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Geografia culturale - lezioni, Sintesi del corso di Geografia

Sintesi dei concetti discussi a lezione.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 31/08/2022

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alessandra_bj 🇮🇹

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Scarica Geografia culturale - lezioni e più Sintesi del corso in PDF di Geografia solo su Docsity! GEOGRAFIA CULTURALE Questa è l’estrema sintesi di questa prima parte del corso. Vedremo questi 5 approcci principali. 1. Quello strutturalista tutto centrato su forme, funzioni, distribuzione territoriale (geografica), ecco una geografia definita tradizionale. Vedremo però che all’interno di questo approccio strutturalista ce ne sono di diversità, vedremo anche quali sono i principali approcci all’interno di quello strutturalista. Diciamo che è la geografia che ci si aspetta anche a livello sociale. 2. Secondo approccio, siamo negli anni 70, questo è un’approccio di geografia culturale, legato alla dimensione soggettiva perché ad un certo punto la geografia rovescia il punto di vista e comincia a parlare di affetti, legami, di luogo, di topofilia, di senso del luogo..è un’approccio che ancora oggi mantiene la sua validità e che ha stretti legami con la letteratura, con le arti, con lo spettacolo.. 3. Questo approccio è centrato sullo studio delle rappresentazioni; con questo approccio inizia la nuova geografia culturale e il Cultural Turn. Inizia una vera e propria rivoluzione, la geografia comincia a dialogare con le altre discipline, cambia quindi i suoi metodi, suoi strumenti..anche se a livello sociale non è arrivata molto questa svolta. 4. Inizia negli anni 90 del secolo scorso ed è tutto centrato sulle pratiche, sulle attività sociali, individuali che sono espressione di controcultura (i raiters, parkour, street performer, ecoteatro…) tutte quelle attività che appartengono al mondo della cultura ma che in realtà sono espressioni di un modo altro di concepire il mondo e di dargli un senso. 5. Qui torniamo in casa, in Italia, sviluppatosi in ambito francofono e italiano. Il caposcuola è Claude Raffestin che ha cominciato a parlare di questo approccio negli anni 80. Lui francese di origine, però poi è andato a vivere nella Svizzera francofona, ha sposato la ex presidente della regione Piemonte e quindi in Svizzera la sua scuola si è affermata e ha dato vita a una serie di studi. Cominciamo dall’approccio strutturalista. Per quanto riguarda lo strutturalismo, è un modo di concepire la realtà (qualunque tipo di realtà) che è assimilata ad una struttura che è composta da elementi legati da relazioni. Quindi lo scopo dello strutturalismo in tutte le varie declinazioni disciplinari (perché lo strutturalismo è il retroterra teorico generale, poi ogni disciplina aveva la sua declinazione) è studiare questa struttura, come le cose erano fatte, quali relazioni le unissero. Razionalismo, cioè i principi cartesiani. Quindi razionalismo cartesiano ha origini nel 18 secolo, le Encyclopédie di Diderot e D’alembert, Cartesio e quindi la distinzione fra res cogitans e res extensa (anima e corpo, vero e falso, natura e cultura..) tutto il razionalismo Cartesiano è binario, concepisce la realtà in termini di opposizioni binarie. Positivismo, ricerca del vero, della verità assoluta, il rilievo dato alla scienza e soprattutto alle discipline cosiddette dure, cioè quelle che adottano il metodo scientifico riproducibile in laboratorio; chimica fisica matematica scienze naturali.. Queste erano le basi, delle basi molto rigide che non lasciavano molta scelta. Cosa ne derivò da tutto ciò? Delle descrizioni geografiche dal significato assoluto. Non ci si poteva permettere a quel tempo l’interpretazione, l’idea si ma sempre su basi scientifiche. Quali erano i metodi? Dati, anche relativi alla geografia fisica (soprattutto all’inizio, la geo umana era molto legata alla geo fisica quindi i geografi sapevano anche misurare le temperature, utilizzare l’altimetro, fare rilievi sul terreno…) Cartografia già utilizzabile o prodotta nel corso delle ricerche; supporto cartografico era indispensabile, ogni libro doveva contenere una rappresentazione cartografica. Osservazione diretta, si doveva descrivere quello che si vedeva e la realtà doveva essere riprodotta fedelmente. La scala delle ricerche era piccola o media, quindi riferita a territori di dimensioni abbastanza vaste. La scala è il rapporto di riduzione tra una misura considerata nella realtà e la corrispondente sulla carta. Parliamo di grande o piccola scala in riferimento al denominatore; se dovessimo riportare questa espressione in formula matematica sarebbe esattamente questo: 1 sta a 5000 ecc Quell’uno è 1 cm, quindi 1 cm sulla carta che equivale a 5000 cm nella realtà. Quando abbiamo il denominatore piccolo (5000 ad esempio è piccolino se consideriamo che sull’Atlante le carte sono anche 1 a 30 milioni) stiamo parlando di un territorio di piccole dimensioni con molti particolari: infatti se facciamo 1 : 5000 viene 0,0002. Se invece prendiamo ad esempio la scala 1 a 1 milione, il risultato viene 0,000001 che è un numero più piccolo rispetto a questo. Il denominatore quindi in questo caso è grande e abbiamo territori di ampia dimensione ( con una scala 1 a 1 milione o 3 milioni posso rappresentare l’Italia ad esempio con pochi dettagli ovviamente, quanto più piccola è la scala quanto minori i dettagli rappresentati) E’esattamente l’opposto di quello che sembra apparentemente; quando parliamo di grande scala stiamo parlando di territori di piccole dimensioni (scala urbana, di area metropolitana ecc) Quando invece parliamo di piccola scala stiamo parlando di nazioni, aree sovranazionali o addirittura dell’intero globo. Questa geografia strutturalista, cosa studiava della cultura? Studiava le evidenze materiali, il visibile, ciò che era osservabile ad occhio nudo. Quindi gli edifici storici ad esempio, i monumenti, le forme del paesaggio…questo è un paradigma che si sviluppa dalla seconda metà dell’800 fino a tutti gli anni 60, è un momento storico in cui prevalgono le attività rurali e quindi l’attenzione era soprattutto sui paesaggi agrari, le tecniche di coltivazione.. tutto però legato al visibile. Venivano anche studiate le tradizioni, le feste, ma sempre descrivendone l’apparenza, il modo in cui si svolgevano, il periodo e le connotazioni di questi eventi, sempre a livello descrittivo. Descrizione dettagliata. Qui si ha la presunzione della descrizione oggettiva della realtà, si parte dal presupposto che io posso osservare una cosa e descriverla completamente in modo esaustivo. Ma come vedremo questo modo di pensare non è vero perché le descrizioni oggettive della realtà non esistono, tutto dipende da chi osserva. Focus su cose materiali, visibili ad occhio nudo, che sono oggetto di studio. Non sugli autori che hanno descritto magari già quelle cose, ne tantomeno sugli attori che praticano/costruiscono quelle cose. possibilisti per individuare le regioni, individuarne i confini. Le regioni diventano oggetto di studio prevalente e principale del possibilismo. Altro concetto cardine del possibilismo è il paesaggio, che è l'espressione visibile della regione. Siamo ancora in pieno razionalismo, quindi è considerato soprattutto, se non esclusivamente, l'aspetto visibile/oggettivo delle cose. L'attenzione viene tutta posta sull'omogeneità e la diversità territoriale (appunto perché i possibilisti focalizzavano l'attenzione sulla regione). Quindi, si chiedevano, che cos'è che connota/che fa sì che si possa delimitare una data regione? La lingua? Una tecnica di coltivazione? Tecniche di costruzione delle case (ci fu addirittura un geografo francese che scrisse un'opera intera sui tetti della Francia e ha ritagliato delle regioni sulla base di questo criterio)? Omogeneità che crea regioni; diversità che differenzia le regioni. Abbiamo visto che il determinismo ambientale si prestava a sostenere le politiche espansioniste e il colonialismo, quindi la conquista dei territori (cfr. concetto di spazio vitale, razza; lo Stato è come un organismo che deve crescere per svilupparsi): si cercava di giustificare in questo modo le politiche di espansione, in Europa, e le politiche colonialiste nei paesi del sud del mondo. Si è conclusa la fase più intensa, alla fine del Novecento, dell'espansionismo e del colonialismo: ora gli interessi politici ed economici sono diversi; sono gli interessi statali interni ad avere la meglio. Questo perché c'è una borghesia in crescita, grazie alle attività industriali, i commerci, ecc., che ha bisogno di conoscere i territori su cui investire economicamente o con cui intrattenere e sviluppare commerci. Non c'è più l'intento espansionistico e colonialistico. Questa geografia, quella possibilista, risponde a un'esigenza di conoscenza del territorio da parte di una classe media (borghesia) che ha bisogno di conoscere i territori per poter investire in attività economiche. La cultura, comunque, viene considerata ancora quasi esclusivamente nei suoi aspetti materiali: anche la geografia possibilista focalizzerà l'attenzione sulle forme degli abitati, la forma delle case, i materiali usati, i paesaggi agrari, gli strumenti utilizzati per lavorare i campi, le tecniche di allevamento, diversi di regione in regione. Il prodotto tipico del possibilismo sono le monografie regionali: ogni geografo, per essere ritenuto tale, doveva produrre una monografia regionale. Doveva scegliere un territorio, non troppo vasto, e studiarne/individuarne il genere di vita prevalente, i confini, ecc. e seguire una rigida struttura, basata su aspetti fisici, aspetti antropici, aspetti economici. Un po' come uno studio a compartimenti stagni: ogni aspetto veniva indagato e approfondito come fosse a camera stagna. C'era una logica disgiuntiva, che è quella cartesiana: per quanto riguarda gli aspetti fisici venivano esaminati geologia, geomorfologia, clima, vegetazione, ecc.; per gli aspetti antropici invece popolazione, densità di popolazione, dinamiche della popolazione, struttura della popolazione per età e sesso, gli insediamenti, ecc. La cultura faceva parte generalmente degli aspetti antropici, oppure ad essa era dedicato un capitolo specifico, ma sempre e quasi esclusivamente di cultura materiale si parlava. Facevamo accenno alle religioni, ma sempre collegandole a qualcosa di materiale (chiese, edifici di culto, ecc.). La lingua era l'unico aspetto immateriale che veniva affrontato. Un esempio di queste monografie è la collana Le regioni di Italia, che fu pubblicata dall'editore UTET di Torino tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta (non ne è sicura, ma l'ultimo volume dovrebbe essere del '76). Ognuno era dedicato a una regione amministrativa italiana. Dentro a ciascuna regione poi venivano ritagliate le varie sub-regioni, es. per il Lazio, l'Etruria, la Tuscia, la Ciociaria, la Valle dell'Aniene, il Reatino, la Val di Comino, ecc. Questo paradigma possibilista si diffonde molto rapidamente e acquista molto credito; si pensa di aver raggiunto finalmente l'epistemologia definitiva della geografia. Non a caso è un approccio che durerà a lungo: il possibilismo copre almeno tutta la prima metà del Novecento, ma in realtà permane molto più a lungo, es. in Italia c'erano ancora negli anni Ottanta dei geografi che lavoravano secondo questo approccio (erano molto anacronistici perché nel frattempo la geografia era andata avanti, ma comunque sono manifestazione del fatto che questo approccio è durato molto). Che succede negli USA Questa era la situazione in Italia e in Francia, ma che succedeva negli Stati Uniti? Lì, nel frattempo, nasce la geografia culturale (cultural geography). In Europa non si parlerà mai di geografia culturale, ma di geografia umana (nell'ambito della quale possono essere affrontati degli argomenti specifici culturali, ma sempre ritenendoli parte della geografia umana). Andiamo con ordine. Siamo ai primi del Novecento negli stati del mid-west, ove insistevano delle università prestigiose molto attive dal punto di vista geografico, come quella di Chicago, Michigan, Wisconsin, Illinois. Sono le università che a quel tempo erano più attive dal punto di vista geografico. Quale geografia si faceva? Quella determinista, grazie agli allievi di Ratzel. C'erano stati degli studenti americani che erano andati a seguire le lezioni di Ratzel in Germania e, una volta tornati in patria, avevano spinto agli estremi il determinismo di Ratzel. Tra questi allievi, c'era anche Ellen Churchill Semple: studiosa molto influente; ai tempi ascoltò le lezioni di Ratzel fuori dalla porta, perché al tempo non era consentito l'accesso in aula alle donne. Tornata in patria, negli Stati Uniti, spinge agli estremi il determinismo di Ratzel, fino ad arrivare a dire: l'uomo è un prodotto della superficie terrestre. È quindi determinato dall'ambiente. Così fanno anche i suoi colleghi, per cui si arriva a dire che i livelli di sviluppo derivano dalle condizioni climatiche delle varie regioni del mondo. Perché Europa e Stati Uniti sono così sviluppati? Perché c'è un clima mite, non ci sono estremi termici, ecc. Questo favorirebbe l'attività, l'ingegno e la creatività. Invece, le popolazioni africane, asiatiche o latino-americane, soprattutto quelle insediate in luoghi in cui le condizioni climatiche sono estreme, es. dove c'è troppo caldo o troppo umido, sarebbero accidiose e svogliate. Lo stesso discorso vale per le religioni: le religioni monoteiste si sarebbero sviluppate laddove i paesaggi sono monotoni (per cui sarebbe più facile lo sviluppo di un'idea che concepisce un unico dio); le religioni politeiste si sarebbero sviluppate in territori molto più articolati e complessi. Tutto veniva ricondotto alle caratteristiche ambientali. Negli Stati Uniti dei primi del Novecento, il colonialismo politico era diventato già un po' anacronistico (costava troppa fatica, troppe vite, troppi soldi; inoltre c'era una parte dell'opinione pubblica che cominciava a deprecare/condannare queste guerre di conquista). Piano piano anche gli Stati Uniti abbandonarono, perlomeno all'apparenza, il colonialismo politico, quindi l'assoggettamento dei territori. Cominciò a convergere/direzionarsi verso il colonialismo economico, cercando di controllare aree attraverso accordi commerciali, politiche economiche di vario genere. Ai primi del Novecento inizia a farsi strada la figura di Carl Sauer, che sarà il protagonista della geografia culturale e della nascita delle geografia culturale. Carl Sauer era in realtà figlio di immigrati tedeschi; aveva fatto le scuole superiori in Germania (le sue radici formative le aveva prese dall'ambiente tedesco); studia all'università a Chicago, in Illinois; ottiene un incarico nell'Università del Michigan (siamo sempre nel mid-west americano). Stanco di quel determinismo ambientale, che non condivideva né dal punto di vista teorico né dal punto di vista metodologico, decide id trasferirsi in California, a Berkeley. Qui, all'Università di Berkeley, fonda una sua scuola, che chiamerà "scuola del paesaggio". Quindi la geografia culturale nasce, in fondo, da una reazione al determinismo ambientale negli Stati Uniti. Sauer era abbastanza attento a quello che succedeva in Europa (leggeva con molto interesse Paul Vidal de la Blache e gli scritti possibilisti), ma sviluppò un'idea diversa, non legata troppo alla geografia europea. Prese degli spunti ma reinterpretandoli. di spiegare cosa sia, la definisce come una forza esterna all'uomo che guida i comportamenti umani. Come ha sottolineato Alessandra Bonazzi nel suo testo del 2011, di questa forza non si specifica nulla (nessuna teoria, nessuna critica, ecc.; pura evidenza). Questa è la reificazione dell'idea di cultura, proprio il fatto che si ritiene che questa entità/forza determini le azioni umane senza sapere da cosa derivi, da dove provenga, in che modo agisca. Questa sarà la critica principale che verrà poi rivolta alla scuola di Berkeley, a Carl Sauer, e che circa venti/trenta anni dopo segnerà la sua definitiva scomparsa. Quindi cosa studiavano i geografi della scuola di Berkeley? I prodotti, gli esiti, i risultati, le forme visibili della cultura, es. le case, le aree di servizio, le forme del paesaggio agrario. Cioè tutti gli aspetti materiali che sono il risultato della trasformazione del paesaggio naturale in paesaggio culturale. Tutto centrato sugli esiti, i prodotti della cultura. Vedremo invece che con la nuova geografia culturale l'attenzione non è rivolta sui prodotti, ma sui processi; sui processi che trasformano, che danno vita alla cultura (e non solo quella materiale, ma anche quella immateriale). Ma ci si arriverà circa negli anni Ottanta, mentre qui siamo ancora negli anni Cinquanta (loro però cominciano negli anni Venti: se vogliamo, la data di nascita ufficiale della scuola di Berkeley e della geografia culturale è il 1925, con la pubblicazione del saggio principale di Carl Sauer). The morphology of landscape (1925): testo fondamentale che segna la nascita della geografia culturale; ne viene un po' considerato l'atto di nascita. Nel titolo è presente la parola morfologia, che rimanda alle forme materiali. In questo saggio è contenuta la definizione di paesaggio culturale: il paesaggio culturale è un paesaggio naturale, forgiato da un gruppo culturale. La cultura è l'agente, gli elementi naturali sono il mezzo e il paesaggio culturale è il risultato.  Sembra quasi un'espressione. Non sta parlando di comunità/collettività, ma sta parlando di gruppi culturali.  La cultura è l'agente, è ciò che materialmente trasforma, è la forza plasmante che agisce. In realtà sono gli uomini e le donne che agiscono, ma no, in quest'ottica è la cultura.  Gli elementi naturali sono il mezzo, quindi in base alle caratteristiche/connotazioni/possibilità offerte dall'ambiente naturale.  Il paesaggio culturale è il risultato. Qualcuno dirà, più tardi, che questa era una geografia impostata tutta su tre elementi: shape, form, structure (forma, aspetto esteriore, struttura). Questi elementi si andavano a studiare delle aree culturali e servivano per andare a individuare i paesaggi culturali. Carl Sauer acquisì molta visibilità, anche più di Paul Vidal de la Blache, anche perché assunse molti incarichi politici, diventò responsabile di uffici/progetti importanti, fu posto a capo di commissioni statali, ecc. Creò anche una scuola molto potente. Insomma, si tratta di una geografia molto influente per l'epoca. Nonostante ciò fu anche molto criticato, soprattutto dai geografi del mid-west, che nel frattempo andavano avanti e consideravano questa una geografia troppo conservatrice, tradizionale, troppo legata ai paesaggi rurali. Un merito gli fu però riconosciuto: il fatto che Carl Sauer può essere considerato un pioniere dell'ecologia culturale. L'ecologia culturale si affermerà più tardi, negli anni Cinquanta; nasce in ambito antropologico, poi diventa un paradigma interdisciplinare. Perché l'ecologia culturale? Perché mentre spiega come le culture hanno trasformato la natura, dando luogo e dando via a dei paesaggi culturali, lui era anche fortemente critico: riteneva che queste culture, trasformando la natura, la avessero alterata, a volte in modo anche irreversibile; l'avessero distrutta. Stava anticipando dei temi ambientali che a quell'epoca non erano socialmente diffusi, non c'era una consapevolezza ambientale. Così facendo, rovesciò l'evoluzionismo culturale, che stabiliva che le culture procedono da uno stadio inferiore a stadi progressivamente migliori (un po' come avviene in natura: in natura gli organismi dapprima erano semplici, poi pian piano divengono sempre più complessi ed evoluti, e così la cultura). Sauer però dice esattamente il contrario: per lui le culture più avanzano, più sono progredite, più distruggono l'ambiente (quindi in realtà sono inferiori rispetto alle culture native). Questo fa di Sauer un precursore dell'ecologia culturale e delle attenzioni verso l'ambiente che, alla sua epoca, non erano certo così diffuse. Lui e i suoi allievi studiano, tra l'altro, le aree e valli tradizionali, i popoli nativi; ed è proprio andando a fare queste ricerche sul campo, a stretto contatto con queste popolazioni, che riesce a capire come le loro attività siano molto più sostenibili rispetto a quelle tecnologicamente avanzate delle società americana del suo tempo. Verso quest'ultima Sauer è profondamente critico. Proprio per questa attenzione verso le aree rurali tradizionali, verso gli usi e i costumi della vecchia America, per questa enfasi sulla tradizione e sull'idea di comunità che vivono a stretto contatto con la natura, in armonia, fu una geografia accusata di essere conservatrice, tradizionalista e nostalgica. Soprattutto a partire dal secondo Dopoguerra, USA/Europa/paesi economicamente avanzati erano tutti proiettati verso il futuro, la conquista della luna, il progresso tecnologico. Questa geografia fu quindi considerata inadeguata a fornire un'interpretazione del mondo. Però, fino a tutti gli anni Cinquanta si mantenne forte. La vera decadenza ci fu quando Carl Sauer andò in pensione: prima era talmente potente che nessuno osava contraddirlo. Funzionalismo/spatial analysis: anni Cinquanta/Sessanta in Europa Parliamo di Europa, ma il funzionalismo in realtà si afferma anche negli USA. Contestualizziamo il momento storico: siamo nel secondo Dopoguerra, tutte le nazioni colpite dalla guerra sono puntate verso la ricostruzione, il progresso tecnologico, girano molti soldi col piano Marshall anche in Europa, c'è tutta la fase di ricostruzione, c'è il boom economico; le economie sono tutte in espansione. E tutte le discipline sociali, tra cui la geografia, sono chiamate a dare il loro contributo a questa crescita economica e sociale. Si sviluppa una geografia che viene definita funzionalista o quantitativa o neo-positivista o spatial analysis. Questa cerca di elaborare teorie e modelli per ottimizzare strutture e funzioni economiche. Ogni disciplina in questo momento storico deve favorire la crescita economica e la geografia che cosa può fare? Può elaborare dei modelli per stabilire la localizzazione ottimale delle attività economiche. Questi in slide sono dei modelli che furono ripresi dal passato:  Il modello di von Thünen : riguardava la localizzazione delle coltivazioni intorno a un centro urbano. Venivano fatti dei calcoli matematici, con dei dati, ed è per questo che viene definita anche geografia quantitativa: utilizza ad esempio la geometria euclidea; cerca di essere "scientifica", nel senso delle discipline forti/dure; vuole somigliare alle scienze dure.  Il modello di Weber : relativo alla localizzazione industriale. Ci si chiede quale sia il posto migliore per localizzare un'industria, tenendo conto dei costi delle materie prime, dell'energia, del trasporto per raggiungere i mercati.  Il modello di Christaller : riguardava la localizzazione ottimale dei servizi. È più recente degli altri, elaborato però anch'esso in epoche precedenti. Ci si chiede quale sia la distribuzione dei servizi ottimale per garantire un equo accesso a questi servizi da parte della popolazione. E qui addirittura veniva immaginato che questa distribuzione dovesse seguire un ordine esagonale: si prendeva come esempio l'esagono per localizzare le attività di servizio secondo un ordine spaziale ben preciso. comportamentali degli individui e/o dei gruppi erano profondamente diverse, improntate alla mobilità. Nel 1970 troviamo uno degli ultimi testi, Time geography, ma lui già negli anni Cinquanta/Sessanta aveva esaminato questi comportamenti, evidenziando appunto che in realtà la vita comunitaria andava dissolvendosi. Non esiste più la vita comunitaria, ma esistono tanti individui che fanno i loro percorsi/vite quotidiane, eventualmente aggregandosi a dei gruppi, ma temporaneamente. Tra tutti i geografi funzionalisti Torsten Hägerstrand è stato il più importante, quello che ha innovato proprio tanto la geografia. Lezione 5 – 15/03/2022 La prof riprende l’argomento affrontato nella lezione precedente. Stavamo parlando della geografia radicale. Essa avrà tanta importanza nella geografia attuale, si tratta di una geografia molto legata ai temi affrontati dalla prospettiva radicale. Geografia radicale Nata negli anni ’70 negli Stati Uniti, sulla scorta dei movimenti di protesta del ’68. Essa si schiera contro la geografia degli special analysis e contro il sistema capitalistico, è una geografia ideologicamente orientata e molto centrata sulle disuguaglianze, sugli squilibri territoriali e sociali, sui conflitti. La scala di indagine principale è orientata in due tipologie: 1) scala globale, che analizza gli squilibri tra nord e sud del mondo, e 2) scala urbana, in essa le città diventano oggetto d’interesse perché condensano e riflettono le contraddizioni del mondo capitalistico. Se la geografia umanistica si concentra sul concetto di luogo, la geografia radicale si concentra sul concetto di spazio. Si ha una lettura dello spazio dal punto di vista politico, come strumento di controllo e dominio gestito da classi egemone su quelle subalterne che non fa altro che mantenere il sistema capitalistico e le sue diseguaglianze. Obiettivi della geografia radicale : un impegno sociale, in quanto non è possibile fare geografia senza occuparsi delle questioni del mondo. Chiaramente è una geografia schierata contro le ingiustizie, i razzismi, gli imperialismi, quindi, lo schierarsi contro tutte queste forme di disuguaglianze e ingiustizie; obiettivo è anche il trovare soluzioni radicali e rivoluzionari a questi problemi. I due protagonisti nonché gli esponenti di tale teoria furono: 1) D. Harvey → esordì nel 1973 con il libro “La giustizia sociale e la città”, qui espone una delle sue idee cavallo di battaglia, secondo cui il capitalismo si serve dello spazio per riprodursi e la città genera le disuguaglianze sociali. Dunque lo spazio non è un mero scenario dove le diseguaglianze si manifestano, è lo spazio stesso che genera e riproduce le diseguaglianze. 2) H. Lefebvre → sociologo per molto tempo indicato come uno dei pochi che aveva elaborato una teoria sullo spazio; in particolare in un testo del 1974 distingue tre tipi di spazio strettamente collegati gli uni agli altri. Anche lui ritiene che sono le classi egemoni a ritenere come debba riprodursi uno spazio e in questo modo non si fa altro che riprodurre il sistema capitalistico e le sue contraddizioni. Le tre tipologie di spazio elaborate da questo autore sono: 1) spazio concepito → pratica concreta dello spazio, percepito attraverso i sensi (vista, olfatto, udito, ecc…). 2) spazio percepito → rappresentazione razionale, è uno spazio che si concepisce per uno scopo particolare, ad esempio lo spazio di cui si occupano gli amministratori di una città, gli urbanisti, coloro insomma che hanno a che fare con l’organizzazione e la pianificazione concreta e devono usare razionalità. 3) spazio vissuto →quello che Lefebvre attribuisce ai simboli e alle immagini. Attuato quindi attraverso simboli e immagini, si rifà a tutto ciò che riguarda una dimensione simbolica e immaginaria ma che ha comunque a che fare con la rappresentazione dello spazio. Molto spesso le rappresentazioni artistiche della città contribuiscono a costruire lo spazio percepito e quello concepito. Lefebvre faceva questa distinzione nei primi anni ’70 e molto di questi ragionamenti costituiranno una delle riflessioni cardine di tutte queste discipline. Anticipa i tempi e da sociologo egli sottolinea l’importanza dello spazio e distingue le diverse tipologie di spazio, anticipa ciò che sarà poi affermato negli anni ’90 con gli special studies. Retroterra teorico della geografia radicale Il retroterra delle teorie marxiste e anarchiche si basano su una forte critica del sistema capitalistico auspicando un cambiamento sociale. La geografia radicale va contro: 1) le geografie precedenti (come la geografia possibilista e quantitativa) perché ignorano la questione sociale e politica, parlano di paesaggio, luogo, come se non esistessero conflitti, come se non ci fossero distinzioni, e tutto andasse bene; in questo modo non fa altro che riprodurre il sistema capitalistico laddove invece la geografia ha il compito di sollevare questioni e proporre rivoluzioni. 2) approcci idealisti, quelli metafisici che privilegiano entità astratte anziché questioni concrete, se vogliamo in questo senso anche la geografia umanistica. 3) approcci spiritualisti, che richiamano entità sovrannaturali. Ancora oggi la geografia radicale ruota intorno ad alcune riviste, che nascono sul finire degli anni ’60: 1) R. Peet, (geografo marxista) compone l’Antipode, 1969, una rivista scientifica, concentrata sulla dialettica spazio-luogo. 2) Y. Lacoste, nella rivista l’Hérodote, affronta la geopolitica. Egli compose un libro famoso pubblicato nel 1976 La grographie, ça sert, d’abord, à faire la guerre, in cui afferma in modo provocatorio che la geografia è soprattutto un sapere politico e militare, volto al controllo sociale e territoriale; è presente un appello ad una geografia radicale, sociale, rivoluzionaria che portasse ad una concreta rivoluzione sociale e politica. Quindi, descrizione di ciò che non si vede: violenze, soprusi, discriminazioni. (Differenza tra le due riviste, la seconda è più centrata sui temi della geografia politica ed è più orientata a parlare di territori). Metodo d’indagine Approccio dialettico (confronto tra due estremi) basato sul confronto tra assunti opposti: centro vs periferia, città vs campagne, gruppi egemoni vs subalterni. Si hanno nuovi obbiettivi c’è un approccio critico come la denuncia sociale, ma i metodi rimangono vecchi anche quantitativi, infatti, questa fu anche una critica che gli venne rivolta perché utilizzavano gli stessi metodi quantitativi appartenenti a geografie precedenti che criticavano, questo risultò contraddittorio. Questo perché era più una geografia incentrata sulla speculazione teorica , a rintracciare tutto ciò che riguardava lo spazio. Critiche reciproche Geografia umana e geografia radicale si configurarono come opposte. 1) La geografia umanistica era accusata da quella radicale di essere conservatrice, reazionaria, nostalgica, maschilista, solo teorica perché abbastanza filosofica e pochissimi studi erano davvero riferiti a spazio concreti, era anche accusata di ignorare le differenze e i conflitti sociali, etnocentrica perché incentrata sull’uomo bianco occidentale, essenzialista perché è come se facesse riferimento a caratteristiche e proprietà immutabili e innate dei luoghi. 2) La geografia radicale era accusata dalla geografia umanistica di essere ideologicamente orientata, su questo non c’erano dubbi in quanto partiva dalle teorie marxiste ecc. Fu criticata di usare metodi qualitativi, nessun impegno sociale concreto (cioè ‘’criticano molto ma non agiscono’’) , base teorica debole, accusata di determinismo storico e politico (sembra che tutto dipenda dalla contrapposizione tra classi sociali ma la realtà è più complessa), accusata di essere viziata in origine da preconcetti e pregiudizi. Ma la geografia radicale ha subito dei cambiamenti in quanto passa poi a teorie post-marxiste. Negli anni seguenti ci si avvicina verso la svolta culturale. Gli anni ’70 sono anni carichi di eventi, anni sicuramente difficili. Si ha la crescita di correnti critiche, soprattutto la critica alla modernità perché negli anni ’60, usciti dal dopoguerra, si era affermata una società basata sul benessere e orientata verso il progresso, c’era stato un importante boom economico, però in realtà tutto questo negli anni ’70 si era dimostrato fallace, non era vero che il boom economico aveva risolto la differenza tra classi sociali, differenza tra nord e sud del mondo, anzi queste differenze si erano accentuate, la qualità della vita era peggiorata, i ritmi di vita erano serrati. Dunque quello del benessere e del progresso era un falso mito e nasce una critica alla modernità. Si criticano paradigmi scientifici che avevano assecondato questi falsi miti e si criticano valori nati in seguito a quell’idea di modernità. Tutta questa critica, questa polemica, esplode negli anni ’80, succede che viene criticata la modalità di produzione della conoscenza moderna; con “produzione della conoscenza“ stiamo parlando di quello che si fa nelle università e nei centri di ricerca (conferenze, convegni, tutto ciò che riguarda la conoscenza), si afferma che questa produzione contribuisce a descrivere e a interpretare la realtà. Tutto questo contribuisce a rappresentare la realtà, è molto importante. Basi: filosofie critiche francesi degli anni ’60 e ’70. Autori: saranno fondamentali M.Foucault, J. Deridda, J-F. Lyotard, i quali si resero conto che le descrizioni dei geografi erano parziali, e a questo si aggiungono seguirono le successive riflessioni femministe e post-coloniali. Negli anni ’80 si afferma il POST-STRUTTURALISMO. In realtà le sue origini sono soprattutto francesi e sono riscontrabili nella Francia degli anni ’60, un luogo vivace dal punto di vista del pensiero scientifico; esso va contro il razionalismo, il positivismo, lo strutturalismo che sono teorie che hanno fondato le scienze umanistiche e sociali, tra cui anche la geografia. Tutto quello che hanno fatto sociologi, antropologi ecc è stato tutto fondato su razionalismo, positivismo e strutturalismo. Il post-strutturalismo mette in crisi l’idea di struttura da cui deriva lo strutturalismo. 1) Lo strutturalismo assimilava qualsiasi realtà ad una struttura statica, assoluta, duratura e quindi vera. Concepire la realtà come una struttura significa riprodurre, il più delle volte inconsapevolmente, l’ordine moderno (detto anche “disordine moderno” perché incentrato sulle BANINI 17 marzo ’22 – Lezione n.6 La volta scorsa abbiamo parlato del post-strutturalismo, vedendo che crea una svolta radicale in tutte le discipline, sia sociali che umanistiche, e abbiamo visto che cambia il modo di intendere la realtà  non più intesa a partire da un dato oggettivo ma dalla sua rappresentazione, quindi dal suo significante, dal modo in cui si esprime. Può essere un testo scritto, fotografia, film, murales, qualsiasi forma comunicativa. Si innesca una semiosi illimitata, ovvero una produzione di senso illimitata perché il significato, a sua volta, si comporta come un segno. Diventa un punto di vista, non è una verità assoluta come nello strutturalismo. Abbiamo visto anche le ripercussioni di questo modo di pensare la realtà, anche a livello politico e sociale, perché non siamo più nello strutturalismo, dove esistevano delle verità assolute, ma in un post-strutturalismo che da rilievo a chi interpreta il messaggio, a chi lo invia, a come lo invia, al motivo per cui lo invia ecc. Quindi, si mette in discussione tutta un’epoca di produzione di conoscenza che ovviamente interessa anche la geografia. Abbiamo già visto i protagonisti e autori degli anni ‘60-70 che avevano già anticipato i tempi come Foucault e altri; abbiamo visto poi che questo post-strutturalismo rovescia i principi cartesiani. Il post-strutturalismo afferma che ogni ontologia, cioè ogni modo di concepire le cose, la realtà, qualunque cosa, è il risultato di un’epistemologia, cioè di un modo di conoscere le cose. Tutto dipende da come osservi le cose, le studi, comprendi, interpreti e a quel punto le definisci. Gli dai un’ontologia: gli dai un significato e la definisci. Ma non è che esistono le cose e un modo per studiarle, esiste un modo che dà forma e sostanza alle cose stesse. Si comincia ad affermare l‘idea che ogni ontologia sia il risultato di una conoscenza che è socialmente costruita tutto dipende da come si affermano certe verità, certi modi di pensare le cose, certi stereotipi, pregiudizi sociali. Importante quindi, anche per la geografia, non è più tanto sapere dove sono le cose e come sono fatte, ma chi ha costruito un determinato modo di intendere le cose del mondo, come le ha costruite, quali strumenti e per quale motivo, obiettivo. Obiettivo che può essere più o meno consapevole, molte volte la realtà è stata descritta in modo accademico, mainstream e quindi spesso non c’è stata consapevolezza; la realtà si è autoriprodotta così ma in modo acritico. L’obiettivo quindi qual è?  Decostruire segni, simboli, immagini, discorsi, verità assolute che si sono affermate nel tempo e ricostruire, quindi ricostruirne, il significato alla luce di queste riflessioni. Come? Attraverso analisi testuali e analisi visuali: decostruendo i testi facendone un’analisi testuale vera e propria, oppure un’analisi visuale basata sull’interpretazione delle immagini. Quindi, tutta l‘attenzione viene focalizzata sulla rappresentazione. Come diceva il triangolo di Pierce. Referente della realtà; un significante che lui chiama representamen ovvero la rappresentazione del referente: può essere una foto, film, articolo, testo scientifico, una legge, qualunque cosa e si innesca una semiosi illimitata. L’attenzione va sul Representamen sulle rappresentazioni di luoghi nel caso della geografia, paesaggi, culture; anche come è stato costruito il genere, la differenza fra uomini e donne, come si è parlato delle donne nel corso del tempo: cose che rientrano nell’ambito della cultura. Così come la costruzione delle etnie, delle razze e di tutto quanto che ruota intorno alla cultura. Quindi, assumono rilievo la semiotica, i metodi visuali e analisi testuali: tutto ciò che dà rilievo alla soggettività di chi interpreta soprattutto, e anche di chi costruisce un determinato modo di intendere le cose, che poi magari diventa mainstream, cioè si diffonde a livello sociale. È un modo di produrre conoscenza, questo post-strutturalista, che fa ricorso ampiamente all’immaginazione, creatività, proprio perché rifiuta qualsiasi verità assoluta partendo dal presupposto che non è possibile la conoscenza in termini assoluti, dal significato univoco. Tutto dipende da chi interpreta, come interpreta, ed ecco allora che si affermano il relativismo e costruttivismo (termini associati al post-strutturalismo). Per il relativismo la realtà è relativa al soggetto, contesto, momento, obiettivo ecc.; qualcuno ha anche cominciato a mettere in forte discussione dicendo che, visto che è tutto relativo, allora non c’è certezza nella vita. Ci sono alcuni geografi che avevano avversato l’eccesso di relativismo. Noi siamo comunque una disciplina fatta di un mondo concreto e cose concrete e non possiamo dimenticarcene, il nostro referente è materiale, visibile, concreto.. quindi come la mettiamo? In realtà si può assolutamente fare una geografia che tiene conto di queste acquisizioni senza dimenticare che c’è una materialità dei paesaggi, degli spazi, luoghi con cui fare i conti. Costruttivismo  la realtà intesa come costruzione sociale. E, se la realtà si intende come costruzione sociale, cambia tutto, perché la realtà stessa può essere decostruita e ricostruita, risemantizzata poteremmo dire. Non è qualcosa di fisso o stabile, immutabile come voleva lo strutturalismo, si può invece cambiare e costruire anche un mondo migliore. Ricordiamo anche la differenza tra costruttivismo ed essenzialismo: l’uno opposto dell’altro; il primo significa partire dal presupposto che le cose, qualsiasi tipo di realtà, acquista caratteristiche per processo. Si tratta di un processo sociale che dipende dal contesto, dal momento storico, dagli attori che sono implicati, insomma una serie di variabili. Un fatto importante è che il costruttivismo ammette che i processi di conoscenza, in quanto il soggetto è la produzione di conoscenza (ad esempio in riferimento alla Sapienza, al Lazio, alla città, qualsiasi cosa) e, attraverso la concezione di questo processo di conoscenza come sociale e come processo, vuol dire che posso decostruirlo e ricostruirlo, quindi ammette reversibilità; non è assoluto o unidirezionale. Essenzialismo  è attribuire delle caratteristiche innate alle cose che, in quanto tale, non sono modificabili per natura. Come faceva il determinismo ambientale che sosteneva che per forza quelli del sud sono sottosviluppati, per natura sono in un ambiente che favorisce accidia e la nullafacenza, sono inferiori per natura e quindi possono essere dominati dai popoli avanzati perché quest’ultimi, per caratteristiche innate, sono più creativi, equilibrati, pieni di volontà ecc. La stessa cosa le donne che sono inferiori per natura: ne hanno dette di tutti i colori come esseri più fragili, cervello più piccolo, dedite alle attività domestiche e non ce la fanno a lavorare, così tante altre cose. Il mondo è stato costruito così, su questi stereotipi e verità che quando si affermano sono duri a morire: rientrano nel patrimonio culturale e ci vuole molto tempo per cambiare. Sono stereotipi e pregiudizi che si affermano e quindi c’è sempre l’occasione per farli riemergere; arriva sempre il momento in cui emerge lo stereotipo della donna, omossessuale, pazzo... pensate alla letteratura sulla follia, pazzia: quante persone sono state escluse, emarginate perché ritenute pazze quando in realtà erano semplicemente diverse, avevano il coraggio di esprimere le loro idee, non si adattavano alla massa silente e quindi erano pensati pazzi. Tutt’ora è così. Quindi c’è una bella differenza, in questo caso attribuendo delle caratteristiche innate: i processi di conoscenza non sono modificabili e quindi il post-strutturalismo combatte ogni essenzialismo, stereotipo, pregiudizio, ogni forma di conoscenza acritica, cioè senza capacità. che è frutto di un ragionamento non critico, che non ha tenuto conto degli effetti ma neanche ha ragionato tanto sulla sostanza di quello che si diceva. Qui ci sono i protagonisti del Cultural Studies, vediamo in particolare il Centre of Contemporary Cultural Studies, Università di Birmingham in Inghilterra, fondata nel ‘64 ma in realtà loro tre avevano iniziato a pubblicare molto tempo prima. È un gruppo dove la maggior parte erano sociologi, politici, critici letterari… un gruppo che lavora sul concetto di cultura. Comincia a lavorare sul concetto di cultura in modo diverso rispetto a quanto si faceva fino ad allora, dove prima sinonimo di cultura era l’arte, le grandi tradizioni nazionali, tutto ciò che può essere istituzionalizzato, tutto ciò che è legato all’identità nazionale e basta, sostanzialmente era questo. Loro invece indagano gli aspetti popolari della cultura, mediatici, erano i tempi in cui si diffonde la TV, che fa una rivoluzione culturale a livello sia produttivo che ricettivo. Iniziano a studiare degli aspetti inediti: la cultura non è solo quella alta che si esprime in forme artistiche e letterarie, nelle grandi opere, ma è anche quella che si produce nei luoghi, dalle persone, da gruppi sociali e le culture sono diverse le une dalle altre, non c’è unica cultura. Cominciano a sottolineare il fatto che la cultura e il modo in cui si riproduce è sempre legata al potere, esiste un potere nel censurare determinate espressioni culturali, determinate voci di gruppi sociali, esiste quindi anche un potere mediatico che favorisce o meno la diffusione di certi saperi e culture, esistono stereotipi e pregiudizi sulla razza, sessualità, etnia ecc.. C’è tutto un universo da studiare e quello che fanno è una vera e propria rivoluzione che influenzerà tutte le discipline sociali e umanistiche: dalla letteratura alla sociologia, all’antropologia, geografia, arte, spettacolo e quant’altro. Il loro approccio è critico, non hanno nessuna intenzione di replicare il mainstream scientifico, mediatico anzi lo vanno a scandagliare, lo esaminano con attenzione facendo analisi testuali e visuali, smontando stereotipi e verità assolute che si sono reiterate nel tempo. È un approccio interdisciplinare, aperto alle contaminazioni teoriche ed è politicamente impegnato; è la caratteristica di tutte le discipline che adottano una visione post-strutturalista. L’obiettivo è quello di cambiare il mondo verso giustizia, equità, meno logica di potere; i geografi post-strutturalisti non vogliono più limitarsi a descrivere il mondo così come appare ma vogliono cambiarlo, vanno dentro i luoghi e vedono che cosa succede. Anche, e soprattutto, cogliendo gli aspetti non materialmente visibili ma fondamentali: le relazioni fra i vari gruppi sociali, le strategie messe in atto tra i vari attori sociali, i conflitti che intercorrono fra i vari attori, non lo vediamo ad occhio nudo ma è quello che dà forma al mondo. I cultural studies accolgono e diventano vetrina privilegiata anche degli studi femministi post-coloniali e sono loro i tre paladini: Raymond Williams, Richard Hoggart, Stuart Hall. Ci sono tanti altri ma loro sono le personalità di spicco. Nel frattempo, più o meno contemporaneamente, emerge anche un altro movimento di pensiero rivoluzionario che è il postmodernismo. Inizia negli USA negli anni ‘70 e nasce in architettura (di cui in Sapienza abbiamo un perfetto esempio, perfino gli alberi son quadrati), con un rifiuto netto del formalismo razionalista; ed è questo: forme squadrate, ordinate, simmetriche in cui è rappresentato un’idea di ordine e di razionalità. Nello stesso tempo, emerge anche nella critica letteraria il postmodernismo: attraverso il rifiuto delle cosiddette metanarrazioni della modernità, quelle che Jean-François Lyotard chiamava Les grand récits (Le grandi narrazioni) quelle sul benessere, sviluppo, progresso, sicurezza che avevano contraddistinto tutto il periodo post-guerra fino ad allora. Le radici storiche sono ben più remote ma è nel secondo dopo guerra, anni 50-60, che esplode il mito del progresso dove tutto si risolverà, ci avanziamo sul futuro, l’uomo sulla luna ecc.… in realtà non era stato così, anzi le differenze si erano aggravate ancora di più. Quello che viene messo in discussione, ancora a livello più profondo, è la modalità di produzione della conoscenza. La modernità ha proposto una conoscenza totalizzate come De Saussure in linguistica: un significante e un significato. Per derivazione tutte le cose del mondo sono state interpretate allo stesso modo, univoco, assoluto, costringendo la concezione del mondo e orientandola in una direzione ben precisa, in un’unica direzione piena di stereotipi, ingiustizie ecc. Quindi anche in architettura esplodono le forme, altro che razionalismo: si dà completo spazio alla rottura di quest’ordine che è rappresentato esteticamente da queste strutture edilizie così ordinate. Peter Jackson, è lui che innesca la miccia: ai tempi era dottorando su una tesi che riguardava la cultura e si rende conto che, andando a redigere la bibliografia (che è il primo passo quando si realizza uno studio), la geografia culturale britannica era inesistente. Secondo lui questo era dovuto al fatto della separazione tra geografia e antropologia in Gran Bretagna per ragioni accademiche, dinamiche universitarie e quindi capisce che i pochi studi che fanno riferimento alla geografia culturale si rivolgono alla Scuola di Berkeley. Si può oggi, nel 1980, parlare di cultura in quel modo? Ancora a vederla come entità omogenea, con una forza esterna non ben identificata, che si autoriproduce per acquisizione e che incentrata solo sui prodotti culturali e sulle forme materiali. Non è possibile, diceva lui, che abbiamo da vent’anni i cultural studies e perché la geografia ha questo ritardo? Perché non ha ragionato minimamente sulla cultura e come è possibile studiarla. Lui comincia a pensare, ovviamente prendendo spunto dalla Cultural Studies e dalle varie riflessioni delle altre discipline, e dice che contano i processi di formazione delle culture, non tanto i prodotti. Sì, posso fare uno studio su un prodotto culturale, come un castello o un monumento, ma quello che conta è andarne a studiare i processi che hanno portato riconoscerlo come monumento, il valore che gli viene attribuito. Bisogna porsi due domande. Così lui sarà, dei tre pionieri, quello che sottolineerà la dimensione sociale e contemporanea della cultura: non dobbiamo studiare la cultura ma le culturE, i gruppi culturali e sociali che sono portatori di culture diverse. Dobbiamo cercare di capire come producono, contestano e vivono la cultura. Ovviamente, qui si vede forte l’influenza che hanno avuto i cultural studies su Jackson. Se studiamo le culture diventa una questione politica: bisogna vedere se queste culture sono in contrasto fra di loro, se si possono esprimere, se sono represse… apre un universo da esplorare. Uno dei suoi testi principali, datato intorno agli anni ’80. «Che il culturale sia politica deriva logicamente da un rifiuto tradizionale di nozione di ‘cultura’ - in senso univoco - e da un riconoscimento della pluralità delle culture. Se le culture sono declinate al plurale (alta e bassa, bianco e nero, maschio e femmina, gay o etero, urbano o rurale) allora è chiaro che i significati sono contestabili a seconda degli interessi dei gruppi coinvolti». Il fatto stesso di tradurre al plurale, da cultura a culture, significa prefigurare uno scenario di conflitto, di contestazione, di una diversità che può anche essere importante, significativa. Allora Jackson dice che dobbiamo studiare questo: come queste culture praticano lo spazio urbano, in che modo entrano in conflitto con altre, quali punti di vista stanno emergendo ecc. James Duncan, di origine britanniche, lavorava in Canada e, sempre nel 1980, pubblica un articolo su una rivista scientifica schierandosi contro l’idea super organica di cultura. Prende tutto quello che ha scritto Carl Sauer della scuola di Berkeley e lo smonta pezzo dopo pezzo facendo una vera e propria decostruzione del testo. Questa idea super organica è folle, perché verifica la nozione di cultura: parlando di cultura come una forza esterna in grado di orientare l’attività umana e che poi si materializza in forme materiali è dare una nozione reificata della cultura. Si trattava così, dice Duncan, di determinismo culturale  che i gruppi umani sono determinati dalla cultura, da questa forza esterna.. questo altro non è che determinismo culturale. Presuppone poi culture coeve, omogenee, senza conflitti quando la realtà non era quella; e poi era una geografia che si limitava a descrivere la cultura materiale, i prodotti, gli esiti ma non i processi che avevano portato a quelle forme. “Il mondo descritto dai geografi culturali è un mondo in cui l’individuo è assente” – individuo inteso anche come forza creativa, inventiva diversa dalla massa - il consenso prevale, è dato per scontato. - cioè quando si parla di culture ma danno per scontato che tutte siano compatte, omogenee, coese al loro interno - la devianza dalla norma è ignorata, è un mondo non toccato dal conflitto intraculturale. Loro vogliono invece mettere l’accento sui conflitti perché vogliono cambiarlo il mondo; se noi continuiamo a descriverlo così com’è non facciamo che reiterare il gioco dei poteri forti, mentre noi l’esistente lo vogliamo cambiare perché è un mondo ingiusto. Questo è quello che studiavano i geografi della scuola di Berkeley: edifici rurali, la loro forma, la forma delle case ma anche dei ricoveri per animali, i granai, le forme del paesaggio agrario, tecniche di coltivazione, gli strumenti utilizzati ecc. Anche le stazioni di servizio, c’è tutta una serie di studi sulle stazioni di servizio in queste praterie sconfinate americane: com’erano fatte, organizzate; a questo si limitava quella geografia e non indagava minimamente conflitti, relazioni cooperative o competitive tra gruppi diversi che pure c‘erano. Era un mondo fatato che non rispondeva alla realtà, era solo l’apparenza non la sostanza. Infine, come terzo pioniere parliamo dell’inglese Denis Cosgrove; lavora in modo particolare sul paesaggio. Lui dice che la cultura è soprattutto produzione di simboli, che sono connessi all’economia, ideologia, potere; quindi, non si può parlare di cultura in termini asettici. La cultura è strettamente legata alle questioni di potere, economiche, ideologiche. Focalizza l’attenzione sul paesaggio e secondo lui esso è il modo in cui le classi dominanti esprimono il loro potere. Quindi, leggendo e interpretando il paesaggio, noi possiamo interpretare i segni che il potere ha lasciato e i messaggi che voleva trasmettere. Paesaggio/spazio che celebra di fatto i valori delle classi egemoni. Il suo è un approccio marxista, come anche i precedenti studiosi e qui la geografia radicale ha avuto un ruolo fondamentale; loro però fanno questi studi partendo dalla tradizione marxista, ma in alcuni casi se ne distaccano, perché in generale si focalizzano sulla cultura. Cosgrove sarà impegnato a fornire una lettura critica dei paesaggi e dei luoghi, facendo riferimento soprattutto alle pitture di paesaggio anche ai monumenti principali di diversi luoghi e città. Lui, insieme ad un altro geografo, studierà anche il vittoriano di Roma (l’Altare della Patria), e lo vedremo strada facendo. Noi ora parliamo di questi tre protagonisti per capire qual è il loro ruolo e la loro ridefinizione della geografia culturale; dopo vedremo nel dettaglio, quando parleremo di paesaggio, Cosgrove e Duncan. Qual è l’obiettivo di questi studi Cosgrove? Portare l’ideologia di conflitto di classe in geografia, quindi portare le questioni del potere dell’ideologia nelle descrizioni geografiche, cosa che fino ad allora non si faceva proprio. Dare voce quindi alle controculture, alle voci di resistenza al capitalismo; è una geografia politicamente impegnata ma, come pensavano al suo tempo i geografi radicali, non puoi occuparti delle questioni del mondo, fare geografia in modo asettico senza impegnarti attivamente. Nel 1987 Jackson e Cosgrove scrivono un articolo che diventa il manifesto della nuova geografia culturale sono enucleati i principi che informano la nuova geografia culturale. Non è un articolo lungo, sarà una decina di pagine in cui però ogni riga è fondamentale. Per loro la cultura è innanzitutto una questione sociale (preso dai cultural studies), cioè una questione che ha che fare con i gruppi sociali che cambiano, che innovano la cultura sulle forme e le strategie di resistenza culturale. Qui dobbiamo tener presente del contesto. Parliamo del contesto inglese e americano statunitense, quindi contesti in cui la retorica nazionalista è stata particolarmente forte – il mito della grande Inghilterra dominatrice di mezzo mondo - una retorica nazionale che si è procrastinata nel tempo e che ha ignorato che non esistessero tutte le ingiustizie che quest’opera di colonizzazione ha portato. Guerre di conquista che hanno portato vittime, che hanno assoggettato intere popolazioni, hanno creato conflitti interni, sradicato i sistemi culturali.. Tutto questo è stato ignorato e i geografi così come i cultural studies chiedono dov’è questo grande passato glorioso e che è stato celebrato con statue ecc., quando in realtà c’è stata tanta violenza, sopraffazione che si è portato dietro. Rileggiamo il passato e reinterpretiamo quei segni culturali, e diamo voce alle contro culture: nei luoghi ci sono le controculture che sono state silenziate, ma esistono e ci sono e compito dei geografi è dar voci a queste visioni altre del mondo. Quindi forme di resistenza culturale, di resistenza alla visione univoca della storia, a questo senso di continuità tra passato, presente, futuro che si riscontrava e tutt’ora si riscontra in gran parte della narrazione, quindi mass media, discorsi politici. C’è questa reiterazione. Ma lì è stato ancora più forte: noi in Italia non abbiamo tutta questa percezione perché non abbiamo avuto una vera storia coloniale, abbiamo periodi limitati mentre loro hanno dominato il mondo. Il dominio è stato enorme per un po’ e si è portato con sé tutta una serie di ingiustizie e sopraffazioni; altro che reiterazioni del passato anzi bisogna mettere in discussione un intero passato. Dobbiamo quindi dar voce agli studi che stanno rimettendo già in discussione. Femminismo, teorie gender, colonial studies ecc. tutto un fiorire già dagli anni 70 che si era profilata una letteratura scientifica che aveva già fatto questi ragionamenti, la geografia è arrivata in ritardo rispetto agli altri perché è arrivata, appunto, negli anni 80. Questo è un brano preso da quest’articolo di Cosgrove e Jackson. Se volessimo definire questa nuova geografia culturale sarebbe contemporanea coì come storica (ma sempre contestuale e teoricamente informata) – non acritica, non una mera descrizione del passato – ed è sociale così come spaziale (ma non confinata esclusivamente alle questioni strettamente connesse al paesaggio ) – non c’è solo un paesaggio da interpretare, ci sono tante categorie concettuali come luogo, regione, territorio ecc. - urbana così come rurale e interessato alla natura contingente della cultura, alle ideologie dominanti e alle forme di resistenza ad esse. Stanno parlando di contestualizzare la cultura, in relazione al contesto in cui matura, prende forma. Parlano di ideologie dominanti e resistenza ad esse, quindi stanno leggendo la cultura in termini contestuali e nelle logiche di potere. Mitchell dirà che cultura è potere, il potere di parlare, di poter trasmettere i propri significati, di poter far tacere altri gruppi che quindi hanno la chance della resistenza. Sarebbe, inoltre, asserire la centralità della cultura negli affari umani - la nuova geografia culturale deve interessarsi, porre la cultura al centro delle questioni umane -. La cultura non è una categoria residuale, la variazione superficiale di cui non si è tenuto conto e che può essere utilizzata per più potenti analisi economiche; – attenzione che la cultura non è solo potere, ideologia ma è anche rapporti economici che spesso sono filtrati, resi tali perché c’è un interesse economico dietro - è il reale mezzo attraverso cui il cambiamento sociale è esperito, contesto e costituito. Rivoluzione sociale, cambiamento, smantellamento di quelle retoriche moderne che hanno creato tante ingiustizie e tanti malintesi. Tutto questo confluirà in 3 linee di ricerca: Cosgrove formalizzerà il cosiddetto “paesaggio come visione” del mondo. Fa un doppio gioco, lui lavora anche con le arti figurative: prende dipinti del passato e li analizza; è una visione intesa anche come visione del mondo. Lo vedremo quando faremo gli affondi tematici, tra non molto riusiamo questa prima parte e vediamo le categorie concettuali della geografia (spazio, territorio, luogo, regione…) e come sono cambiate. Duncan: farà un altro tipo di lavoro più di taglio semiotico. Andrà ad esaminare i testi, soprattutto scritti, alla ricerca delle declinazioni di significato che erano contenute in esse. Leggerà il paesaggio materiale esattamente come fosse un testo e vedremo come fa a leggere il paesaggio così come un testo. Jack: la sua è un’attività molto più sociale ed è molto centrata sul qui ed ora andando a esaminare in particolare gli spazi urbani mettendone in evidenza la polisemia. Lui ha detto che non (passato-presente-futuro). Questa visione unidirezionale del tempo che aveva fortemente condizionato tutti gli studi. Parte da una impostazione post marxista perchè rilegge le teorie marxiste. Quindi un posto marxismo che ha comunque radici nella geografia radicale, nel materialismo storico però rivisitato profondamente e mischiato con altri approcci. Soja è noto per aver auspicato uno spatial turn, cioè una svolta spaziale, condannando questo primato del tempo sullo spazio. Tutta la conoscenza moderna si è basata sul primato del tempo sullo spazio. Dobbiamo rovesciare i termini. Stabilire la priorità dello spazio sul tempo significa rendersi conto che il cambiamento culturale è già nei luoghi, basta solo scoprirlo. Lefebvre aveva formalizzato il concetto di spazio vissuto, percepito e concepito e Soja riprenderà questa triplice declinazione di spazio cambiandola in qualche modo. Focault da cui prende concetto eterotopia. Da Jameson prende la critica alla spazialità del tardo capitalismo. Da Bhabha e Said ibridazione culturale, i meticciati culturali. E anche l’idea delle soggettualità subalterne con critica femminista di Spivak e bell hooks. La sua è una formazione marxista da cui si è emancipato diventando post marxista e prendendo spunto da tanti diversi riferimenti. Nella Los Angeles School of Urbanism siamo in presenza di urbanisti, geografi che rivoluzionano l’idea di città condannando, proponendo una lettura critica delle città, innanzitutto della architettura moderna che è impostata su un’idea di ordine, di controllo e di regolarità. Indubbiamente è più ordinata e facile da gestire e controllare. Una struttura urbana moderna a maglia regolare che è nata con un’idea di controllo sullo spazio ovvero sulla popolazione. È un riflesso del mondo reale ovvero dell’organizzazione politica e sociale che rispecchia questo ordine. È un po' il riflesso di come è organizzato il mondo. Gli architetti postmoderni rompono la regolarità delle forme moderne e se ne inventano di nuove. Un esempio è l’Opera House di Sydney, la Casa danzante a Praga, sono forme inedite che rovesciano qualsiasi tipo di ordine euclideo e sono una espressione massima di creatività. Sembra che vogliano trasmettere un’idea di precarietà, esprimere un’idea di movimento e non di fissità, stabilità, immutabilità. Questa struttura architettonica rimanda a qualcosa che può cambiare. Forme completamente diverse che vogliono significare la rottura degli schemi del passato e la produzione verso un modo aperto all’immaginazione. Concetto di iperspazio di Jameson, critico letterario statunitense che è diventato un protagonista del dibattito anche nella nuova geografia culturale. L’ iperspazio ha più di 3 dimensioni, non solo altezza, lunghezza, larghezza ma è uno spazio che può assumere forme diverse, non catalogabili. Quindi uno spazio che sollecita libere interpretazioni, non più il discorso prigione che rimanda a un significato univoco come nello strutturalismo di Saussure bensì un discorso creazione cioè che sollecita una pluralità di significati proprio perché vuole rendere libera la fantasia. La materialità degli edifici viene studiata non tanto nei materiali e nelle forme ma nel significato a cui rimandano. Ci sono dei geografi che considerano il paesaggio urbano come un testo da interpretare e leggere anziché descrivere minuziosamente. Jameson parla di iperspazi come di spazi iper-reali, senza ordine, simmetria, de-strutturati che creano disorientamento. Esempio tipico il Bonaventure Hotel di Los Angeles. Soja dice con una sottile critica al capitalismo e al consumismo, che in questo posto i turisti si sentono persi e disorientati e non riescono a trovare i negozi. Bonaventure hotel è costituito da delle torri in acciaio e vetro e siccome le vetrate sono tonde la città vi si riflette deformata. Assume forme del tutto diverse. È uno spazio del tutto destrutturato che non segue nessuna regola moderna di costruzione e vi sono più entrate su piani diversi. Ci sono ascensori, piani multilivello, balconi interni, strutture rotanti, piscine interne e segni che rimandano a epoche diverse. Trovi un capitello dorico e un mini giardino ZEN giapponese con anche un mini giardino all’italiana. Una serie di segni, simboli che rimandano a epoche diverse e ciò è disorientante. È l’emblema stesso della complessità del mondo contemporaneo. È un gran caos. Il Bonaventure hotel è metafora del nostro mondo contemporaneo perché è talmente caotico e denso di riferimenti ed è talmente difficile capire come funziona questo mondo, chi sono i reali artefici, che alla fine ci si sente persi e disorientati e quindi ci si vorrebbe sottomettere ad una qualsiasi forma di autorità. Nel momento in cui, dice Soja, sei disposto a sottometterti a qualcuno che ti indichi la strada, non riesci a trovarlo. Bonaventure hotel come simbolo della società contemporanea. Jameson ha definito lo spazio postmoderno come un iper-luogo, cioè lo spazio in generale perché è difficile orientarsi nel capitalismo tardo-moderno. Le strutture politiche ed economiche sono sfuggenti e incomprensibili, non si riesce a capire chi governa questo mondo realmente. A partire dallo spazio fisico-architettonico il Bonaventure hotel diventa metafora di spazio astratto-politico. C’è sempre della politica nelle riflessioni della nuova geografia culturale e del postmodernismo. C’è sempre una interpretazione legata alle strutture di potere ed economiche. Il Bonaventure hotel è emblema postmoderno. Il senso di smarrimento, dislocazione, decentramento che si prova al suo interno è lo stesso smarrimento che si prova nella società contemporanea, cioè l’incapacità di mappare sé stessi nel tardo capitalismo tra reti politiche, economiche, comunicative che non sono decifrabili e definite. Cosi come ci si smarrisce dentro, si tende a perdere il senso dell’orientamento in questo hotel, cosi ci si sente smarriti di fronte a un mondo che diventa sempre meno comprensibile. Soja prende riferimenti diversi tra cui Foucault e il concetto di eterotopia: eterotopie: spazi normati da sistemi di regole speciali ad esempio la casa del carcere, la caserma, il convento, l’ospedale, il cimitero. Degli spazi che hanno delle norme ben precise. Dice Foucault hanno la capacità di sospendere, neutralizzare, rovesciare le regole di tutti gli altri spazi. Questi luoghi in cui vigono queste regole cosi specifiche hanno una potenza tale proprio perché si differenziano da tutti gli altri spazi. Sono l’opposto delle utopie le eterotopie perché le utopie sono spazi privi di luogo reale. Le utopie consolano, ti danno possibilità di pensare con l’immaginazione, di immaginare mondi diversi e di sognare. Le eterotopie invece inquietano perché con la loro organizzazione cosi ordinata e precisa fanno apparire il mondo esterno come ancora più caotico. Dirà che le eterotopie sono delle utopie situate dal punto di vista di chi ha il controllo, di chi ha il potere di governare lo spazio. Finalmente uno spazio dove decido come ti devi comportare. Le eterotopie sono spazi normati, guidati da regole e normativi perché impongono delle regole. Con proprie funzioni e simboli. Sono utopie situate perché regolate da norme specifiche. Sono come degli spazi che fanno parte di una città, del tessuto urbano ma con delle caratteristiche che li rendono assolutamente speciali. Con la fantasia uno può creare tutte le utopie che vuole. Le eterotopie sono fondamentali per tenere in piedi le organizzazioni della società di cui rispecchiano una volontà di ordine e di controllo che altrove non è più possibile realizzare. Foucault elaborò anche il concetto di eterocronia. Le eterocronie sono le eterotopie del tempo. Sono luoghi che consentono un uso diverso ed eccezionale del tempo ad esempio biblioteche e musei, luoghi del tempo che si accumula. Lì il tempo si accumula e dà un’idea di stabilità. Ma ci sono anche le eterocronie che sono improntate alla precarietà, ad esempio le fiere, i mercati, i luna park, luoghi dell’effimero, cioè ciò che può scomparire. Quindi eterocronia che rimanda tanto alla stabilità quanto alla precarietà. Si può avere una duplice. I non luoghi sono anch’essi emblematici della postmodernità. L’antropologo Augé nel 1995 definisce i non luoghi in contrapposizione ai cosiddetti luoghi. Se i luoghi sono spazi storici, identitari, relazionali, i non luoghi sono non storici, non identitari e non relazionali. Non storici perché non è rinvenibile un riferimento storico nella loro connotazione. Non identitari perché sono spazi di passaggio per antonomasia. Sono anche essi normati da regole speciali. Sono aeroporti, stazioni ferroviarie, centri commerciali, autogrill. Sono spazi segnati da precarietà, provvisorietà e individualismo solitario. Un’altra caratteristica dei non luoghi è che per entrare spesso devi mostrare un documento di riconoscimento. La tua identità la devi dimostrare. Il concetto di non luogo ha avuto grande successo ed è entrato nella letteratura scientifica transdisciplinare. È stato anche criticato perché le stazioni ferroviarie ad esempio sono diventate punto di incontro delle comunità immigrate che si ritrovano lì. I centri commerciali diventano punto di incontro dei giovani. Lo stesso Marco Augè qualche anno dopo revisionò questo suo concetto. Intervista che rilasciò al Corriere della Sera. Questi spazi hanno la caratteristica di essere uguali in ogni luogo. Storico nel senso della storia condivisa tra i membri della comunità. Quando formalizzava il concetto di non luogo, prima metà degli anni 90, ancora non erano diffusi i social. C’è stato un grande utilizzo della nozione di non luogo in senso letterario. Ad esempio la stazione è stata oggetto di rappresentazione letteraria. Ricordiamo la Milano centrale di Gadda, Italo Svevo e Anna Belozorovith e la stazione Termini di Igiaba Scego. Harvey, geografo più citato e stimato in assoluto a livello mondiale. Di origine inglese, poi trasferito negli Stati Uniti, geografo con radici marxiste ma ha poi rielaborato parecchi assiomi ed elementi del marxismo e può essere considerato un post marxista. Ha attaccato duramente il post modernismo e la sua posizione è condivisa da tutti coloro che provengono dalla geografia radicale, marxista, anarchica. Harvey critica il post moderno perché relativizzare tutto, attaccare la modernità, significa anche distruggere e negare l’importanza di tanti movimenti e di tante conquiste raggiunte attraverso la modernità. Definisce il post modernismo come una nuova veste del tardo capitalismo. Lo rafforza anziché metterlo in discussione. Attaccare le meta narrazioni della modernità significa delegittimare la critica sociale e la politica progressista. Attenzione, dice Harvey, a mettere in discussione la modernità come fosse negativa tutta insieme. Nel corso della modernità sono state combattute delle guerre importanti per la libertà, per la giustizia sociale e filosofia di vita da scoprire. C’è un modo di pensare il mondo che va ascoltato perché proprio da queste pratiche forse viene fuori un'idea del mondo anche migliore. Quindi, che domande si pone la non rapresentational geography? Come prendono vita queste esperienze corporali, non l'esperienza della geografia umanistica (anche lì, la parola chiave è esperienza ma soprattutto attraverso i sensi, le emozioni gli affetti sentimenti). Qui, invece, sono proprio esperienze corporali, coinvolgono il corpo e esprimono una visione del mondo. Quindi come prendono vita queste esperienze come spingono all'azione e come ci definiscono in relazione al mondo? Ovviamente, qui si tratta di fare, oltre che osservazione partecipante o non partecipante, anche di interviste cioè bisogna andare a capire le storie di vita che ci sono dietro queste esperienze, come hanno preso forma, qual è il significato che gli si attribuisce, sempre tenuto conto che poi ognuno, ogni lettore interpreta ogni spettatore. Lo spettatore, interpreta a sua volta e quindi vi dà un significato ulteriore. Alla fine la non rapresentational geography apre la prospettiva delle embodied geographies. Cioè delle geografie corporee, incorporate ovvero la performatività appunto delle culture attraverso il corpo e qui il legame è stretto con gli studi di genere femministi. Corpo come espressione di specificità, di diversità culturale, ma anche come espressione di diritti che spesso non sono garantiti e per cui bisogna combattere. Ovviamente il corpo è uno degli argomenti, così come la performatività, centrali, mutuati proprio dalla tradizione femminista. Quindi, la non representational geography studia la cultura mentre prende forma, cioè non basta parlare di testi, di immagini, di prodotti culturali da interpretare attraverso analisi testuali, semiotiche, andiamo a vedere quello che sta accadendo qui ed ora nei luoghi in cui si produce cultura quindi attraverso metodi qualitativi magari anche attraverso metodi visuali ma ad esempio prodotti dagli intervistati. In coda a questo modulo, vedremo un pò più da vicino questi metodi della geografia culturale e quindi vedremo anche in questo caso cosa significa e come si fa a far produrre documenti visuali dagli intervistati con attenzione, in particolare alle espressioni linguistiche quindi, si tratta non tanto di andare a vedere cosa dicono gli intervistati e quindi facendo ad esempio un'analisi testuale ma come ne parlano, come gli intervistati raccontano le loro esperienze, pratiche del mondo e si tratta di studiare la performatività attraverso il corpo. Quindi come il corpo racconta questa esperienza con tutto il carico di emozioni, di affettività. Insomma l'attenzione qui è riposta sulla funzione performativa del linguaggio quindi come il linguaggio utilizzato dagli intervistati dà forma appunto alla controcultura di cui sono espressione. Però, anche la non representational geography è stata sottoposta a critiche. Questo è stato un momento della geografia (adesso finalmente si sono un po' calmati i colleghi anglofoni ma c'è stato un periodo in cui praticamente si annunciava un carne cioè una svolta almeno una volta ogni due anni e alla fine perdi di credibilità); fatto sta che anche la non representational geography è stata criticata per tre motivi principali 1) è impossibile focalizzare sulle esperienze senza utilizzare a proprio volta una rappresentazione: nel momento in cui io scrivo, fotografo, parlo di una cultura, anche di una controcultura, sto facendo rappresentazione a mia volta, non è che si può sfuggire alla rappresentazione, è intrinseca in ogni forma comunicativa della cultura stessa. 2) attraverso una rappresentazione si scoprono, confrontano, scambiano significati e opinioni: non è del tutto negativa, non è da demonizzare del tutto la rappresentazione perché attraverso la rappresentazione si genera cultura, si crea, si costruisce cultura. E’ proprio dagli scambi di visioni diverse che si può alimentare la cultura. La semiosi illimitata di cui abbiamo parlato a proposito del triangolo di Piers. Quindi, in realtà, la rappresentazione non è evitabile la rappresentazione non è così negativa, anzi. 3) è stata una geografia femminista che l'ha sottolineato, dice: attenzione che le esperienze, le pratiche alternative di controcultura sono tali rispetto a norme, discorsi e rappresentazioni, altrimenti non c'è nulla di sovversivo quindi non possiamo eliminare la rappresentazione. Quest'ultimo punto, generalmente sollecita qualche fatica ad essere inteso però se ci pensate un attimo, se ci riflettete, è vero! Io posso fare qualcosa che è espressione di una controcultura rispetto sempre a una cultura che io sto contestando è questa cultura io me la trovo sotto forma di discorsi, di rappresentazioni, di immagini, norme e quant'altro quindi non la posso eliminare. Alla fine e stato lui, Heidel Lorimer che nel 2005 (anche lui geografo britannico) ha proposto la more there representation geography, cioè una geografia più che rappresenta bene, rappresentativa perché dice che in realtà non possiamo escludere né le rappresentazioni, né gli aspetti performativi, dobbiamo considerarli tutti. Quindi, le manifestazioni concrete della cultura e le loro rappresentazioni: teorie, oggetti, cose, referenti o meno, azioni ed emozioni, esperienze e loro significato. Così facendo, la geografia si è estesa ancora di più alle arti e allo spettacolo mai come ora. Considerate che la geografia non era interessata in modo particolare agli spettacoli teatrali, alla musica dal vivo, ai murales, alla pubblicità, insomma c'era tutto un ambito dello spettacolo soprattutto che non era preso in considerazione. Invece, attraverso questo passaggio, si apre un'ulteriore campo d'indagine per la geografia, si comincia a scrivere molto sulla musica ad esempio anche in Italia ci fu un convegno da cui poi è stato estratto un volume, forse nel 2015, dalla società geografica italiana proprio sulla musica di tutti i tipi, di tutti i generi: il country jazz, la musica popolare, la musica classica e alla fine hanno scritto anche che hanno pubblicato un bel volume. In Italia il teatro non è stato molto esaminato cosa che invece è avvenuta all'estero in ambito anglofono. Dunque, praticamente con il post strutturalismo e anche con la nuova geografia culturale, si è aperto a tutti un orizzonte e anche dal punto di vista metodologico sono cambiati i metodi. In passato, la geografia si faceva con i piedi, per cui bisognava andare, percorrere passo per passo il territorio oggetto di indagine, bisognava esercitare, bisognava osservare attentamente prendere nota, prendere appunti a vedere come erano disposte le cose, descrivere le loro forme e soprattutto gli aspetti materiali e poi a casa c'era tutto il lavoro con le carte geografiche, con i testi scientifici, letteratura pregressa, letteratura scientifica quindi con tutti i libri, gli articoli che erano stati scritti prima di allora e si redigeva appunto questo testo. Adesso invece i metodi sono profondamente diversi Dall'osservazione, si passa all'osservazione partecipante che è un metodo di ricerca etnografico praticamente mutuato dall'etnografia, dall'antropologia e consiste e nella partecipare attivamente alle attività che si sta osservando, quindi ad esempio uno studio sull'agricoltura biologica: il ricercatore va sul campo agricolo e osserva e partecipa a questa attività che si sta svolgendo, magari aiutando il contadino, l'agricoltore di turno a fare qualche attività, partendo dal presupposto che partecipando alle attività, si entra maggiormente in contatto con l'attività stessa e si è più, insomma, quello che si fa svolgendo lo trovi insieme a chi la sta facendo, insomma in prima persona. C'è anche l'osservazione non partecipante, che significa? Utilizzando l'esempio appena fatto, equivale ad andare sul campo agricolo però vedere semplicemente, non partecipare attivamente alle attività dell'agricoltore. Dalla cartografia tematica, si passa al community mapping prima il geografo che elaborava dei dati, aveva delle basi cartografiche. Un tempo, le basi cartografiche, le avevamo sotto forma di fogli, avevamo tutte queste carte tematiche: l'Italia, l'Europa, il Lazio con tutti i comuni del Lazio, le province eccetera e ci mettevamo lì coi trasferelli e facevamo i tematismi. Distinguevano in classi di ampiezza del fenomeno e facevamo questa carta tematica con distribuzione della popolazione, tasso di natalità, tasso di mortalità. Poi, sono intervenuti i GIS cioè Ggeographic Information System, quindi la cartografia informatizzata e questa pratica è andata scomparendo. Ma qui, si tratta proprio di un passaggio fondamentale: community mapping significa fare cartografia, realizzare carte geografiche tematiche o meno insieme alla comunità che si sta studiando, insieme alla comunità insediata sul territorio oggetto di studio. Insomma, una cartografia partecipativa potremmo chiamarla, di comunità. Quindi, tante sono le esperienze in corso nel mondo perché ovviamente il community mapping non lo fanno solo i geografi, lo fanno gli altri colleghi sociologi e soprattutto nei paesi del Sud del mondo è molto più praticato il comunity mapping, è uno dei di primi step nella ricerca: nei villaggi si coinvolgono un pò di persone e insieme si realizza una parta dei luoghi, il valore dei luoghi, il significato attribuito a ciascun luogo. Eppure, con la geografia della percezione avevano cominciato a diffondersi nella ricerca geografica le interviste, sotto forma di storie orali ad esempio che è un altro metodo utilizzato sia in storia che in antropologia e anche in sociologia. L’obiettivo non è quello di ottenere delle risposte da elaborare sotto forma di grafici di frequenze ma è conoscere cosa c'è dietro una determinata esperienza, cosa c'è dietro un determinato un modo di vedere il mondo, insomma dar voce alle persone, però andando in profondità e non limitandosi agli aspetti di superficie. Il geografo, doveva sempre scattare fotografie e doveva poi inserirla nel testo a testimonianza, a conferma che era stato effettivamente in quel posto a studiare. Dalla fotografia di corredo, si passa ai metodi visuali e quindi alle ricerche sulle immagini e con le immagini. Sulle immagini cioè sui materiali già prodotti, già esistenti, fotografie ottenibili da fonti varie. Con le immagini, invece, facendo scattare fotografie magari agli intervistati oppure scattando il ricercatore stesso delle immagini da far commentare agli intervistati. MA come ripeto questa parte la vedremo meglio in coda al conscio. La nuova geografia culturale ha aperto a dischiuso un universo di campi da esplorare, campi che condivide con altre discipline. Ci sono ovviamente degli ambiti transdisciplinare che sono comuni a tutte le discipline sociali e umanistiche, femminista, post colonial, Russell, hanno l'etichetta geographic ma in realtà appartengono un ambito più vasto che è transdisciplinare per eccellenza. Poi però questa svolta ha aperto anche a delle geografie con delle etichette specifiche ad esempio le Hybrid geografis: siamo nell’ambito delle geografie che cercano di abbattere la dicotomia natura - cultura sempre perché crollano le dicotomie cartesiane e quindi crolla anche questa opposizione natura - cultura che in realtà è stata messa in profonda discussione, dice: come facciamo a metterci in contrapposizione a qualcosa di cui siamo parte integrante? Gli esseri umani i hanno capacità intellettiva però alla fine siamo sempre parte integrante di questa natura non possiamo separarci. Visual geography: tutto ciò che è nato a partire proprio dalla svolta metodologica con la nuova geografia culturale, è un campo che ha iniziato proprio Dennis Cosgrove, vedremo poi come e poi ci sono stati tanti che hanno contribuito in particolare William Rose che ha pubblicato un testo: The Visual Turn and Geography e in Italia c'è stata la Elisa Bignante, geografa di Torino che ha scritto sempre sulle geografie visuali però adesso non mi ricordo il titolo, tipo pubblicato nel 2011 - 2012 e riprende molto quello che ha detto William Rose ma arricchendo ulteriormente, perché Elisa Bignante ha scritto molto e ha lavorato molto sul campo e nei paesi del Sud del mondo, in America Latina, insomma ha fatto parecchia ricerca sul campo e ha messo in pratica proprio i metodi visuali. Emotional geography le abbiamo già citate, quindi le geografie corporee a intese nel senso della non representational theory e quindi tutte le pratiche alternative di controcultura di cui abbiamo detto. Un altro campo che ha preso molto ragionare insomma su un piano bidimensionale ed è diverso rispetto a ragionare invece su un piano tridimensionale. Non dimentichiamoci mai che la mappa, la carta del mondo insomma, è una rappresentazione in piano del mondo quindi un'astrazione, una metafora se vogliamo dirla con De Matteis, perché la terra è tonda anzi è ellissoide cioè leggermente schiacciata ai poli ed è ben diverso immaginare il mondo su un piano dimensionale da immaginarlo come una sfera. Se il mondo lo immagini come una sfera che gira su se stessa, non è immobile, la terra gira intorno al sole 365 giorni all'anno e gira su se stessa 24 ore al giorno. Per cui, se noi immaginiamo questa terra come una sfera in movimento su se stessa e intorno al sole, le cose cambiano completamente. Cambia il modo di pensare lo spazio e la società. C'è un pezzo in cui dice giustamente: se tu immagini il mondo come una sfera, ti rendi conto che quello che hai dietro alle spalle prima o poi ti tornerà avanti. Per cui è come dire attenzione a quello che si fa perché prima o poi appunto ti torna indietro. Insomma lui propone di tornare all'Erdkunde, praticamente alla conoscenza storico-critica e umanistica della terra. Il progetto delle Erdkunde era già in Fonumbolt e Ritter, quindi eravamo già in epoca prescientifica, quando la geografia non era ancora nata e ed era un progetto di conoscenza della terra ma in termini critici e in termini storico umanistici. Quindi, recuperando anche una filosofia dell'abitare la terra, risalendo anche agli antichi, alle riflessioni profonde, al senso dell'abitare la terra. Era un progetto che aveva iniziato appunto Ritter e in parte anche con un Fonumbolt ; quel progetto fu abbandonato perché ebbe la meglio la geografia razionalista di Razzel, col determinismo ambientale iniziò l'epoca scientifica. Diciamo che la geografia è quel progetto che aveva delle radici così importanti che richiamavano il senso della vita sulla terra. Secondo farinelli bisognerebbe recuperare quel sapere, tornare a una concezione se vogliamo prescientifica del mondo a quelle intuizioni a quel raccontare l'esperienza umana sulla terra che aveva poco a che fare con i valori materiali con gli opportunismi, con il benessere a tutti i costi e si interrogava invece sul senso dell'essere al mondo, dell'esistenza umana sulla terra. Però, dobbiamo fare anche i conti con la realtà, coi pazzi che invadono i territori, vogliono ricreare il mito della grande Russia abbiamo a che fare con una realtà che ci racconta tutt’altre cose e quindi. Dunque, in tutto ciò dobbiamo anche tener conto che le culturale italiane sono state un pò diverse, cioè per adesso abbiamo considerato la svolta culturale perché di fatto è avvenuta in ambito anglofono e si è diffusa poi un pò in tutto il mondo, però, in Italia indubbiamente c'è stata qualche resistenza e ancora oggi si cerca di fare una geografia culturale che sì tiene conto di quello che è avvenuto a livello internazionale, ma che ha ancora dei connotati propri, ad esempio, il fatto che la geografia italiana continua a focalizzare l'attenzione sul territorio anziché sullo spazio o sul luogo. Le radici storiche poi non sono mai state discusse da noi, le radici storiche anziché essere contestate sono esaltate. La nostra connotazione è proprio quella di essere un paese frammentato in tante culture, tante lingue, tanti back ground diversi e quello è considerata una ricchezza non qualcosa da contestare. La cultura poi è stata sempre immaginata come incorporata nel territorio, non come scissa proprio perché forse ne abbiamo così tanta cioè ogni angolo del nostro paese veramente racconta una storia antica e come fai a scindere la cultura da tutto il resto dal contesto. Quindi, bisogna anche tenere conto di diversità tra l'ambiente anglofono e l'ambiente italiano, c'è una profonda diversità di storia, di visioni, di orientamenti e anche i termini assumono significato diverso pensate al termine resistenza. In ambiente anglofono, resistenza si intendono le lotte intraprese dai gruppi marginali in difesa dei propri diritti; qui la resistenza è quella dei partigiani contro l'invasione nazista che viene celebrata ancora ancora oggi. Pensate anche al concetto di razza, per gli ambienti anglofoni razza è un concetto del tutto rais un concetto del tutto normale anzi nei censimenti sono distinte le persone in base alla razza, da noi, c'è stato qualcuno che ha proposto di togliere questo termine della costituzione italiana. Così come il concetto di patrimoni, heritage, ha un significato diverso rispetto a patrimonio, è davvero un'eredità da trasmettere alle generazioni successive e questo gioca moltissimo anche poi sull'interpretazione, sullo studio dei fenomeni. Se io chiamo una cosa heritage, quindi come una eredità che io ho il dovere di trasferire alla progenie o comunque ai successori, insomma chi verrà dopo lo faccio acriticamente come era stato fatto anche con geografia strutturalista, ma che cosa sto trasferendo, che valori sto trasferendo, quali significati sto dando alle cose che dico di proseguire alle generazioni successive. Il termini patrimonio è diverso e non a caso in Italia gran parte dei patrimoni culturali, artistici, storici, monumentali appartenevano ai privati, erano patrimoni personali, patrimoni privati, individuali appartenenti a grandi aristocrazie o al papato. Per cui, c'è stato un un'origine diversa proprio dei termini indirizzati alla cultura che ha condizionato fortemente anche la promozione di conoscenza quindi la ricerca scientifica. Allora per chiudere questa prima parte, abbiamo visto che c'è un approccio strutturalista che è quello basato su quattro principi cartesiani e a cui appartengono praticamente la geografia determinista quella possibilista e anche il funzionalismo o geografia quantitativa e che però insomma abbiamo visto la geografia quantitativa funzionalista si è occupata molto poco di cultura. Poi un secondo approccio e umanistico e quello di Fu Tuan , Edward Ralph quello dei primi anni 70 tutto centrato sul termine esperienza in termini emotivi, sentimentali, affettivi e quella è una geografia che è stata praticata soprattutto attraverso la letteratura, quindi rintracciando nelle opere letterarie questi stati d'animo, queste sensazioni nei confronti dei luoghi anche quindi nel paesaggio sonoro e nel paesaggio olfattivo, insomma li ad esempio c'è Dickens che è fantastico da studiare perché fa queste descrizioni delle città inglesi ottocentesche con le fabbriche, lo smog, cioè è fantastico così come abbiamo visto Madame Bovary, Flobert quindi lo stato d'animodi bovarie nei suoi adulteri tra città e campagna, poi abbiamo visto che c’è un approccio semiotico e quello della representation geography è semiotico perché cerca di interpretare testi scritti iconografici ma anche leggendo il paesaggio come fosse un testo e ricorrendo quindi principalmente all'approccio semiotico. Poi abbiamo visto la non representational geography che invece costituisce l'approccio performativo perché tutto centrato sulle attività e le pratiche che è controcultura soprattutto che avviene nei luoghi. C’è un quinto approccio, cioè in realtà parliamoci chiaro di approcci ce ne stanno 500.000 perché c'è anche quello femminista, post coloniale cioè ce ne sono tanti Hector, network Theory, tantissimi. Però io ho selezionato questi perché rispecchiano di più ciò che è avvenuto in geografia e parlare di approccio femminista significa ampliare a livello interdisciplinare necessariamente però esistono anche quelli di approcci. Un quinto approccio è quello maturato in ambienti italiano e francofono, l'approccio territorialista e questo lo vedremo in particolare però quando parleremo di territorio. Anche i geografi anglofoni parlano di territorio però ne parlano soprattutto in termini geopolitici quindi nelle questioni che riguardano i conflitti, le guerre, i confini, le zone contese, noi invece ne parliamo proprio come gestione e valorizzazione del territorio, proprio quindi come valorizzare il territorio come gestirlo al meglio e di questo sicuramente avremo modo di parlarne quando faremo l'approfondimento sul territorio. Allora cominciamo a vedere un pò da vicino un argomento nuovo e cioè il paesaggio. Perché il concetto di paesaggio? Perché iniziamo la revisione di queste categorie concettuali della geografia proprio dal paesaggio? Allora, prima di tutto perché il paesaggio è stato un cardine della riflessione geografica dai tempi di Alexander von Humbolt in poi e non a caso la geografia è stata addirittura definita scienza del paesaggio più di una volta nel corso del tempo. Si pensava davvero che la geografia potesse trovare nel paesaggio la sua connotazione disciplinare; di fatto comunque il paesaggio è stato protagonista delle svolte disciplinari cioè come vedremo ha segnato la nascita della geografia scientifica. E’ stato protagonista anche nel passaggio dal determinismo al possibilismo; il paesaggio era uno dei tre concetti chiave del possibilismo cioè genere di vita, regione, paesaggio e poi è stato fondamentale nella svolta della Représentational geography perché vedremo che il Dennis Cosgrov ha basato tutto sul paesaggio, è un cardine della riflessione geografica e quindi gli diamo un posto d'onore, lo affrontiamo per primo. Ma che cos'è il paesaggio? Se noi andiamo a chiedere alla maggior parte delle persone che incrociamo per strada: ma secondo lei che cos'è il paesaggio Ci rispondono: è un bel paesaggio, un bel panorama, una bella vista, insomma ci viene in mente un ampio bel vedere con una connotazione estetica ed estetizzante. Siamo più portanti a parlarne in senso positivo, un bel paesaggio è difficile che parliamo di brutti paesaggio. In realtà è un concetto ampio, ambiguo spesso contraddittorio come vedremo, concetto trans disciplinare per eccellenza perché di paesaggio se ne occupano in tanti: gli architetti, gli urbanisti, gli storici dell'arte, i geografica, veramente in tanti e ognuno dà la sua definizione e spesso queste definizioni sono discordanti. Qualcuno coglie più gli aspetti magari umanistici, estetici, sì, concreti nella pianificazione del paesaggio tuttavia è il punto di forza del concetto di paesaggio che ovviamente noi svilupperemo a partire dalla prossima lezione. Sta proprio in questa ambiguità cioè è proprio perché è un concetto sfuggente non chiaramente definibile e non univocamente definibile, è proprio questo il punto di forza del concetto di paesaggio. Laddove c'è ambiguità è più facile che si possa mettere in pratica creatività, immaginazione e ed è più facile quindi che si possano modificare cambiare le cose, in particolare il modo di concepire, di praticare il paesaggio insomma è chiaro che se c'è una definizione netta quella definizione funge un pò da gabbia interpretativa, ti costringe, ti chiarisce le idee magari ma porto allo stesso tempo se fosse solo unica e univoca a costringere il punto di vista, invece il fatto che ci siano tante definizioni diverse da tante prospettive diverse e che dà la possibilità di generare anche maggiore creatività di inventare magari anche nuove definizioni. Lezione 9 – 29-03-2022 Riprendo brevemente l’inizio della fine della scorsa lezione perché avevamo cominciato a parlare di paesaggio, cioè chiusa la prima parte del corso, in cui abbiamo visto l’evoluzione degli approcci teorici della geografia culturale e più in generale della geografia umana. Ora si tratta di vedere come la nuova geografia culturale ha cambiato le categorie concettuali della geografia: paesaggio, territorio, spazio, luogo, ecc. E cominciamo proprio con il paesaggio anche perché in ordine di tempo è stato il primo ad essere riconcettualizzato. Innanzitutto, abbiamo detto che paesaggio è sempre stato un cardine della riflessione geografica, tant’è che nel corso del tempo, e più di una volta, la geografia è stata definita come scienza del paesaggio. Si pensava cioè che il paesaggio dovesse essere la categoria concettuale corrispondente all’ontologia della geografia. Ed è stata non a caso protagonista di varie svolte disciplinari. Il problema è che naturalmente il concetto di paesaggio è estremamente ampio, ambiguo e spesso anche contraddittorio; è transdisciplinare per eccellenza come concetto perché se ne occupano gli urbanisti, gli architetti, gli psicologi, i sociologi, gli antropologi, i geografi, gli storici, quindi ognuno dà le sue definizioni, ognuno attraverso la sua prospettiva disciplinare. È un po’ strano poi, tra l’altro, che a livello sociale ci sia una differenza sostanziale su come il paesaggio viene trattato/affrontato/studiato a livello scientifico e come invece è percepito a livello sociale, perché se andiamo a chiedere alla maggior parte delle persone, alla gente comune, cos’è il paesaggio, rispondono “ah, un bel panorama”, cioè molto probabilmente risponderanno in una accezione estetica che è profondamente radicata. Quindi panorama come aspetto esteriore del territorio, come qualità estetiche visivamente percepibili. Ma non è quello o, per lo meno, solo quello il Berkeley o scuola del paesaggio. Perché l’oggetto di studio principale di questa scuola era proprio il paesaggio. Come viene definito da Carl Sauer il paesaggio? Come un’area costituita da una distinta associazione di forme, sia fisiche che culturali. Distinct association of forms, quindi distinte, specifiche, di ciascuna regione e area culturale, associazione di forme, un insieme di forme visibili sia fisiche che culturali. Ricordiamo anche la definizione di cultura che dava Sauer, una definizione super organica: “la forza plasmante che straforma il paesaggio e che risiede nella cultura stessa”. È una concezione reificata di cultura proprio perché non la definisce, cioè la definisce e allo stesso tempo gli attribuisce una connotazione. Concezione superorganica della cultura derivante dagli allievi di Franz Boas con cui Sauer era in strettissimo contatto, in particolare Alfred Kleber(?) e che sarà il tallone d’Achille di questa geografia; sarà messa in discussione proprio per questo “come fa a definire la cultura come una forza esterna che non si sa bene da dove proviene, però è in grado di determinare comportamenti umani?! Cos’è?! Da dove viene?!” per questo appunto una concezione molto deficitaria, molto facilmente attaccabile. A lui (Sauer) si deve anche la definizione di paesaggio culturale “il paesaggio culturale è un paesaggio naturale forgiato da un gruppo culturale. La cultura è l’agente (anche se non si sa bene da dove venga e in che cosa consista), gli elementi naturali sono il mezzo, il paesaggio culturale è il risultato”. Il problema è appunto questo concetto di cultura che ha definito come un agente e non i gruppi umani, non le persone, ma la cultura è agente. La cultura abbiamo detto che è superorganica in questa visione e quindi è una forza esterna che governa, che dirige le azioni umane. È una concezione facilmente attaccabile. In particolare, si parlerà di una geografia, quella della scuola di Berkeley e di Sauer, che focalizza l’attenzione sulla forma, l’aspetto e la struttura dei paesaggi. Quindi la forma, proprio nelle forme fisiche, nel dettaglio, nella descrizione di queste forme, principalmente edifici rurali; l’aspetto, quindi in generale la configurazione complessiva del paesaggio e la struttura. Siamo ancora nell’ambito dello strutturalismo. Relazioni causali anche in questo caso. Quindi paesaggi nelle loro forme derivanti dai condizionamenti ambientali. Una geografia se vogliamo che è una sorta di mix tra determinismo ambientale e possibilismo. Qui però siamo nell’ambito del determinismo culturale. È la cultura che determina le forme dei paesaggi. Passiamo alle geografie soggettive. In particolare, potremmo parlare anche della geografia della percezione, perché anche la geografia della percezione offre modo a rinnovare il concetto di paesaggio, però la geografia della percezione è sempre stata molto legata al concetto di regione, più che a quello di paesaggio. Anche se nella geografia della percezione di parlava di paesaggi, come no! Però centrava molto l’attenzione su quello di regione. Chi invece centra molto l’attenzione sul concetto di paesaggio, oltre che a quello di luogo, è la geografia umanistica. La geografia comportamentale a livello di paesaggio non è che abbia prodotto significativi risultati, non era una categoria concettuale molto praticata. Geografia umanistica sì. Nella geografia umanistica, tutta concentrata sul concetto di luogo, del senso del luogo e anche del paesaggio, il paesaggio è considerato come un’esperienza soggettiva che coinvolge tutti i sensi, multisensuale, quindi per la geografia umanistica la parola chiave è proprio esperienza: esperienza di luoghi, di paesaggi, ecc. Esperienza però vissuta attraverso i sensi, quindi non solo la vista, ma anche tutti gli altri sensi. E sarà proprio la geografia umanistica che comincerà a formalizza e ad introdurre nel dibattito geografico il concetto di soundscape e di smellscape, quindi di paesaggio olfattivo, paesaggio sonoro. Questo studio sul paesaggio, la geografia umanistica lo effettuava soprattutto attraverso le fonti indirette, e in modo specifico sulle fonti letterarie, quindi andando a rintracciare in romanzi, racconti, poesie le descrizioni sensuali, cioè vissute attraverso i sensi, dei protagonisti. E qui ci sono i due principali testi di riferimento della geografia umanistica: da una parte Yi-Fu Tuan, geografo di origini cinesi ma naturalizzato americano, Topophilia, e Relph con place and placelesness. E su questo ci torneremo quando parleremo di luogo, senso del luogo, che sono due concetti formalizzato dalla geografia umanistica. Questa è una estrema sintesi di quello che andremo a dire e che abbiamo già detto. Per la geografia strutturalista, razionalista, cioè determinismo, possibilismo, il paesaggio è il prodotto dell’azione umana e ciò che vengono descritti sono proprio i prodotti dell’azione umana: edifici, strade, campi coltivati, ecc. gli elementi propri del paesaggio, soprattutto quelli rurali descrivendone le forme in dettaglio come fosse una fotografia. La geografia umanistica invece rompe questa tradizione di studi perché rovescia il punto di vista e quindi il paesaggio viene concepito come esperienza soggettiva, multisensuale e quindi descrivendo emozioni, percezioni sensoriali, quindi legate all’olfatto, alla vista, all’udito, il tatto, ecc. Ma anche inserendo delle riflessioni etiche, ad esempio, sul senso del paesaggio, l’importanza del paesaggio, l’esistenza umana, il fatto di trovare dei sentimenti di attaccamento verso un paesaggio. E poi adesso però vedremo la geografia post-strutturalista o non razionalista che dir si voglia, che ha operato un ulteriore importante passaggio e trasformazione perché per geografia possibilista non esiste un paesaggio oggettivo e un paesaggio soggettivo: paesaggio incorpora oggetto e soggetto, non può essere scisso, praticamente, in due. Quindi qui avevamo un paesaggio inteso in termini oggettivi (la geografia strutturalista), con la geografia umanistica abbiamo, invece, la dimensione soggettiva, la geografia post-strutturalista che tende ad eliminare queste dicotomie. La geografia strutturalista evita le dicotomie cartesiane e le mette profondamente in discussione, se vogliamo va a studiare proprio nel mezzo, nelle forme ibride, nei meticciati. Geografia, come tutte le altre discipline, che abbatte tutte le dicotomie cartesiane e quindi anche quello oggetto-soggetto. Il paesaggio in termini post-strutturalisti è un segno che sollecita diverse interpretazioni. Per lo meno nella prima parte della nuova geografia culturale post-strutturalista. Perché poi vedremo che c’è una geografia che studierà il paesaggio come pratica, come attività. Quindi un profondo cambiamento, una rottura radicale; cioè considerare il paesaggio in questo modo, cioè senza distinguere oggetto e soggetto, è una evoluzione ontologica ed epistemologica. E questo cambiamento radicale in fondo lo troviamo anche nella Convenzione Europea sul Paesaggio, sottoscritta a Firenze nel 2000, e in cui viene definito il paesaggio nell’art. 1, come? “Il paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni”, quindi non in base a delle risultanze, evidenze materiali, oggettive, ma così com’è percepita dalle popolazioni. Quindi è la percezione, è il senso del luogo delle popolazioni insediate che designano/identificano un paesaggio, “il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Quindi di nuovo siamo in presenza di fattori umani, di fattori naturali e delle relazioni che sono intercorse, ma non sono in termini causali. Torneremo poi su questa definizione della Convenzione Europea del Paesaggio, adesso mi interessava mettere in evidenza come questo abbattimento delle differenze tra concezione oggettiva e soggettiva del paesaggio avesse poi dei chiari effetti nella legislazione di riferimento, come nel caso della Convenzione Europea del Paesaggio. A livello sociale non è ancora percepita questo tipo di concezione, però per lo meno in teoria è stata recepita. Ecco, io vi sottolineo ancora una volta, quando avete dei dubbi, delle perplessità, che non vi è chiaro qual è la differenza tra le geografie tradizionali e le geografie post-strutturaliste, tenete sempre presenti questi 4 principi cartesiani razionalisti e non razionalisti. Sono quelli che spiegano praticamente la differenza. Sapere bene questi, quindi, significa avere una chiave di lettura che potete applicare per qualsiasi categoria concettuale della geografia: luogo, paesaggio, regione, territorio, quello che volete. Per questo è importante sapere la differenza. Non la ripeto perché l’abbiamo già vista e tenete conto, insomma, che è fondamentale. Allora, evidenza: solo la realtà oggettivamente rilevabile può essere descritta/studiate. Principio di pertinenza: logica non- razionalista, la realtà che può essere oggetto di studio ma così per com’è percepita, così per com’è vissuta dall’osservatore. Quindi il principio di evidenza dice che la realtà è oggettivamente descrivibile, la logica razionalista di no, che la realtà è pertinente all’osservatore; quindi, ognuno interpreta sulla base delle proprie visioni del mondo o del proprio background culturale, dei propri obiettivi. Quindi se vogliamo oggettività-soggettività, ecco. Stiamo sempre parlando del modo di produrre conoscenza eh. Allora, da una parte riduzionismo, che vuol dire? La realtà nella logica razionalista è considerata complicata, per cui bisogna ridurla, cioè semplificarla. Riduzionismo in questo senso: semplificazione. Quindi che vuol dire? Scomporre la realtà oggetto di studio in singole parti che sono più facilmente descrivibili. Esattamente come facevano le monografie regionali possibiliste, che facevano? Scomponevano il territorio in singole parti: aspetti fisici, antropici, economici, culturali, pezzo per pezzo, compartimenti stagni. La logica non-razionalista sostiene, invece, che non si può scomporre un territorio, un paesaggio, un luogo, una regione, qualsiasi oggetto di conoscenza, perché la realtà non è complicata, è complessa e complesso non è sinonimo di complicato, e complicato lo devi semplificare per comprenderlo, il complesso non lo puoi scindere, lo devi considerare nel suo insieme, del vederlo nel suo insieme. In questo senso olismo: realtà che è equiparata a un tutto inscindibile. Causalità (logica razionalista): era obiettivo della ricerca quello di ricercare le cause che avevano determinato quel determinato paesaggio, quel determinato luogo, quella determinata realtà. La logica non-razionalista non guarda tanto alle cause, cioè al passato, quanto alle direzioni future, ai processi in corso. Abbiamo detto diverse volte che la logica razionalista è tutta centra sui prodotti della cultura, sotto forma di forme visibili in particolare. E invece, la logica non-razionalista è orientata a studiare i processi culturali, quindi ciò che sta accadendo, ciò che sta succedendo e quindi anche su chi e come sta producendo quei processi. Logica razionalista, principio di esaustività, se io considero solo la realtà oggettiva, oggettivamente rilevabile, può essere oggetto di conoscenza, è chiaro che la posso descrivere nei minimi dettagli, esaustiva perché nessun aspetto veniva tralasciato, che poi non era neanche vero, perché è impossibile descrivere la realtà nei suoi singoli dettagli, però la pretesa era quella. Quindi io avevo un territorio, dovevo descriverlo in tutte le sue parti dettagliatamente, in tutte le sue componenti, in tutte le sue caratteristiche, punto per punto, con precisione e con approfondimento: un vero e proprio lavoro di scavo, archeologico se vogliamo. Invece, la logica non-razionalista (aggregatività) dice che è impossibile conoscere la realtà oggettivamente, perché è pertinente all’osservatore, e che è impossibile anche che l’osservatore stesso possa descrivere compiutamente, e poi non serve, posto che ogni realtà assume una configurazione in base a chi la osserva, quindi l’osservatore/il ricercatore/lo studioso/il regista/il pittore, insomma, chi produce conoscenza offrirà una sua interpretazione della realtà. Ma cosa potrà fare? Potrà fare, al massimo, aggregare (per questo principio di aggregatività) le informazioni che ritiene importanti dal suo punto di vista e tirar fuori un’interpretazione di quel territorio, paesaggio, luogo, regione, ecc. Sono due modi completamente diversi di fare geografia che, appunto, sono maturati, cioè questa differenza è maturata lentamente. Negli anni ’70 comincia a maturare e negli anni ’80 c’è la rottura e adesso vedremo i protagonisti, anzi li abbiamo già visti, ma adesso li rivedremo in opera con il concetto di paesaggio, e però si afferma lentamente. Ancora negli anni ’90 stentava in Italia, ad esempio, ad affermarsi questa logica non-razionalista. Ci sono stati degli strascichi lunghissimi e, se vogliamo, ancora oggi ci sono degli strascichi, per lo meno nella vecchia generazione. Certo, questa è una geografia più facile da fare. Io, per esempio, nelle tesi triennali chiedo questo, ho chiesto questo spesso fino a non molti anni fa, perché è una geografia tradizionale, semplice da fare ed è una geografia che spesso viene ancora richiesta a livello sociale, perché se i comuni, la regione o un ente territoriale o un istituto di ricerca ti chiede un progetto, ad esempio ti chiede di studiare un certo territorio, questo vuole. Puoi inserire la logica non-razionalista mettendola tra le righe, però alla fine questo vogliono. Quindi a livello scientifico, se vuoi scrivere un articolo, una tesi di laurea da magistrale in poi, quindi dottorato, devi basarti per forza su questi principi, non se ne scappa, non puoi fare una cosa del genere basata sulla geografia cartesiana. E però, indubbiamente, bisogna tener conto che le trasformazioni che avvengono in ambito scientifico si In particolare, lui dice in questo testo che il paesaggio è un modo di rappresentare lo spazio, corrisponde a un modo di rappresentare lo spazio che nasce in Italia, in particolare nell’Italia del XV-XVI sec., l’Italia del Rinascimento. E nasce in particolare questo concetto di paesaggio come forma di autorappresentazione di specifici gruppi sociali. Quindi come vedremo per questo il paesaggio è intriso di politica e di società, perché è un’autorappresentazione e serve a legittimare un potere. Ancora più precisamente Cosgrove cosa dice? Il paesaggio nasce col capitalismo moderno e siamo nel XVI-XVII sec. insomma. Anzi se vogliamo anche nel XV sec. Inizia con i commerci, con l’espansione a livello mondiale dei commerci, con la scoperta dell’America, con l’intensificazione dei traffici, con la nascita della borghesia capitalistica che fa quattrini grazie ai commerci. Col capitalismo moderno, il paesaggio e la cartografia, quindi le carte geografiche, sono strumenti di potere. Questo è molto vicino anche a quello che dice Farinelli. Dice: attenzione perché la cartografia è stata un enorme strumento di potere e così anche il paesaggio. Perché? Perché sono le classi agiate europee, quindi le classi aristocratiche e l’alta borghesia, quella che ha fatto i quattrini con i commerci, con i terreni, con la speculazione fondiaria, loro costruiscono l’idea di spazio per legittimare la proprietà terriera, celando rapporti di dominio con categorie estetiche. (La prof si è persa una slide) riferimento al libro nel cap. dedicato alla nuova geografia culturale. Praticamente, ma questo è Farinelli però che lo dice, che ha scoperto questa cosa diciamo. In pratica per tanto tempo e fino alla diffusione dell’istruzione, quindi tempi recenti tutto sommato, le uniche forme di conoscenza del paesaggio erano appunto la letteratura, la pittura, ecc. quindi esisteva solo una classe agiata, costituita dagli aristocratici, dall’alta borghesia, per poter accedere a questa conoscenza. Di paesaggio ne potevano fruire, potevano capire che cosa fosse, solo aristocratici e alta borghesia attraverso pitture di paesaggio e attraverso opere letterarie. E fin qui condivide l’idea di Cosgrove. Però lui (Farinelli) va ancora più in profondità e dice “com’è avvenuto questo passaggio”, lui lo fa risalire ad Alexander Von Humboldt, cioè addirittura alla fine del ‘700 – primi anni dell’‘800, e dice “Humboldt ha fatto un’operazione strategica, forse inconsapevole, però è da lì che è partito tutto”, perché? Che ha fatto Humboldt? È andato in America latina a fare delle ricerche scientifiche, ha visitato quasi tutta l’America latina con delle strumentazioni dell’epoca, stiamo parlando fine ‘700 inizio – primi ‘800, quindi prima ancora che nascesse la geografia. Lui va in giro per queste regioni equinoziali, come venivano chiamate allora, e misura l’altezza delle montagne, registra la temperatura climatica e atmosferica, si porta dietro degli strumenti; quindi, la sua è una conoscenza scientificamente fondata. Lui dà dei dati, mentre descrive dà informazioni scientifiche, scientificamente verificabili, misurazioni. Lui è un esploratore. Lui va in giro, registra, misura, offre una conoscenza scientifica. Quando torna in Europa, lui che è un esploratore molto apprezzato, invitato in tutti i salotti a riferire dei suoi viaggi e delle sue conoscenze, cosa fa? Pubblica un libro, dei libri, in cui spiega e racconta questi paesaggi che lui ha visto, con tanto di dati scientifici, ma associa a questa descrizione scientifica immagini, delle pitture, più precisamente degli acquerelli, che fa realizzare dai principali artisti dell’epoca europei. Allora tu vedi che i quadri naturali, quadri della natura, in tedesco perché la sua lingua era tedesca, lui fa un’azione strategica enorme, perché associa il dato scientifico al linguaggio a cui erano abituati le classi agiate dell’epoca. Cioè la pittura, gli acquerelli, immagini, descrizione scientifica. Secondo Farinelli è con questa operazione che Von Humboldt ha introdotto la conoscenza scientifica in Europa e ha dato uno strumento alle classi agiate per conosce e controllare lo spazio. Praticamente quella era una conoscenza che poteva essere riservata solamente alle classi agiate. Chi è che sapeva leggere? Era giusto nei salotti aristocratici, dove giravano persone ricche magari no? E in quel modo, lui è come se accattivasse, come se Von Humboldt avesse accattivato l’interesse delle upper class, di queste classi agiate a una conoscenza scientifica che per loro era sconosciuta fino ad allora. E dove sta la politica? Dove sta il potere? Diamine! La conoscenza è strettamente legata al potere, conoscere significa poter controllare, conoscere vuol dire che puoi gestire meglio il tuo potere nei vari luoghi, ad esempio nelle opere di conquista, nei commerci, tu conosci il territorio e lo conosci anche scientificamente, non più solo in termini di pittura e di romanzo. E quindi, secondo Farinelli, che ha intitolato questo articolo pubblicato su Casabella, che a dispetto del suo nome è una delle più prestigiose riviste di architettura italiane e non solo, “l’arguzia del paesaggio”, cioè paesaggio che è arguto. In realtà l’arguzia l’ha fatta Alexander von Humboldt, è lui che ha utilizzato questo stratagemma per incamminare, per inserire, per introdurre le classi agiate alla conoscenza scientifica, attraverso proprio il concetto di paesaggio. Non so se è chiaro, senza slide non è facilissimo. Più o meno il discorso che fa Cosgrove è abbastanza simile a quello di Franco Farinelli. Lui anche dice “in realtà le classi agiate europee costruiscono l’idea di spazio perché hanno gli strumenti per poterlo fare”, hanno le conoscenze scientifiche, posso accedere a quel tipo di conoscenza che inizia Alexander von Humboldt e prosegue Ratzel ecc. Ma tutto questo serve anche a loro, a queste classi agiate per legittimare il proprio potere, nei termini soprattutto di proprietà terriera, perché la pratica più diffusa allora era questa: di far quattrini e acquisire terreni, proprietà per poter controllare lo spazio. Celando i rapporti di dominio con categorie estetiche. Cosgrove in particolare focalizza l’attenzione proprio sulle pitture di paesaggio. E dice “in realtà quelle classi agiate, attraverso questi dipinti, legittimavano in qualche modo la propria proprietà terriera, il proprio potere, il potere di controllare lo spazio, di dominare lo spazio”. Ma andiamo per ordine. Qui dobbiamo introdurre una differenza sostanziale tra la pittura medievale e quella rinascimentale. Perché nella pittura medievale, non esisteva la prospettiva, le figure erano disposte su un piano verticale, su fasce sovrapposte. Utilizzavano questa tecnica perché non c’era la prospettiva, e questa pittura era pure funzionale a ribadire la dimensione/visione trascendente della realtà. Era un richiamo implicito. A livello terreno gli esseri umani con le loro attività, i loro elementi/materiali impressi sul paesaggio e poi via via andando su in alto l’entità sovrannaturale. Il richiamo al divino, insomma, al religioso. Siamo in un’epoca in cui la visione trascendente della realtà è largamente predominante. Con la pittura rinascimentale che succede? È iniziata da Brunelleschi, da Leon Battista Alberti, XIV- XV sec., succede che ciò che si osserva può essere rappresentato realisticamente. La prospettiva è un’invenzione praticamente che consente di rappresentare lo spazio in modo realistico, applicando delle regole geometriche, la geometrica euclidea, in modo tale che ciò che si ottiene è una rappresentazione molto realista della realtà. C’è una bella differenza, tra questo che è uno dei primi studi, delle prime applicazioni della prospettiva la città ideale di Laurana. Vedete quant’è realistico? Sembra davvero la realtà. Qui (riferendosi alla slide precedente) si capisce che siamo in presenza di qualcosa che ha degli elementi di trascendenza, di religiosità, di spiritualità, non è realistica come rappresentazione e si capisce perfettamente. Qui invece è proprio realistico, sembra proprio la realtà così come esperibile attraverso la vista. E allora, dice Cosgrove che la pittura prospettica introduce una rivoluzione anche a livello politico se vogliamo, proprio perché è realistica diventa un modo per trasmettere l’idea di verità e giustizia. Cioè come se ciò che viene rappresentato è il modo giusto, vero, reale di vedere il mondo. È un’operazione sottile, che apparentemente non sembra, ma in realtà questo fa, cioè diventa praticamente davvero un modo per rappresentare il mondo non solo, ma anche un modo di vedere il mondo. Ecco perché paesaggio come modo di vedere, un modo specifico di vedere il mondo. E in particolare lui si riferisce alle pitture di paesaggio del XVII e XVIII sec. Cosa succede in quel periodo? Che gli aristocratici, gli alto borghesi commissionano delle pitture che li vedono ritratti, che vedono ritratti i proprietari terrieri. In questo caso l’osservatore domina lo spazio, ma in realtà lo spazio è costruito/rappresentato secondo il modo di vedere borghese/aristocratico. Quindi succede con queste pitture di paesaggio che l’osservatore si impersoni quasi in quella visione, che in realtà è una visione che è stata commissionata dalla upper class, dalle classi agiata che voglio farsi vedere rappresentate nelle loro proprietà. Quindi sono in realtà delle pitture che rappresentano il modo di vedere borghese/capitalistico il mondo, e sono delle autocelebrazioni del proprio status di classi sociali capitaliste, che detengono il capitale. E tutto questo si traduce, secondo Cosgrove, fa sì che le pitture di paesaggio diventino uno strumento di potere per normalizzare. Perché di fatto, attraverso queste pitture si cerca di normalizzare la proprietà e la struttura della società capitalistica. Sembra il modo di vedere giusto di osservare il mondo. Sono talmente realistiche, che sembra normale rappresentato, ma in realtà quello che è rappresentato rispecchia il punto di vista delle classi più agiate, di quelle che hanno il potere. Sono delle pitture di paesaggio in cui sono rappresentati dei proprietari e le loro immense tenute. Era di gran moda a quel tempo, ce ne sono davvero tante di pitture di paesaggio di questo tipo, e attraverso queste pitture/dipinta in realtà si stava promuovendo un’idea del mondo dominata da queste classi e che corrispondeva al giusto, al vero, all’unica visione del mondo possibili. Sono rappresentate proprietà rurali o ville di campagna, spazi armoniosi, senza conflitti, viene cancellato completamente il lavoro di contadini e operai. Raramente in queste figure di paesaggio compaiono dei contadini, dei braccianti, degli operai, cioè le lower class, diciamo le classi sociali più povere che hanno forgiato quei paesaggi, ma non appaiono. È un mondo senza conflitti, idilliaco, quindi l’idillio della campagna rurale inglese, quasi a voler naturalizzare l’ordine sociale che stava nascendo, fatto di proprietari terrieri, di persone molto ricche, con queste tenute molto grandi, castelli, proprietà lussuose e il resto della popolazione invece in condizioni poverissime. Ecco, rappresentando queste immagi quasi sembra che questo fosse il mondo normale, il modo giusto di vedere il mondo, la prospettiva realistica. Sembra una fotografia, sembra quasi che stiamo guardando realmente quel paesaggio talmente è realistico. In realtà così facendo si stata normalizzando, si stata tendando di normalizzare una struttura sociale fortemente diseguale, fatta di pochi ricchi e tantissimi poveri in condizioni davvero difficili. Comunque, la prossima volta riprendiamo da qui e spieghiamo più in dettaglio queste pitture e il ragionamento che fa Cosgrove che è considerato un grande della geografia, il suo libro è considerato un caposaldo della geografia, è importantissimo. Banini Lezione 31-03 Stiamo valutando il paesaggio come visione, duplice visione di senso. Senso della vista perché si parla di pitture di paesaggio, di iconografie e immagini che divengono oggetto di interpretazione ma anche visione come atto politico, quindi come un atto, quello del guardare, attraverso delle prospettive che hanno dei contenuti politici e economici. Grazie all’affermazione della prospettiva, anzi all’invenzione nel XV-XVI secolo, succede che la pittura diviene realistica a differenza di quella medievale che è di piani sovrapposti. Questa pittura prospettica restituendo immagini veritiere e realistiche, in senso lato, diventano il modo vero e giusto di vedere il mondo. In particolare Cosgrove si sofferma su un tipo particolare di pittura di paesaggio.Quelle pitture commissione da aristocratici o ceto alto borghese per ritrarre i proprietari nelle loro tenute. Il punto di vista è quello dell’osservatore. Il modo è quello di vedere aristocratico. Il pittore riproduce il punto di vista dei ceti più abbienti. Infatti queste pitture non sono altro che un’autocelebrazione dello status capitalista acquisito da queste classi sociali attraverso la proprietà terriera. Queste pitture James Duncan cita frequentemente Barthes. La centralità attribuita al testo anziché al lettore. Lo abbiamo già visto quando abbiamo parlato della morte dell’autore. Provocatoriamente in un suo scritto lui evidenziò la morte dell’autore per evidenziare l’immagine del lettore, dell’interprete. Il testo è inteso come un insieme di segni che rimandano a testi diversi. In questo senso un altro concetto importante è l’intertestualità. Ossia rimandi e altri collegamenti che creano mondi con altri testi. Prevalentemente testi scritti ma non solo. Duncan muovendo dalle riflessioni di Barthes esplica che il contesto di ogni testo è dato da altri testi, per dire che ogni testo va interpretato, vanno riconosciuti i riferimenti ad altri testi e il legame che ne intercorre. Capire che significato che ne emerge, tenendo conto che questo significato è variabile per soggetto, nel tempo e nello spazio. Tesi che possono essere libri documenti, foto, romanzi, carte. Il paesaggio non è solo visione come sostiene Cosgrove (si concentra sulle pitture e sull’osservazione diretta) in realtà non può essere solo quello, bisogno considerare che il paesaggio è costruito attraverso testi che non sono solo visuali, ma testi in senso stretto. Per Duncan il paesaggio è una produzione culturale. Attenzione lui utilizza produzione e non prodotto. Perché non si considera la cultura nei suoi prodotti ma nei suoi processi culturali. Attenzione alla semiotica. In un testo chiamato “The city as a text” si concentra su una città dello Sri Lanka, Kandy. Importante è perché il sovrano locale viene spodestato dagli inglesi e inizia così il colonialismo britannico. Anche in questo senso Duncan innova il paesaggio rispetto agli studi possibilisti. Il paesaggio è rappresentazione degli interessi politici. Paesaggio come testo significa interpretazioni di paesaggio. Ci sono autori materiali e interpretanti ma c’è tutto un altro universo di elementi da tenere in considerazione e fonti. Testi sacri, articoli di giornale, saggi la maggior parte sono fonti scritte per capire quale fosse il senso di questo paesaggio e quali radici storiche avesse. Il terzo obbiettivo Gli obbietti del suo lavoro vengono esplicato all’incipit del libro. Il primo è quello di fornire una metodologia per interpretare i paesaggi. Si offre una metodologia e prospettiva nuova per studiare i paesaggi che è una categoria centrale per la geografia. Il secondo obbiettivo è di aprire la strada in cui il paesaggio è percepito come una cultural production, non un prodotto ma una produzione. Questo può essere integrato in una visione che considera sia la riproduzione che la contestazione del potere politico. Il terzo obbiettivo è quello di analizzare la situazione tra paesaggio e esercizio e perseguimento del potere in un particolare luogo e tempo. In questo caso la capitale reale di Kandi durante i primi anni del 19 secolo. Il paesaggio è un sistema significante di estrema importanza e che offre enormi spunti come oggetto di studio. Su Kandy c’erano anzitutto poche fonti a differenza di altre città del sud-est asiatico. Ecco perché è stata scelta. Nonostante la pochezza di materiale documentario la società locale risulta altamente testualizzata. Perché a livello popolare si riscontrano i contenuti dei testi politici, editoriali ecc. Questa società ha acquisito alcuni riferimenti che avevano un obbiettivo principale, ossia quello di far coincidere l’autorità reale dei sovrani con il potere religioso. Si ritiene che l’autorità dei sovrani risieda in testi politici e religiosi. Il re e il sovrano sono venerati come un Dio. Questo spiegherebbe un certo immobilismo e l’assenza di rivoluzione. Se si avvicina l’immagine di un sovrano ad un’identità divina non bisogna contestarla. L’intento dell’ultima generazione di sovrani è di diffondere il buddismo su radici induiste. Un luogo che crea un mix unico tra i due mondi e riferimenti religiosi. Al centro dell’attenzione dell’esamina di Duncan si colloca un complesso edilizio che è il tempo del dente o palazzo reale dove risiede il re prima che venisse spodestato dagli inglesi nel 1815. Rappresenta un luogo sacro, aperto a poche persone. Tempio del dente perché in questo edificio è conservato un dente che si dichiara sia del Buddha. Di questa reliquia il re era guardiano e l’unico che potesse fruirla, vederla. Immedesimazione tra potere religioso e temporale. Secondo Duncan, questo ha favorito una sorta di stasi, la popolazione ha creduto per molto tempo a questa coincidenza tra potere temporale e spirituale. Si addentra nell’analisi di questo spazio che in realtà il tempo del dente è uno dei 21 edifici che compongono questo complesso. 21 edifici come 21 unità del regno. Il regno era diviso e ripartito in 21 unità amministrative, lo stesso simbolismo ripercorso nella struttura di questo complesso paesaggio. Intorno a questi edifici c’è un lago che è riproduzione dell’oceano cosmico (ossia principio di ogni cosa). Kandy è un cosmo in miniatura tanti sono i riferimenti simbolici del potere temporale che coincide con molti simboli buddisti e anche induisti. Anche nella struttura stessa dei particolari, dei simboli architettonici. Ogni elemento ha un suo significato, ogni cosa ha un suo significato e serve a reiterare il potere del sovrano che corrisponde ad un’unità divina. Il paesaggio costruito dai sovrani di Kandy è un simbolo religioso talmente forte e importante che è difficile da rimuovere. Un potere politico a cui si attribuiscono delle radici sacre non può essere contrastato. Un po' la stessa cosa che è avvenuta in gran parte del mondo dove però i simboli sono stati abbattuti. Pensiamo all’abbattimento della statua di saddam hussein in Iraq. Sulla scia di questa riflessione iniziata da Duncan, abbiamo altri geografi che hanno preso in considerazione altre città. Brasilia, in Brasile è una capitale più rappresentativa dell’intero Stato Federale. Un chiaro messaggio di riequilibrio e di sviluppo che si voleva più omogeneo nella netta separazione che si voleva tra costa e interno. La maggior parte dello sviluppo si aveva nella costa. Si celebrava con Brasilia la fine del colonialismo e la transizione alla democrazia. La bozza del progetto della pianta di Brasilia è stata realizza da Lucio Costa La forma a croce di Brasilia è il simbolo più alto della religione. Allo stesso modo la pianta rimanda ad un aeroplano, simbolicamente richiama la forma di un uccello che rimanda alla tradizione romana degli auguri (sacerdoti/ indovini che interpretavano il volere divino in base al volo e ai versi degli uccelli). C’è un richiamo culturale molto antico nel tempo, in questo senso la città voleva decollare e quindi associata a questa forma è la volontà del decollo economico. Uno sviluppo che voleva e doveva essere iniziato. Al centro della pianta oggi ci sono uffici governativi e sulle ali ci sono i quartieri residenziali, Interessante è anche che queste idee di progresso, nei primi anni 60 si faceva sentire in America Latina e si riscontrava nelle forme innovative per i vari monumenti e strutture locali. Nello stesso tempo anche nomi simbolici, come il Palacio da Alvorada con riferimenti verso il futuro. Knox e Marston leggono Brasilia come una tessitura di segni da interpretare a partire dalla pianta della città e a proseguire da tutti i simboli presenti sottoforma di monumenti e infrastrutture sempre avendo Duncan come segno che ha aperto a questo tipo di interpretazione di paesaggio. Paesaggio come testo riferibile non solo alle interpretazioni esperte ma anche i significati collettivi nuovi e diversi. Veramente questa è una convinzione maturata dopo, quello che fa Duncan è qualcosa per esperti, basti pensare alla sua analisi testuale su testi sacri o le letture in sanscrito. Possiamo dire che questo paesaggio come testo può essere letto da comuni cittadini e ognuno può leggere delle cose diversi che magari sovverto o rovesciano i significati iniziali. Dalle interpretazioni e creazione culturali derivano significati e creazioni culturali diversi, come il riuso sociale di certi luoghi e paesaggi grazie a film, romanzi o altre letture che poi si legano a delle pratiche sociali. Nel discorso del paesaggio come testo è facile legare delle pratiche sociali. Esempio emblematico King’s Cross Station a Londra dove è stato allestito il binario 9 e tre quarti di Harry P. Interpretazione della città che trae spunto da un romanzo della fantasia che poi si lega a delle vere e proprie pratiche sociali. Anche altri luoghi legati ad Harry P sono delle locations che divengono mete di ammiratori che ripercorrono le orme del mago. Un caso italiano è quello di Montalbano che ha dato via ad una serie di iniziative e di pratiche legate al turismo che derivano da un testo letterario e poi televisivo. Addirittura è divenuto un brand turistico per B e B. La testualità in senso lato può divenire alle volte anche paesaggio. In questo caso sono i testi letterari o film, che divengono paesaggio e che si legano poi a delle pratiche sociali. Anche il modo di vedere scelto da Duncan presuppone, come quello di Cosgrove un osservatore privilegiato. Nel caso di Cosgrove per realizzare le analisi come ha fatto lui si richiede una preparazione una competenza storica, artistica, semiotica importante. Il paesaggio di Duncan è concepito come sistema simbolico materiale in cui vivono le persone. Esiste una chiave di lettura intellettuale importante che non è alla portata di tutti, ma allo stesso tempo può essere interpretato ugualmente dalle persone e dai comuni cittadini in base alle proprie conoscenze o esperienze. In questo modo ogni interpretante diviene autore che crea una sua interpretazione del paesaggio e così questo diviene polisemico per eccellenza. Noi siamo immersi con sistemi semiotici materiali, perché noi siamo a contatto con una realtà che assimiliamo con i nostri sensi. C’è anche un contenuto simbolico ed ecco perché paesaggio nell’ottica post strutturalista è unione di oggetto-soggetto, non c’è più differenza. Il simbolismo appartiene alla sfera immateriale e quindi cade la dicotomia oggetto-soggetto. Allo stesso tempo il simbolismo è legato alla soggettività, perché ognuno ci vede i propri simboli. Questo è un approccio del tutto diverso dalla geografia tradizionale, dalla geografia che ti aspetti. Invece Cosgrove dice che il paesaggio va letto in chiave politica, sociale, economia. Duncan dice che dietro la materialità del paesaggio si cela un sistema simbolico da interpretare e assume significati diversi in base a chi legge e a chi interpreta il paesaggio stesso. Il riferimento non è più Saussure e si passa invece al triangolo di Pierce con la relazione infinita e ternaria tra oggetto, Significante e significato. C’è un referente che può essere materiale o immateriale, un representamen che è la forma in cui si esprime il referente (foto, arte, pubblicità, libri ecc) e infine un interpretante poiché il significato non è né definitivo né assoluto. Pierce la chiama semiosi illimitata perché tutto dipende dall’interpretante che lancia sempre nuovi significanti e referenti. Geografia culturale 5/4 Cosgrove è stato criticato diciamo il limite della prospettiva di Crosgove sul paesaggio è che presuppone un osservatore privilegiato, colto, con un bagaglio di conoscenze e un intellettuale raffinato, non è facile interpretare le pitture di paesaggio cosi come i monumenti le architetture che abbiamo visto come fa lui legandole ai rapporti di potere in atto in periodi storici specifici. Lui di diverse etnie, è lo spazio dei flashmob in riferimento a diverse cause, come rappresentazione di obiettivi sociali di diversa provenienza, è lo spazio delle manifestazioni musicali, di gruppi alternativi musicali, lo spazio delle manifestazioni sportive, insomma non è solo la piazza della rappresentazione del potere imperialista, c’è presente che comunica diversi significati, diverse appartenenze e quindi è uno spazio polisemico per eccellenza. La stessa cosa si potrebbe dire per qualsiasi altra piazza di qualsiasi altra città che viene utilizzata per più attività, pratiche sociali. Altra buona parte della ricerca geografica si è focalizzata anche sui luoghi, i monumenti, che sono oggetto di pratiche turistiche tra cui il Taj Mahal, in India, monumento oggetto di visite, di ingenti, di flussi turistici ingenti un po' anche per la sua narrazione che l’accompagna, un simbolo di amore di un uomo per la sua donna. In particolare i luoghi turistici sono stati esaminati proprio per le pratiche sociali che li connotano. Sottolineando come siano paesaggi che sono prodotti, generati da pratiche specifiche, i turisti camminano osservano, fanno delle attività che diventano parte integrante del paesaggio. Senza i turisti questi luoghi non sarebbero tali, la relazione che si stabilisce tra i luoghi e le persone. Paesaggio come pratica, quindi comporta il ritorno alla materialità degli spazi, sono prese in considerazione le esperienze corporee che avvengono nei luoghi e che costruiscono praticamente il senso ed il significato dei paesaggi nella quotidianità, quello che avviene giorno per giorno. Ovviamente questi significati possono essere condivisi, celebrati, contestati, rielaborati, le chiavi di lettura possono essere diverse. Questo perché diverse sono le interpretazioni sociali del medesimo paesaggio, del medesimo luogo, perché diversi sono i sistemi culturali cioè il significato che le persone o gruppi utilizzano per interpretare il mondo e dargli un senso, questa era la definizione di cultura che abbiamo dato all’inizio del corso di Stuart Pole, il sociologo di origine jamaicana. Non c’è solo una cultura, ma tante, quindi tanti sistemi di significato che sono utilizzati dai gruppi sociali, culturali, etnici ecc per interpretare appunto il mondo e dargli un senso. In tutto ciò avviene anche un’altra cosa, che assume crescente rilievo, perché crescente rilievo assumono anche le tesi ambientali, quella famosa dicotomia cartesiana che viene superata si riferisce a più ambiti, non è solo la dicotomia mente-corpo, maschile-femminile, vero-falso, ma anche natura- cultura cioè anche la separazione netta che c’è stata tradizionalmente fra dli esseri umani ed esseri non umani e comincia proprio a diffondersi con la svolta post-strutturalista io direi in particolare dagli anni 90 in poi. Comincia a diffondersi proprio questa locuzione non-umani, non vengono più chiamati animali o vegetali, quindi altro rispetto agli esseri umani ma comunque sempre esseri viventi e che contribuiscono a costruire il paesaggio, il senso dei paesaggi; non solo in ambiente rurale, ad es. le greggi di pecore, le mandrie dei bovini ecc, ma anche in ambiente urbano ad esempio su Londra è stato sottolineata l’esistenza di una fauna piuttosto ricca che è connotativa, soprattutto dei parchi, dove si incontrano specie diverse dai daini, ai pellicani e sono così abituati a convivere con gli umani che non si fanno scrupolo a sdraiarsi sull’erba e sono parte integrante del paesaggio, per tanto tempo sono stati esclusi, invece no vanno considerati anche loro. Nel nostro piccolo potremmo dire la stessa cosa sui gatti a Roma, qualsiasi iconografia della pop- art, rappresenta Roma con i gatti, fa parte dell’iconografia popolare, sono caratteristici i gatti a Roma. Ultimo riferimenti all’ambiente anglofono che riguarda il paesaggio è riferito alla prospettiva di Don Mitchell, è un geografo marxista convinto, in particolare ha fornito una lettura dei paesaggi californiani in termini proprio di dominio e subordinazione; quindi nella chiave della geografia radicale però sono testi pubblicati nel ’96, quindi la svolta culturale ben affermata e quindi non mancano in questo libro i riferimenti ai protagonisti della svolta post-strutturalista che abbiamo già visto. E’ una lettura nella chiave della giustizia sociale e ambientale quindi una geografia impegnata, che lotta contro le ingiustizie sociali e ambientali in particolare in questo libro Don Mitchel esegue praticamente una lettura dei paesaggi californiani nella direzione dei costi sociali che la costruzione di quei paesaggi ha comportato, quindi paesaggi agrari, ipertecnologici, estremamente curati, così come le grandi città , tutta la metropoli californiana: Los Angeles ecc. Lui sposta la visuale, non stiamo a guardare solo il prodotto di queste pratiche e ciò che compone questi paesaggi, ma andiamo a vedere chi li ha costruiti e a quali condizioni di lavoro e di sfruttamento li ha realizzati; nel fare questo fa una denuncia sociale perché spesso ci dimentichiamo che dietro le realizzazioni ipertecnologiche della California contemporanea in realtà si celano delle ingiustizie soprattutto nei confronti dei lavoratori migranti. Tutto questo si sottolinea già dal titolo del libro. Passiamo in Italia, qui abbiamo situazione differente perché la storia a differenza dell’ambiente anglofono, degli Usa, non è stata messa in discussione anzi, il contesto italiano è contraddistinto dal peso, dal rilievo che viene data alla storia. Una storia molto diversa, forse l’Italia è il paese con la più alta densità di diversità culturale, nel senso che è sufficiente percorrere qualche chilometro tra un comune e l’altro e si ritrova un contesto culturale completamente diverso, magari con delle storie anche diverse. Una stoia quella italiana diventa unificata nel 1861, quindi in tempi abbastanza recenti rispetto ad altri contesti. Una storia diversa fatta di dominatori molto diversi, dagli arabi, ai longobardi, ai celti, impero asburgico ecc., una storia poi che a differenza degli ambienti anglofoni è considerata nel suo movimento, nel suo continuo progredire, è stata una storia di dominio più che di dominazione. Una storia che regga i segni di questa diversità culturale, dei diversi dominatori che si sono succeduti nel tempo che alla fine hanno restituito dei paesaggi estremamente articolati, negli stili, nell’aspetto di monumenti, edifici ecc. Diversità culturale che è diventata fonte di ricchezza per l’Italia, una ricchezza che si manifesta in particolare nel turismo ma anche nella fecondità delle iniziative culturali, in particola come vedremo l’attenzione in Italia è tutta focalizzata sui beni culturali, storicamente la legislazione italiana sui beni culturali che inizia dai primi del 900 è tutta focalizzata sui beni culturali; è in un secondo momento che è focalizzata sul paesaggio culturale e patrimonio culturale. L’importanza del paesaggio in particolare è contenuta anche nella Costituzione italiana, nell’articolo 9 si fa espressamente riferimento al paesaggio a proposito della cultura e dell’arte e della storia; quindi la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione, se ne parla in termini di tutela, conservazione, protezione. Per avere un’idea di questa ricchezza, di questa estrema diversità culturale, che è connotativo, un tratto che contraddistingue il nostro Paese; può essere dato dalle cosiddette regioni linguistiche, essendo che la lingua è tratto culturale per eccellenza, non è solo un sistema di segni linguistici ma è anche una visione del mondo, dietro una lingua c’è un patrimonio culturale. I confini dell’Italia linguistica non corrispondono minimamente ai confini dell’Italia amministrativa. Questa è una carta fatta da Pellegrini nel 1977, dove distingue i vari dialetti d’Italia, non potete immaginare quanta varietà di dialetti c’è, un patrimonio linguistico enorme in Italia, alcuni sono delle lingue non dialetti, il sardo è una lingua, il friulano è una lingua, poi ci sono le minoranze linguistiche. Studio condotto dalla professoressa sui dialetti italiani nel 1999. A cosa si deve tutta questa varietà di dialetti? Indubbiamente l’Italia è stata condizionata per molto tempo dalla presenza di una catena montuosa sia quella alpina con numerose vallate, quindi morfologicamente articolato che di fatto, e cosi anche lungo la catena appenninica, ha separato una vallata e l’altra, un paesino e l’altro, creando situazioni linguistiche e culturali profondamente diverse. Proprio questa frammentazione territoriale che ha agevolato una diversità storica, culturale, linguistica, che si esprime su tanti piani diversi, anche sul piano dell’alimentazione, oppure sulle tecniche di coltivazione, nell’artigianato, abbiamo un patrimonio enorme che rischia dj andare perduto se non intervengono delle misure a tutela di questi saperi che pian piano se ne stanno andando e che hanno forgiato i paesaggi. Adesso vediamo insieme qualcosa sul codice dei beni culturali e del paesaggio, è un testo unico che è stato promulgato nel 2004, da allora ci sono stati aggiornamenti, l’ultimo è del 2020. Perché parliamo di questo codice? Perché qui troviamo delle definizioni che sono frutto di saperi scientifici, storici, culturali, è un po' se vogliamo la carta d’identità che ci dice molto del patrimonio culturale e del paesaggio italiano. E’ una storia iniziata tanti anni fa, le prime leggi sui beni culturali risalgono ai primi del ‘900, prima di allora ben poco. Ci riferiamo al dato attuale, e ci focalizziamo sulle definizioni cioè come sono definiti: paesaggio, patrimonio, bene culturale, bene paesaggistico e vediamo di trarne qualche riflessione. La prof inizia a leggere le slide di seguito. Ci sono dei beni culturali che potrebbero essere anche oggetto di tutela per il loro pregio. In Italia abbiamo varietà di ambienti naturali e di trascorsi storici unici al mondo. Quando gli edifici sono così rilevanti essi sono dei simboli pubblici. Gli osservatori del paesaggio sono stati istituiti dalla convenzione europea sul paesaggio, quella del 2000. Sono stati istituiti deputando agli Stati di istituirne dove era ritenuto indispensabile e in teoria dovrebbero essere istituiti su tutto il nostro territorio nazionale; però non tutte le regioni le hanno istituite. Torna il riferimento al valore estetico, alla non comune bellezza, alla bellezza panoramica, allo spettacolo di quelle bellezze. Qui la prof legge l’articolo 142 che è presente nel PDF inviato su Classroom. La legislazione è impeccabile, ma la pratica racconta tutt’altra storia, un caso emblematico è l’Ecomostro di Alimuri questo albergo abusivo le cui fondamenta furono erette già negli anni ’60, i lavori sono stati interrotti perché era una vergogna, siamo nella penisola sorrentina, un luogo estremamente importante dal punto di vista ambientale e culturale; per fortuna l’ecomostro è stato abbattuto nel 2014. Di esempi ce ne sono davvero tanti: COSTIERA Amalfitana, abbattuto nel 1999. Il dossier di Legambiente pubblicato nel 2018, ha riportato che il 20% dei comuni costieri italiani ha emesso 32.424 ordinanze di demolizione, ma solo 3.651 sono state eseguite. Il problema è che i proprietari di questi immobili ricorrono al TAR ed i tempi si allungano, perché chiedono il cosiddetto sospensivo che permette loro di rimanere nell’edificio e nel frattempo ricorrono anche al consiglio di Stato con tempi che si allungano e non cambia nulla. Noi in Italia abbiamo a che fare con questi problemi, abbiamo anche problemi sul piano sociale ma soprattutto sul territorio, che soffre che è violato, maltrattato, che reca segni di una mancanza di civiltà. pianificazione, ora non ricordo bene. Comunque, per dire che i geografi italiani hanno spesso e volentieri partecipato attivamente alle iniziative legate al paesaggio. Concludiamo individuando le 4 linee di ricerca principali che la Geografia italiana ha svolto in merito al paesaggio. 1. Concezione del paesaggio: la riflessione geografica sul paesaggio non si è mai interrotta, c’è stato un momento in cui forse è stata anche eccessiva perché negli anni 40-50 e nell’immediato dopoguerra tanti geografi italiani si sono messi a disquisire sul paesaggio, come dovesse essere concepito, che differenza c’era fra il paesaggio sensibile, il paesaggio geografico, migliaia di pagine sono state scritte e purtroppo tanti treni sono passati, alcune competenze che avrebbero potuto essere svolte dai geografi se le sono prese altri studiosi quindi quelli di botanica, gli architetti, ecc., mentre i geografi chiacchieravano a livello teorico, altri professionisti entravano nelle commissioni che contavano, nei ruoli che contavano, nelle istituzioni che contavano, quindi neo geografi abbiamo perso un treno importante. 2. Paesaggio e indicatori ambientali: questa seconda linea di ricerca è maturata intorno agli anni 80 in particolare perché allora si parlava molto di indicatori ambientali ed è proseguita anche nel tempo, ma ha avuto il suo massimo in questi anni. Dovrebbe tornare ancora in auge, adesso con tutti il millennio di veromand e golds (?), e con tutta l’importanza acquisita dalla sostenibilità; quindi, forse è una linea di ricerca che andrebbe potenziata e recuperata e sviluppata perlomeno per quanto riguarda la geografia perché non mi pare che siano state svolte ricerche recenti, può darsi che mi sbagli però. 3. Paesaggio e beni comuni: qui con un discorso legato molto alla geografia storica, sono soprattutto i geografi storici che hanno realizzato questa linea di ricerca partendo proprio dagli usi comuni, usi collettivi del territorio, gli usi civici e la loro continuità nel tempo o meno. Sono studi che hanno anche adottato un approccio critico, quindi a favore del recupero e ripristino del paesaggio come bene comune. Per questa terza linea di ricerca c’è da citare Lucio Gambi, un geografo molto importante negli anni 50-60-70, un protagonista delle riflessioni sul paesaggio, e tutti i suoi allievi o perlomeno quelli che hanno preso spunto da lui, Leonardo Rombai dell’Università di Firenze, Bruno Vecchi sempre dell’Università di Firenze, tutta una linea di ricerca svolta da loro. A questa linea di ricerca potrebbero essere interessati anche gli studenti di Storia direi, perché il riferimento storici e l’approccio storico è molto presente in questa linea di ricerca. 4. Paesaggio come processo di costruzione sociale: un esempio è quello che abbiamo appena visto sugli osservatori locali dei paesaggi, lì davvero si costruisce insieme la tutela, la valorizzazione del paesaggio come responsabilità collettiva e quindi come obiettivo sociale che investe tutte le componenti sociali dai bambini agli anziani agli immigrati, qualunque componente sociale deve essere coinvolta in questo processo di costruzione sociale. Secondo una logica partecipativa, partecipazione ai processi decisionali. Per quanto riguarda il paesaggio ci possiamo fermare qui. Domanda studentessa sulla concezione del paesaggio (non si capiscono bene le sue parole essendo in aula). Risposta professoressa: siamo sul piano ontologico, alcuni lo concepivano come una parte di territorio, ma su questo c’è stato un eccesso di teorizzazione se vogliamo, di puntualizzazione negli anni 40-50-60, era veramente un tormentone diremmo oggi, una cosa anche eccessiva. Poi è proseguita nel corso del tempo e si sono espressi anche geografi di portata internazionale come Franco Farinelli, Giuseppe De Matteis, insomma è una linea di ricerca relativa a come possiamo concepire dal punto di vista geografico il paesaggio, in tutte le varie declinazioni perché poi ognuno ha dato la sua interpretazione ed è un po’ quello che abbiamo visto strada facendo per i deterministi era inteso in un modo, per i possibilisti in un altro, funzionalisti non lo consideravano proprio, poi c’è stata una svolta post-strutturalista che in Italia si è affermata grazie soprattutto a Congrow (?) al modo di leggere il paesaggio di Congrow (?) , poi i processi partecipativi, è indubbiamente una linea di ricerca continuativa nel tempo e non potrebbe essere altrimenti perché ovviamente i geografi riflettono sulle categorie concettuali della loro disciplina, paesaggio, regione, territorio. Categoria concettuale di SPAZIO. Passiamo ad un’altra categoria concettuale e cioè lo spazio. In ordine di tempo dovremmo parlare prima di luogo perché è il concetto di luogo ad essere stato ridefinito subito dopo quello di paesaggio, anzi prima nacora di quello di paesaggio, perché il concetto di luogo nasce e si sviluppa con la geografia umanistica soprattutto negli anni 70, però facciamo un po’ di salti più che altro perché il cocnetto di luogo va comunque letto in tandem, insieme a quello di spazio, tutta la geografia anglofona è tutta orientata su questa dialettica space-place. Anche qui richiamiamo brevemente alcuni momenti in cui lo spazio ha assunto interesse, rilevante interesse in geografia, in cui se n’è parlato in modo esplicito. Restando all’epoca moderna, dalla nascita della geografia in senso scientifico quindi dalla seconda metà dell’800, abbiamo già incontrato questo termine nel concetto di spazio vitale. Siamo nell’ambito del determinismo ambientale, l’ambiente naturale che determina le attività umane e quindi non c’è possibilità di scelta secondo il determinismo, si è talmente condizionati dall’ambiente, ovviamente ci sono delle civiltà, ci sono delle culture più avanzate e meno avanzate, ma i condizionamenti ambientali è come se segnassero il destino delle varie comunità insediate. Nell’ambito di questo modo di pensare i rapporti tra natura ed esseri umani, prende forma il concetto di (parola in lingua tedesca che è traducibile come “spazio vitale”) spazio vitale. Lo elabora Ratzel in riferimento alle specie vegetali e animali, ai suoi studi di biogeografia intendendo per spazio vitale lo spazio che serve proprio ai vegetali e agli animali per poter vivere, sopravvivere. Lui faceva riferimento in particolare agli studi di biogeografia quindi su base sempre evoluzionistica, per intenderci Darwin e l’evoluzione delle specie, quindi con un chiaro riferimento a tutti i postulati della teoria di Darwin: la lotta per la sopravvivenza, la selezione naturale delle specie, vince il più forte, si mantiene in vita solo la specie più forte e in grado di superare i vincoli ambientali, ecc. Di questa definizione iniziale di Ratzel fu data una declinazione geopolitica: più tardi, non subito, fu estesa alle civiltà, alle culture umane, intendendolo come lo spazio di cui necessitano le civiltà per sopravvivere. Ratzel non era stato così categorico, aveva dato un accenno a questa analogia tra specie vegetali e animali e comunità umane. Chi invece estremizzò e strumentalizzò questa concezione fu Haushofer e una serie di altri personaggi che ruotavano intorno al nazismo perché questa idea di spazio vitale si prestava perfettamente a giustificare gli obiettivi espansionistici della Germania nazista. La Germania allora stava vivendo un momento di grande crescita demografica e le risorse evidentemente nono bastavano più, una potenza in crescita e quindi cominciò a pensare l’espansione verso est, in particolare, verso le popolazioni slave e quindi Cecoslovacchia, Polonia, Bielorussia, ecc. Sono argomenti che purtroppo oggi stiamo di nuovo attraversando, l’obiettivo della Germania era quello di arrivare alla Russia, voleva indubbiamente arrivare lì e pian piano creando appunto una zona di espansione progressivamente più ampia. Purtroppo, la Germania nazista spinse agli estremi questo concetto di spazio vitale e lo unì anche ad un discorso razziale proclamando con sedicenti teorie più o meno fondate questa superiorità della razza ariana per cui tutti coloro che erano slavi, ebrei, o comunque che non appartenevano a questa razza pura, questa presunta razza pura, dovevano essere appunto eliminati e da lì purtroppo la tragica pagina dell’Olocausto, oltre 6 milioni di ebrei sterminati appunto nei campi di concentramento. L’Italia come sappiamo fu alleata della Germania nazista, tra Mussolini e Hitler ci fu un’affinità d’intenti, ma l’Italia fascista non arrivò agli estremi della Germani ad Hitler e comunque le politiche espansionistiche erano molto più limitate e sono durate abbastanza poco, una politica estera colonialista molto più limitata, con minori prerogative. Fatto sta che questo è un capitolo un po’ scuro della geografia perché Haushofer non era solo un militare vicino agli ambienti nazisti, ma era anche geografo, insegnava geografia. Da lì nacquero tutta una serie di riviste e di attività che poi furono fortemente criticate e contestate. Una Geopolitica che nasce su basi molto discutibili ecco. Di più non so dirvi perché non mi occupo di geografia politica, qui un geografo politico saprebbe spiegarvi meglio di me quello che è successo, la scita e l’evoluzione della geopolitica, a noi interessa per il discorso che stiamo facendo focalizzare l’attenzione sul concetto di spazio vitale, il concetto di spazio in geografia si lega anche a pagine oscure, discutibili della storia europea e non solo. Un altro momento e anche questo lo abbiamo visto, ma lo ripetiamo brevemente, un alto momento in cui il concetto di spazio assume rilievo in geografia è durante il Funzionalismo o Geografia quantitativa o spatial analysis o Geografia neopositivista. Abbiamo detto che era una geografia nomotetica, che cercava di elaborare teorie e modelli di validità generale, in particolare legati alla localizzazione delle attività economiche, come se ci fossero delle leggi di validità generale per stabilire la localizzazione ottimale di un servizio commerciale, di un servizio postale, di un’attività agraria, però questo si cercava di fare a quel tempo. Una geografia nomotetica e predittiva, perché una volta che tu stabilisci le leggi che presiedono alla localizzazione di una certa attività puoi anche prevedere quello che può succedere, puoi avere un’idea su quale sarà l’evoluzione di quella attività. Tutto questo a differenza dei periodi precedenti in cui si faceva una geografia idiografica, descrittiva del particolare perché questo faceva il determinismo e ancora di più il possibilismo, descriveva nel dettaglio le singole regioni la geografia possibilista. La spatial analysis focalizza proprio sul concetto di spazio, ma che spazio è, come viene inteso? È uno spazio astratto, non esiste nella realtà. È uno spazio disegnato su un foglio di carta perché quello che occorre, ciò che serve è isolare astrattamente i fattori che incidono sulla localizzazione di un’attività economica. Quindi non serve lo spazio reale se devo trovare una legge, un modello di riferimento generale. Quindi è uno spazio astratto in quanto non corrisponde a nessun territorio reale, isomorfo cioè la stessa forma in ogni sua forma, morfologicamente uguale in ogni sua parte, e isotropo cioè con le stesse proprietà in ogni direzione, quindi ad esempio lo stesso costo dei terreni, la stessa accessibilità, ecc. Cosa non vera, non esiste un territorio piatto, neanche sui territori piatti esistono queste condizioni perché tutto dipende dalla configurazione dalle reti di comunicazione, di trasporto; quindi, l’accessibilità non può essere uguale in ogni territorio, così come i terreni non costano ugualmente su ogni parte del territorio, ci sono terreni che costano di più e altri di meno. Così come non esiste uno spazio isomorfo, potrebbe anche esistere ma non è isotropo. Se io qui al modello di Fountunain, quello sulla localizzazione delle attività agricole in prossimità di un centro abitato e quindi corrispondente al mercato, in realtà io intorno al centro i valori dei terreni sono più alti, pian piano che ci si allontana diminuiscono i valori dei terreni e non a caso appunto vengono adibiti a coltivazioni diverse, più pregiate nelle aree prossime al centro, cioè al mercato, meno pregiate quelle che sono nelle fasce più esterne, ma se io qui facessi ad esempio Alla fine, quello che auspica Soja si realizza perché difatti da allora esplode lo spatial turn: tutte le discipline aumentano il loro livello di attenzione verso la dimensione spaziale. Dalla critica letteraria, alla sociologia, all’antropologia, tutte le discipline sociali e umanistiche sono coinvolte d questo spatial turn. Edward Soja che appartiene alla Los Angeles School of Urbanism, insieme a Michael Dear, in contrapposizione alla Chicago School of Urbanism dove invece prevalevano le teorie moderniste, si erano sviluppate le teorie moderniste compresi tutti i modelli sulla città, ce n’erano tanti, come la città si espande, e la culla di questi modelli era proprio a Chicago. Non a caso è Los Angeles che acquista rilievo e importanza ma perché Los Angeles è un concentrato delle contraddizioni post- moderne, moderne diciamo. La Los Angeles di Hollywood e dei bassifondi, dell’immaginario e della realtà più cruda, della finzione e della realtà, del progresso e della ingiustizia sociale. La città emblema delle contraddizioni del capitalismo e non poteva che forse nascere proprio lì questa forte critica verso la modernità e tutti i suoi palinsesti. Abbiamo detto anche che Soja fa riferimento a diversi autori, diversi concetti chiave: sicuramente a Lefebvre per la sua produzione sullo spazio, il concetto di eterotopia di Michel Foucault che abbiamo già visto, il concetto hyperspace di iperspazio che Soja mutua da Frederik Jameson e in particolare abbiamo visto a suo tempo il Bonaventure Hotel, tutti i simboli che esso incorpora, proprio un esempio tipico della spazialità del tardo capitalismo. Ecco a proposito di tardo capitalismo qui è Antony Giddens che aveva scritto, sempre sul finire degli anni 80, che più che di postmodernità, postmoderno in realtà dovremmo parlare di tardo- modernità perché in realtà non siamo usciti dalla modernità, ci siamo ancora dentro, le nostre strutture, le organizzazioni, la nostra società ha ancora delle radici moderne. Per cui lui aveva proposto, Giddens sociologo anche lui, il concetto di tardo-modernità,ovvero l’ultima tranche di una modernità che si è portata dietro tante ingiustizie, diseguaglianze, miti non realizzati, tante contraddizioni. Per questo si parla di tardo-capitalismo della tardo-modernità. Altri riferimenti di Edward Soja sono Bhabha, Said, a proposito dell’ibridazione culturale, non so se avremo modo di parlare ancora di loro, basti dire che il concetto di cultura nel frattempo soprattutto da parte di antropologi e studiosi post-coloniali si apre sempre di più alla contaminazione culturale e a concepire le culture in forma ibrida: le culture sono sempre nate da incroci, innesti, contaminazioni, l’essenzializzazione delle culture è una procedura che è nata per obiettivi politici per sostenere il mito della nazione, la rivendicazione di un territorio, ma in realtà ogni cultura è il prodotto di tante culture perché tanti sono i contatti e le contaminazioni che sono state nel tempo e che provengono dal passato. Neanche noi possiamo parlare di una cultura italiana, tra gli arabi, longobardi, turchi, spagnoli, ognuno ha lasciato qualcosa di sé; quindi, anche la nostra cultura è il risultato di una serie di contaminazioni culturali. Fondamentale il riferimento per Soja anche alle teorie femministe e post-coloniali, in particolare di Spivak e di bell hooks, due studiose che hanno dato un contributo fondamentale, insieme a Judith Butler sono le punte d’eccellenza della teoria femminista. Spivak, di origine bengalese mi pare, non ha mai preso la cittadinanza americana, ma ha sposato un americano; bell hooks, che è lo pseudonimo di un’autrice femminista, mi ricordo solo che questo nome scritto in minuscolo riprende i nomi della mamma e della nonna ma non mi ricordo in quale ordine, comunque uno pseudonimo. Per quanto riguarda bell hooks è più riferita agli spazi intimi, ai vissuti intimi, femminili e femministi, mentre Spivak più sul piano postcoloniale se vogliamo, quindi il ruolo della donna nei ruoli subalterni per eccellenza nei contesti coloniali o postcoloniali quindi di più ampio respiro , parla di soggettività subalterne, coloro che vengono esclusi, subalterni intesi come persone, chiaro richiamo al marxismo o al post-marxismo chiamiamolo così che rimanda alla classe subalterna, un termine tipico del linguaggio marxista, queste soggettività questi gruppi e persone tradizionalmente esclusi dalla società, oppressi, marginalizzati, allo scopo appunto di dare loro voce. I gruppi esclusi anche dalle grandi narrazioni della modernità, queste grandi narrazioni che per rincorrere il progresso, lo sviluppo, il benessere, l’idea di avanzamento, in realtà hanno lasciato tutta una serie di gruppi sociali indietro, senza quasi considerarli. I riferimenti di Soja sono quindi complessi e diversi così come è composita la teoria postmoderna, che fa riferimento a tante cose diverse e mondi diversi e a tempi diversi anche. Abbiamo vinto il Bonaventure Hotel che è una commistione, un coacervo di stili architettonici diversi che rimandano a spazi e tempi diversi, epoche diverse, è così, il postmoderno si nutre di diversità e quindi anche dal punto di vista teorico. Questo per dire che Soja dal punto di vista teorico attinge da molti riferimenti, anche da Lefebvre da cui prende spunto Soja per proporre una nozione, quella di third space, letteralmente terzo spazio: in pratica lui apporta e prende spunto da Lefebvre, introduce anche qualche cambiamento. Il first space, il primo spazio è quello concreto che può essere visto, mappato, quantificato, quindi uno spazio che serve comunque per gli scopi della pianificazione e dell’organizzazione dello spazio stesso. Il second space, il secondo spazio appartiene all’immaginazione, alla concettualizzazione, alla rappresentazione; quindi, è simile allo spazio concepito di Lefebvre, ma non esattamente la stessa cosa, perché il second space è un mix tra spazio concepito e spazio vissuto di Lefebvre. Ad esempio, lo spazio che si immagina o si concettualizza e si cerca di rappresentare a proposito di un quartiere che si vuole riqualificare. A quel punto devi proiettare, devi immaginare come sarà questo spazio, che funzione e che configurazione avrà. Un mix di immaginazione concettualizzazione e rappresentazione. Il third space, il terzo spazio è un mix di tutto ciò, esattamente coerente con il discorso che fa Soja sul Bonaventure Hotel: lì parla di spazio concreto e immaginario, ibrido perché fatto di tante cose, stili diversi, loggia medievale e capitello dorico, giardino zen buddhista con qualche altro riferimento di qualche altra epoca e luogo, ibridità quindi nel senso pieno della parola. È uno spazio però anche dinamico, mai fermo ma sempre concepito in dimensione dinamica e vissuto con consapevolezza. Questa è la parte che innova più di tutti, perché lui dice il third space può essere lo spazio della consapevolezza e dell’azione collettiva e questo non è così presente nella concezione di Lefebvre. Lui dice “ok c’è uno spazio immaginario, uno concreto, uno concettualizzato, rappresentato ecc, ma tutto questo deve portare alla third space, un terzo spazio da immaginare e costruire, uno spazio di azione collettiva per costruire spazi altri, diversi da quelli del capitalismo, dei contro-spazi con nuovi significati. Qui c’è veramente il richiamo ad una geografia radicale intesa come impegno politico in prima persona, una chiamata alle armi se vogliamo da parte di Soja a tutti coloro che si possono fare artefici di cambiamento contro-capitalistico, quindi spazi altri, contro-spazi, con nuovi significati. Io chiuderei con questa slide che riporta le parole di Edward Soja che dedica un volume specifico al concetto di third space e lo pubblica nel 1996 e scrive: “nel terzo spazio ogni cosa va insieme, soggettività e oggettività, astratto e concreto, reale e immaginario, conoscibile e l’inimmaginabile, il ripetitivo e il differente, ciò che si ripete e ciò che si differenzia, struttura e agency (che però sono due concetti che poi vedremo), mente e corpo, consapevolezza e inconscio, disciplinare e transdisciplinare, vita quotidiana e storia infinita”. Tutto insieme, se metti tutto insieme deprivi ogni cosa della sua essenza, conferisci ricchezza di contenuti a ogni cosa, non la limiti solo a un aspetto, ma fa vedere la sua complessa polisemia. “Io definisco il Terzo spazio come un altro modo, un’altra strada, un’altra via di comprensione e azione per cambiare la spazialità della vita umana. Un modo distinto di consapevolezza critica spaziale che è appropriata al nuovo scopo e al nuovo significato essendo sviluppata lungo una trialettica ribilanciata e rielaborata di spazialità, storicità e socialità”. Spazio, storia e società che vengono rielaborati proprio in questo concetto di third space, così complesso, articolato, ibrido, mai definitivo sempre in divenire. Concependo lo spazio in questo modo si apre al cambiamento secondo Soja e non solo come vedremo. Sui concetti di struttura e agency ci torneremo, posso fare solo un rapido accenno adesso, sono due concetti che abbiamo già incontrato. Per agency si intende la capacità degli individui o dei gruppi di agire o di scegliere che ovviamente differisce di gruppo in gruppo. Per struttura si intende gli insieme di fattori che condizionano e limitano l’agency ad esempio la classe sociale, i ricchi hanno più capacità di agency possono muoversi più liberamente fare più scelte rispetto ai poveri, il genere indubbiamente le donne sono da sempre più svantaggiate rispetto agli uomini, l’etnia certe etnie sono vittime di pregiudizio e non hanno le stesse possibilità di altre, la razza anche qui conosciamo quanta storia di razzismo ha impedito a tante persone di esercitare le proprie capacità o di accedere all’università o ad una vita migliore solo per il colore della propria pelle, la disabilità, l’obesità sono altri fattori che possono limitare la capacità di agency, la capacità di agire e di scegliere. Giddens, quello che aveva parlato di tardo-modernità, sociologo anche lui, ha specificato che in realtà agency e struttura sono entità che si costituiscono reciprocamente; quindi, la struttura indubbiamente condiziona l’agency però anche diciamo i singoli individui possono creare una nuova struttura, come dire, qui si rimanda sempre alla possibilità che hanno i singoli gruppi di reagire e quindi di farsi artefici di cambiamento, quindi sì la struttura condiziona, l’insieme dei fattori sociali limitano l’agency però l’agency nello stesso tempo può essere conquistata, acquisita, magari con sforzo anche, con sacrificio, con la lotta, con la resistenza, per cambiare gli stessi fattori e la stessa società. Quindi bisogna leggerle sempre un po’ insieme agency e struttura. LEZIONE 13 Continuiamo a vedere il concetto di spazio e arriviamo a David Harvey perché insieme a Dorin Massei sono coloro che hanno più di tutti contribuito alla sistematizzazione del concetto di spazio. Harvey geografo famoso di radice marxista ha riformato anche il materialismo marxista facendolo diventare materialismo dialettico cosa che in realtà aveva già fatto Hegel, però lui gli da un taglio geografico. Massei geografa britannica, anche lei una delle voci più importanti della geografia di tutti i tempi che ritroveremo anche nel concetto di luogo, ha dato un contributo fondamentale al concetto di luogo e l’ha emancipato dalle impostazioni della geografia umanistica. Si deve a Harvey la formalizzazione del concetto di spazio che lui distingue in tre tipologie principali: lo spazio assoluto, lo spazio relativo e lo spazio relazionale. Qual è lo spazio assoluto? È lo spazio della geografia tradizionale, della geografia per intenderci determinista, possibilista, funzionalista. È uno spazio fisso immutabile. Presuppone una differenza fra oggetto e soggetto, il soggetto sta qui e l'oggetto, lo spazio sta lì qui si può descrivere oggettivamente, obiettivamente. È lo spazio proprio cartesiano quello che è praticamente concepito come una sorta di contenitore, una sorta di scenario di teatro, ove i fatti avvengono e le cose si distribuiscono. Quindi è uno spazio concepito alla vecchia maniera, ove le distanze ad esempio sono misurate in termini chilometrici. Quindi lo spazio delle carte geografiche tradizionali, ad esempio, quelle che troviamo anche negli atlanti. Uno spazio, quindi, euclideo basato appunto sulla geometria euclidea su Newton, su Cartesio, sul positivismo, oggettivista, razionalista, quello Non tutti i gruppi e non tutte le comunità hanno la stessa capacità di costruire lo spazio quindi entra in gioco il concetto di agenzia intesa proprio come capacità di individui o gruppi di agire, di scegliere e ci sono tanti gruppi sociali, tanti individui che non hanno questa capacità di scelta e sono di fatto esclusi e non possono scegliere e quindi non possono neanche intervenire nei processi di costruzione dello spazio, non hanno voce, sono gli esclusi dalla società. Bisogna tener conto anche di chi sta costruendo quello spazio, chi ha la capacità di costruirlo, di far sentire la propria voce e chi no. Legato al concetto di agenzia c’è anche il concetto di struttura (sociale) cioè l'insieme dei fattori che condizionano o limitano l'agenzia può essere la classe sociale e sicuramente le classi sociali più svantaggiate non hanno possibilità di scelta e di azione come quelle abbienti o medio borghesi in genere perché i maschi sicuramente sono facilitati in questa società, a tante donne non è permesso, non è concesso. Arriviamo proprio a Dorin Massei, qui accenniamo un ragionamento che fece a proposito dello spazio. Dorin Massei è intervenuta a riformare il concetto di spazio e anche quello di luogo, come Harvey del resto, ma chi ha parlato di spazio soprattutto in ambito anglofono si è poi occupato anche di luogo, Space and Place. La dialettica è maturata intorno a questi due concetti e Massei a proposito di spazio fa un ragionamento di taglio epistemologico mettendo un po’ a confronto la storia con la geografia. A un certo punto lei dice il problema della concezione moderna del mondo sta proprio nella dicotomia tra tempo e spazio che si è protratta per tanto tempo derivando da Kant. Ma la storia deve occuparsi dei fatti, la geografia deve occuparsi delle cose e quindi di come sono disposte nello spazio stesso. Quindi il tempo è inteso in senso processuale, come processo e lo spazio invece come struttura, come fissità, cioè come assenza di processo. Da qui secondo Massei è derivata l'idea moderna, tutta moderna, di processo come storia e di spazio come geografia. Praticamente la storia doveva studiare i processi, il cambiamento ma un cambiamento orientato però l'abbiamo detto in una sorta di tunnel del tempo, dal passato si proietta nel presente, va nel futuro ma nella medesima maniera, senza cambiamenti sostanziali. Quindi la storia è come un divenire ma senza cambiamento, senza modifiche sostanziali. La geografia invece doveva essere sincronica, come appaiono le cose, come sono fatte, come si dispongono nello spazio. È qui che è nato il problema e la geografia sostanzialmente era solo deputata a descrivere l'apparenza delle cose. Non ci si era posti proprio un problema di come abbiamo concepito lo spazio, come abbiamo concepito il tempo e come abbiamo raccontato il mondo. Quindi la geologia non può essere solo sincronia, non può essere solo descrizione apparente dello stato delle cose nel momento in cui vengono descritte, dobbiamo interessarci anche noi di quello che sta maturando nei luoghi, che sta cambiando, che si sta trasformando. È proprio questa la nozione di spazio relazionale, è importante proprio perché congiunge e incorpora spazio e tempo e quindi lo spazio viene inteso come dinamico, fluido, mutevole, suscettibile di cambiamento. Il concetto di luogo è l'altro cardine della riflessione anglofona, tutto incentrato sullo Space Place, spazio – luogo. Vengono intesi in termini dialettici che vuol dire confrontando delle nozioni e concezioni opposte. Lo spazio inteso come contesto indifferenziato, generico, astratto ma anche il luogo è uno spazio significante che genera significati, che è in grado di sollecitare dei significati e che è dotato anzi più che dotato. Se dico dotato posso cadere nelle essenzialismo investito di qualità distintive cioè a cui sono attribuite delle qualità distintive e quindi il luogo non è uno spazio qualsiasi, è un luogo che assume il significato e che generalmente viene letto sempre in termini di affettività, emotività, attaccamento, memoria, identità. Si porta dietro un sacco di concetti paralleli, il luogo possiamo intenderlo naturalmente come il contesto materiale del nostro quotidiano perché comunque stiamo sempre parlando di qualcosa di reale, di concreto, uno spazio che esiste insomma nella concretezza ma è anche lo spazio degli affetti, della memoria, dell'appartenenza e quindi nel concetto di luogo c'è una dimensione cognitiva ma c'è anche una dimensione affettiva. Nella nostra vita quotidiana per vivere nel contesto materiale del nostro quotidiano abbiamo bisogno di usare la ragione. Ma nello stesso tempo in questa pratica cognitiva richiede la nostra razionalità, in realtà ci mettiamo anche magari degli affetti, perché lo spazio lo viviamo anche. Non esiste un riferimento preciso quando spontaneamente così di primo acchito saremmo portati a pensare che il luogo è qualcosa di locale, di ristretto e invece non è così. Potrebbe essere anche una nazione, ad esempio, una nazione è un luogo ma è fondamentale però per la definizione del sé individuale e collettivo quindi è una parte fondamentale della nostra identità. C'è un'identità di luogo, ad esempio, come dicono gli psicologi sociali, cioè ciascuno di noi ha una sua identità di genere, di classe sociale, di provenienza geografica, non necessariamente legata al luogo di nascita con cui potrebbero non esserci legami, ad esempio, ma un contesto in cui si è vissuti o un contesto in cui si vorrebbe vivere. L’identità di luogo è fatta da luoghi a cui siamo più legati affettivamente e tutto questo concetto di luogo entra nella dimensione del se, cioè nella propria identità individuale e collettiva. Quindi, il personale gruppo di appartenenza comunica chi siamo, è il logo che di fatto si porta dietro una serie di connotazioni e induce a riflettere sul nostro stare al mondo, perlomeno come prospettiva dalla quale stiamo parlando: europeo, occidentale, classe media, maschile e femminile, eccetera. Oppure possiamo ragionare in modo diverso, da una prospettiva che non tiene conto di queste dicotomie cartesiane e quindi è consapevole del punto di vista da cui osserva. Al luogo sono spesso associati valori politici e culturali, politiche di pro-attenzione, conservazione e tutto ciò che riguarda la diversità, i discorsi sulla memoria e sull'identità. Quindi sono tante le dimensioni che entrano in gioco quando parliamo di luogo, valori di luogo ovviamente, valori politici e culturali, valori culturali perché di fatto ancora oggi nonostante la globalizzazione e l'esplosione delle comunicazioni virtuali dei social, i luoghi mantengono delle specificità e quindi dei valori e sono espressione di valori locali differenti, di luogo nuovo. C'è un antropologo che a proposito dei non luoghi, arriva a definire i non luoghi partendo dai luoghi. Che cos'è un luogo antropologico dal punto di vista antropologico? È una costruzione simbolica e concreta e al tempo stesso dice che è un significante per chi lo abita e nello stesso tempo è uno spazio connotato. Connotato per chi lo osserva. Qui c’è in gioco il discorso dell'identità, l'identità che ha una funzione di coesione, di appartenenza e che nello stesso tempo comunica all'esterno una data specificità. Il luogo è parte costitutiva del discorso identitario, attraverso il luogo una comunità si riconosce e si fa riconoscere. Nel momento in cui si crea un'identità si crea anche una diversità ma nello stesso tempo si comunica anche all'esterno, nel mondo esterno. Il luogo è molto legato alla dimensione dell'abitare che è un termine su cui si è focalizzato gran parte del dibattito scientifico soprattutto negli anni 90 e 2000, ricorreva molto spesso questo riferimento all'abitare in senso responsabile, consapevole. La riflessione interdisciplinare era molto centrata su questo termine mentre adesso un po’ meno. Se il luogo è uno spazio relazionale, identitario, storico e non luogo è uno spazio non relazionale, non storico, non identitario, sostanzialmente non abitato (a proposito dell'etica dell'abitare che ci dovrebbe spingere a comportarci in modo responsabile nei confronti dei luoghi): questi sono spazi che non sono abitati, sono luoghi di transito, sono normati da regole interne e di cui si è fruitori o clienti generalmente. Quindi l’Autogrill, centri commerciali, stazioni ferroviarie, aeroporti, autostrade e quant'altro sono spazi che appunto oggi si definisce come segnati da provvisorietà, precarietà, individualismo. Sull'Italia spesso e volentieri in questi luoghi siamo da soli e guarda caso la nostra identità deve essere in qualche modo riconosciuta attraverso un documento, altrimenti non siamo neanche riconosciuti. Sono, quindi, luoghi di transito per eccellenza. Però anche i luoghi, a volte, possono essere luoghi per determinati gruppi o per determinate persone. In geografia come è concepito oggi un luogo? Facciamo un salto perché poi dopo lo ripercorriamo momento per momento. È un concetto poroso. Poroso significa che non è stabile, non è fisso, non è assoluto, assume diverse declinazioni di significato e il riferimento comune all'esperienze, ai significati, ai vissuti e quotidiani. Il luogo ha sempre in qualche modo una componente affettiva esistenziale. Il luogo inteso come prodotto di pratiche, di esperienze e di vissuti quotidiani che si formano proprio grazie all'esame delle persone. Quello che io costruisco a Roma o in un quartiere di Roma non avrebbe lo stesso senso, lo stesso significato. Si è costruito altrove magari e quindi è un qualcosa che chiama in causa memoria, affetti vissuti individuali, emozioni, ricordi, eccetera… che ognuno di noi stabilisce con uno o più luoghi. Il luogo è un prodotto di pratiche oggettivate, pratiche esistenziali, pratiche affettive, pratiche memoriali che coinvolgono la dimensione esistenziale. Nella geografia strutturalista cioè il determinismo, il possibilismo, anche il funzionalismo (che l'ha proprio scordati i luoghi) la geografia addirittura era definita come la scienza dei luoghi, cioè il termine veniva utilizzato, però non era chiarito, non era definito, cioè si usava così quasi come sinonimo di spazio, di paesaggio. Ma il termine non è stato mai formalizzato nella geografia strutturalista e quindi c'era un vago riferimento ai caratteri oggettivi, distintivi e irripetibili di ciascuno territorio, di ciascuna porzione, di superficie terrestre (una porzione di superficie terrestre, identificabile) ma senza nessuna definizione, nessun chiarimento sulle relazioni tra le persone. Le comunità insediate e il luogo stesso è così un aggettivo, una o un nome, un sostantivo non meglio specificato. Nella geografia funzionalista il luogo sparisce proprio, non se ne parla proprio più. Si parla, infatti, di localizzazione – posizione (quello che i colleghi anglofoni chiamano location), quindi, l'uomo inteso come posizione geografica e come localizzazione rispetto a un contesto più ampio. Del resto, abbiamo visto che la geografia quantitativa ha umiliato il discorso geografico notevolmente, cioè sparita la nozione di ambiente, sparito il territorio concreto, reale con le sue caratteristiche, con le sue storie, con i suoi caratteri ambientali. sparisce il concetto di luogo e diventa veramente una geografia quantitativa. Questa geografia ha tentato di diventare scientifica, asettica, utilizzando un linguaggio duro. Abbiamo visto che è anche fallita piuttosto rapidamente e chi cambia le cose a partire dagli anni 70? È la geografia umanistica ancor più del geografia della percezione, perché la geografia della percezione ha lavorato soprattutto sui concetti di regione e di paesaggio. In Francia ha cominciato a parlare di luogo e di spazio vissuto, ma nell'ambito della regione o del paesaggio chi invece cambia e focalizza l'attenzione del concetto di luogo è la geografia umanistica e la geografia umanistica. Per la prima volta si definisce il concetto di luogo e il concetto di senso del luogo “plays sense of place” indicandolo come un legame esistenziale con i luoghi. Facendo riferimento a questo legame importante che abbiamo con i luoghi, se la geografia si occupasse di pensare a quello che avveniva dentro “gli esseri umani”, era del tutto orientata sul fuori. Aut il territorio che sta lì. Questi delle geografie soggettive rovesciano un punto di vista e cominciano a esplorare i mondi interiori e quindi il legame esistenziale con i luoghi (parola chiave in questo caso è esperienza). È la parola chiave proprio della geografia umanistica in termini di sentimenti, di emozioni, di attaccamento ai luoghi. Abbiamo visto nella precedente parte del corso che questa è una geografia che nasce in risposta critica alla geografia analitica. La geografia non può non tenere conto di quello che accade nei luoghi realmente e di quello che significa legame con i luoghi. Non siamo solo esseri irrazionali che pianificano le proprie attività sociali, economiche, in termini così prevedibili. C'è tutto un universo Esistono due tipi di luoghi: i simboli pubblici che sono quelli importanti, rilevanti, alle cui spalle c'era una storia importante, sono evidenti alla vista, stimolano attenzione, talvolta soggezione, campi emozionali. Possono essere anche degli spazi che non hanno nulla di rilevante dal punto di vista storico, artistico, architettonico, eccetera… ma sono importanti per individui e collettività appunto perché sollecitano un’affezione, appartenenza. Quindi, torna anche il discorso della capitale. Generalmente le persone che abitano il luogo, dovrebbero provare questo tipo di affezione per i luoghi. Concludiamo la lezione di oggi con questo brano tratto da un articolo pubblicato dal geografo nel 1977. Dice: “lo spazio aperto non ha un modello fisso”, non ha un significato stabile o fisso, ed è come un foglio bianco su cui il significato può essere impresso. Quindi lui equipara lo spazio aperto a un foglio bianco. “Close your eyes place” il luogo è uno spazio chiuso, lo intende con uno spazio chiuso e umanizzato e in confronto allo spazio il luogo è un centro calmo di valori stabiliti. Quindi c'è lo spazio e l’alienazione, mentre il luogo è qualcosa di stabile dove ci si può sentire protetti perché si basa su valori a stabiliti, fondati che gli esseri umani richiedono, sia lo spazio che il luogo, sia le vite umane sono un movimento dialettico tra scelta e rifugio. Torna l'idea di luogo come spazio in cui sentirsi a casa per sentirsi protetti, al sicuro al riparo dal mondo. In realtà noi abbiamo bisogno (come esseri umani) sia dell'avventura quindi di spingerci verso spazi che non conosciamo, spazi aperti e sia di spazi che ci proteggano e ci facciano sentire al sicuro. LEZIONE 14 - 21 APRILE Stavamo parlando di luogo, altra categoria concettuale sottoposta a modifiche a seguito della svolta culturale in geografia. Ripete brevemente quello che avevamo detto la scorsa lezione, tanto per riprendere le fila del discorso. Abbiamo detto che il concetto di luogo, così come i concetti correlati appartenenza, radicalmente ecc. vengono elaborati proprio nell’ambito della geografia umanistica negli anni 70, quindi la geografia umanistica ha dato un contributo fondamentale ai successivi sviluppi della nuova geo. Culturale e umana in generale. La geografia umanistica è stata la prima che ha definito il luogo, perché prima di allora il concetto idi luogo era usato un po’ come sinonimo di paesaggio/regione/territorio, non aveva una sua connotazione ontologica. Si tratta di una serie di ragionamenti sul legame che intercorre tra le persone e i luoghi. La parola chiave è esperienza, in termini di sentimenti, emozioni, radicamento. Uno dei protagonisti della geografia umanistica è Yi-fu Tuan , geografo di origine cinese, poi stabilitosi negli stati uniti, docente universitario che ha cominciato a distinguere lo spazio e i luogo e così facendo ha dato avvio a tutta a serie di riflessione che poi sono scaturite su questa dialettica space- place. Dice che se lo spazio è un contesto indifferenziato generico, astratto, il luogo è uno spazio significante, importante per le persone, perché è investito di significati profondi, di memorie, di affetti, è fonte di sicurezza. Più precisamente definisce il luogo come “ a centre of meaning “ costruito dall’esperienza. Lui ritiene che il luogo sia composto da personalità e spirito, ogni luogo ha una sua personalità e un suo spirito. Con personalità intende le caratteristiche uniche che connotano ogni luogo, con spirito qualcosa di non meglio identificato che conferisce allo spazio stesso sacralità, quasi un timore reverenziale, quasi una sorta di rispetto. Il luogo per essere tale però deve essere stabile e quando parla di stabilità si riferisce sia alla stabilità materiale che alla stabilità di significato, e sarà proprio questo che gli attirerà critiche . Per senso del luogo invece si riferisce all’attaccamento emotivo al luogo, quindi siamo nel caso di una soggettività, quando le persone applicano giudizi estetici a siti o località;il senso del luogo richiede tutti i sensi implicati, quindi la vista, l’udito, l tatto, l’olfatto ecc perché si tratta proprio di capire, sentire e apprezzare il luogo, questo può avvenire solo se il luogo mantiene le sue forme e i suoi significati. Rischia, come queste affermazioni, di cadere nell’essenzialismo e nel culturalismo. Essenzialismo si ha ogni volta che si attribuiscono delle qualità intrinseche a una data cosa, entità materiale o immateriale, che viene così concepita per quello che è, come se determinati concetti fossero definibili per un significato assoluto, univoco e stabile, ma così non è perché tutto cambia. In più c’è il rischio di cadere nel culturalismo, che consiste nel’attribuire qualità specifiche a gruppi sociali, etnici razziali ecc e questa è la strada praticamente per la creazione di stereotipi che creano divisioni e emarginazioni. Yi-fu-tuan distingue due tipi di luoghi: i simboli pubblici e campi emozionali. I simboli pubblici sono quelli evidenti alla vista, che stimolano talvolta soggezione, ad esempio i monumenti famosi ; i campi emozionale invece non sono necessariamente importanti o evidenti alla vista, ma possono essere dei luoghi che non hanno particolare rilievo artistico o storico, ma sono tali perché sollecitano affezione o appartenenza., quindi sono conoscibili solo con un ‘esperienza prolungata, quindi il tempo ha coordinata fondamentale nel ragionamento di Yi-Fu tuan; solo in questo modo è possibile sviluppare la topofilia, che sarebbe il legame affettivo tra le persone i luoghi (the affective bond) . C’è anche il suo opposto, la topofobia, l’avversione per il luogo. Brano d i Yi-Fu-Tuan che abbiamo visto rapidamente in cui si dice che lo spazio aperto non ha modelli di significato umano fissi o prestabiliti, è come un foglio bianco su cui il significato può essere imposto. Il luogo è uno spazio chiuso e umanizzato. Rispetto allo spazio il luogo è un fulcro calma di valori stabilità  fissità che dà sicurezza e dà il senso di casa, ricorre spesso il temine “ home”. Gli esseri umani richiedono sia lo spazio che il luogo, le vite umane sono un movimento dialettico tra avventura e riparo, attaccamento e libertà. Veniamo oggi a un altro protagonista della geografia umanistica, Edward Relph, che è se vogliamo allievo d YI-fu tuan e anche lui è un protagonista della geografia umanistica. Lui dice il luogo è determinante nell’esperienza umana, richiede attenzione anche perché la coscienza umana si forma sempre rispetto a un dove, quindi il luogo dove nasciamo e cresciamo è una parte significativa della nostra vita e sicuramente grazie a queste esperienze che maturiamo nei luoghi si forma la nostra personalità. Il luogo per Edward Relph è composto da tre elementi: 1. Ambiente fisico inteso come ambiente concreto 2. Attività umane che si svolgono in quei luoghi 3. Significati che si attribuiscono Rispetto a Yi-Fu-Tuan che basa tutto sull’astratto, Relph è più concreto. Senso del luogo è la capacità di cogliere e apprezzare qualità distintive dei luoghi, ciò che connota un dato luogo, che può essere connotazione ambientale, storiche, urbanistiche. Il testo di riferimento, se siete interessati ad approfondire, per Relph è “Place e Placelessness”.--> che cosa rende un luogo tale e cosa non lo rende. Insieme a Topofilia di IYi-Fu-tuan sono tesi ancora oggi citati sistematicamente, non solo in geografia ma anche nella psicologia ambientale e in altre discipline. Relph cerca di entrare ancora di più nel senso del luogo identificando 7 tipologie di senso del luogo: 1. Existential insideness  massimo livello di radicamento al luogo, che coincide con il sentirsi a casa 2. EXISTENTIAL OUTSIDENESS ( le più citate)  sentirsi estraneo, distaccato da un luogo 3. Objective insideness  si riferisce al senso del luogo che provano i ricercatori che devono andare a fare una ricerca sul campo e sono anche costretti ad adottare un deliberato distacco,imposto dalla ricerca che stanno svolgendo 4. Incidental outsideneess -_> legata al’attraversamento, senso del luogo che possono provare i viaggiatori, è un attraversamento del luogo, non uno stazionamento Relf prende in considerazione che ci può essere un senso del luogo anche per chi si muove. 5. Behavioral insideness  si ha quando c’è da parte dei soggetti la volontà di coinvolgersi, di entrare a far parte del luogo, es. senso del luogo che provano i nuovi abitanti, che cercano di coinvolgersi nella conoscenza del luogo 6. Empathetic insideness più deliberato coinvolgimento, quando ad esempio i nuovi abitanti cominciano a partecipare alle attività delle associazioni locali 7. Vicaroius insideness coinvolgimento indiretto che si può provare ad esempio leggendo un romanzo o ammirando un dipinto o guardando un film. Indiretto perché è un’esperienza mediata da una forma comunicativa, ma comunque chiama in causa ugualmente un coinvolgimento, un senso del luogo. Sono tante le tipologie elaborate da Relph. Di tutte queste generalmente sono molto citate le prime due,le altre un può meno. Ricercatore israeliano che ha rielaborato queste tipologie di senso del luogo applicandole al caso degli studenti ebrei residenti in Canada. La ricerca empirica in ambito umanistico è molto rara. Un altro geografo umanista, Porteous, nel 1985 ha elaborato 4 tipologie di senso del luogo, basate su due coppie di opposti 1. Home- away 2. Insideness- outsideness Home-insideness è il radicamento più profondo, home-outsideness è quando si sta in un luogo ma con un senso di imprigionamento, es. coloro che non hanno la possibilità di cambiare casa . Le altre due casistiche sono away – insideness quando si ha un senso di estraneità, non si ha un senso di radicamento de luogo, si spera di andare altrove e si prova curiosità verso l’altrove. Away- outsideness è lo sradicamento totale, tipica dei clochard. Porteous è anche quello che per primo ha formalizzato i concetti di soundscape- smellscape ecc nel suo libro “Landascape of the minds “ 1985 e poi nel 93 in cui esamina il paesaggio sonoro ad esempio, perché l’esperienza dei luoghi si fa attraverso i sensi. Il paesaggio è fatto anche di suoni particolari, non è solo vista, es. le campane, il rumore dell’acqua, il traffico. Smell scapes = paesaggi olfattivi, perché a volte i paesaggi si connotano attraverso gli odori. Esistono anche i paesaggi tattili, legati al toccare, le pietre, i monumenti, sentirne la consistenza (touchscapes, termine riferito anche alle insegne per i non vedenti). Tastescapes = paesaggi del gusto, i sapori che si possono riscontrare in determinati luoghi, sono una componente importante del paesaggio. Body scape= Porteous lo accenna, poi sarà ripreso dalla riflessione post strutturalista, inteso come luogo al livello più alto  il corpo umano, ognuno di noi, costituisce un luogo. La riflessione sul corpo è un po’ più complicata, richiede uno spazio più ampio per essere trattata. In riferimento poi a tutta la riflessione sul corpo che maturerà più tardi rispetto a questo, Porteous è stato un innovatore. Alla Pred è un geografo, anche lui statunitense che ha radici nel materialismo storico, di provenienza radicale. Lui si è occupato di molti argomenti, in particolare ha approfondito il concetto di luogo, che considera come un processo storico contingente. Lui mette l’accento sul divenire, dobbiamo considerare il luogo come un processo di continuo mutamento, quindi contingente, transitorio uno spazio in divenire mai stabile nei suoi significati. Siamo all’epoca di David Simon più o meno, quindi lui sviluppa in maniera più profonda. Lui è di derivazione radicale. Sottolinea un fatto importante, che in realtà questi mutamenti dei luoghi sono anche nell’arco di una giornata: es l’esterno di una scuola o uno stadio. Enfatizza la dialettica luogo-pratica. Quando si parla di dialettica siamo nell’ambito della riflessione radicale, e in quanto tale Pred, proprio perché considera le riflessione della geografia umanistica ma le legge in chiave dialettica, effettua un’interpretazione dei luoghi attraverso le pratiche sociali ma anche le relazioni di potere (campo d’indagine della geografia radicale). Alla fine di tutta questa riflessione di Allan Pred, è importante una cosa, lui parla di relazioni di potere, ma allora di chi sono i luoghi? Questo aspetto in particolare, il tema del conflitto e delle relazioni di potere, sarà poi sviluppato dalla geografia critica. LEZIONE 15 -26 aprile Si prosegue con il concetto di luogo, e vengono analizzate le critiche rivolte alla geografia umanistica, sia da parte della geografia femministe che quella radicale (quella di provenienza marxista). Viene accusata di essere universalista, per cui una geografia che fa riferimento a temi generici; è conservatrice perché si rifà ad un passato, sembra quasi che i luoghi del passato fossero migliori come poi anche i valori; ignora le differenze ed i conflitti sociali, come se venissero prese in considerazione solo le connotazioni esistenziali; i luoghi visti come casa e come rifugio, evocazione autenticità- termine che viene messo in discussione proprio dalla geografia radicale e femminista perché può essere effettivamente un riferimento esistenzialista-; criticata per la sua retorica romantica e quindi anche reazionaria come se volesse normalizzare i conflitti; ideologia della piccola patria quando si parla del luogo come ambito di vita dove c’è coesione culturale; senso del noi in contrapposizione a quello del voi, lo stare dentro i luoghi o fuori i luoghi. Queste dicotomie cartesiane sono state messe fortemente in discussione dalla geografia post- strutturalista e radicale. Quest’ultima le ha utilizzate, ma principalmente in chiave dialettica mettendole a confronto. La geografia femminista ha attaccato fortemente la geografia umanistica in riferimento al luogo; in quanto il luogo non è sempre sentimento, appartenenza ecc. ma anche un prodotto sociale, e in quanto tale è denso di conflitti e di lotte di potere. In particolare, la geografia femminista di Gillian Rose ha contestato l’idea di luogo come casa, che nelle pagine dei geografi umanisti rispecchia una concezione maschilista. Questo perché la casa tradizionalmente, soprattutto a quei tempi, negli anni ’70, era il regno delle casalinghe. In quegli spazi domestici, ancora oggi, si verificano però violenze. Questa riflessione Gillian Rose la estende ai diversi e quindi a tutti coloro che hanno poca capacità d’azione. La geografia critica concepisce il luogo come un processo di costruzione sociale in cui entrano in gioco in modo importante le questioni politiche e culturali. Questi processi orientano le pratiche quotidiane, generando forme di oppressione e dominio e limitano la capacità d’azione dei gruppi svantaggiati. La sua è un punto di vista politicamente orientato, ricolto a focalizzare l’occasione sul conflitto, sugli squilibri. Un esempio può essere la mobilità delle donne in orari notturni, oppure la possibilità di manifestare nelle piazze; il diritto della polizia di fare accertamenti in base ai luoghi. Nel dibattito sul luogo, bisogna menzionare un geografo statunitense, Agnew, che sul finire degli anni ’80 ha anche lui detto la sua sui luoghi. Secondo lo studioso quando si parla di luogo ci si può riferire a tre concetti diversi strettamente interconnessi: può riferirsi alla posizione assoluta nello spazio, ad es. con le coordinate geografiche; può essere anche locale, ossia la dimensione materiale e sociale specifica di un determinato luogo es strade e piazze; ed infine luogo contiene anche i significati soggettivi che sono attribuiti a quel luogo, ossia il sense of place. Viene fatto l’esempio di BaghdaD. Sono state mosse delle critiche ad Agnew. Le relazioni sono ormai cambiate, soprattutto dall’800 in poi con l’industrializzazione, con l’urbanizzazione: il legame tra le persone è cambiato; in più sono da aggiungere le innovazioni tecnologiche nei sistemi di comunicazione: telefono, televisione, internet. Bisogna tener conto anche delle esperienze delle persone: il radicamento è sempre meno praticato, visto che ormai lo spostamento è dovuto a numerosi fattori, come il lavoro, lo studio. Se quindi la geografia umanistica resta ferma a delle percezioni e a delle sensazioni che legano le persone ai luoghi, la lettura che ne dà la geografia critica, è una lettura molto diretta. Dagli studi di psicologia ambientale, lavorando sul campo, emerge il fatto che in realtà il legame tra le persone ed i luoghi è un dato di fatto ed è un sentimento anche molto forte, che con il tempo aumenta addirittura. Il luogo, come le altre categorie concettuali della geografia, viene messo in profonda discussione. Questa revisione avviene ad opera della geografia radicale marxista che pian piano assume un’altra denominazione, ossia quella di geografia critica. Le basi sono sempre marxiste ma vengono revisionate profondamente: assunti abbandonati a favore di altri. Il geografo più noto in questo ambito è: David Harvey mettendo l’accento sulla dimensione sociale e politica dei luoghi piuttosto che su quella esistenziale ed emotiva (essendo questo non il campo di studio dei geografi). Secondo lui bisogna leggere i luoghi nella prospettiva capitalista, il che si contrappone al considerare i luoghi nella loro fissità (i luoghi non sono immutabili, bensì attraversati da cambiamenti dovuti al capitalismo). Harvey dice: i luoghi sono sottoposti al cambiamento sociale e costretti ad adattarsi. Harvey fa però anche un ragionamento opposto, perché i luoghi posso essere anche spazi di resistenza ala capitalismo: le grandi rivoluzione partono sempre da un “dove” e solo dopo si estendono su scala nazionale o globale. Anche i luoghi possono quindi mostrare resistenza al capitalismo; lui chiama questo processo militant particularism: un particolarismo militante. Quello che mette in discussione Harvey è proprio questa fissità del luogo, perché non corrisponde al vero e poi perché questa retorica del comunitarismo rischia di creare di nuovo le spaccature noi\voi, o l’esclusione di gruppi sociali (es. fenomeno della lega negli anni ’80 e ’90). Bisogna stare attenti a non cadere in un’ideologia localista: guadare i luoghi per quello che sono, ossia flussi di attraversamento. L’idea di luogo che intendono promuovere i geografi radicali e quella di luogo come processo di costruzione sociale che può essere costruito in modo alternativo da gruppi sociali che si fanno artefici di un cambiamento; per cui è possibile modificare i luoghi. Il luogo è prodotto, ma che origine, di processi politici e culturali, per cui bisogna tener conto che le pratiche quotidiane non sono innocenti: la cultura non è innocente, le nostre idee non sono innocenti perché hanno sempre un contenuto politico anche se inconsapevole. Costruttivismo VS Essenzialismo. Essenzialismo significa attribuire delle qualità innate, ossia ritenere che determinate “cose” abbaino delle qualità per natura, e quindi attribuirgli un significato stabile, immobile ed assoluto: ammettere che le cose non sono modificabili (es. Pregiudizio nei confronti delle donne, degli omosessuali, con disabilità fisica). All’opposto c’è il costruttivismo: le qualità delle “cose” derivano dai processi di costruzione sociale, ossia sono dei costrutti sociali come es. etnia, razza ecc.. tutto dipende per cui da come si racconta e si costruisce una cosa il cui significato è mutevole nel tempo; è plurimo perché fatto da prospettive diverse, ed è relativo. Da questo punto di vista il vantaggio del costruttivismo è quello di avere la possibilità di decostruire un costrutto sociale. Dal punto di vista scientifico sono tutte cose assodate, da quello sociale no. Una frase di Harvey a proposito dei processi di costruzione sociale: “Il luogo, sotto qualsiasi punto di vista, è come lo spazio e il tempo, un costrutto sociale. La sola questione realmente interessante da porsi è da quali processi sociali il luogo è costruito”. Chi partecipa alla costruzione del luogo? Questa è una domanda fondamentale: partecipano tutti o una parte? La progettualità va contro qualcuno? Agevola qualcun altro? I luoghi sono sempre attraversati da logiche di potere, aspetto già analizzato da Foucault. Il potere è ramificato in qualsiasi dimensione umana. I significati dei luoghi sono costruiti socialmente, ma in base ai luoghi, ai simboli, ai significati di chi? I luoghi sono sempre contesti, sono dei campi di battaglia, e farne le spese sono sempre i più deboli, quelli su cui gravano dei pregiudizi, i più poveri ec. Anche il contributo di Doreen Massey è stato fondamentale nella rielaborazione de concetto di spazio e luogo, insieme a Harvey (loro sono i due principali studiosi). Secondo lei il luogo è una costruzione sociale, e su questo è d’accordo con Harvey; è un processo in continuo cambiamento in accordo con Harvey. Lei però apporta delle riflessioni originali rispetto ad Harvey: sia nel concetto di luogo che di senso del luogo. Parte da un’idea di luogo come punto di intersezione tra infiniti flussi globali. Per lei è impossibile concepire i luoghi nella loro fissità, e non è possibile un’identità unica dei luoghi, ma dipende dall’osservatore e dal contesto. Un libro tradotto nel 2001, ma edito qualche anno prima in lingua originale molto importante è “Luoghi, culture, globalizzazione” di Massey e Jess. Mette in mezzo la questione dell’ingiustizia sociale. Nel libro sono riportati molti esempi pratici, uno di questi è quello della Valle del Wye, in Inghilterra. È un’area di eccezionale bellezza, per cui un’area rilevante dal punto di vista estetico ed ambientale. In questa valle ci sono una serie di antiche fattorie, tra le quali la Pilstone Fram che risale al secolo XV. Su questa fattoria si sono scatenate due opposte fazioni per deciderne il futuro. Il conflitto era tra i vecchi residenti, che avrebbero voluto una ristrutturazione della fattoria per dare avvio ad un processo di sviluppo locale; i nuovi arrivati volevano la conservazione dei caratteri locali, non volevano cambiare i connotati rurali del posto. Alla fine si scatena questo dibattito che assume toni anche molto accessi, e il consiglio comunale approva il piano turistico, e quindi inizia la trasformazione di questo luogo. LEZIONE 16 di giovedì 28 maggio 2022. Illustrando un ulteriore caso di studio, ricordiamo questo testo di Doreen Massey e Pat Jess, Luoghi, Culture e Globalizzazione, pubblicato nel 2001 (in realtà l’originale risale addirittura al 1995). estremamente rischioso per i motivi che dice Doreen Massey. Se noi invece poniamo il territorio come elemento di condivisione trasversale a tutti i gruppi sociali e culturali che lo abitano, tutto assume un significato diverso, diventa qualcosa che unisce status sociali, provenienze e generazioni diverse, (ecco perché nel 2008 abbiamo fondato il gruppo di ricerca nazionale chiamate Identità territoriali). Quando D.Massey scrive che la Globalizzazione non si combatte con il radicamento nei luoghi, dobbiamo ricordare come lei è di radice marxista ed è molto simile a David Harvey nel contestare il capitalismo in tutte le sue forme. Il radicamento comunitario e l’idea che i luoghi debbano essere espressione di attaccamento, radicamento culturale, è estremamente pericolosa; occorre trovare un’altra strada. E quindi dice che in effetti l’identità dei luoghi è definita dalle interazioni con il mondo; lei vede i territori (in ambito anglofono si riflette sul concetto di luogo e spazio, mentre noi in Italia riflettiamo sul concetto di territorio) come definito dall’interazione con il mondo: il territorio è sempre più attraversato da flussi globali, economici, di comunicazione, di informazione, di merci, di persone e quindi non possiamo considerare il luogo per quello che è stato, o limitatamente a quello che avviene di locale in un determinato luogo; dobbiamo immaginarlo sempre come punto di intersezione di flussi globali. In un mondo globalizzato con un crescente flusso di materiale (anche grazie ai social), in un mondo sempre più interconnesso bisogna dunque considerare il luogo sì per quello che avviene a livello locale, ma anche e soprattutto per il tipo di reazioni che intrattiene con altri luoghi. Quindi l’identità di luoghi è definita alla fine dal modo in cui le diverse identità si intrecciano in luoghi specifici. Dobbiamo considerare la diversità insita dei luoghi e non possiamo considerare il luogo come entità chiusa e autoreferenziale perché non è così. Questa è la realtà comprovata anche nel paesino più sperduto raggiunto da internet. Viviamo in un mondo globalizzato e interconnesso in ogni dove. Dobbiamo capire che relazioni stabiliscono i luoghi con una serie di referenti, attori e situazioni di livello globale. I luoghi contengono molteplici identità sociali e culturali, sono un crocevia. Anche le relazioni di potere e i conflitti sono tran scalari; le decisioni prese altrove si ripercuotono nei luoghi più sperduti (basti pensare alla guerra fra Russia e Ucraina, alle riserve di gas). Anche i luoghi sono soggetti a conflitti e relazioni di potere a più scale geografiche. C’è bisogno allora secondo Doreen Massey, non di un sense of place riferito a un locale come casa sicura e di protezione, ma di un “global and progressive sense of place”: - progressivo che punta ad evolversi in senso dinamico, che non resti focalizzato sul locale e che rimandi a un’idea aperta relazionale, ibrida e porosa del luogo, a uno spazio relazionale. D. Massey è nota per aver portato diversi contributi alla geografia; il suo concetto più originale è proprio questo global sense of place che sembra quasi un ossimoro, una provocazione proprio perché vuole combattere l’idea di luogo chiuso, limitato e troppo riferito al locale; D.Massey vuole aprire la mente e vedere come il luogo ha considerazione con il globale e il nostro senso del luogo ugualmente deve avere un senso del globale. Questa citazione 2010 è tra le più recenti; D. Massey è venuta a mancare improvvisamente nel 2012. “Lo spazio è la dimensione della differenza coesistente (…) è sia una fonte di ricchezza (…), sia una sfida (…)”. Nella prima parte della città è più critica; non dobbiamo dimenticare che il capitale globale si arricchisce sulla differenza. A proposito di quello che dicevamo sullo spatial turn di Edward Soja che nel 1999 ha dichiarato che più che sul tempo, tutte le discipline si dovevano concentrare sullo spazio perché lo spazio attuale, contemporaneo, tardo capitalista, contiene la differenza ed è costruito su di essa e quindi in quanto tale va pensato in tutt’altro modo. Ecco perché è una “sfida” pensare lo spazio in questo modo, perché occorre affrontare la diversità delle idee di tante persone e trovare una soluzione condivisa. IL TERRITORIO Dopo aver ragionato dall’ottica anglofona torniamo in Italia. Cominciamo col dire che in Italia la cultura ha tutta un’altra accezione, per lungo tempo lo ha avuto anche a livello scientifico fino a che, piano piano, ci siamo estesi all’ambito anglofono e internazionale. Quello che è differente sono le nostre radici storiche che non sono mai state discusse se non in alcuni momenti come l’epoca fascista che naturalmente è stata messa in discussione. A parte questi momenti la cultura è sempre stata incorporata con il territorio, talmente è radicata e diversa di luogo in luogo; l’Italia una densità culturale senza eguali; non solo una cultura che si esprime in tanti modi diversi e tutti eccellenti, nell’archeologia, nella storia del territorio, nei paesaggi nella diversità culturale (patrimonio culturale pure quello), nella gastronomia,nella musica, in tutto e ciò che sorprende è che a volte bastano pochi km per trovarsi in un contesto con un background culturale decisamente diverso. In Italia sono pochi i geografi culturale a differenza dell’ambiente anglofono dove invece la geografia culturale è molto forte. Dobbiamo anche mettere in conto che tanti termini hanno un significato diverso; per esempio il termine resistenza: per noi è l’opposizione all’avanzata del nazi- fascismo, mentre in ambito anglofono sono le lotte dei gruppi più svantaggiati in difesa dei loro diritti, si fa riferimento ai gruppi sociali discriminati per etnie orientamento sociale e sessuale. La stessa popolazione in Inghilterra è censita in base alla razza mentre in Italia si vuole togliere questo termine dalla Costituzione italiana perché lo si legge come un termine con un’accezione negativa anche se le razze sono una realtà da un punto di vista etnologico. L’Italia più che avere a che fare con conflitti razziali, storicamente radicati, con lotte per il riconoscimento da parte di gruppi di etnie diverse come in e Stati Uniti e Gran Bretagna che sono paesi di immigrazione storica, crocevia multi culturale per eccellenza, quindi lì la questione centrale è sociale, mentre da noi questione scottante è il territorio che purtroppo reca i segni del malaffare, dell’opportunismo: abusivismo e incura del patrimonio. In Italia abbiamo delle risorse archeologiche storico che nonostante il loro valore inestimabile vengono trascurate (basti pensare a Pompei). Un patrimonio enorme che non viene adeguatamente curato, per le lentezze burocratiche e per mancanze di risorse economiche. Inefficenza decisionali, interessi individuali e di gruppo. Il territorio italiano reca i segni della logica dell’opportunismo e del profitto che sovrasta qualsiasi intento etico o culturale. Quello nella foto è uno dei tanti esempi: alberghi di 8 o 10 piani costruiti a ridosso di scogliere o comunque di ambienti tra i più sensibili e vulnerabili; l’azione erosiva del mare e di deposito di materiali che arrivano dai fiumi, le regioni costiere sono soggetti a variazioni notevoli di livello ed estensione della costa. I Palazzoni (Le vele a Napoli per e.) e i relativi “palazzinari” rientrano nel problema, come sta accadendo a Roma con gli ultimi spazi verdi, grazie alle connivenze con gli apparati decisionali e le istituzioni perché molto spesso si tratta di terreni vincolati al piano regolatore e in deroga al piano regolatore vengono concessi; la classe dei palazzinari è potentissima a Roma dove esistono reti di potere che si trasmettono da sempre. Differenza riguardo Heritage e patrimonio culturale Proprio perché l’Heritage contiene questo riferimento a un’eredità da trasmettere, è stato messo in forte discussione; non si vogliono trasmettere più le retoriche tradizionaliste e imperialiste basate sulla logica del dominio e dello sfruttamento; questa è un’eredità che si vuole disconoscere, per questo in ambiente anglofono l’attacco è stato rivolto ai simboli e alle narrazioni nazionali. Nel contesto anglofono sia degli Stati Uniti, sia britannico, c’è una rilettura critica della storia colonialista e imperialista; nel contesto italiano il passato storico è stato spesso motivo di orgoglio, i lasciti delle passate civiltà hanno assunto valore simbolico ed ereditario oltre che economico visto che grazie a questo siamo tra i paesi più visitati del mondo. In Italia proprio per questo si esaltano le specificità locali, oltre quelle nazionali, perché la storia nazionale ha creato i suoi miti che non sono mai caduti: Garibaldi, Mazzini, il Risorgimento, la lotta contro l’invasore, il mito dell’Unità d’Italia; è stata una retorica nazionale accompagnata da tutta una serie di simboli che ancora oggi mantengono la loro importanza e validità, non sono mai state messe in discussione. Questa esaltazione delle specificità locali, essendo l’Italia la patria delle cento città, un contesto territoriale estremamente variegato dove coesistono l’unità nazionale ma anche l’esalazione delle specificità culturali locali che diventano motivo di attrazione turistica e patto identitario: Contesti dunque profondamente diversi quello anglofono e quello italiano. La territorialità ci appartiene anche come animali perché siamo tali anche se acculturati ed esercitiamo la nostra territorialità anche in privato, perché è un’esigenza fisiologica. Questo ci riporta al comportamento animale perché gli animali delimitano il loro territorio attraverso le secrezioni (per cani, gatti) o il canto (per gli uccelli);gli animali lo fanno per rispondere anche loro alle loro esigenze fisiologiche come cibarsi, riprodursi, ripararsi; noi siamo animali sofisticati dotati di intelletto ed emozioni che sappiamo verbalizzare. Come è stato pensato il territorio in particolare dai geografi e tutti gli studiosi che ne hanno fatto oggetto specifico di studio? Nell’accezione comune il territorio è uno spazio delimitato da confini, controllato e gestito da un’autorità. Per competenze territoriali si intendono i confini politici che ogni stato ha a seconda delle proprie articolazioni interne; in Italia abbiamo le province, i comuni, che sono gli ambiti amministrativi e poi abbiamo gli ambiti di competenza, le ASL, i distretti scolastici, le preture, le diocesi per quanto riguarda l’organizzazione del territorio ecclesiastico. Nell’accezione geografica il concetto di territorio è una nozione ben più complessa e vedremo che c’è una differenza fra il modo di concepire il territorio a declinazione anglofona rispetto a quella francofona-italiana, le cui differenze in realtà si stanno assottigliando, un po’ perché i geografi italiani sono sempre più attenti al dibattito internazionale e un po’ perché i geografi anglofoni guardano con interesse come italiani, francesi e spagnoli parlano del territorio. C’è dunque un avvicinamento fra queste due declinazioni. L’approccio territorialista è maturato in ambito francofono-italiano perché Claude Rifestin, che è stato il primo a introdurre questo approccio, è francese di nascita e poi si è trasferito nella Svizzera francofona; in ambito italiano chi ha lavorato molto sugli aspetti teorici è Angelo Turco. Dagli anni ’80 è iniziata una pubblicazione di articoli da parte di Rifestin e a fine anni ’80 da parte di Angelo Turco che ha preso spunto da Rifestin. Negli anni ’90 è iniziato un approccio interdisciplinare, coinvolgendo più discipline come l’urbanistica, l’economia, l’estetica, la sociologia. Un esempio è la fenomenologia è il background teorico della geografia umanistica. La TGS: la teoria generale dei sistemi e la teoria della complessità. Stiamo parlando di un approccio olistico, complesso, composto da tante dimensioni diverse materiali e immateriali. Non entreremo nel dettaglio della TGS. Dal punto di vista disciplinare l’approccio territorialista si colloca contro l’approccio della un film, insomma attraverso tutte le rappresentazioni che abbiamo visto a suo tempo. La territorializzazione corrisponde all’agire umano intenzionale che però è motivato da valori, visioni del mondo, memorie, è un agire che parte sempre da un set di elementi immateriali, chiamiamoli così. Il territorio, quindi, che cos’è? Sicuramente è l’esito/il risultato, è il prodotto del processo di territorializzazione. Abbiamo detto: c’è uno spazio, una natura 🡪 processo di territorializzazione 🡪 territorio – però, come ha sottolineato e vedremo a breve Angelo Turco (altro geografo che ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo dell’approccio territorialista), attenzione: il territorio è anche condizione dell’azione umana, è un esito e nello stesso tempo è un presupposto affinché l’azione umana possa perpetuarsi nel tempo. Se il processo di territorializzazione è volto esclusivamente ad appropriarsi delle risorse di un territorio, di uno spazio non ha poi molta possibilità di fornire risorse, materie, condizioni di vita per le collettività umane. Ergo, sotteso a questa affermazione c’è il fatto di prendersi cura quindi del territorio, altrimenti il territorio, come dice Magnaghi, muore e con esso muoiono anche le possibilità di insediamento. Milieu: questo è un altro termine ovviamente importato dall’ambito francofono, ma molto utilizzato anche in Italia per significare l’insieme localizzato di connotati naturali e umani, base anche del patrimonio dell’identità locale e dei processi di sviluppo locale. Letteralmente sarebbe ambiente nella sua accezione più complessa che tiene conto anche degli aspetti culturali, identitari e legati poi allo sviluppo locale. Per lo meno lo sviluppo locale quello contestualizzato. Ci sono però due versioni di territorialità: la territorialità anglofona e quella francofona-italiana: ● nella versione anglofona, si tratta di un modo di concepire il territorio e la territorialità in senso passivo e negativo. Qui il principale esponente è stato Robert Sack. Si intende per territorialità soprattutto le azioni strategiche poste in essere da individui, gruppi etc legati a un esercizio del potere. La territorialità anglofona è molto legata al discorso del potere, all’organizzazione del territorio in senso gerarchico, quindi dal punto di vista della struttura politica e amministrativa. Il discorso sulla territorialità anglofona è tutto sui confini, sulle sfere di influenza, sul controllo da parte di individui o gruppi volti a esercitare un potere. In questo senso è stata definita una territorialità dall’alto (top down), che è gestita/regolata da norme comando e controllo (command and control) 🡪 c’è un organismo che decide, che comanda e una serie di soggetti che eseguono le regole e le norme, dei soggetti che subiscono decisioni dall’alto. Per questo è stata definita una territorialità passiva e in negativo, perché è vista soprattutto da parte di controlla il territorio, per i motivi più disparati (politici, amministrativi, privati, pubblici) e quindi molto letta in funzione delle logiche di potere – il potere di qualcuno di decidere e il “mancato potere” o l’osservanza di questo potere da parte di altri. Le qualità del territorio sono considerate proprie del luogo. I discorsi sulla territorialità anglofona li troviamo soprattutto nella geografia politica 🡪 la lettura dei conflitti tra stati diversi, tra regioni diverse o anche il conflitto tra gruppi sociali diversi, tra bande rivali (sono stati fatti degli studi sulle bande di New York, di Chicago) anche lì si tratta del controllo del territorio. ● invece nell’accezione francofona-italiana si parla di una territorialità attiva in positivo, perché in questo caso si parla di soggetti (pubblici, privati, individuali o collettivi) che comunque costruiscono il territorio 🡪 il territorio “come dovrebbe essere”, c’è una buona dose di normatività 🡪 “quello che sarebbe bene che fosse”, è un modello di riferimento quello francofono-italiano. Quello anglofono legge la realtà così com’è e ne evidenzia le contraddizioni, le logiche di potere ingiuste etc. Questa è invece molto proiettata sul divenire, sul come sarebbe bene che fosse. Quindi la territorialità viene intesa come l’insieme delle relazioni che una società stabilisce con lo spazio in cui agisce per soddisfare i propri bisogni. Soggetti e risorse sono parte attiva nella costruzione del territorio. Come dicevamo prima, Angelo Turco ha specificato che il territorio in questo caso diventa esito e condizione al tempo stesso dell’agire sociale, perché se il territorio non viene curato, non viene protetto, non viene tutelato è chiaro che poi queste risorse non le fornisce più. È una visione della territorialità molto più complessa, molto più articolata che include e incorpora anche le dimensioni legate all’identità, all’appartenenza, al radicamento e tutto questo viene attribuito a dimensione particolare, quella del luogo 🡪 la nozione di luogo, nel caso dell’approccio territorialista di matrice francofona italiana, è incorporata in quella di territorio perché sarebbe la parte “più intima”, la parte che più ha a che fare con la specificità, i legami “esistenziali” con il territorio e anche la parte identitaria – quello che connota quel dato territorio. Angelo Turco ha definito il paesaggio e il luogo come configurazioni della territorialità: nel senso che è sempre il territorio a essere al centro dell’attenzione; se consideriamo il luogo, consideriamo gli aspetti identitari, specifici, quelli che fanno riferimento ai legami “intimi” delle persone con i luoghi; se parliamo di paesaggio, parliamo di una configurazione altrettanto complessa, ma tutt’e due hanno a che fare comunque con il territorio. Si parte sempre e comunque dal territorio. È chiara la differenza tra la territorialità anglofona e quella francofona-italiana? D’ora e in poi parleremo dell’approccio territorialista di matrice francofona-italiana. Il territorio, abbiamo detto, è esito e condizione dell’agire umano, è un’entità relazionale pluridimensionale che incorpora natura, cultura, storia, politica, società, economia – è veramente una nozione complessa e praticamente si basa tutto sulle relazioni che intercorrono tra una collettività insediata e un territorio/uno spazio specifico. Proprio perché è pluridimensionale incorpora simboli, rappresentazioni, norme, identità, azioni etc. Se uno dovesse fare uno studio completo dal punto di vista dell’approccio territorialista su un territorio sarebbe bello complesso, perché le dimensioni di cui tener conto sono tante. Cosa ben diversa, però, dalla monografia regionale possibilista 🡪 quello era un elenco dettagliato di caratteristiche territoriali. Qui no, qui è un approccio complesso che non vuole essere esaustivo, che prende in considerazione diversi fattori, ma non con una logica esaustiva. L’altra caratteristica dell’approccio territorialista è che si propone finalità operative 🡪 pragmatiche, orientate al progetto. Tutto ciò di cui si parla - caratteristiche, connotati del territorio che vengono costruiti dalle collettività insediate sono però considerati nel loro divenire e nella loro proiezione futura. Siamo nel pieno della logica sistemica o della logica non razionalista che abbiamo visto a suo tempo 🡪 principio di pertinenza, olismo, aggregatività e teleologia. Qui si guarda al futuro: a cosa si sta costruendo, verso quale direzione si sta andando, quindi la teleologia, l’altro principio della logica non razionalista che è anche quella sistemica. Il tutto dovrebbe avvenire secondo strategie collettive e inclusive, che tengano conto delle esigenze di tutti in modo partecipato, dando la possibilità ai vari attori/gruppi sociali (soprattutto quelli che non sono rappresentati, magari, quelli che non sono tutelati), di dare modo a questi gruppi di partecipare alla costruzione del territorio e quindi presuppone obiettivi condivisi, sempre ispirati alla sostenibilità, all’equità, alla giustizia sociale e ambientale, alla valorizzazione della specificità locali. Questo ovviamente presuppone anche delle arene di discussione in cui si possa addivenire a delle soluzioni condivise perché, inevitabilmente, in ogni territorio, non è che ci sia omogeneità di giudizio, valore o di obiettivo. Magari c’è chi vuole una cosa, chi ne vuole un’altra, il conflitto è inevitabile, bisogna metterlo in conto. L’importante è sapersi confrontare (senza che volino le sedie in aria! Come è capitato in certi processi partecipativi) e che si possa dialogare e quindi arrivare a delle soluzioni condivise. Soprattutto a soluzioni che non siano penalizzanti per nessuno. Insomma, è bello ambizioso questo approccio, è fatto di tante cose, prende in considerazione il territorio nella sua complessità e nella sua complessità il territorio è fatto sì di materia, edifici, strade, infrastrutture, ma è fatto anche di gente, di relazioni tra persone, di relazioni anche di potere (ci sono dei gruppi svantaggiati che non hanno accesso a tutte le possibilità che il territorio offre), di senso di appartenenza, di specificità – quello di territorio è davvero un concetto molto complesso. Vediamolo un po’ più da vicino, perché Angelo Turco è quello che più di tutti ha teorizzato intorno all’approccio territorialista e lo ha fatto fin dal 1988 pubblicando questo libro, volendo i fondamenti dell’approccio territorialista si trovano in questo libro qua Verso una teoria geografica della complessità – praticamente è sempre l’evoluzione della TGS, della Teoria Generale dei Sistemi. Concetti che Turco ha ripetuto anche su questo libro più recente (del 2010) Configurazioni della territorialità, in cui parla soprattutto di paesaggi e luoghi. Dice Turco: che cos’è la territorializzazione? È il processo di trasformazione della natura e/o dello spazio in un artefatto umano. Quindi quando parliamo di territorio stiamo parlando di qualcosa che ha a che fare con la natura, con l’ambiente naturale, con uno spazio abbandonato – stiamo parlando di qualcosa che è già stato trasformato dall’azione umana. Il processo di territorializzazione ha tre caratteristiche: 1. è costitutivo della società 🡪 perché è in questo modo, dice Turco, che un gruppo generico si trasforma in società. Breve parentesi: Angelo Turco è uno che ha lavorato moltissimo in Africa ed è stato molto a contatto con l’Africa rurale, quella fatta di villaggi, fin dagli anni Settanta forse anche prima e lui gran parte di questo processo di territorializzazione l’ha osservato sul campo in Africa, a stretto contatto con le comunità rurali africane. Quindi ha studiato anche la dimensione antropologica, se vogliamo, di questa progressiva creazione/costruzione di territorio fin dalle origini. Personalmente trovo che in certe pagine, soprattutto quelle di Verso una teoria geografica della complessità, leggendo quelle definizioni che lui dà si ha la netta impressione che lui stia pensando all’Africa, che abbia in mente un villaggio africano sperduto nella savana in cui parla di miti fondativi, della demarcazione del territorio – stiamo parlando di qualcosa che forse io personalmente molte volte dico: “Vabbè, ma tutto questo come lo traduco nell’Italia del 2022?”, mi viene da pensarlo, e allora magari uno deve fare un minimo di interpretazione, un minimo di elaborazione. 2. è un riflesso dell’azione sociale, perché rispecchia le scelte, i valori, gli obiettivi della società insediata, appunto. Torniamo alla specificità di ciascuna parte di superficie terrestre quando rispecchia appunto scelte e valori della collettività insediata. 3. infine, come abbiamo detto, è condizione dell’azione sociale perché, per proseguire la vita sul territorio, la collettività ha bisogno di risorse materiali e simboliche. È un processo in cui leggiamo tre fasi: la nascita del territorio, l’organizzazione del territorio e anche il futuro del territorio (quest’ultima è una riflessione lasciata sospesa dalla prof). Sempre Turco dice: il processo di territorializzazione prende forma/si materializza attraverso tre principali atti territorializzanti, così li chiama:
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