femminile Bisogna chiedersi come il cambiamento sia stato vissuto da parte delle donne, investite della funzione di ponte verso stili di vita desiderabili e caratterizzati dai nuovi prodotti. La pubblicità viene considerata una delle fonti di modelli di comportamento volti al consumo. Tradizione e novità La donna, in quanto “curatrice” storica delle risorse domestiche, accresce la sua rilevanza nel momento in cui la famiglia diventa unità consumatrice. ma questa rivoluzione in che misura contribuisce a liberare la donna da ruoli tradizionali e ad inserirla nella modernità? Ad eccezione di alcuni generi di consumo prettamente maschili (lamette per barba, automobili), è la donna che sceglie e acquista. Questa possibilità di “scegliere e acquistare” rappresenta l’evoluzione di un ruolo tradizionale, perché dipende dallo stipendio che guadagna col suo lavoro. I nuovi prodotti possono anche liberare la donna alleviando tutta una serie di fatiche fisiche legate alla conduzione domestica. L'angelo del consumo Negli anni '50 si riteneva che la pubblicità forzasse idee e comportamenti, manipolando la volontà dei consumatori; in seguito si è però giunti alla conclusione che essa si limiti a cogliere tendenze già in atto nella società e le riproponga. Il pubblicitario propone un modello tradizionale che prevedeva ruoli separati e definiti. Data la "novità" del modello consumistico si ricorre ad un certo "tradizionalismo familistico": difficilmente si percepisce come immorale il preoccuparsi per la propria casa, per i propri cari e per i bambini. Alla donna non viene quindi proposto un ruolo "moderno". Anche se funge da ponte verso il consumo, i nuovi prodotti, gli elettrodomestici, ecc. Sulla stampa non c'è riferimento al lavoro femminile se non in casi rari che riguardano un gruppo ristretto di occupazioni possibili. Il modello che viene proposto non è innovativo, la donna viene mostrata nell'ambiente privato, nel suo ruolo tradizionale della casalinga preoccupata del benessere della famiglia. Infatti, anche se l'ambientazione è moderna e il marito e la moglie sono moderni, mentre il primo viene rappresentato mentre sfreccia al lavoro al volante di auto veloci, la seconda si rivela solo una versione moderna dell'angelo del focolare, alla quale il frigorifero e la lavabiancheria fanno risparmiare tempo e fatica. Il paradiso della modernità Gli italiani della fine degli anni '50 possono veramente fare un balzo verso un nuovo stile di vita: l'alimentazione si sta modificando, la carne inizia ad essere proposta quotidianamente. Come mai i consumi privati aumentano già negli anni '50 quando i salari reali sono aumentati solo di poco? La risposta è da ricercare nelle motivazioni psicologiche. L'espansione degli impieghi urbani stabili permette una pianificazione delle spese sul lungo periodo e in città si sente con più forza la pressione ad uniformarsi agli altri. I nuovi prodotti propongono inizialmente uno status futuro, poi i prodotti vengono abbinati sempre più all'idea di lusso ed eleganza, diventando sempre più strumento di ostentazione. Conclusioni Alla domanda se la parità si acquista ai grandi magazzini possiamo rispondere: in parte. Negli anni '50 è ancora meglio che non lo si sappia ufficialmente e che le donne lo scoprano un po' per volta. La società del benessere è finalmente giunta e le pubblicità rimangono a testimonianza di un grande ottimismo che coinvolge ogni aspetto della vita di un popolo. Parte terza: Immagine e percorsi di una generazione Tra storie e pratiche: soggettività giovanile, consumo e cinema in Italia durante gli anni '50 In questo saggio sono alcune storie, raccontate dal cinema, a definire "i consumi" e le pratiche dei giovani consumatori. E' importante il valore simbolico delle merci nei processi di costruzione della propria identità. Si può studiare la nascita di una soggettività giovanile attraverso il rapporto tra alcune rappresentazioni cinematografiche e le pratiche della visione di ragazzi e ragazze. Molti elementi, dai blue jeans alla brillantina, dal rock'n' roll al desiderio di una maggiore indipendenza, entrarono nelle pratiche giovanili. Cinema, pubblico giovanile e pratiche della visione Negli anni '50 andare al cinema era un rito e una pratica sociale, per cui vi si andava non solo per vedere i film, ma per condividere un'esperienza, incontrare gli amici, i fidanzati e le fidanzate. Fu anche per questo che la buia sala cinematografica mantenne un carattere negativo per i guardiani della morale, che denunciavano gli effetti deleteri non solo delle immagini proiettate, ma anche delle pratiche della visione. La maggioranza degli spettatori era costituita da giovani tra i 15 e i 25 anni. Il cinema diventa così un elemento di rottura dalla tradizione. Il cinema italiano era organizzato in una produzione per generi che rispecchiava un gradimento del pubblico secondo appartenenze sociali e geografiche: film d'autore per il pubblico borghese dei centri urbani, film comici e musicali per i ceti popolari delle periferie. Il sistema dei generi durò fino a quando si affermò un prodotto "medio", la commedia italiana degli anni '50, il cui compito era quello di uniformare i gusti del pubblico. Aspirazioni pericolose: ragazzi e consumo Nel dopoguerra i giovani, soprattutto uomini, erano rappresentati in preda ad una profonda crisi che li trasformava in figure "perdute", protagoniste di rapine, suicidi, omicidi, con poca voglia di lavorare e di studiare, con la passione per il jazz e per l'alcool. Tutte caratteristiche della cosiddetta "gioventù perduta" o "gioventù bruciata". Il cinema italiano si appropriò della figura del giovane perduto, sebbene le pellicole realizzate furono poco numerose e non riscossero i favori del pubblico. I rari film sulla gioventù perduta furono censurati e suscitarono ambi dibattiti. "Gioventù perduta" rappresenta il primo intervento cinematografico sul tema della gioventù deviante che venne preso come modello da molti giovani. Germi trae importanti suggestioni dal genere hollywoodiano nella costruzione dei personaggi e dell'ambiente filmico. Si tratta delle avventure criminali di Stefano, il figlio ventenne di un professore universitario, che in compagnia di tre amici si Una giungla di valori Si tratta ora di esaminare , in maniera schematica, quali furono nella realtà storica considerata i modelli culturali emergenti che entrarono in collisione con modelli tradizionali, scardinandoli o comunque mettendo in discussione la piena legittimità; fenomeno da cui sarebbe derivata una pluralità di modelli culturali disorientante per la crescita dei giovani. Grosso modo si possono identificare i rappresentanti dei tradizionali universi valoriali con le principali istituzioni, vale a dire la scuola, la famiglia, le organizzazioni confessionali e politiche. Sul polo opposto si trovano invece i portatori di nuove istanze culturali, tra cui in primo luogo i mass media. La famiglia era centrale, indipendentemente dal profilo sotto cui veniva considerata essa trovava comunque conferma, caricandosi di un’aura di intoccabile sacralità nei messaggi propugnati dalla Chiesa cattolica. Per quanto riguarda l’educazione scolastica, una volta terminato il percorso di formazione scolastica molti giovani percepivano l’arretratezza e la crescente inadeguatezza del sistema, delle sue forme di selezione, dei metodi didattici e dei contenuti curriculari. Ma fu soprattutto la famiglia negli anni Sessanta ad essere attraversata da una profonda crisi che si registrava soprattutto nell’esercizio dell’autorità e della disciplina. I tradizionali valori sembravano sempre meno in sintonia con quelli proposti dalla modernità e dal benessere economico. A partire dagli anni Cinquanta si assistette a un sorprendente sviluppo della cosiddetta “industria culturale”, al cui centro si trovavano nuovi canali di trasmissione di contenuti, tra cui in primo luogo i nuovi mezzi di comunicazione di massa, che enfatizzavano tutti gli aspetti edonistici della vita e delle nuove opportunità offerte dal benessere di mobilità spaziale e sociale. È evidente che gli adulti erano turbati dai mutamenti valoriali indotti dalla modernizzazione in corso per lo meno tanto quanto lo erano i giovani, rafforzando ulteriormente il ragionamento, si potrebbe addirittura avanzare l’ipotesi che la prima generazione a sperimentare gli effetti disorientanti delle differenziazioni culturali valoriali in corso non fu tanto quella dei giovani, quanto piuttosto quella dei genitori, poiché obbligata a compiere un processo di ridefinizione del proprio sistema valoriale e di adattamento ad uno scenario sociale profondamente mutato sotto i più diversi profili. In un simile contesto il ruolo dell’educatore doveva risultare particolarmente arduo, caratterizzato da una continua ricerca di mediazione tra valori ormai assimilati e valori sanciti dal nuovo sistema democratico. Sulla necessità di costituirsi come generazione Per i giovani degli anni Sessanta si poneva il problema di munirsi di nuove coordinate attraverso cui definire la propria collocazione entro l’ordine sociale esistente. Il processo di formazione della gioventù fu di fatto favorito, dalla concomitanza di una serie di aspetti macrosociali di tipo esogeno da una parte ed esigenze e bisogni “generazionalmente” condivisi dall’altra. I giovani iniziarono ad acquisire consapevolezza della propria presenza sociale ed ad autorappresentarsi in una dimensione generazionale, tale consapevolezza risultava in una certa misura dall’aumento dell’attenzione per i giovani da parte dell’opinione pubblica e di alcuni settori del mercato. Questo processo rappresentò una prima tappa importante di uno sviluppo che nella seconda metà del decennio si sarebbe fatto più complesso per via dell’imporsi di eventi cruciali sulla scena della politica internazionale, come ad esempio la guerra del Vietnam, come ha osservato Paola Ghione; il Vietnam funse da “iniziativa collettiva”, in sostanza fu la molla che portò alla partecipazione politica di tanti giovani, fino alla formazione del movimento del Sessantotto. Parallelamente influì sulla nuova generazione anche la ricezione del pensiero della Nuova Sinistra, che si presentava come pensiero alternativo, come tentativo di definizione di una terza via attraverso cui uscire dalla tenaglia del bipolarismo e riuscì ad esercitare un’enorme attrazione anche su vaste fasce giovanili di estrazione piccolo borghese. Gli spazi della nuova generazione Nell'Europa del boom economico la diffusione dei consumi di massa ha modificato gli stili di vita. La crescente mobilità geografica ha permesso di rompere quei vincoli territoriali che avevano rappresentato un elemento di stabilità e di conservazione e il consumo diventa fonte d'identità anche per quei ceti che avevano fondato sul lavoro le basi del proprio riconoscimento sociale. Vi sono tendenze nei comportamenti giovanili che si assomigliano molto da paese a paese. Tendenze che vengono diffuse dall'industria dell'abbigliamento, da quella discografica, dalla stampa, dalla radio, dalla televisione e anche dal contatto tra i giovani. Spazi dell'abitare e consumi di massa In Inghilterra, in Germania e anche in contesti più arretrati come quello italiano, vi sono giovani che si ribellano contro i padri, che vogliono usare il denaro per i propri consumi e scegliere cosa fare nel tempo libero. Questa nuova società "moderna" prevede la separazione del pubblico dal privato e nasce uno stile di vita che consente la soggettività individuale, la privacy. Ma esisteva una differenza tra il mondo borghese e quell'operaio: nel secondo, infatti, la totale assenza di privacy, derivante dal sovraffollamento degli alloggi, si univa ad una frequentazione dello spazio pubblico. La condivisione costringeva alla coesione il tessuto sociale. Una prima fase di avvicinamento tra i due stili di vita, quello "operaio" e quello "borghese", si verifica con i programmi di edilizia pubblica, che prevedono una separazione tra pubblico e privato. Le peculiarità della società italiana negli anni '50 e '60: l'importanza del mondo rurale L'Italia degli anni '50 e '60 conosce processi di trasformazione imponenti, per esempio le migrazioni interne da aree rurali verso nuclei urbani. Le famiglie delle "Italie rurali" vengono modificate dagli ambienti urbani, dai nuovi media e dalla motorizzazione. La diffusione dei consumi di massa va ad inserirsi, in Italia, in un quadro radicato nel mondo rurale, o di recente inurbamento, mentre in Germania e in Inghilterra questa diffusione riguarda soprattutto la classe operaia urbana. Giovani operai I giovani che lasciavano il Sud e si trasferivano al Nord, spesso trovavano alloggio nelle Coree ai margini delle città. In queste condizioni è difficile immaginare uno spazio indipendente a disposizione dei giovani. Il luogo di lavoro della maggior parte dei maschi della Corea non è la fabbrica, alla quale peraltro essi ambiscono, ma il cantiere edile nel quale sono impiegati per lo più come manovali. Nascono tensioni generazionali per la diversità di occupazione tra genitori e figli. È tra i giovani, infatti, che è più diffusa l'occupazione in fabbrica, talvolta anche tra le ragazze. Questo fa sì che i giovani si trovino a contatto con il mondo urbano e industriale, con il sistema di valori che esso veicola, con i colleghi settentrionali e con un mondo nel quale è in atto un processo di individualizzazione. I giovani operai investivano sul proprio futuro e impiegavano il tempo libero con grande raziocinio. I giovani settentrionali, pur trovandosi in condizioni materiali più favorevoli dei loro coetanei delle Coree, mostravano alcuni tratti comuni con essi. Se i giovani della Corea manifestavano una forte volontà di fuoriuscita dalla loro nicchia sociale e geografica e dal nucleo familiare, questi altri sembravano altrettanto separati dalla famiglia. L'inserimento nel mondo del lavoro permetteva loro di elaborare prospettive per il proprio futuro, autonome e individualizzate. Giovani di provincia La separazione dei giovani dai nuclei familiari appare in provincia meno marcata. Certamente i giovani approfittano delle lambrette per andare fuori paese, ma in un ambiente nel quale si stava disgregando la civiltà mezzadrile, la famiglia si trovava sottoposta a tensioni interne che finivano per dar vita a una serie di conflitti negoziabili, più che tradursi in fratture radicali. La famiglia come unità affettiva, dunque, continuava a costituire un pilastro di quella società di provincia. Molti figli di contadini passavano ad altre professioni e questo mutava le esperienze di vita, le mentalità, ma non necessariamente portava ad uno scontro aperto. Lo spazio pubblico commercializzato L'uso del tempo libero separa le generazioni. Il look, i comportamenti, il gusto estetico e musicale, diventano veicolo della rappresentazione e dell'interpretazione del comportamento giovanile. I giovani sembrano preferire consumi esterni a quelli home-centered dei loro genitori: non interessano frigoriferi e lavatrici, ma motocicli, vestiario, radio a transistor, dischi, cinema, bar attrezzati di flipper e juke-box. Culture di strada e stili di consumo: i capelloni Emerge una nuova "cultura di strada": i capelloni rappresentano la prima subcultura giovanile che fa della rivolta contro il consumismo uno dei propri principi fondativi. I capelloni rappresentano, poi, uno dei tipici casi di sovraesposizione mediatica di un fenomeno che rimane, in realtà, piuttosto limitato. I giovani che erano andati via da casa con una rottura drastica con la famiglia, vivevano di espedienti per strada e si radunavano nei sotterranei della metropolitana erano abbastanza pochi; vi era, invece, un'area di gran lunga maggioritaria fatta di tanti giovani che cercavano di strappare maggior libertà alle famiglie e cercavano in piazza un più ampio spazio di libertà.
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