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Geografia delle lingue, Dispense di Geografia

Riassunto dei due libri per l'esame della prof. Nicoletti

Tipologia: Dispense

2019/2020

Caricato il 16/11/2021

consuelo.murciano
consuelo.murciano 🇮🇹

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5 documenti

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Scarica Geografia delle lingue e più Dispense in PDF di Geografia solo su Docsity! Primo libro CAPITOLO 1 1.1. L’etniaei suoi elementi costruttivi Il concetto di etnia presuppone un richiamo alla “cultura” e per cultura si intende l’insieme degli elementi che costituiscono il modo di vivere del gruppo stesso: credenze collettive, valori, ecc. Per individuare un gruppo più ampio che condividono i tratti di una cultura si ricorre al termine etnia. Quello di etnicità è un concetto legato allo spazio: i gruppi etnici sono generalmente associati a un territorio di cui sono gli occupanti principali. D’altra parte, parlando di etnicità, si fa spesso riferimento alla lingua o alle pratiche religiose. Le etnie sono oggetto di studio di diverse discipline (tra cui l’antropologia culturale, la storia, la geografia, ecc.) Il concetto in se però, viene spesso utilizzato indifferentemente per indicarne altri: la razza, la nazione, il popolo. La lingua, insieme alla religione, può tenere una collettività o, al contrario, costituire un forte elemento di divisione. Viene definito gruppo etnico o comunità etnica, o in certi casi anche gruppo etnico-linguistico, una comunità umana legata da un patrimonio storico e, nel caso di gruppo etnico-linguistico, dall’uso di una stessa lingua. Derivante dal greco ethnos (popolo), il concetto di etnia fu introdotto alle fine del Settecento da Chavannes in riferimento allo studio dell’uomo in quanto membro di una specie suddivisa in gruppi per caratteristiche fisiche e culturali diverse. Fu, però, negli anni trenta che il termine si diffuse grazie all’opera di Montandon L’ethnie frangiase nel quale diede la prima definizione esauriente del concetto di etnia: gruppo alla cui identificazione concorrono tutti i caratteri umani, siano essi somatici, linguistici e/o culturali. Più completa è, però, la definizione di Becquet nell’opera L’ethnie frangaise d'Europe che sottolinea come un’etnia sia un gruppo umano unito dalla comunanza di tratti psicologici e culturali, definizione simile a quella di Héraud secondo il quale popoli che parlano la stessa lingua, formano una sola etnia, qualsiasi esse siano le appartenenze politiche. Tuttavia la lingua, secondo Héraud, è il veicolo della cultura, ciò significa che se una comunità perde la sua lingua, mantiene ancora per un certo lasso di tempo la sua cultura e continua ancora ad essere una comunità etnica. L’appartenenza ad un’etnia è un fatto non modificabile, contrariamente a quanto può accadere per il credo religioso o l'opinione politica, la cultura di base è un patrimonio ereditario che nessuno potrà mai perdere. Non tutti gli studiosi sono però della stessa opinione: essi riservano l’aggettivo etnico solo a quei gruppi che hanno coscienza di essere un insieme, considerando il sentimento di appartenenza come fattore fondamentale per l’identificazione di un’etnia e sottolineando che non basta essere membro di un’etnia, ma bisogna anche sentirsi un membro e avere quindi questo sentimento di appartenenza. Simile è il pensiero di Fishman che ha reputato l’etnicità una caratteristica che un gruppo umano si attribuisce con una scelta soggettiva ma che è comunque legata alla lingua. Smith ha individuato sei condizioni necessarie per definire una comunità sociale come etnia: 1. Il nome collettivo che deve essere riconosciuto da tutti come elemento di identificazione di tutto ciò che rappresenta e caratterizza il gruppo etnico all’interno e all’esterno. 2. La discendenza comune che dona senso alle esperienze dei componenti del gruppo, fornendo loro anche una linea di continuità generazionale ben definita. 3. Il senso di una storia comune: il riferimento è alle memorie condivise che, non solo uniscono gli individui, ma rappresentano anche la trama del tessuto connettivo tra le generazioni. 4. La partecipazione ad una cultura condivisa che distingue un gruppo dagli altri: lingua e religione sono i tratti distintivi più comuni ma la lingua non è considerata da Smith un fattore essenziale di identità emica, egli infatti sostiene che il linguaggio può perfino distinguere un elemento di divisione per il senso di appartenenza allo stesso gruppo, e perciò qualsiasi analisi di un’etnia deve andare al di là della lingua. 5. Il rapporto fra comunità e territorio determinato sentito come patria che può essere un semplice ricordo perché, magari, la comunità si è dispersa o è emigrata o è stata deportata. 6. Il senso di solidarietà dove nome, discendenza, storia, ecc. sono tratti condivisi fra tutti come patrimonio collettivo che alimentano un tratto di comunanza. Queste condizioni devono tutte essere presenti, secondo Smith, se si vuole che il gruppo sia in grado di distinguersi dagli altri con una sua propria individualità. Accanto a questi tratti, vi sono altri due concetti che, secondo Smith, ne definiscono il comportamento verso l’esterno: l’etnocentrismo e l’etnicismo, l’uno riferito all’atteggiamento cognitivo del gruppo e l’altro a quello pragmatico. L’etnocentrismo induce i membri di una comunità a distinguere il “noi” dal “loro”, distinguendo una differenza tra gli outsiders e gli insiders. L’etnicismo riguarda la possibile coalizione all’interno del gruppo a causa di minacce esterne o disgregazioni interne, che spingono il gruppo a rafforzarsi per proteggersi dalla minaccia, esterna o interna che sia. Per Smith, vi sono anche delle condizioni storico-sociali, tre per la precisione, che hanno favorito la creazione del legame etnico: 1. La sedentarietà che ha contribuito allo sviluppo di un senso di appartenenza nei gruppi 2. La religione organizzata: il “noi” contrapposto al “loro” inteso come il “bene” contrapposto al “male” 3. La guerra che agisce tanto come strumento di mobilitazione interna ai gruppi quanto come specifico fattore di stress esterno che attiva meccanismi di difesa del “noi” (interno). L’analisi del concetto di “comunità etnica”, fatta qualche anno prima dal geografo francese Breton, è più articolata e fa riferimento a nove elementi: i primi tre sono rappresentati dai dati demografici, dalla lingua e dal territorio del gruppo; componenti essenziali in quanto una comunità etnica, per esistere, deve avere tutti e tre i tratti sopra elencati. Per Breton, il termine etnia costituisce un gruppo caratterizzato dall’unità linguistica, e non dall’origine genetica (in questo caso si parlerebbe di razza), da legami di consanguineità (si parlerebbe di clan o tribù), da legami culturali (si parlerebbe di popolo) o politici (si parlerebbe di nazione). Per Breton, l’etnia si identifica con il Gruppo di Lingua Materna (GLM), un gruppo composto da individui con la stessa lingua madre. Secondo Capotorti si può parlare di minoranza in presenza di un gruppo che non si trovi in una posizione dominante. I membri di questo gruppo hanno la cittadinanza dello Stato, ma le loro caratteristiche etniche, religiose o linguistiche li distinguono dal resto degli abitanti. Molto difficile è stabilire quanto piccola debba essere questa quota, questo perché la dimensione, da sola, non basta a qualificare un gruppo come minoritario. E’ necessario quindi che la minoranza statisticamente determinata faccia parte, insieme con la maggioranza, di uno stesso ordinamento politico e che su questo il gruppo minoritario non eserciti un’egemonia; ha quindi senso parlare di minoranza solo in presenza di un’organizzazione statuale fondata su una base etnica o nazionale, rispetto alla quale la minoranza risulti sostanzialmente diversa e in qualche misura marginale. Quello di minoranza è un concetto anche geografico, in quanto occorre che un gruppo sia stanziato su un territorio che sente come proprio nonostante faccia parte di uno spazio più ampio condiviso con la maggioranza. Il processo di territorializzazione è un processo eseguito sia dalla maggioranza che dalla minoranza, a scale differenti ma con modalità simili. Ad ogni modo, il territorio continua a rappresentare la principale posta in gioco tra gruppi umani concorrenti: in tutte le specie animali, uomo compreso, la competizione si esercita sullo e per lo spazio. 1.3. La diversità etnica oggi Mentre alla soggettività culturale nessuno può rinunciare, perché l’appartenenza ad una comunità etnica è un dato acquisito, la soggettività storica è una scelta politica, e può quindi cambiare con l’evolversi del pensiero sociale e politico. E’ vero che fra i due fenomeni esiste spesso un legame, ed è naturale che siano soprattutto i gruppi etnici a porre la questione della propria nazionalità e a rivendicare la propria autonomia politica. Ma il senso della propria individualità culturale (ETNIA) e quello della propria individualità storica (NAZIONE) non sempre coincidono, e i due fenomeni hanno nature diverse. La distinzione tra etnia e nazione, etnismo e nazionalismo, comunità etnica e minoranza nazionale non è semplice, essa va però tenuta presente laddove si vogliano comprendere i tentativi fatti dalle comunità minori dell’ Europa occidentale per superare quelle rigidità che ancora impediscono la costruzione di un comune edificio nel quale la dimensione sopranazionale, quella nazionale e quella etnica trovino una giusta e coordinata collocazione. Gli etnismi attuali derivano probabilmente dal fatto che le comunità minori avvertono, di fronte all’oppressione indotta da un modello di società che tende ad uniformare schemi comportamentali e modi di pensare, il pericolo della loro scomparsa in quanto entità culturali. La loro reazione, pertanto, non consiste in una ricerca di individualità di fronte alla storia (nazionalismo), ma è espressione della volontà di difendere la propria soggettività culturale, e tende ad ottenere forme di tutela, per un patrimonio spirituale e culturale considerato fondamentale. Come ha osservato Smith, uno Stato è favorito se la sua popolazione è fortemente coesa e compatta, ed è chiaro che la divisione in tanti gruppi diversi rende più difficile la nascita di un sentimento nazionale forte. Laddove i gruppi etnici si mescolano e i confini territoriali divengono più indeterminati, i conflitti interetnici possono assumere toni drammatici se per qualche motivo vengono a mancare la coesistenza pacifica o il controllo esercitato dal governo centrale, si è in qualche modo costretti alla coabitazione. Negli ultimi anni i conflitti etnici all’interno di singoli Stati si sono inaspriti in tutto il mondo. Nel caso dell’ Africa, ad esempio, i contrasti sono stati una costante dopo la decolonizzazione, una volta ottenuta l’indipendenza politica, infatti, le ex colonie hanno fatto propria l’idea di Stato, accettando generalmente i confini tracciati dai presidenti dominatori europei: confini che erano stati stabiliti nel corso della conferenza di Berlino. Le suddivisione amministrative decise dai colonizzatori europei, avevano così diviso quasi tutte le etnie tra più stati. Il problema che molti dei nuovi Paesi africani si sono trovati a dover affrontare è stato quello di creare la nazione, ovvero cercare di sviluppare un certo sentimento di fedeltà verso lo Stato. Tutta la storia dell’umanità è disseminata di crimini contro comunità prese di mira per la loro diversità culturale o razziare; e in questi ultimi anni attorno all’espressione “pulizia etnica” hanno ruotato conflitti scoppiati in numerose parti dell’Africa, così come nel Sud-Est asiatico e in alcuni territori dell’ex Unione Sovietica e dell’ Europa orientale. L’etnocentrismo può sì costruire un elemento di divisione, generando isolamento, ma può anche assumere una connotazione positiva e rivelarsi un fattore di riconoscimento e di identificazione capace di offrire valori e sostegno all’individuo che si ritrova all’interno di un contesto a lui estraneo. Si pensi a come le svariate Chinatown e Little Italy create come enclave all’interno delle città abbiano fornito un rifugio concreto e sistemi di supporto fondamentali peri nuovi arrivati. L’accettazione dell’appartenenza etnica è stata infatti invocata come base per ottenere un trattamento speciale nella distribuzione del potere politico, all’interno della struttura del sistema educativo, come segno di rispetto dei diritti di gruppi linguistici o religiosi minoritari. La multietnicità implica necessariamente la multiculturalità, in quanto i diversi gruppi etnici presenti su uno stesso territorio posseggono per definizione una propria cultura con elementi diversi da quelli delle altre. Una società è definita multiculturale nella misura in cui al suo interno tutte le differenze di cultura, costume, etnia sono ugualmente rispettate, tanto reciprocamente quanto dal potere centrale. L’idea di un crogiolo, di una fusione delle diversità (melting pot) è in buona parte venuta meno, sostituita da una maggiore attenzione per la tutela dei diversi patrimoni culturali che contraddistinguono le numerose componenti di uno Stato, ad una società che cerca di fondere tutte le differenze si preferisce oggi piuttosto un progetto di coesistenza nella differenza: un’insalatiera (salad bowl) in cui ogni elemento mantiene una sua specificità. 1.4. Regioni culturali e confini etnici Ogni regione, sia esse formale o funzionale, può essere definita in relazione ad un’unica caratteristica o ad un insieme di caratteristiche; esisteranno, perciò, tante regioni culturali quanti sono i tratti e le strutture culturali identificati per gruppi di popolazione. E all’interno di ciascuna regione culturale, gruppi uniti da specifiche caratteristiche rilevate potranno essere in competizione e distinguersi per altri tratti culturali importanti. La regione culturale si caratterizza non solo per la presenza di una comunità dotata di una sua propria espressione culturale, bensì anche perché sul suo territorio è percepibile tanto l’impronta dei prodotti sociali della cultura, quanto quella degli oggetti materiali e delle tecniche per il loro utilizzo (si pensi alle abitazioni, alle tipologie agricole, ecc.). Il territorio abitato da una comunità etnica, però, non viene sentito dai componenti del gruppo con la stessa intensità, e memoria storica e sensibilità culturale trovano in esso riferimenti di segno non sempre uguale: in alcuni luoghi possono avere un significato e richiamare l’identità culturale del gruppo in modo immediato, altri hanno un’importanza, da questo punto di vista, nettamente minore. Il nucleo originario (core area) di uno Stato racchiude di solito la zona economica più sviluppata, la maggiore densità abitativa e le città principali. Man mano che ci si allontana da esso, tutti questi elementi vanno diluendosi: l’economia si indebolisce, le reti di trasporto divengono più rade, il rapporto fra popolazione urbana e rurale diminuisce, le dimensioni e l’importanza delle città si riducono. Consideriamo ora il modello di regione culturale elaborato da Donald Meining: egli aveva messo in evidenza come nell’Ovest degli Stati Uniti fossero identificabili almeno sei nuclei culturali distinti che avevano dato vita ad altrettante regioni culturali, e aveva osservato che tali regioni andavano evolvendosi attraverso quattro stadi. In primo luogo cresceva la popolazione, nel frattempo si intensificavano le comunicazioni, l’organizzazione politica diventava via via più complessa e intanto emergeva la cultura regionale. Meining si occupò in particolare di una di queste regioni culturali, quella dei Mormoni, nello Utah, che presentava una sua marcata identità e le cui origini nel tempo e nello spazio risultavano definibili con esattezza, e mise in evidenza come il relativo isolamento e lo sviluppo senza ostacoli da essa sperimentato si fossero tradotti in un modello spaziale con tre zone di concentrazione: in primo luogo un’area nucleo (core), contenente l’essenza del complesso culturale; poi un dominio in cui il complesso culturale restava, sì, forte ma in misura minore rispetto all’area nucleo; infine una sfera di influenza, area esterna e di contatto periferico. Il nucleo centrale è l’area più chiaramente sentita come patria ed è, quindi, la zona in cui la cultura della comunità possiede maggior forza e mostra maggior capacità di resistenza alle influenze esterne; il dominio è l’area del contatto e del continuo confronto con gli altri, mentre le sfere di influenza o sono quel che resta di un nucleo centrale o sono aree in cui parte della popolazione proveniente dal nucleo centrale si è trasferita, portando con sé anche l’impronta della propria appartenenza etnica. Si pensi al caso della Provincia sudafricana del Capo. L’originario insediamento olandese sulla costa fu il primo nucleo dell’odierna Città del Capo (Kaapstad) e presto si espanse; la popolazione crebbe, il sistema di circolazione nelle zone interne si sviluppò, e la consistente componente francese portò nuove capacità agricole nell’area. La Provincia andò così acquisendo un paesaggio culturale distintivo, uno stile architettonico tipico, una lingua (l’afrikaans), un mosaico religioso del tutto differente dalle aree di origine e uno scenario agricolo caratteristico. Anche le aree rientranti nelle sfere d’influenza però, per rifarsi al modello di Meinig, possono subire in qualche modo l’impronta del luogo d’origine, si pensi alle Chinatown di tanti centri urbani (quartiere monoetnici, ciascuno con le sue attività, i suoi codici identitari, le sue tradizioni) o alle immagini del proprio territorio ricreate dagli immigranti indiani e pachistani a Londra. Quando la localizzazione di un gruppo in una determinata area, anche molto distante dal luogo d’origine, raggiunge una certa soglia e se ne possono notare i segni, si può parlare di quartiere etnicamente connotato: di una zona, cioè, in cui la presenza consistente di alcuni gruppi e la “visibilità” di tutta una serie di attività, nonché di alcuni servizi e punti di incontro, contrassegnano in modo evidente il territorio. La determinazione esatta di un confine etnico risulta assai difficile, perché il territorio etnico è quasi sempre un’area dai contorni incerti; al di fuori della sua area centrale, ci sarà una zona in cui alcuni tratti dell’etnia dominante andranno fondendosi con quelli delle etnie circostanti e, dovendo una 2. Se in una regione esistono due forme della stessa lingua (una nelle aree periferiche della regione e l’altra in quelle centrali), quella che si trova nell’area centrale è più recente, quella che si trova nelle aree periferiche è più antica; 3. Se di due forme linguistiche una è usata in un’area più ampia dell’altra, quella è la più antica. Va detto che sono le prime due norme a poter essere maggiormente supportate con esempi concreti. La prima norma, quella dell’area isolata è senz’altro convincente; basterebbe considerare la città come zona di più facili comunicazioni e la campagna come zona isolata per ritrovare le osservazioni da cui siamo partiti. Ne abbiamo in Italia un’ottima dimostrazione: quella rappresentata dal sard, lingua nel quale si presentano molti arcaismi. Mentre in italiano,, ad esempio, i termini per indicare “domani”, “casa” e “grande” derivano tutti dal latino tardo, in sardo, invece, la derivazione dal latino arcaico permani negli attuali kras, domo e mannu. La seconda delle norme citate, quella dell’area centrale, potrebbe, a prima vista, sembrare in contraddizione con la precedente, in quanto si potrebbe pensare che le aree periferiche siano più esposte ai contatti con l’esterno e che, quindi, costituiscano le zone in cui lo scambio con altre lingue è più intenso. In realtà, la norma asserisce che tra due diverse forme di una lingua, parlate una in periferia e l’altra nel centro, quella che si trova nell’area centrale è più recente, ma fa riferimento non tanto al centro geometrico, quanto piuttosto a quello culturale ed economico: è qui, infatti, che avvengono i più frequenti scambi con l’esterno, produttivi di innovazioni linguistiche. L'esempio che si fa generalmente a tal proposito è quello delle lingue parlate nel territorio dell’ex impero romano: lingue derivanti dal latino e diffuse in un’area compresa tra il versante atlantico della penisola iberica, ad ovest, e la costa rumena sul Mar Nero ad est. Ebbene, molti dei concetti espressi in italiano con termini derivanti dal latino tardo rivelano invece in castigliano o in un rumeno una derivazione dal latino classico. Se in Italia, ad esempio, parliamo di tavolo e in Francia di table, in Spagna per indicare lo stesso concetto si una mesa e in Romania masa, vocaboli entrambi derivanti dal latino classico. Gli sviluppi della Linguistica contemporanea resero comunque inevitabile un rinnovamento della Geografia culturale. Se l’ottica precedente portava a minimizzare le differenze culturali, le nuove concezioni tendevano a rivalutare il ruolo della lingua nella formazione delle strutture mentali, culturali ed etniche. D'altra parte, la successiva evoluzione della Geografia ed il suo interesse, sempre maggiore, nei confronti dei fenomeni sociali avrebbe inevitabilmente portato i geografi ad approfondire lo studio di quei raggruppamenti umani che traggono i loro caratteri da comportamenti culturali e sociali omogenei e che, stabilendo un rapporto preciso con in territorio in cui vivono, divengono delle entità regionali, individuano, cioè, delle regioni culturali. Il primo a comprendere che la lingua interessava anche al geografo, fu un portoghese che negli anni quaranta distinse in modo chiaro la Geografia linguistica dalla Geografia delle lingue, e attribuì a quest’ultima il compito di analizzare la formazione delle aree di distribuzione di determinate parlate, rapportando la nascita e l’evoluzione di queste agli eventi sociali ad esse collegati. Egli, inoltre, fu il primo ad attribuire un significato realmente geografico alla regione linguistica, considerandola non più solo come area di diffusione di un fenomeno linguistico, ma intendendola come vera e propria regione culturale al cui interno l'aggregazione sociale è massima e la circolazione delle idee e delle innovazioni si realizza con maggiore velocità e capillarità. Il sistema linguistico del gruppo rappresenta il mezzo attraverso cui la diffusione delle innovazioni trova un campo di espansione permeabile e veloce. Poiché, d’altra parte, quanto più ampio e compatto è il gruppo, tanto più sono garantiti il suo benessere e la sua sicurezza, gli individui si danno da fare per cercare di estendere e codificare sempre meglio i mezzi di contatto e comunicazione con gli altri, così da rendere più forte, coesa e meglio organizzata la comunità cui appartengono. Alla base di ogni regione umana c’è allora un codice comune. L’analisi dell’estensione di ciascun codice costituisce una parte importante della Geografia umana, perché porta ad osservare uno degli aspetti fondamentali dell’azione creativa dell’uomo. La lingua ha un suo preciso momento geografico e il geografo può, attraverso essa, individuare una rete di correlazioni che legano un gruppo sociale agli altri e all’ambiente. Il geografo considera la lingua come parte fondamentale della cultura; osserva le diverse situazioni spaziali che incontra: la diffusione, la maggiore o minore espansione, i conflitti più o meno netti, le frammentazioni e le isole; può comprendere come un tratto culturale del genere abbia potuto espandersi, sopravvivere o fissarsi in un determinato ambiente e come lo abbia fatto rispetto ad altri caratteri, culturali, sociali o economici. 2.4. Gli strumenti dell’analisi 2.4.1. I censimenti linguistici La lingua ha un’importanza considerevole anche nella formazione del sentimento nazionale. Non è un caso se l’idea di nazione ebbe un preciso contenuto linguistico. Quando, poi, la nazione riuscì a trovare una realizzazione dal punto di vista territoriale ed amministrativo, diventando, quindi, Stato- nazione, la questione della lingua acquisì una precisa connotazione geografica, ed il principio della cuius regio eius religio che aveva dominato all’epoca della riforma protestante, venne in sostanza trasformato in un’altra imposizione, in base alla quale chi parlava una lingua diversa da quella nazionale rappresentava un pericolo, e doveva perciò cambiare il suo modo di esprimersi (si potrebbe pertanto dire cuius regio eius lingua). Per valutare la diffusione delle lingue sono stati generalmente adoperati i censimenti. A dire il vero, però, pur effettuando ormai praticamente tutti gli stati del mondo delle rilevazioni statistiche per valutare consistenza e struttura della popolazione, solo alcuni vi includono anche una parte relativa alla lingua; inoltre, anche quando si provvede a questo tipo di rilevazioni, non sempre i dati risultano tra loro confrontabili. L’indicatore utilizzato nella maggior parte dei casi è la lingua materna, ma anche su questa definizione vi sono alcune discordanze, a seconda che si adotti il criterio dell’anteriorità cronologica (in base al quale è tale la lingua che ognuno di noi apprende per prima) o quello dell’uso continuativo (per cui la lingua materna è quella che si continua a parlare e, soprattutto, nella quale si pensa). Meno frequente è il censimento delle seconde lingue, molto significativo qualora venga condotto congiuntamente a quello della lingua materna. Nei Paesi dove il plurilinguismo è diffuso, la ripartizione degli abitanti, in base alle diverse classi possibili, può mostrare i differenti percorsi dell’acculturazione. Nella popolazione alfabetizzata è possibile rilevare, accanto alla parlata materna e a quella sussidiaria, la capacità di leggere e scrivere in una certa lingua. I censimenti sono spesso effettuati in sostegno o contro richieste di tutela o precise rivendicazioni nazionalistiche. Un primo problema deriva dalla scelta del momento in cui effettuare un censimento. Se la rilevazione dovesse avvenire in un periodo in cui condizioni economiche o azioni politiche hanno reso critiche le condizioni di una comunità, risulterebbe in un certo senso ufficializzata una situazione di minorità. Una difficoltà ancora maggiore discende dal fatto che l’appartenenza di un individuo ad un certo gruppo linguistico può essere rilevata o d’ufficio, in base agli indicatori dati per sicuri, o mediante opportune domande alla popolazione; e se è facile capire perché il primo metodo si presti facilmente a manipolazioni, è altrettanto vero che anche il modo in cui vengono formulate le domande può creare alcune trappole. Qualora si voglia valutare, infatti, la presenza di alloglotti in un certo territorio, si potrà chiedere a ciascuno qual è la sua lingua materna oppure qual è la lingua che parla abitualmente o quella che conosce o quella che usa con gli altri, edi risultati cambieranno a seconda dei casi. Prendiamo il caso del Belgio, Paese che la questione della lingua ha più volte rischiato di spaccare in due. Il primo censimento linguistico venne effettuato nel 1848, e in quell’occasione venne domandato ai cittadini qual era la lingua che parlavano abitualmente; dal momento che molti adoperavano abitualmente tanto il francese quanto il fiammingo, la lingua d’uso fu rilevata secondo criteri alquanto discutibili: a Bruxelles, ad esempio, vennero registrati come parlanti francese gli abitanti dei quartieri centrali ed i padroni, come parlanti fiammingo quelli della periferia ed i servi. Tra il 1866 e il 1890 fu chiesto semplicemente quali fossero le lingue conosciute. Vi furono discussioni e polemiche, i Valloni sostenevano che si dovesse chiedere la lingua principale, i Fiamminghi la lingua propria; e alla fine si decise, per non favorire nessuna delle due comunità, di far riferimento alla lingua parlata più frequentemente. Successivamente venne introdotto il principio che l’impiego di una lingua nella pubblica amministrazione periferica fosse ancorato ai risultati del censimento; dopo la rilevazione del ’47 il Belgio ha rinunciato a compiere indagini ufficiali e ha adottato un regime di bilinguismo indipendente dalla consistenza numerica dei due gruppi. Per quanto riguarda l’Italia, invece, dove durante il fascismo venne impedita qualsiasi rilevazione a carattere linguistico, soltanto nel primo censimento dello Stato unitario venne fatta a tutti i cittadini una domanda sulla lingua da loro usata. Nel 1901 e nel 1911 furono compiute rilevazioni solo peri comuni in cui era già nota la presenza di gruppi parlanti una lingua straniera; dieci anni dopo la tecnica di rilevamento fu cambiata nuovamente: l’indagine riguardò i comuni in cui risiedevano famiglie alloglotte e il quesito riguardò la lingua d’uso del capofamiglia, che veniva poi automaticamente estesa a tutti i componenti del nucleo familiare; a tutti costoro si chiese, inoltre, se erano in grado di esprimersi anche in italiano o in uno dei dialetti del Paese. Accanto ai censimenti etnico-linguistici ci possono essere delle valutazioni fatte con criteri differenti da organi ufficiali o da enti sorti per la tutela delle comunità minori; tali valutazioni, però, possono presentare risultati estremamente variabili. D’aiuto nella valutazione della diffusione di una lingua possono essere i dati sulla tiratura di libri, giornali e periodici; in aggiunta si potrebbe fare attenzione anche ai mezzi audiovisivi: alle lingue, cioè, della radio e della televisione. Accanto all’suo comune si dovrebbe comunque valutare anche l’utilizzo ufficiale di una lingua così come lo status giuridico delle diverse parlate nella pubblica amministrazione. 2.4.2. La rappresentazione cartografica La lingua è una variabile geografica, ed ogni contesto di interazione sociale può essere caratterizzato da differenze linguistiche anche minime rispetto agli altri. Tali differenze di pronuncia, segnate su carta, consentono di definire le caratteristiche ed il modello spaziale di dialetti e lingue. Le carte che compongono un atlante linguistico possono essere classificate in almeno tre gruppi a seconda degli aspetti che intendono rappresentare: può trattarsi di carte fonetiche, che La lingua materna, quella cioè trasmessa dalla famiglia, ha un ruolo fondamentale per ogni individuo, e anche qualora dovesse essere soppiantata da un’altra parlata e fosse per questo sempre meno sviluppata o se ne avesse sempre meno padronanza, avrebbe comunque già lasciato il segno sul modo di sentire e pensare. Alla parlata materna si può affiancare l’acquisizione di una o più seconde lingue. Il fenomeno è di solito legato al contatto tra i popoli, ed è difficile che sia permanente e che riguardi tutti i componenti di un gruppo. L'ordine di apprendimento delle seconde lingue corrisponde generalmente al diverso bisogno di utilizzo. In molte società prevalgono i privilegi politici o culturali di cui beneficiano alcune lingue rispetto ad altre. Nell'insieme, in una situazione di plurilinguismo, questa disparità di trattamento finisce inevitabilmente col favorire lo sviluppo dell’uso di alcune lingue a svantaggio di altre. Gli individui che parlano una stessa lingua costituiscono una comunità linguistica; l'appartenenza ad una medesima comunità, tuttavia, non implica di per sé una situazione di uniformità. Al contrario: accanto alla lingua standard (o ufficiale), generalmente esistono più varianti regionali (i dialetti) che riflettono il parlato quotidiano di una determinata area geografica o rimandano ad un particolare ambito sociale o professionale. Benché le diverse variazioni linguistiche possano essere utilizzate anche da una stessa persona in relazione alle differenti situazioni che si trova a vivere: uno studioso, ad esempio, cambierà il suo modo di parlare a seconda che si trovi a discutere di lavoro con dei colleghi o passi, invece, a discorrere di argomenti più informali con i propri amici. Un dialetto può diventare lingua standard qualora esso corrisponda alla parlata di coloro che detengono il potere o che occupano i gradini più alti nella gerarchia sociale della comunità. Così è avvenuto, ad esempio, per il francese standard, fondato sul dialetto della regione parigina, che — impiegato nell’amministrazione del potere- divenne predominante su tutti gli altri idiomi parlati nel territorio occupato dall’attuale Francia. E così è accaduto anche per il castigliano — divenuto, per definizione lo “spagnolo” grazie alla lunga condotta dalla casa reale castigliana per la liberazione del territorio degli Arabi — o, ancora, per la lingua russa standard ed il cinese standard, basato sul dialetto mandarino di Pechino. I governi nazionali possono scegliere un singolo idioma come lingua ufficiale dello Stato, e nelle società in cui vengono adoperate comunemente due o più lingue ciò può facilitare le comunicazioni trai cittadini. È proprio per questo che decine di Paesi, nell’intento di risolvere complesse situazioni di multilinguismo, hanno sposato l’idea che una lingua ufficiale potesse fungere da “ombrello” almeno sulla carta, infatti, la parlata prescelta — già nota all’élite istruita e politicamente potente — avrebbe potuto rafforzare l’interazione tra persone appartenenti a comunità linguistiche diverse. Molti Paesi dell’ Africa subsahariana hanno designato come lingua ufficiale quella della loro ex potenza coloniale: il portoghese per l’Angola e il Mozambico, l’inglese per il Ghana e la Nigeria, il francese per la Costa d’Avorio ed il Niger. In realtà, però, anche una scelta di questo tipo può rivelarsi rischiosa: sul lungo periodo le conseguenza dell’imposizione di una lingua straniera possono essere tutt’altro che positive, e i cittadini possono manifestare la volontà di opporsi al primato di un idioma che associano alla sottomissione alla repressione. Proprio per questo motivo alcune ex colonie — non solo in Africa — hanno scelto non una, ma due lingue ufficiali: quella europea più una delle parlate principali del Paese. L’inglese e l’hindi per l’India, l’inglese e il kiswahili per la Tanzania, il francese e il malgascio per il Madagascar ne costituiscono alcuni esempi. La qualifica di “ufficiale” viene adoperata in due sensi diversi, a seconda che si tratti di Stati o di organizzazioni internazionali. Se nel primo caso si definisce tale lingua usata in tutte le occasioni ufficiali, a livello delle organizzazioni internazionali sono i diversi Stati membri a decidere quali parlate adottare come ufficiali: per l'Unione Europea assumono di diritto questa qualifica tutte le lingue ufficiali dei Paesi ne fanno parte; ciascun Paese, al momento del suo ingresso nell'Unione, determina pertanto quale o quali idiomi desidera siano dichiarati ufficiali. D'altra parte nelle organizzazioni internazionali si fa una distinzione tra lingue ufficiali e quelle di lavoro: per restare in Europa, la Commissione ha adottato come lingue di lavoro l’inglese il francese e il tedesco; il Parlamento europeo, invece, fra tradurre gli atti a seconda delle necessità parlamentari. Gli Stati, poi, in alcuni casi distinguono le lingue nazionali — espressione di un gruppo etnico consolidato, che può aver raggiunto una certa autonomia o indipendenza — dalle lingue ufficiali, usando poi più comunemente le seconde. Così la Svizzera riconobbe il romancio come lingua nazionale ma non ufficiale a livello di confederazione; successivamente anche il romancio, insieme al tedesco, al francese e all’italiano — è stato riconosciuto ufficiale. Allo stesso modo i Paesi del Maghreb considerano l’arabo come lingua nazionale benché adoperino il francese come lingua amministrativa. Nelle strutture statali federali si possono individuare due livelli d’uso ufficiale: quello della federazione e quello delle unità federate. Nell’ex Unione Sovietica molte lingue erano ufficiali: innanzitutto il russo, lingua di comunicazione internazionale del popolo; poi altre quattordici lingue di stato delle repubbliche federate e la quarantina di idiomi di repubbliche e regioni autonome; infine la dozzina dei circondari nazionali. In India — dove oggi le lingue ufficiali sono l’hindi e l’inglese — nessuna delle tante parlate censite è definita nazionale, ma la Costituzione elencate 22 lingue che posso essere ufficialmente adottate dai diversi stati per le necessità amministrative e come strumento di comunicazione tra il loro governo e quello centrale. Negli Stati non federali, invece, si tende a contrapporre alla lingua nazionale una parlata locale soltanto quando quest’ultima ha un ruolo ben preciso o come legame interetnico o interregionale oppure come espressione di un’etnia o di una regione a statuto speciale (la Valle d’Aosta, il Galles, ecc.). Spetta alla Geografia delle lingue il compito di indagare sui rapporti, le discrepanze e le interazioni fra i tre livelli principali di utilizzo delle lingue: la loro diffusione come madrelingua nella popolazione, l’uso nelle comunicazioni e lo status giuridico. 3.2. Bilinguismi e multilinguismi I casi di bilinguismo o multilinguismo nel mondo sono numerosi. Le lingue rispondono a necessità differenti, e ciascuno può sentire il bisogno di utilizzare un certo modo di esprimersi a seconda dei casi; spesso occorre modificare il proprio codice linguistico perché si entra in contatto con persone che parlano altre lingue. Pochi sono gli Stati effettivamente monolingui, che dispongono cioè di un unico idioma utilizzato nei diversi ambiti da tutti i cittadini; praticamente dovunque migrazioni e divisioni di confine hanno determinato una coesistenza di lingue diverse. Laddove i membri di una comunità linguistica siano poco numerosi, il gruppo tende ad adottare la lingua ufficiale e la sopravvivenza della lingua madre non è assicurata. In alcuni Paesi il multilinguismo è ufficialmente riconosciuto attraverso la designazione di più lingue ufficiali: la Finlandia e il Canada, ad esempio, così come una trentina di altri Stati nel mondo, ne hanno due (il finnico e lo svedese in Finlandia, l’inglese e il francese per il Canda), ma altri ne hanno anche più di due: tra questi la Bolivia e il Perù che ne hanno tre (tra cui lo spagnolo), Singapore — così come la Svizzera — quattro (cinese, inglese, tamil e malese) e il Sudafrica ben undici (tra cui l’afrikaans, l’inglese e lo zulu). L'esistenza di una realtà plurilingue è confermata dal fatto che certe parlate sono riconosciute più ufficiali o co-ufficiali a livello regionale, come pure dalla presenza di specifici territori a statuto speciale avanti una loro lingua co-ufficiale: la Costituzione spagnola, ad esempio, riconosce una lingua ufficiale, che è il castigliano, e tre lingue co-ufficiali nei rispettivi territori, ovvero il gallego, il basco e il catalano. Un tempo queste realtà tendevano ad essere considerate in modo negativo; essendo la lingua ritenuta un momento di aggregazione di una comunità nel corso della sua azione di trasformazione del territorio, esse erano viste come il risultato di un’imperfezione in tal senso. Inoltre il bilinguismo derivante dalla necessità di esprimersi in modo diverso a seconda dei contesti e delle situazioni veniva giudicato un elemento di debolezza per una comunità. Se poi il bilinguismo fosse sorto dall’esigenza di utilizzare una seconda lingua per certi particolari usi, si sarebbe potuto interpretare il fatto che la lingua adoperata normalmente non fosse utile in tutti i momenti della vita come prova di un’ancora carente organizzazione della comunità. Oggi si ritiene generalmente che al plurilinguismo corrisponda una positiva condizione di pluriculturalismo e che questa vada valorizzata, soprattutto in campo educativo; l’utilizzo abituale di più lingue non è più visto, quindi, come un fenomeno da combattere, ma come un realtà da difendere. È alquanto improbabile, però, che gli idiomi parlati nel medesimo territorio restino per molto tempo in una situazione di perfetto equilibrio. La dinamica linguistica segue le tendenze della dinamica sociale, ed il gruppo che rivela una maggiore capacità di incidere sulla società riesce a far prevalere anche la propria lingua. Ad ogni modo, il fenomeno può assumere forme differenti. Talvolta ha espressione regionale, nel senso che ciascuna delle lingue parlate prevale in un’area specifica del Paese: è questo il caso, ad esempio, del Canada, del Belgio, della Svizzera e del Perù. Altre volte, invece, tale espressione regionale si presenta molto meno evidente, essendosi verificata una notevole commissione dei parlanti: la comunità bianca del Sudafrica si ripartisce fra due maggioranze linguistiche (afrikaans e inglese) e diverse lingue minori; ma, per quanto l’afrikaans sia diffuso in gran parte delle zone interne rurali, nel Paese non è riscontrabile un regionalismo pari a quello del Canada e del Belgio, e le lingue europee risultano interdipendenti all’interno di un contesto che è comunque dominato da molte più parlate africane. Una particolare forma di bilinguismo si verifica invece quando viene a determinarsi una profonda divergenza tra lingua popolare e lingua colta, tale da costruire una vera e propria barriera di inintelligibilità tra le due. In tal caso, si parla di diglossia, proprio a sottolineare la compresenza di due lingue o varietà, differenziate funzionalmente, spesso storicamente contigue, una delle quali viene adoperata in ambito formale e l’altra in ambito informale. È questo il caso di Haiti, con il francese usato accanto al creolo haitiano, lingua derivata dal francese, riconosciuta ufficialmente e parlata da quasi tutta la popolazione. Ma un rapporto simile esisteva anche tra le due versioni del greco moderno, la lingua “purificata” e quella “popolare”: il nuovo Stato creò una barriera tra la lingua parlata (dhimotiki o popolare) e la lingua ufficiale (katharevousa o purificata). Tale situazione si è mantenuta fino a quando la katharevousa venne abbandonata dalla neonata repubblica, che adottò come nuova lingua ufficiale quella popolare. Sia il bilinguismo che la diglossia variano in base alle classi sociali e alle fasce d’età. In linea generale, infatti, la popolazione di sesso maschile e quella in età lavorativa risultano maggiormente Tutto ciò, unito al fatto che ogni variante regionale è “formata” da individui che per primi non possiedono una perfetta padronanza della lingua standard, potrebbe condurre ad una graduale frammentazione dell’inglese in una molteplicità di idiomi reciprocamente incomprensibili. Secondo gli studiosi del fenomeno, la tendenza più probabile è che si verifichino tanti processi di divergenza quanto di convergenza. Se da una parte l’utilizzo dell’inglese come principale lingua di comunicazione a livello mondiale è una realtà fuori discussione, dall’altra coloro che parlano inglese finiscono con l’imparare due versioni diverse di tale lingua, una vicina alla propria cultura e l’latra riferibile al contesto internazionale. È quindi possibile che vadano consolidandosi, accanto alla lingua comune universalmente comprensibile, delle forme reciprocamente inintelligibili di inglese a mano a mano che l’inglese viene insegnato, imparato ed adoperato in aree del mondo che pochi contatti hanno con coloro che utilizzano l’inglese standard. 3.4. Molteplicità di usi delle lingua Dei molteplici usi che una lingua può avere, uno dei più importanti, è sicuramente quello religioso: esso può consentire un’ampia diffusione di una parlata, ma tale diffusione avviene in forme limitate alla necessità della pratica del culto, bloccando così — nell’intento di evitare cambiamenti — ogni evoluzione o trasformazione linguistica. Il credo religioso è un elemento di quel sottosistema ideologico che compone ogni struttura culturale, mentre la religione formalizzata ed organizzata ne costituisce un’espressione istituzionale. Una religione in un senso più ampio, può essere considerata come un complesso di fede e riti che collega tutti quelli che vi aderiscono all’interno di un’unica comunità morale. Elemento chiave nei processi di identificazione di gruppo, anche la religione, come la lingua, è un prodotto mentale ed agisce come veicolo di trasmissione della cultura, per quanto risulti un “identificatore” di cultura spesso meno evidente rispetto al linguaggio: mentre la lingua è una caratteristica che accomuna tutti i popoli, l'impatto della religione sui diversi gruppi culturali può variare. Alcune società sono dominate in tutti i loro aspetti dal credo ufficialmente riconosciuto: la religione ne influenza il sistema legislativo, le abitudini alimentari, i modelli economici e il paesaggio culturale. Ma convinzioni e tradizioni religiose saldamente radicate possono agire tanto come fattore di coesione, quanto come elemento di separazione. Lingua e religione non sono indipendenti l’una dall’altra; esse risultano da vari punti di vista collegate. In certi casi la religione è in stretta correlazione con la lingua: si pensi all'esempio di Cipro, dove le due comunità linguistiche (ellenofona e turcofona) corrispondono esattamente ai due gruppi socio- confessionali presenti (quello cristiano-ortodosso e quello musulmano); altre volte, invece, una divergenza religiosa è stata all’origine di una divergenza linguistica: Croati cattolici e Serbi ortodossi parlano la stessa lingua, che gli uni chiamano croato-serba e gli altri serbo-croata e che i primi scrivono coni caratteri latini e i secondi con quelli cirillici, ma anche tra indù e musulmani di parlata hindustani i primi si proclamano di lingua hindi, i secondi di lingua urdu. La religione può influenzare la diffusione di una lingua su un ampio spazio, com’è avvenuto per l’arabo, lingua del Corano, che è riuscito a dare ad un gran numero di popolazioni diverse un’identità linguistica (oltre che religiosa). Ma la religione può anche portare alla dispersione di una parlata: l’yiddish continua ad essere lingua della religione nelle comunità degli Ebrei hassidici, così come le funzioni religiose in tedesco o in svedese caratterizzano tuttora alcune congregazioni luterane nel Stati Uniti. Andrebbe, inoltre, ricordato il ruolo della religione cristiana nello studio di lingue meno note o nel passaggio alla forma scritta di lingue solo parlate; molte delle società bibliche sorte in ambiente protestante hanno contribuito alla traduzione della Bibbia nelle lingue di popolazioni poco conosciute e culturalmente arretrate. E non andrebbe dimenticato come l’uso di un certo idioma in ambito religioso sia riuscito a preservare lingue altrimenti a rischio di estinzione o anche a diffondere lingue di cultura nazionali. L'utilizzo del polacco da parte della Chiesa cattolica anche dopo le diverse spartizioni della Polonia è stato fondamentale per la sopravvivenza culturale della nazione, anzi. Le lingue liturgiche si distinguono, però, da quelle usate comunemente per la loro fissità. I diversi riti hanno generalmente bisogno di formule non modificabili; una lingua liturgica antica può essere accolta senza grossi problemi anche da coloro che, pur parlando lingue diverse, professano una stessa religione. Il latino anche dopo aver perso la sua importanza letteraria, è rimasto a lungo la lingua liturgica comune per i cristiani. Non è un caso se gli scismi religiosi che hanno coinvolto la Chiesa cattolica sono stati anche degli scismi linguistici. Le novantacinque tesi affisse da Martin Lutero alla porta della chiesa del palazzo ducale di Wittenberg erano scritte in latino; quando, però, la rottura con la Chiesa di Roma divenne definitiva, Lutero preparò in tedesco una lunga lettera indirizzata alla “nobiltà cristiana della nazione tedesca“, invitandola allo scontro con Roma e dando inizio all’uso di questa lingua nell’ambito della Chiesa protestante. Allo stesso modo, anche la riforma anglicana fu accompagnata da una rivoluzione linguistica: l’adozione del Book of Common Prayer e la traduzione della Bibbia in inglese interruppero l’uso del latino nella liturgia e favorirono la diffusione di un testo in inglese. Politiche linguistiche diverse sono state portate avanti dalle varie Chiese. Due esempi fra tutti, per quanto diversi. L’ala più filo-gallese della Chiesa anglicana istituì le Sunday Schools; quest’ala si staccò progressivamente dalla Chiesa anglicana, fondando la Chiesa metodista. Il gallese riuscì così a sopravvivere proprio in quanto saldamente legato ad una cultura locale. Le missioni cattoliche dell’Africa hanno sempre cercato di favorire le lingue tribali sia per avere un mezzo di predicazione più immediato, sia per stroncare, laddove era penetrato, l’arabo. Oltre alla lingua e alla religione, però, gli individui trovano anche altri motivi di aggregazione sociale. Uno dei principali è sicuramente quello economico. L’uso della lingua in quest'ambito è uno dei più poveri: le trattative finalizzate al trasferimento di beni, servizi e denaro tendono ad essere effettuate attraverso codici linguistici facilmente comprensibili. Non è un caso se i primi ad aver compreso l’utilità di uno stesso modo di parlare siano stati i mercanti: le lingue franche, lingue mercantili, sono sorte proprio dalla necessità di comunicare con un gran numero di persone appartenenti a comunità linguistiche diverse in frequente contatto tra loro. Entrata in uso all’epoca delle Crociate, l’espressione “lingua franca” deriva dall’arabo al farang (lingua europea). Per quanto, perciò, “franco” sia oggi considerato qualsiasi idioma comune tra parlanti di estrazione diversa, la lingua franca per eccellenza (il sabir) fu una lingua di “servizio”. I mercanti provenienti dall'Asia con quelli europei, per comprendersi, avevano bisogno di uno stesso codice di comunicazione che combinasse le forme espressive più semplici e adatte tra quelle a disposizione. Ne derivò un linguaggio particolare — il sabir, appunto — dal lessico prettamente italiano (per lo più veneziano e genovese), spagnolo e catalano, con forti influenze greche, turche e arabe che, diventò strumento di relazione anche per chi non praticava il commercio. Il sabir iniziò a perdere la sua importanza man mano che le grandi vie commerciali cominciarono a prendere altre direzioni. Col passare del tempo, però, l’espressione “lingua franca” è divenuta sinonimo di lingua comune parlata da popoli aventi idiomi differenti. In questa accezione, i territori del bacino del Mediterraneo vennero “unificati” dal greco; poi fu il latino ad imporsi come lingua franca, divenendo lingua ufficiale dell'impero romano ma anche, finché non fu sostituito dalle diverse parlate europee, lingua della Chiesa, del governo, dell’istruzione e della legge. Al di fuori della sfera europea fu l’aramaico, mentre l’arabo diventò linguaggio unificante della religione musulmana. La grande eterogeneità linguistica dell’Africa ha reso inevitabile la nascita di numero lingue franche. Una di quelle che col tempo è andata cambiando valore è il kiswahili: sorto dalla convergenza tra le lingue bantu, il persiano e l’arabo, il kiswahili si diffuse, in seguito ai frequenti contatti commerciali, lungo le vie carovaniere che dal mare andavano verso l’interno, diventando lo strumento di comunicazione tra i gruppi bantu di quest'area. Adottato, poi, durante la colonizzazione tedesca come lingua amministrativa e militare, assunse successivamente il ruolo di lingua nazionale. Divenuto quindi ufficiale , il kiswahili è diffuso in una vasta area compresa tra la Somalia meridionale e il Mozambico settentrionale, è parlato come prima lingua da circa 5-10 milioni di persone e come seconda lingua da almeno 50 milioni: è ufficiale in Tanzania, Uganda e Kenya. Non è un caso se l’inglese svolge oggi sempre più a livello mondiale il ruolo di lingua franca. Il fatto che i principali centri motori dell’economia siano situati in aree di lingua inglese e che la scienza, le industrie e le grandi organizzazioni trovino in tale lingua lo strumento per arrivare ad un elevato numero di persone ha favorito la sua diffusione a livello planetario. Portato in tutto il mondo dall’impero coloniale britannico, l’inglese ha cominciato a sostituire il francese come lingua internazionale della diplomazia già dopo la prima guerra mondiale ed è poi divenuto l’idioma più usato tanto negli scambi commerciali, quanto in quelli culturali e scientifici. 3.5. Le lingue di contatto I locutori delle lingue occidentali sono abituati a riconoscere, nel loro territorio, un idioma come dominante rispetto a degli altri; in pratica, familiare è per loro una situazione in cui esiste una lingua nazionale (e in qualche caso due) ed alcune lingue di minoranza. In contesti di questo tipo vi sono, sì, occasioni di contatto, ma si tratta generalmente di fenomeni poco diffusi e, il più delle volte, unidirezionali, dal momento che le lingue minoritarie subiscono comunque in modo più o meno evidente l’influenza dell’idioma di maggioranza. Laddove guardassimo, però, oltre i confini dell'Europa, potremmo osservare come le cose siano spesso notevolmente diverse. Se considerassimo la situazione del Ghana, potremmo notare che, pur essendo presenti qui oltre settanta lingue diverse, unica ufficiale è l’inglese, parlata nativa di una porzione largamente minoritaria degli oltre 20 milioni di abitanti del Paese; ciascun individuo adulto conosce quindi, oltre alla propria lingua madre, almeno una parlata veicolare ed una varietà aver conosciuto una progressiva espansione, pur mantenendo l’esclusivo ruolo di seconda lingua per i suoi locutori, è stata l’esperanto. Sviluppato dall’oftalmologo polacco Zamenhof, l’esperanto è di gran lunga la più conosciuta ed utilizzata tra le lingue artificiali esistenti. Presentata come lingua internazionale, prese in seguito il nome di esperanto dallo pseudonimo utilizzato dal suo creatore. L’esperanto intendeva porsi al di sopra di ogni differenza etnica, politica, religiosa, contro il predominio dei più forti ed i rischi di una visione monoculturale del mondo. Il suo obiettivo non era, perciò, quello di sostituire le lingue nazionali, quanto piuttosto quello di fornire uno strumento semplice da adoperare e non discriminatorio per la comprensione reciproca a livello internazionale. Ortografia, fonetica, grammatica e sintassi non potevano basarsi che su principi di semplicità e regolarità. Le regole della grammatica furono scelte da quelle di varie lingue studiate da Zamenhof; i vocaboli furono tratti alcuni da lingue non indoeuropee, ma per lo più dal latino, dalle lingue romanze, da quelle germaniche e da quelle slave. Grazie ad un razionale sistema di radici, prefissi e suffissi, il lessico riusciva ad esprimere le sfumature di pensiero in una forma comprensibile anche a popoli di traduzioni culturali differenti. Fu per tutti questi motivi che l’esperanto cominciò a diffondersi in Europa, tanto tra gli intellettuali quanto tra la gente comune. Oggi l’esperanto viene usato quotidianamente, in forma parlata e scritta, e da alcuni organismi a carattere generale, insieme a numerose associazioni specializzate; opere originali in tale lingua sono edite in ogni parte del mondo; trasmissioni radiofoniche e televisione in esperanto hanno luogo regolarmente da varie stazioni. Ma una lingua artificiale non ha un popolo e non ha una cultura. D'altra parte, pur se si considerassero tali lingue come parlate franche, andrebbe comunque sottolineato che la forza delle lingue franche stava nel fatto che non si trattava di creazioni astratte, ma di codici comunicativi nati da un’esigenza reale per quanto contingente. In altre parole, una lingua artificiale può somigliare ad una lingua franca senza, però, averne la forza espressiva e la vitalità. Se le lingue artificiali non vengono adottate la causa non sta tanto in un complotto imperialistico, quanto piuttosto nella mancanza di motivazioni: per apprendere una seconda lingua, infatti, ciascun parlante deve avere uno stimolo, un obiettivo, un bisogno da soddisfare; saranno le sue scelte a determinare quale lingua verrà adottata. Per quanto riguarda in particolare l’esperanto poi, pur ipotizzando che un gran numero di persona possa impararlo, andrebbe considerato che in questo modo, nel giro di un paio di generazioni, finirebbero con lo svilupparsi decine di esperanti diversi, per cui probabilmente non si capirebbe neanche più. Le lingue, infatti, sono sottoposte all’azione di due forze contrapposte. Da un lato, una tendenza all’unificazione; dall’altro, una tendenza alla differenziazione. IV Capitolo DINAMICHE LINGUISTICHE NELLO SPAZIO E NEL TEMPO 4.1. L'evoluzione linguistica nel tempo Le lingue cambiano internamente — attraverso la creazione di parole nuove, la perdita di vocaboli o l’adozione di termini stranieri — così come possono estendersi. Il lessico è la parte più esposta al mutamento. Nuove parole entrano nell’uso per indicare qualcosa che prima non c’era: neologismi e prestiti da lingue straniere trasformando il vocabolario; al tempo stesso, vecchie parole ne escono (diventando degli arcaismi) e termini già esistenti vanno assumendo nuovi significati. I diversi idiomi assumono così nel tempo nuovi valori, o rafforzano quelli che già hanno, o li perdono del tutto o in parte. La dinamica linguistica non dipende soltanto dal dato demografico, quanto piuttosto dalla capacità che ha un gruppo di elaborare cultura e trasmetterla ad altri; è chiaro allora che, quando il numero dei suoi locutori scende al di sotto di una certa soglia, una parlata perde vitalità, ma nell’espansione (o nel declino) di una lingua contano maggiormente l’organizzazione sociale e politica, l’efficienza del sistema economico, la forza innovativa, la possibilità di trasmettere le informazioni: sono questi i fattori a determinare il valore positivo e negativo della sua evoluzione. Saranno quindi i caratteri e la forza del popolo che la utilizza a darci prova della sua capacità espansiva. Una comunità efficiente e in grado di imporre ad altri i propri modelli organizzativi, dotata di un’economia forte ed aggressiva sui mercati esteri, provvista di mezzi editoriali solidi e di strutture per l’informazione di massa capillari potrà espandere la sua area linguistica in modo ben più rapido e consistente di quanto non possa fare un trend demografico favorevole; la sua popolazione, cioè, potrà anche crescere, ma in mancanza di queste condizioni la dinamica linguistica non riuscirà ad essere positiva. Si pensi al caso di quelle lingue decadute proprio perché le relative comunità sono andate perdendo vivacità culturale o capacità di controllo del proprio territorio. Un tempo esse erano lingue di comunione di individui che riuscivano a mantenere la loro cultura e che attivavano forme di produzione volte essenzialmente all’autoconsumo. Dal momento, però, che i relativi raggruppamenti etnici non sono più chiusi, esse hanno perso la loro capacità di servire alle normali relazioni all’interno del gruppo, finendo con il diventare seconde lingue, utilizzate in ambiti territoriali e sociali sempre più ristretti; tutt'al più, esse hanno assunto talvolta il ruolo di lingue “di bandiera”, utili per sollevare in certi momenti i problemi e le rivendicazioni dielle proprie comunità. Una lingua, d’altra parte, deve essere in grado di adattarsi alle innovazioni tecnologiche e ai nuovi rapporti sociali e produttivi. È stato così che le versioni della feudalità e la rivoluzione industriale hanno determinato la sovrapposizione della lingua nazionale ai dialetti regionali: la decadenza dell’economia rurale portò con sé anche il declino di quelle parlate che, efficaci in un piccolo spazio di relazioni, non lo furono più con l’instaurarsi di un mercato nazionale. Emblematico, in tal senso, è l’esempio delle lingue celtiche dell’arcipelago britannico. Completamente assorbite le comunità minori dell’isola Man e della Cornovaglia, le lingue celtiche rimasero confinate nelle zone più isolate ed arretrate dell’Irlanda, della Scozia e del Galles; laddove sopravvive qualche struttare preindustriale, furono ancora in grado di soddisfare le esigenze di comunicazione, ma l’inglese riuscì a diffondersi ovunque, prevalendo prima lungo le vie di comunicazioni principali, nei centri urbani e nelle zone industriali e minerali, continuando poi ad avanzare via via che queste regioni diventavano mete turistiche. Il processo di riorganizzazione territoriale imposto dall’ Inghilterra industriale finì così per arrestare l’autonoma evoluzione tanto delle loro strutture sociali quanto delle loro lingue. Il francese di Parigi, si presenta più “moderno” rispetto a quello delle provincie, così come quello d’Europa è mutato più rapidamente rispetto a quello del Québec. Tra le lingue indoeuropee, poi, il lituano e il lettone sono rimaste quelle più immobili e complesse proprio perché prive di un centro innovatore. Ancora, nell’insieme germanico la lingua più periferica, l’islandese, si configura come un vero e proprio fossile e nel subcontinente indiano, il marathì, la lingua più lontana dal centro di diffusione gangetico, è rimasta la più arcaica. La lingua che diviene predominante, non deve certo il successo alla struttura interna, bensì alla capacità innovatrice del gruppo che la utilizza. Vero è pure, che le lingue cosiddette minori non sono in difficoltà unicamente a causa del peso, di certi idiomi (come il cinese mandarino, l’inglese, l’hindi o lo spagnolo) con un numero di locutori elevato; responsabili dell’estinzione di molte parlate sono lo sviluppo economico e la globalizzazione, la diffusione dei moderni mezzi di comunicazione di massa, i flussi migratori. Non c’è nulla di inconsueto nella morte di una lingua. Un gruppo etnolinguistico è costituito da diversi elementi di stretta interconnessione e la loro parlata costituisce soltanto uno di questi elementi; ad ogni variazione di uno conseguono variazioni e adattamenti degli altri, e se tutti o quasi gli altri elementi vengono meno anche la lingua andrà perdendo l’importanza finendo con l’esitnguersi. La scomparsa di un idioma costituisce un evento frequente nel continuo susseguirsi delle civiltà e delle culture, anche se nella stpria del genere umano nessuna lingua è morta senza lasciare traccia di sé negli idiomi (come il greco antico e il latino). Oggi, però, ciò che risalta è la dimensione del problema: le circa seimila lingue parlate sulla terra, sembra probabile che pressappoco la metà sparirà nel giro di un secolo. Siamo di fronte a un’estinzione linguistica senza precedenti. Secondo l’Atlante internazionale delle lingue in pericolo di estinzione presentata dall'UNESCO, ad essere sull’orlo della scomparsa, o a rischiare una morte certa, sono soprattutto le parlate delle regioni a forte diversità linguistica (l'Africa subsahariana, l’America del Sud, la Malaysia). E non si tratta solo di idiomi con poche centinaia di parlanti, d’altra parte, nemmeno per una lingua che conti centomila locutori vi sono garanzie che essa sopravvivrà nel giro di un paio di generazioni: tutto dipenderà dalle pressioni che verranno esercitate su di essa e dall’atteggiamento delle persone che la adoperano. Una lingua muore quando muore l’ultima (o, come notano alcuni, la penultima, perché allora l’ultima non ha più nessuno con cui usarla) persona che la parla; dopo, può continuare ad esistere solo se è stata messa per iscritto o se è stata registrata in qualche modo. Una volta che un idioma perde la sua ultima comunità di parlanti madrelingua, il compito di farlo risorgere è estremamente difficile. Le ragioni per cui una lingua può scomparire sono molteplici. Ciò può accadere in seguito a diglossia, cioè, quel fenomeno di divaricazione sociolinguistica che porta alla sua fossilizzazione in quanto parlata colta, è stata questa la sorte di quelle lingue antiche sono diventate morte. Ma un idioma può estinguersi anche per effetto della differenziazione dialettale dovuta alla dispersione, all’isolamento: una lingua “lasciata a sé stessa”, e senza istituzioni politiche e culturali, tende a frantumarsi in più elementi tra i quali l’intercomprensione va man mano riducendosi. Però, la scomparsa della lingua può dipendere anche da ragione extralinguistiche: il prevalere di un gruppo etnico su un altro, può provocare, infatti, la dispersione della lingua del gruppo che subisce il processo di acculturazione. Si può, così, imporre una lingua, per esempio dichiarandola come unica ufficiale o costringendo le popolazioni locali a parlarla, o si può vietare una parlata che si intende eliminare; si può distruggere la cultura tradizionale di una comunità o impedire che i bambini imparino la loro lingua madre. Mentre alcune lingue hanno abbandonato la scena della storia, altre vi si sono affacciate: da un lato, lingue vergenti, espressione cioè di gruppi o di Stati che hanno raggiunto l’indipendenza (si pensi del kiswahili in Africa); dall’altro lingue “resuscitate” per azione di una comunità etnica: così dei rapporti di forza, la lingua è al centro di relazioni di diverso tipo, è uno dei più potenti mezzi d’identità di cui una popolazione dispone; le sue funzioni sono molteplici, e proprio in virtù di ciò essa è al centro di relazioni segnate dal potere. Pur non essendoci alcun fondamento teorico per affermare la superiorità di una lingua sulle altre, è giocoforza riconoscere che certe lingue coprono spazi enormi e sono adoperate da un gran numero di persone, mentre altre hanno un utilizzo bel più limitato e circoscritto a determinate aree. Si tratta di un problema di potere: in quanto strumento di potere e di azione sociale, la lingua può essere manipolata con maggiore o minore efficacia; un’oppressione linguistica è dunque possibile: essa entra in gioco ogni volto che un gruppo si vede imporre una lingua diversa dalla propria. E non v’è differenza fondamentale a livello dei meccanismi a seconda che si consideri una situazione interna o esterna ad un’unità statale: la lingua rimane uno strumento di potere ed il potere può attualizzarsi in essa poiché intere comunità possono essere tributarie di una lingua dominante per il loro accesso al campo culturale moderno. 4.3. Le politiche linguistiche L’espansione di una lingua, così come la contrazione della sua area di impiego o la sua scomparsa dall’uso normale derivano da tutta una serie di elementi; su alcuni di questi chi governa la comunità può agire concretamente, intervenendo per favorire un idioma piuttosto che un altro, per favorirne il declino o, al contrario, per farlo progressivamente arretrare. Sovrani e governanti hanno sempre avuto interesse a preferire una determinata parlata per i loro impieghi e ad imporne conseguentemente l’uso. L’affermarsi dei nazionalismi portò con sé l’idea che una lingua comune fosse una necessità imprescindibile. Al principio predominante all’epoca della Riforma protestante (quel cuius regio eius religio che imponeva la religione del principe all’intero territorio) andò così affiancandosi un’altra imposizione: quella secondo cui la lingua del principe doveva diventare quella del Paese (cuius eius lingua); chi, perciò, abitante di un certo territorio statale, rappresentava un pericolo da combattere. Numerosi furono i Paesi che portarono avanti politiche decisamente assimilazioniste nei confronti delle minoranze presente nel territorio, costringendole ad abbandonare la loro lingua in favore di quella nazionale e cercando di eliminare qualsiasi forma espressiva che risultasse diversa rispetto a quella del potere centrale: collegando, in sostanza, il patriottismo e un monolinguismo che escludeva tutto quanto non fosse conforme all’archetipo di nazionale diffuso dall’unica lingua ammessa. Dovunque, a sostegno dell’esclusivo linguistico, hanno giocato l’esaltazione dell’unico idioma riconosciuto e il misconoscimento degli altri, giudicati come patois di livello inferiore. Le motivazioni concrete per decidere di intervenire in un senso o nell’altro su una determinata situazione possono essere diverse. Oltre ad un’errata considerazione relativa alle forme di espressione minori (i dialetti), più ragionate valutazioni di opportunità politica possono portare alla decisione di non ostacolare le lingue di certi territori dominanti o, in questi casi, si può addirittura far scomparire un idioma trasferendo con la forza tutti i suoi locutori in un altro luogo difficilmente rinuncia ad esercitare il proprio potere anche in ambito linguistico. Lo sforzo di svalutazione degli altri idiomi si accompagna solitamente a tutta una serie di misure pratiche volte a favorire la diffusione di una lingua a scapito della o delle altre. La prima è la conquista del monopolio nella scuola, con l'insegnamento obbligatorio della (e nella) lingua prescelta al fine di creare un iniziale bilinguismo; in un secondo momento, si può introdurre ufficialmente il bilinguismo. Qualora si miri invece all’eliminazione di una lingua, il più delle volte si comincia con delle azioni indirette, cercando di esercitare sui suoi locutori una sorta di condizionamento psicologico che li spinga a ritenere di livello inferiore quella che è la loro parlata originaria e scoraggi pertanto dall’usarla abitualmente. Le altre misure possono variare in base a quello che è il grado di liberalismo dei diversi governi: si va dal semplice rifiuto di accettare testi e dichiarazioni che non siano redatti nell’idioma ufficiale ad esclusione dei mass media della lingua che si vuole colpire, fino al formale divieto di adoperare una lingua messa al bando e alla cancellazione di ogni riferimento culturale e etnolinguistico dal territorio.; così, procedendo con l’oppressione linguistica, sarà possibile intervenire sui vari ambiti di impiego di un idioma. Nei casi, poi, in cui si giunga alla totale estinzione di una parlata per effetto di una politica risolutamente repressiva si potrà parlare di linguicidio. Tutti gli Sati hanno una propria politica linguistica, a volte palese, a volte meno, a volte imposta, a volte stabilizzata da tempo, con cui si può cercare di favorire l’uso di una lingua a scapito di un’altra. La situazione è più semplice laddove il processo di unificazione politica è stato accompagnato dal processo di unificazione linguistica ormai consolidato; nel mondo in via di sviluppo e negli Stati multinazionali, invece, il problema si presente spesso in forme ben più complesse. Alcune società non solo si sono adattate alla pluralità linguistica, ma l'hanno preservata e difesa: in Svizzera, ad esempio, malgrado il tedesco abbia sempre avuto una forza attrattiva maggiore delle parlate romanze, lo spirito democratico ha favorito la piena accettazione di tutte le diverse forme di espressione ed il multilinguismo ha rafforzato uno spirito di tolleranza basato sul riconoscimento reciproco, lo coesistenza pacifica e gli scambi tra le diverse culture. La Svizzera rimane l’unico Paese plurilingue in Europa privo di tensioni interne derivanti dalla competizione fra parlate differenti. In altri casi è stato ben più difficile trovare una soluzione: il Belgio, ad esempio, ha impiegato oltre 130 anni per trasformarsi da monolingue in bilingue. Qui la convivenza fra Fiamminghi parlanti neerlandese e Valloni francofoni è stata particolarmente problematica. Come idioma ufficiale venne adottato il francese che si contrappose nettamente al fiammingo, che rimase relegato all’uso vernacolare. Alla divisione tra le due comunità corrispondeva una situazione di altrettanto chiara differenziazione economica. Solo molto lentamente i Fiamminghi riuscirono ad opporsi alla forza del francese, prima grazie ad un movimento sorto nelle loro città principali e poi proseguendo il proprio processo di emancipazione grazie alle nuove materie prime provenienti dalle colonie. La questione linguistica si confermò un conflitto a più ampio spettro con il boom economico degli anni cinquanta, quando il baricentro economico del Paese si spostò dalle industrie minerarie e tessili della Vallonia ai nuovi poli industriali delle Fiandre. Consapevoli della complessità del problema linguistico, i leader politici vararono un apposito pacchetto legislativo (leggi Gilson) con cui si stabilì in via definitiva il confine linguistico tra le due comunità, venne istituito il bilinguismo nei comuni della regione di Bruxelles, e fu regolato l’uso dei diversi idiomi nell’insegnamento. In seguito al processo di revisione della Costituzione, il Belgio è divenuto uno Stato con due lingue contrapposte; soltanto Bruxelles è luogo in cui effettivamente francese e neerlandese si incontrano in un reale bilinguismo. AI di fuori dell’Europa, il problema della coesistenza di gruppi linguistici diversi si è posto in India, Pese che non riuscì a placare le tensioni di origine linguistica; molte etnie hanno continuato a combattere per vedere riconosciuto il proprio diritto ad un’identità linguistica e per avere proprie istituzioni culturali e territoriali. Da anni le problematiche legate alle lingue continuano ad alimentare conflitti. I movimenti che un processo di presa di coscienza linguistica ed etnica innesca non avvengono senza coinvolgere la struttura e l’esistenza stessa degli Stati, e posso provocare la conservazione e l’integrazione oppure lo smembramento. Anche nei casi in cui si è provato a trovare una soluzione adeguata al problema, tuttavia, talvolta le situazioni sono esplose drammaticamente. Si pensi all’ex Unione Sovietica: la suddivisione principale sancita nella Costituzione, riconosceva quindici Repubbliche Socialiste, in molte delle quali (e soprattutto in quella russa), si trovavano più gruppi etnolinguistici differenti che, in base al loro grado di sviluppo, godevano di una maggiore o minore autonomia; lo Stato sovietico riuscì a mantenere il controllo della situazione, ma con il suo collasso le rivalità sopite per decenni sono esplose. Più in generale, comunque, al di là di qualsiasi adattamento tra la struttura degli stati e la realtà dei gruppi etnolinguistici, si può notare dovunque una tendenza all’omogeneizzazione degli usi linguistici; ciò trascende le tensioni momentanee e va ricollegato al fatto che la lingua ha una funzione primaria di relazione tra gli individui, una funzione che è ben più forte di qualsiasi carattere etnico o socioculturale: ecco perché l’assimilazione linguistica risulta, alla lunga, vincente. 4.4. La tutela delle lingue minori Anche relativamente ai rapporti tra maggioranza e minoranze linguistiche le politiche degli Stati si presentano alquanto differenziate. Certi ordinamenti si limitano ad un atteggiamento di tolleranza fondato sulla libertà di lingua concessa a tutti i cittadini indipendentemente dalla loro appartenenza ad una determinata comunità; altri oscillano tra la considerazione delle espressioni linguistiche minoritarie, come beni culturali ed il riconoscimento dell’idioma come elemento distintivo di un certo gruppo sociale. Il governo francese — che ha sempre scoraggiato l’uso delle lingue regionali parlate nel Paese con una politica indifferente, ma non neutrale — ha riconosciuto alcuni diritti, primo tra i quali l’insegnamento nella propria lingua, alla minoranza germanofona dell’ Alsazia e della Lorena. Non è un caso: l’esistenza di un grande e potente Stato di lingua tedesca ha infatti indotto la Francia a concedere un maggior grado di libertà linguistica a questi abitanti, così da trovare più ampia legittimazione presso di loro attraverso una politica di apertura. Oggi Strasburgo, sede del consiglio d'Europa e del Parlamento Europeo, è una città plurilingue in cui le due diverse aree culturali sembrano fondersi meglio che altrove in una nuova e più ampia dimensione. Andrebbe ricordato che nella realtà quelle definibili come comunità alloglotte sono sicuramente meno numerose rispetto alle situazioni che vedono invece un gruppo nella posizione di minoranza. Lo statuto della co-ufficialità può variare per intensità ed estensione dalla massima garanzia della parificazione formale delle lingue minoritarie all’idioma ufficiale fino a tutta una serie di misure collegate al riconoscimento di determinati usi pubblici entro limiti territoriali definiti. Se da una parte questa aspirazione a realizzare il bilinguismo entro ambiti territoriali definiti sembrerebbe rispondere alla duplice esigenza di tutelare le lingue e di prevenire i conflitti favorendo la pacifica convivenza, è pur vero, dall’altra, che una rigida applicazione di tale criterio rischia di sacrificare il fondamentale diritto alla libertà di lingua, potendo risolversi in un pregiudizio ulteriore per le espressioni culturali più deboli e in un rapporto di rafforzamento per i gruppi già abbastanza protetti. intendiamo quei sistemi organizzati di vocaboli mediante il quale gli esseri umani comunicano tra loro comprendendosi reciprocamente. Più opportuno, per identificare e raggruppare le migliaia di parlate esistenti, è invece analizzare la struttura particolare di ognuna di esse e compararla con quella delle altre, vicine e lontane. Varie sono le classificazioni adottate negli anni dagli studiosi, che basandosi ora sulla morfologia, ora sulla sintassi, ora su altri criteri hanno suddiviso le lingue in grandi categorie; da un punto di viste geografico, però, nessuna di tali classificazioni risulta particolarmente interessante. L’unica a presentare un certo interesse anche per la Geografia è la classificazione fondata sul criterio cosiddetto genealogico. Secondo tale criterio, nel panorama mondiale possono essere distinti vari gruppi di lingue, caratterizzati da un elemento: i vari idiomi che ne fanno parte si assomigliano tra di loro in quanto tutti discendenti da un medesimo idioma originario ormai estinto. In una famiglia linguistica rientrano più lingue accomunate da certi caratteri e legate da una stessa evoluzione. Il tempo che è passato, però, le ha rese diverse l’una dall’altra e reciprocamente ben poco comprensibili. Il criterio genealogico era già stato istituito da Leibnitz ma solo nel corso è stato precisato dalla linguistica storico-comparativa. Prima con la teoria dell’albero di Schleicher, poi con l’avvento della glottocronologia (o lessico-statistica). L’origine delle parole usate in un determinato momento in una lingua dà modo di misurare la distanza che separa questa lingua dalla sua lingua madre; la “scoperta” delle famiglie linguistiche ha così permesso di ragionare sulle evoluzioni passate. La suddivisione degli idiomi in base alla loro origine e al loro sviluppo storico resta utile da più punti di vista, essendo il percorso di studio della linguistica storico-comparativa collegato a numerosi campi della cultura. Alcune analogie lessicali e grammaticali consentono di riconoscere le relazioni tra le famiglie linguistiche: tracciando determinate costanti fonetiche delle diverse lingue nel corso del tempo. Questa forma primitiva, capostipite, della lingua viene definita protolingua. In quasi tutta l’area dell’ex impero romano è facile riscontrare come siano in uso una serie di idiomi tra loro somiglianti che presentano altrettante affinità con il latino; nel caso di queste lingue — cosiddette romanze — tale capostipite è chiaramente identificabile nel latino. Per altre famiglie, invece, risulta più difficile tracciare con chiarezza simili relazioni tra termini riconducibili alle medesime radici protolinguistiche: le lingue appartenenti al gruppo germanico ad esempio — al cui interno gli studiosi distinguono un settore orientale ormai estinto, uno settentrionale (comprendente le lingue scandinave) ed uno occidentale (con il tedesco, l’inglese e il neerlandese) — derivano da una protolingua poco nota, e che non ha lasciato praticamente alcuna documentazione scritta. Così anche per il polacco, il russo, il serbo-croato e le altre lingue che costituiscono il gruppo slavo, mancano di documenti scritti relativi ad un supposto paleoslavo. Anche tra le lingue di questi diversi gruppi esistono delle somiglianze. Si consideri, ad esempio, la nostra pronuncia del numero 7: questo deriva evidentemente — come anche quelle del francese (sept), dello spagnolo (siete), del portoghese (sete) — dal latino septem; le stesse pronunce non sono poi così diverse da quelle dell’inglese (seven), del tedesco (sieben), del russo (sem) o del croato (sedam). Studi specifici su simili somiglianze portarono ad ipotizzare che le lingue europee potessero essere considerate ramificazioni (sottofamiglie) di una protolingua comune, e che quindi potessero esser ritenute parte di una famiglia ancora più vasta, che i linguisti denominarono indoeuropea. Non solo: una volta intrapreso lo studio scientifico di alcune lingue parlate al di fuori dell’Europa, si vide che erano imparentati con quelli dei gruppi europei sopra menzionati; anch'essi, pertanto, rientravano nella famiglia indoeuropea, all’interno della quale risultava evidente la distinzione tra un ramo occidentale (quello europeo) e uno orientale (quello indoiranico). I glottologi sono riusciti a ricostruire alcune parole della lingua originaria attraverso l’esame di alcuni termini facenti parte dei diversi idiomi della lingua indoeuropea. L’analisi dello spostamento (o rotazione consonantica) ha consentito, così, di procedere a ritroso, ricostruendo, a partire dal lessico, l'albero genealogico delle lingue. Si prenda il caso del latino octo, divenuto in italiano otto, in spagnolo ocho, in francese huit, in rumeno opt; o, ancora, quello del termine latino lactis, da cui sono derivati l’italiano latte, lo spagnolo leche, il francese lait ed il rumeno lapt: da questi e da altri esempi simili si può dedurre che dal gruppo consonantico latino ct si sia avuta un’evoluzione in italiano verso tt, in spagnolo verso ch, in francese verso it ed in rumeno verso pt. Era stato Jakob Grimm a far notare come idiomi collegati abbiano consonanti simili ma non identiche a teorizzare che tali consonanti sarebbero cambiate nel corso del tempo in modo prevedibile. Dalle sue idee e da quelle di William Jones — il quale aveva studiato il sanscrito, riscontrandone le straordinarie somiglianze lessicali e grammaticali col greco ed il latino — era scaturita la prima importante ipotesi linguistica postulante l’esistenza di un’antica lingua — il (proto)indoeuropeo appunto — da cui sarebbero derivate il latino, il greco ed il sanscrito. La scoperta di tali similarità permise di intuire che le lingue mutano nel tempo e nello spazio. 5.2. La ricerca linguistica nel tempo Il tedesco Schleicher affermò che alla base della formazione di un idioma, vi è un processo di divergenza, ovvero indifferenziazione nel tempo e nello spazio. I diversi idiomi si sarebbero, cioè, ramificati in dialetti e questi, con il tempo, divenuti sempre più diversi l’uno dall’altro, sarebbero a loro volta diventati lingue. C'è, tuttavia, un fattore di complicazione di cui non si può tener conto, e cioè il fatto che i popoli si spostano: in altri termini, man mano che andava avanti il processo di divergenza linguistica le persone migravano. Potendo allora le lingue propagarsi, è possibile che dal contatto tra parlate a lungo isolate scaturisca una qualche convergenza. In sostanza, le migrazioni danno origine a lingue differenti e reciprocamente incomprensibili. Trasformazioni di questo tipo si verificano abitualmente e naturalmente all’interno di ciascuna parlata, e tendono a passare inosservate. Accanto alla mobilità umana va considerato un ulteriore elemento di complicazione: le lingue di gruppi poco numerosi e tecnologicamente poco evoluti sono sempre state considerevolmente modificate — quando del tutto rimpiazzate — dalle lingue di invasori più forti. Tale processo — definito di sostituzione linguistica — avviene sostanzialmente attraverso due meccanismi: le espansioni e la conquista da parte di un gruppo umano. In un caso, individui sottoposti a pressione demografica si spostano verso aree disabitate o abitate da altri gruppi etnici ad un livello economico meno evoluto, sopprimendo, schiavizzando o assorbendo le popolazioni locali. Nell’altro, un popolo conquistatore (anche una minoranza, se ben organizzata) assume il comando di un territorio imponendovi la propria lingua e gran parte delle proprie tradizioni culturali. Le lingue indoeuropee si sono estese ben al di là del proprio territorio, soprattutto in conseguenza della colonizzazione europea nelle Americhe, in Africa, in Asia; allo steso modo, nell’Asia sud-orientale. Ancora, l’uso dell’arabo si è esteso grazie all’espandersi dell'Islam attraverso buona parte dell’Africa del Nord e dell’Asia sud-occidentale, dove ha preso il posto di tutta una serie di varianti locali. La ricostruzione anche solo di un piccolo ramo dell’albero linguistico risulta impresa complessa per gli studiosi. Basterebbe notare come in Europa, per esempio, l’ungherese non appartenga alla stessa famiglia di tutti i suoi vicini. La proporzione di parole con la stessa origine ci fornisce una misura della prossimità tra queste lingue o dell’affinità linguistica tra le popolazioni corrispondenti. Il problema principale sta nella velocità con cui il linguaggio si evolve. La ricerca storico-comparativa non poteva essere condotta a caso, su qualsiasi parola; la scelta doveva essere guidata dal ragionamento. Innanzitutto, andavano messi a confronto alcuni termini presenti in ciascuna lingua presa in considerazione. Poi, sarebbe stato utile osservare altre parole, proprie di certe lingue e non di altre. Come quelle relative alle condizioni ambientali che forniscono utili informazioni sulla regione d’insediamento di un gruppo umano: qualora nel lessico di una popolazione vi fossero, ad esempio, più termini relativi al deserto, sarebbe facile ricavarne che quel gruppo fosse insediato in una regione arida. È così che la Linguistica storico-comparativa ha cercato di far luce sulle genti che parlavano il postulato idioma originario, per capire chi fossero, dove abitassero e come vivessero, e, ancora, per ipotizzare quale fosse la loro regione originaria, in quali direzioni tali genti si fossero spostate, e quando abbiano iniziato a differenziarsi prima i vari gruppi e poi le rispettive lingue. Riconoscendo parole simili nella maggior parte degli idiomi indoeuropei, i linguisti hanno potuto scoprire che la protolingua possedeva termini per certe forme del terreno, per un certo tipo di vegetazione e per determinate caratteristiche naturali: ne hanno potuto dedurre che i primi Indoeuropei dovevano essere insediati in una regione dotata di fiumi e specchi d’acqua, ma lontana dal mare, che l’organizzazione socioeconomica era quella del Neolitico e che l'economia si basava più sulla pastorizia che sull’agricoltura; la mancanza di una terminologia riferita alla vita urbana mostrava, inoltre, che si trattava di genti nomadi. Secondo alcuni studiosi, il luogo d’origine doveva trovarsi a nord del Mar Nero; da qui i primi parlanti si propagarono sia verso est che verso ovest. È questa la teoria della dispersione della lingua attraverso la conquista (detta anche demica, in quanto erano i popoli a muoversi). Nel caso dell’Europa gli spostamenti dei suoni nelle lingue derivate sembravano confermare proprio una divergenza di lungo periodo in direzione ovest. Per seguire le varie ondate di migrazioni delle popolazioni indoeuropee può essere utile richiamare brevemente le vicende dell’importante civiltà neolitica fiorita. La loro società denotava un’organizzazione più progredita rispetto a quella dei gruppi la cui economia si basava esclusivamente sulla caccia e la raccolta; praticavano infatti l'allevamento, il commercio e le razzie, ed una parte si dedicava anche a qualche produzione agricola. Nel corso di questa fase, vari gruppi si diressero a nord, invadendo l’Ucraina e la Polonia; alcuni si stabilirono nella penisola balcanica e nella parte centro-settentrionale di quella italiana. Una terza ondata di Indoeuropei giunse infine in Europa attorno al 2.800 a.C., a questa fase risalirebbe l'insediamento dell’area danubiana di quei gruppi le cui lingue avrebbero dato origine al greco e, probabilmente, alle lingue indoiraniche, mentre dalle parlate degli invasori inizialmente diretti verso nord si sarebbero formati i gruppi italico, celtico e germanico. Le fasi finali della dispersione delle lingue antiche nel mondo sono avvenute nell’ambito delle isole del Pacifico e nelle Americhe. Si potrebbe credere che la sequenza degli eventi sia, in questo caso, più facile da ricostruire; dopo tutto, i popoli che hanno attraversato il Pacifico portarono le loro parlate in isole disabitate, e anche la penetrazione dell’uomo nelle Americhe non dovrebbe aver determinato alcuna convergenza con idiomi preesistenti. Non tutti, però, la pensavano allo stesso modo: l'americano Joseph Greenberg affermò che le lingue precolombiane potevano essere raggruppate in tre solo famiglie, ognuno corrispondente ad un’importante ondata migratoria dall’Asia verso il Nuovo Mondo. La più antica ed ampiamente distribuita era quella amerinda; la seconda, molto meno diffusa, era quella na-dené; la terza era la famiglia eskimo-aleutina. Molti colleghi di Greenberg criticarono la sua ipotesi, sostenendo che egli non avesse seguito idonee procedure di ricostruzione; anche a volerne ridurre il numero — secondo loro- le famiglie linguistiche americane avrebbero dovuto essere almeno una sessantina. I risultati della genetica, tuttavia, finirono col confermare in pieno la teoria di Greenberg. La distribuzione mondiale dell’umanità moderna era stata determinata da alcune grandi migrazioni. La prima fu quella che vide la partenza dell’ Homo erectus dall’Africa orientale; la seconda portò 1’ Homo sapiens nell’Eurasia, qui, questi eliminarono l’Homo erectus e i suoi successori; terza grande migrazione fu quella dell’Homo sapiens sapiens. I sapiens si divisero in due rami: uno di questi arrivò fino in Nuova Guinea e in Australia; l’altro diede origine alle popolazioni del Sud-Est asiatico e della Cina meridionale, poi venne raggiunto lo stretto di Bering. Il passaggio attraverso lo stretto di Bering avvenne in più riprese: i primi arrivati si spinsero via via fino all’estremità meridionale del continente, mentre l’ondata successiva si fermò per lo più all’attuale Canada; gli ultimi arrivati avevano potuto occupare solo la zona artica. Nella fase di transazione tra Paleolitico e Mesolitico vari gruppi iniziarono a mettere a punto nuovi sistemi di agricoltura e allevamento, grazie ai quali riuscirono ad ottenere disponibilità di cibo crescenti. Le migrazioni divennero più rapide: a muoversi erano infatti popoli che avrebbero presto imparato a realizzare oggetti di metallo, e che sapevano come selezionare certe piante ad uso alimentare ed addomesticare certi animali. La genetica ha fornito, poi, ulteriori conferme, tale scienza è agevolata rispetto alla linguistica dal fatto che le sue “tracce” genetiche rimangono per decine e decine di generazioni, mentre una lingua priva di scrittura assorbita da un’altra può scomparire del tutto. Nello studio sistematico delle lingue — si è osservato — la maggior parte di esse può essere ricondotta a determinate famiglie linguistiche. Anche se non è ancora stato costruito un albero completo, si è riconosciuto un buon numero di famiglie linguistiche: alcune di queste — come quella indoeuropea — furono scoperte molto tempo fa e sono oggi universalmente accettate. Nonostante gli sforzi fatti, sono pochi i passi in avanti compiuti verso il possibile traguardo di una classificazione gerarchica completa e realmente filogenetica di tutte le famiglie linguistiche; tale obiettivo, d’altra parte, non è certo facile da raggiungere, dal momento che il grado di evoluzione linguistica è tale che non è possibile notare quasi nessuna relazione tra lingue appartenenti a famiglie molto diverse una dall’altra. Gli studiosi sono giunti all’identificazione di superfamiglie. Due gruppi di ricercatori hanno identificato, indipendentemente tra loro, due superfamiglie in gran parte sovrapponibili: quella del nostratico, composta da 6 famiglie; e quella euroasiatica, comprendente anch'essa 6 famiglie. Dalla ricerca congiunta nei diversi settori sono derivate nuove classificazioni di idiomi parlati nel mondo; una in particolare gode tuttora di ampia credibilità, ed è quella proposta da un allievo di Greenberg, il quale ha identificato 17 gruppi tassonomici principali, tra cui le famiglie afroasiatica, caucasica, indoeuropea, austrica e australiana. 5.3. La distribuzione delle lingue nel mondo Per ciò che riguarda la linguistica esterna — ovvero l’analisi dei caratteri esterni di una parlata (estensione, uso, funzione) — il primo criterio per valutare l’importanza di una lingua è il numero dei suoi locutori; le lingue, infatti, differiscono enormemente da questo punto di vista: oltre la metà degli abitanti del pianeta ha una lingua madre che fa parte di un gruppo di otto fra le migliaia di idiomi esistenti, e almeno la metà adopera regolarmente o si esprime agevolmente in solo quattro di questi. Occorre comunque distinguere tra locutori materni e locutori a titolo secondario: i primi formano il Gruppo di Lingua Materna, e una parte di essi può essere bilingue (frangia bilingue interna); gli altri invece costituiscono la frangia bilingue esterna dell’etnia. Il rapporto tra il numero di locutori secondari e quello dei locutori materni ci mostra la diffusione esterna di una parlata, espressa attraverso un indice che varia c da un caso all’altro: quando è molto elevato, l’indice riflette un’eccezionale diffusione della lingua. Ad ogni modo, la diffusione di una lingua al di fuori della sua etnia è in funzione di numeri fattori, tra i quali vanno considerati i condizionamenti oggettivi del contesto storico: la necessità, cioè, di parlare la lingua ufficiale della regione o quella della maggioranza della popolazione. 5.3.1. Le famiglie linguistiche Vi sono circa 6.000 lingue differenti secondo gli studiosi. In realtà però, non vi è possibile indicare una cifra definitiva, perché ancora oggi in Africa, in America Latina, in Nuova Guinea e in altre aree del mondo i linguisti sono impegnati nel processo di identificazione e classificazione degli idiomi parlati da popolazioni isolate. In base alle diverse stime nel mondo esisterebbero attualmente da un minimo di trenta a circa un centinaio di famiglie linguistiche, a loro volta suddivise in sottofamiglie, rami o gruppi di idiomi più strettamente correlati. Le lingue non occupano uno spazio; sono i loro parlanti e le loro istituzioni a poter essere localizzati spazialmente. La cartografia delle lingue dipende pertanto dalla demografia, vale a dire, di informazioni fornite dai governi che danno cifre più alte o più basse rispetto a quella che è la situazione effettiva. Chi realizza una carta dovrà cercare di raccogliere i dati più attendibili, eventualmente anche confrontandosi con gli specialisti di altre discipline. Andrà tenuto conto del fatto che la distribuzione spaziale delle lingue è tutt'altro che statica, essendo sottoposta all’azione di forze interne, di ordine linguistico, e azioni esterne, di ordine socio-politico. Ma ci saranno ulteriori elementi di complessità: il numero di persone che parla un lingua non rimane invariato nel tempo, ma può aumentare o diminuire; in molti Paesi, d’altra parte, c’è chi parla più di una lingua; e, ancora, i diversi livelli di utilizzo di una lingua variano nel corso della vita di ogni individuo, ma vengono anche influenzati dalle migrazioni, dagli scambi commerciali, dallo sviluppo economico; infine, i problemi particolari sono posti generalmente dai centri urbani, dal momento che i loro abitanti si trovano spesso a vivere all’interno di un contesto multietnico e multilingue. Le due famiglie principale rappresentano una quasi la metà (quella indoeuropea), e l’altra (quella sino-tibetana) quasi un quarto del totale; altre cinque (la niger-kordofan, l’uralo-altaica, l’afroasiatica, l’austronesiana e la dravidica) superano i 300 milioni di locutori ciascuna; tutte le restanti, anche considerate insieme, non sono parlate che dal 6% della popolazione del pianeta. Da un punto di vista spaziale, la famiglia linguistica indoeuropea è quella più ampiamente presente nel mondo; la sua area di diffusione non è soltanto la più estesa, ma è anche quella meglio distribuita nei diversi continenti. Le lingue appartenenti a questa famiglia sono parlate in quasi tutto il continente americano, nelle maggiori terre dell'Oceania (l'Australia e la Nuova Zelanda), nell’Africa meridionale e in numerose isole sparse negli oceani. Alcune di esse, poi, sono usate come lingue ufficiali in numerosi Stati dell’Africa, dell'Asia meridionale e dell'Oceania, dove sono anche ampiamente diffuse come seconde lingue. L’inglese è attualmente la lingua indoeuropea più adoperata nel mondo. Riprendendo quanto sostenuto da Renfrew, appare comunque probabile che siano stati gli agricoltori a diffondere la propria lingua, e che questa abbia progressivamente subito una serie di trasformazioni. Da millenni in contatto gli idiomi indoeuropei, le lingue uraliche a nord e quelle altaiche, estese su gran parte dell’ Asia, a sud sono spesso considerate come costituenti un’unica famiglia — quella uralo-altaica — parlata dal 6% della popolazione mondiale. A sud dell’insieme eurasiatico si estende la famiglia afroasiatica comporta da circa 240 lingue parlate in tutta l'Africa settentrionale, in Etiopia, Eritrea e Somalia, ma anche in Medio Oriente e in Arabia; tale famiglia — al cui interno sono stati identificati cinque rami principali (semitico, berbero, ciadico, omotico, e cuscitico) — conta circa 360 milioni di locutori. Per ciò che riguarda le lingue negro-africane, la loro classificazione è stata abbastanza discussa. A nord la famiglia nilo-sahariana che si estende dalla Libia meridionale fino al Kenya e alla Tanzania; si tratta di un gruppo ristretto che include diversi popoli e risulta frammentato in tre isole. Praticamente tutte le altre lingue negro-africane rientrano invece nella famiglia niger-kordofan. Infine, le lingue dell’antica famiglia khoisan (360.000 parlanti) confinati nella parte occidentale dell’Africa del sud. Dieci sono le famiglie al cui interno possono essere classificate le lingue parlate in Asia. La principale è quella sino-tibetana, comprendente a sua volta la sottofamiglia sinitica e quella tibeto- karen. Estesa su buona parte dell’ Asia orientale (Cina), in essa rientra la lingua maggiormente parlata al mondo, il cinese. Più di 300 milioni di locutori contano le lingue appartenenti al phylum austrico, composto dalle famiglie miao-yao, austroasiatica, daica e austronesiana. Quest’ultima comprende almeno mille idiomi, suddivisi in più gruppi: quello indonesiano e quello formosano. Nel suo espandersi, la famiglia indoeuropea ha confinato nell’India meridionale e nello Sri Lanka le lingue appartenenti alla famiglia dravidica; telugu e tamil sono quelle col maggior numero di locutori. Per il resto, l'estremità nord-orientale dell’ Asia vede la presenza della famiglia ciukcio-camciadale, le cui lingue presentano alcune somiglianze con le parlate eschimo-aleutine della regione al di là a) L’area turco-iranica ed il subcontinente indiano Comprese tra l’Europa, il mondo arabo, il subcontinente indiano e la Cina, la parte centrale e quella sud-occidentale dell’ Asia costituiscono il dominio di un insieme di lingue appartenenti a due famiglie che si sono intrecciate nel corso dei secoli: quelle indoeuropee del ramo indoiranico e quelle altaiche della sottofamiglia turco-tatara. Tra le prima, due sono lingue nazionali: il persiano in Iran, Afghanistan e Tagikistan ed il pashto in Afghanistan; di quelle turche, sei rappresentano uno Stato-nazione (il turco, l’azero, il turkmeno, l’uzbeco, il kirghiso e il kazako). Tre lingue iraniche (tagico, pashto ed osseto) e quattro turche (uzbeco, uiguro, tataro e bashkiro) hanno, inoltre, un riconoscimento regionale in altri Paesi di quest'area. Quattro sono invece le famiglie linguistiche presenti nel subcontinente indiano: quella indoeuropea, la dravidica, la sino-tibetana e l’austroasiatica. La più antica è la famiglia dravidica; ad un’epoca più recente risale, invece, l’arrivo delle lingue della famiglia sino-tibetana. Nel complesso, in tutta 1’ Asia meridionale, sono almeno un centinaio le lingue presenti; tra queste, una quindicina sono quelle che hanno raggiunto una posizione nazionale o regionale solida. L’hindi che, insieme a due lingue “sorelle” (l’urdu in Pakistan e il punjabi), forma l’hindustani. Poi le altre grandi lingue indoariane, tra cui il senegalese, e il nepalese. E ancora, le quattro lingue dravidiche. Il mosaico linguistico indiano non risulta però frammentato come quello africano; rapportati ai principali, gli altri idiomi qui registrati appaiono piuttosto come dialetti regionali o parlate tribali. b) L’Estremo Oriente ed il Sud-Est asiatico l’Estremo Oriente costituisce l’area su cui sono ampiamente diffuse la lingua e la scrittura cinesi; a differenza, però, degli altri tre idiomi linguistici di quest'area (coreano, giapponese e mongolo) il territorio cinese è estremamente frazionato: più di cinquanta sono le lingue parlate e ancora più numerosi i dialetti esistenti in tutta la regione. Le minoranze, pur rappresentando meno del 10% della popolazione totale in Cina, occupano almeno la metà del territorio nazionale; esse sono andate insediandosi nelle zone montuose o subdesertiche: nel nord-est o in Siberia, ma anche attorno al deserto del Gobi, e ancora, al di là della Grande Muraglia, ad ovest, nelle zone aride dello Xinjiang, e a sud-ovest, nel Tibet. Il cinese è frammentato in tutta una serie di varianti locali non reciprocamente comprensibili; la principale è quella mandarina, parlata, prevalentemente nella parte settentrionale del Paese. Andarono costituendosi delle lingue del tutto distinte; queste corrispondono più o meno alle attuali province del sud-est: si tratta di quelli indicati ufficialmente come dialetti wu (parlati a Shanghai), gan e xiang di fronte a Taiwan, sono invece presenti le cinque parlate min; a cavallo tra la provincia dello Jiangxi e il Guangdong, l’hakka; nel Guangdong e nella parte orientale del Guangxi lo yuè o contonese, terzo per numero di locutori dopo il cinese madarino ed il wu. Le lingue delle numerose minoranze che vivono in territorio cinese fanno capo a sette famiglie differenti. Le più vicine al cinese appartengono anch'esse alla famiglia sino-tibetana; si tratta di quelle del gruppo tibetano, di quello sub-himalayano e del birmano. A nord e ad ovest dominano invece le lingue della famiglia altaica tra cui coreano e mancese e mongolo. Sempre ad occidente alcune parlate tagiche. A sud, infine, si mescolano quattro famiglie, solitamente raggruppate all’interno del phylum austrico: la famiglia miao-yao, quella thai, l’austroasiatica e l’austronesiana. Il coreano è l’unica lingua delle due Coree, ma è parlato anche in Cina ed in Giappone, per quanto riguarda il giapponese, invece, esso rimase sostanzialmente circoscritto alle sue isole. La regione del Sud-Est asiatico è stata quella in cui diverse famiglie linguistiche si sono incontrate: quella indopacifica ma anche il phylum austrico e, ancora, famiglia sino-tibetana e quella miao-yao. Myanmar con il birmano, la Thailandia con il thai, il Vietnam con il vietnamita, la Cambogia col khmer, Malaysia, Singapore, Brunei e Indonesia col malese, le Filippine col tagalog, e Timor est col tetun costituiscono gli esempi evidenti di questo processo al tempo stesso politico e linguistico. Il malese in particolare è riuscito a conquistare, prima come lingua dei bazar e poi come lingua nazionale, una posizione senza rivali nella vita di relazione, nei mass media e nella pubblica amministrazione degli Stati in cui viene parlato. Vi sono dunque sette lingue nazionali autoctone, accanto alle quali vanno considerate quattro lingue internazionali introdotte con la colonizzazione di quest’area che hanno conservato un ruolo ufficiale: l'inglese a Singapore, il cinese ed il tamil a Singapore ed il portoghese a Timor est. In altri casi invece le lingue delle potenze coloniali hanno perso il loro status. Numerose sono le parlate minoritarie presenti sulla decina di Stati dell’ Asia sud-orientale; solo alcune di queste, però, hanno potuto aspirare ad un riconoscimento regionale: è il caso del mon e di alcune lingue affini al birmano, del thai dei rilievi del Vietnam, e di una serie di parlate delle Filippine. L’Oceania Quasi un terzo di tutte le lingue parlate nel mondo può essere localizzato nell’area del Pacifico che è quella con la massima concentrazione di idiomi differenti. È terra di record l’Oceania: moltissime sono le lingue autoctone, ma numerose sono anche le lingue emergenti, una ventina delle quali sono state ufficializzate da piccole comunità. Molte delle isole del Pacifico sono state popolate da gruppi di naviganti che parlavano lingue austronesiane; lo dimostrano la presenza dei 500 idiomi dell’austronesiano occidentale, del centinaio dell’austronesiano centrale e delle altre 500 parlate melanesiane, micronesiane e polinesiane. Quella austronesiana finì col soppiantare le più antiche famiglie: l’indopacifica, il gruppo delle lingue della Tasmania, e la famiglia australiana, poi, la colonizzazione di quest'area ha determinato l’ampia diffusione dell’inglese ma ha anche favorito la penetrazione del francese, dell’hindi e dello spagnolo. Circa mille sono le lingue presenti in Nuova Guinea, ripartite in due grandi famiglie: quella papua e quella austronesiana. Il resto dell'Oceania risulta frammentato tanto linguisticamente quanto geograficamente, anche se i tre gruppi orientali della famiglia austronesiana non coincidono esattamente con le ripartizioni regionali: micronesiane sono le parlate delle isole Caroline, Marshall, Gilbert e della Fenice; quelle melanesiane sono diffuse nelle isole Salomone, nelle Nuove Ebridi, nella Nuova Caledonia e nelle Figi; il gruppo polinesiano si estende dalla Nuova Zelanda alle Hawaii, dalle Tuvalu all’isola di Pasqua, passando per le Samoa e le Tonga. Da notare alcuni casi di pidgin e creoli: il bistlama ma anche il tok pisin e l’hiri motu il primo diffuso soprattutto nella parte settentrionale del Paese ed il secondo prevalente a sud, nella regione di Papua. L’America a) L’America settentrionale Dal punto di vista linguistico 1’ America del Nord si caratterizza per la sovrapposizione di due insieme di idiomi appartenenti a fasi diverse della storia del continente. L’inuktitut del popolo eschimese è l’unica parlata maggioritaria nella regione autonoma danese di Kalaallit Nunaat, nel Nunavik e nel territorio canadese del Nunavut. Ma la famiglia eskimo-aleutina cui l’inuktitut fa capo, apparentata con le famiglie dell’insieme euroasiatico, le altre lingue amerindie appartengono a due famiglie più antiche, vale a dire quella na-dené e quella amerindia. Anche nelle riserve del Canada e degli Stati Uniti le parlate amerindie risultano rappresentate solo da poche migliaia di locutori. Continua l’area anglofona che si stende nella parte settentrionale del continente americano. Diversa è la situazione delle comunità francofone e ispanofone: difficilmente potrà essere riassorbito il francese, ufficiale in Canada insieme all’inglese, ma anche l’importanza della lingua spagnola è aumentata notevolmente negli ultimi anni: la comunità ispanica — in gran parte immigrati da Messico e Porto Rico — è infatti cresciuta. b) L’America latina L’America latina è suddivisa in due vaste aree linguistiche: una spagnola ed una luso-brasiliana. Vi sono, però, numerose minoranze parlanti lingue amerindie. Le aree in cui continuano ad essere maggiormente diffuse le lingue amerindie sono il Messico meridionale, il Guatemala, il Perù, l’Ecuador alla Bolivia e al Paraguay. Le tre lingue col maggior numero di parlanti sono il quechua, l’aymarà ed il guaranì. In molti casi è possibile osservare una certa perdita di importanza di tali idiomi a vantaggio dello spagnolo: in Messico, ad esempio, le lingue amerindie, parlate ancora dal 15% della popolazione nel 1940, sono scese del 6% nel 2000, benché il loro peso demografico complessivo sia cresciuto; lo spagnolo, invece, è parlato dalla quasi totalità dei messicani. In Guatemala poi — dove pure ufficiale è soltanto lo spagnolo — pur coesistendo con varie parlanti native, la più importante delle quali è il quechua, è prima lingua per 1’80% della popolazione. Nelle Antille la situazione è ancora più variegata. Non solo allo spagnolo di Cuba, Repubblica Domenicana e Porto Rico affiancano altre tre lingue coloniali, e cioè l’inglese, il francese ed il neerlandese; la creolizzazione ha portato alla formazione di numerose parlate: si pensi al caso del creolo haitiano, ma anche al creolo-francese; a quello inglese o, ancora, al papiamento; allo sranan- tongo del Suriname e ad altre parlate di origine mista. Non mancano nemmeno le situazioni di bilinguismo — come a Porto Rico, Stato libero associato agli USA, dove la popolazione è ispanofona e l’amministrazione americana - e di diglossia, come ad Haiti, dove nonostante sia lingua ufficiale, il francese è parlato solo dal 10% della popolazione: la quasi totalità degli Haitiani si esprime infatti attraverso il creolo. L’Africa subsahariana L’Africa nera si presenta estremamente frammentata dal punto di vista linguistico. Qui viene parlato circa il 30% di tutte le lingue del pianeta. È probabilmente impossibile fornirne un elenco, più ancora in chiave diacronica, dal momento che per molte di esse le conoscenze si basano su dati in possesso degli studiosi da non più di un secolo; numerose di queste lingue, poi, si sono estinte . In nessuno Stato vi sono comunità monolingui, ed è proprio questo multilinguismo diffuso a rendere Ben più compatta e delimitata di quella francese è la base geografica dello spagnolo, la cui importanza è aumentata notevolmente negli ultimi anni. Una ventina sono gli Stati in cui tale lingua è ufficiale; fatta eccezione per la Spagna e la Guinea Equatoriale, questi si trovano tutte nel continente americano. Geograficamente compatte sono anche le aree di diffusione del russo e del tedesco, entrambe lingue internazionali parlate all’interno di Stati tra loro vicini. Esteso su quattro continenti è invece il portoghese, ufficiale in Portogallo, Brasile, Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, Capo Verde, Sao Tomè e Principe, Macao e Timor Est. Intercontinentale è anche la diffusione dell’arabo, ufficiale in oltre venti Stati tra l’Africa e l'Asia, per quanto il suo frazionamento in numerose varianti dialettali lo renda, nei fatti, una lingua internazionale più potenziale che effettiva. Ancora, una diffusione non limitata ad un solo continente la ha il neerlandese, che — al di fuori dei Paesi Bassi e del Belgio — è ufficiale anche nel Suriname, nelle Antille Olandesi e ad Aruba; in qualche misura, inoltre, sopravvive anche in Africa: l’afrikaans, infatti, benché possa essere considerato una lingua a sé stante per le sue particolarità lessicali e grammaticali, risulta strettamente imparentato con il neerlandese. Crescente è, infine, il prestigio di altre due lingue che hanno già raggiunto una diffusione internazionale: lo shwahili ed il malese/indonesiano, ufficiale in quattro Stati del Sud-Est asiatico. Anche dal punto di vista dei sistemi di scrittura evidente è la sempre maggiore penetrazione delle grandi lingue internazionali: ampia è la supremazia dell’alfabeto latino. In Europa suo diretto “rivale” è stato l’alfabeto cirillico, creato per lo slavo e adottato da quasi tutte le lingue dell’ex Unione Sovietica — con l'eccezione di finnico, estone, lettone e lituano (fedeli all'alfabeto latino), georgiano e armeno (con propri alfabeti) e yiddish (che usa i caratteri ebraici) — . Adoperato oggi da varie lingue slave ma anche da lingue non slave parlate in territori dell’ex URSS e dell’odierna Federazione russa, il cirillico deriva dall’alfabeto glagolitico, la cui invenzione è attribuita ai santi Cirillo e Metodio. Qualche sistema di scrittura della medesima origine è sopravvissuto come scrittura nazionale di un singolo idioma: è questo il caso degli alfabeti ebraico, amharico, greco, georgiano e armeno. Per quanto riguarda il dominio dell’alfabeto arabo, questo non è riuscito a sopravvivere nei Paesi islamici dell’Africa nera e dell’ Asia centro-orientale, ed ha finito per corrispondere ai Paesi arabi o di cultura araba e ad Iran, Afghanistan e Pakistan. Diversa è stata la sorte di una famiglia di scritture che ha saputo resistere all'espansione della cultura occidentale e della civiltà industriale, quelle, cioè, derivate dall’alfabeto brahmi del sanscrito: otto scritture indiane. Al di fuori dell’India, altri alfabeti con la stessa origine sono usati per il senegalese, il tibetano, il birmano, il thai, il khmer ed il lao. In Estremo Oriente, infine, oltre agli ideogrammi cinesi, anche il coreano ed il giapponese hanno propri sistemi di scrittura, fonetica nel primo caso, combinata con gli ideogrammi nel secodno. L’alfabeto latino è ormai presente quasi universalmente accanto alle scritture nazionali. Ulteriore conferma, questa, di un panorama linguistico in evoluzione continua in cui, mentre alcune parlate sono andate emergendo come lingue nazionali o sub-nazionali, ed i loro locutori ne hanno chiesto il riconoscimento e la promozione, altre hanno progressivamente perso importanza, in certi casi finendo con lo scomparire insieme agli stessi gruppi umani, più spesso subendo un processo di deculturazione a vantaggio di altre lingue, garantite dal monopolio della cultura e delle istituzioni. Capitolo VI La varietà linguistica dell’Italia 6.I. La frammentazione linguistica dell'Europa Dal punto di vista dell’appartenenza alle diverse famiglie, la carta linguistica dell'Europa evidenzia la netta prevalenza dell’insieme indoeuropeo. Nei suoi vari rami. Ciascuna delle lingue facenti parte di questa famiglia presenta alcune caratteristiche proprie e alcune condivise con le altre; per quanto, infatti, gli spostamenti dei popoli, che parlavano l’ipotetico protoindoeuropeo, l'abbiano diffuso su vaste aree, all’interno del vasto insieme indoeuropeo possiamo comunque distinguere dei gruppi omogenei (le lingue romanze, quelle germaniche, le slave, le baltiche, le celtiche, l’armeno, il greco e l’albanese). Due sono i fattori che storicamente hanno contribuito a determinare la frammentazione linguistica europea. In primo luogo, le caratteristiche fisiche di quest'area geografica. È su questo quadro, d’altro canto, che si sono innestate le vicende del popolamento da parte delle genti indoeuropee: Celti, Germani, Slavi, Ugrofinnici andarono sovrapponendosi agli insediamenti pre-indoeuropei, creando nell’Europa balcanica e a nord della Alpi ambiti linguistici con caratteri propri, mentre la nostra penisola e la Grecia vennero occupate da genti mediterranee e i Romani riuscirono ad estendere la propria cultura e la propria capacità organizzativa su ampi spazi. All’interno delle più ampie regioni linguistiche le popolazione europee sono andate lentamente differenziandosi, e nel tempo aggregazioni sempre più omogenee per parlata e cultura hanno alimentato la nascita di quei movimenti che hanno raccolto le loro aspirazioni nazionali; i gruppi più forti e compatti sono riusciti a dar vita ad entità politiche ben caratterizzate dal punto di vista culturale e linguistico, e le comunità minori, per entrare a farne parte, hanno dovuto accettare il predominio. Più entità politiche ove il più delle volte è nata la supremazia di un idioma, ma sul cui territorio sono insediati altresì gruppi linguistici minori che non stati assorbiti dalla cultura prevalente e sono riusciti in qualche modo a mantenere una loro identità: così si presenta l'Europa agli Stati nazionali. Ed è facile comprendere che le aree in cui più accentuata risulta la frammentazione sono quelle in cui i caratteri fisici del territorio non hanno facilitato l’aggregazione culturale o in cui le vicende storiche hanno spostato ripetutamente i confini politici. Pur potendosi riscontrare in vari casi una certa coincidenza tra lingua e cultura, ciò che emerge ad una più attenta osservazione è che il mosaico delle unità etnolinguistiche coincide solo in parte col quadro politico-amministrativo; è stato proprio questo ad alimentare tutta una serie di contestazioni e rivendicazioni. Notevole è la varietà di situazioni linguistiche presenti in Europa. Espressioni quali “lingue regionali”, “lingue minoritarie”, “lingue etniche” spesso danno luogo ad equivoci; d’altra parte non si è riusciti a trovare una definizione univoca per aggettivi come “regionale”, “minoritaria”, “meno diffusa”. L’unico attributo sicuro — in quanto generalmente assegnato per la legge — che possiamo dare ad un certo numero di idiomi resta, quindi, quello di “ufficiale”. In Europa soltanto alcuni Stati ammettono ufficialmente il plurilinguismo; gli altri si dichiarano monolingui pur riconoscendo, talvolta, la presenza sul loro territorio di comunità alloglotte cui concedono una qualche forma di tutela. In sostanza potremmo dire che i Paesi europei sono tutti plurilingui, e accolgono al loro interno comunità che sono normalmente bilingui o plurilingui. L’Unione Europea riconosce pari dignità a tutte le lingue dei Paesi membri: il suo allargamento rappresenta una sfida anche dal punto di vista linguistico. In un’Unione che già parlava undici lingue ufficiali, infatti, l'ingresso (nel 2004) di dieci nuovi Paesi ha portato a venti il loro numero: polacco, ungherese, ceco, estone, lettone, lituano, sloveno, slovacco e maltesi si sono affiancati a francese, inglese, italiano, tedesco, spagnolo, portoghese, greco, neerlandese, danese, finlandese e svedese. E nel 2007, con l’adesione di Romania e Bulgaria e l’inserimento dell’irlandese, le lingue ufficiali sono salite a ventitré. Tutte le discussione del Parlamento europeo e tutti gli atti legislativi e amministrativi vanno tradotti nelle diverse lingue ufficiali, e centinaia sono gli interpreti che occorrono quotidianamente. A causa, però, della resistenza degli Stati membri, timorosi di perdere forza e identità nell’Unione, ogni tentativo di ridurre il numero delle lingue ufficiali si è finora rivelato inutile. Decidere di usare un idioma piuttosto che un altro implica sempre una scelta in merito all’allocazione di risorse simboliche: oltre, infatti, a consentire la trasmissione delle informazioni (funzione comunicativa), le lingue svolgono anche una funzione simbolica, associata a certi elementi politici e culturali (ad esempio il senso di identità nazionale). Le due funzioni si combinano ed assumono importanza in rapporto a determinati fattori, e gli attori coinvolti possono decidere di privilegiare questa o quella variabile, dando vita a modelli diversi di regime linguistico. Prendiamo il caso degli aspetti giuridici legati al problema della gestione del multilinguismo europeo: il problema è capire in quale lingua sia ammissibile chiedere loro di venirne a conoscenza. A tal proposito, l’Unione Europea ha sempre ritenuto, nel corso della sua storia, che tutti i testi nelle varie lingue facciano fede in ugual misura: per questo motivo i trattati si sono redatti in tutte le lingue, e lo stesso vale per la Gazzetta Ufficiale, i regolamenti e gli altri testi di portata generale. Le ragioni giuridiche, però, non sono sufficienti a spiegare perché l’argomento sia così delicato. Si deve tener conto, infatti, anche di alcune variabili politiche. Ci sono delle istituzioni e degli organi in cui vi è un effettivo uso di tutte le lingue ufficiali come lingue di lavoro: si tratta essenzialmente delle istituzioni e degli organi rappresentativi (il Parlamento, il Consiglio nelle sue riunioni ministeriali, il Comitato economico e sociale, il Comitato delle regioni), per i quali si è data priorità al principio di uguaglianza delle parti. D'altra parte si è tenuto opportuno predisporre una comunicazione verso l’esterno in tutte le lingue ufficiali. In questo senso, il multilinguismo delle istituzioni è stato presentato come un prerequisito per una piena partecipazione dei cittadini alla vita dell’Unione, e la comunicazione multilingue come uno degli aspetti della sua trasparenza. Ma essere membro dell’UE significa far parte di un gruppo di Paesi che hanno volontariamente rinunciato ad una parte della loro sovranità per affidarla ad una comune struttura sopranazionale; l’uguale trattamento delle lingue degli Stati, pertanto, può essere inteso come un aspetto dell’uguale trattamento dei contraenti. In alcune istituzioni tuttavia, come pure in alcuni organi e in praticamente tutte le agenzie, il numero delle lingue di lavoro varia ad un massimo di cinque o sei. Qui hanno prevalso esigenze funzionali di contenimento dei costi, ed il risultato è stato quello di limitare l’uso delle lingue di lavoro, richiedendo ai singoli elevate competenze linguistiche. Il multilinguismo (sia individuale che istituzionale) è divenuto un elemento chiave non soltanto in relazione alla comunicazione nelle istituzioni, ma anche per vivere e lavorare nella società della conoscenza e dell’informazione. La diversità linguistica e culturale — quella “unità nella diversità” che è il motto dell’UE — resta dunque una delle questioni centrali del futuro dell’Europa, e va crescendo la necessità di trovare nell’uso della propria parlata e alle ipotesi di elaborazione di una varietà sovralocale, la sua cultura è rimasta una delle più vive in Italia. Diverse sono le condizioni di altre lingue l’occitano, ad esempio, presente — oltre che nella sua regione storica nel sud della Francia e in alcune zone della Spagna — in Piemonte e in Calabria. Mentre, però, in Francia tale lingua non gode di alcune forma di riconoscimento o autonomia, nel nostro Paese essa è lingua minoritaria legata dalla legge. In un territorio la cui economia ha risentito fortemente dell’industrializzazione della pianura piemontese e dei fondovalle e in una condizione in cui il bi o plurilinguismo hanno sempre rappresentato la normalità, le parlate occitaniche sono venute assumendo il rango di codice della quotidianità più informale. La presa di coscienza di una superficialità linguistica occitana è avvenuta in Italia abbastanza di recente, anche in conseguenza delle differenziazioni esistenti tra le popolazioni che si è soliti mettere assieme sotto questa denominazione; è stato solo negli anni sessanta, che la cultura occitana si è risvegliata ed è venuto gradualmente maturando un senso di appartenenza ad essa. Però è proseguita secondo modalità diverse: numerose sono state e restano le iniziative portate avanti da gruppi di cultori e associazioni attivi nella valorizzazione delle tradizioni, ma spesso tali specificità sono state utilizzate più come fattori di richiamo turistico che non quali elementi attorno a cui realizzare un effettivo recupero del patrimonio culturale e linguistico locale. Parlato sia in Francia che nella Svizzera francese e in Italia — in Valle d’ Aosta e in provincia di Foggia — il francoprovenzale (o arpitano), lingua romanza che con il francese e l’occitano forma il gruppo delle lingue gallo-romanze. Data la frammentazione geografica, risulta difficile compiere una stima dei parlanti francoprovenzale in Italia; sembra comunque che ve ne siano circa 90.000, concentrati prevalentemente nella Valle d'Aosta. Proprio le valli piemontesi e valdostane conservano ancora l’uso quotidiano della parlata; in Francia e in Svizzera, invece, il francese l’ha progressivamente soppiantata. Difficile è tracciare esattamente i confini dell’area di parlata francoprovenzale. Se per ciò che concerne la Valle d’Aosta tale territorio corrisponde, in linea di massima, con quello regionale, è pur vero che la sua diffusione non appare uniforma: nel fondovalle è ancora presente il piemontese, mentre la forza dell’italiano e del francese ha regalato la pratica dei patois alle altre valli e ai centri in cui lo sviluppo turistico è risultato minore o meno frequenti appaiono i contatti con l’esterno. Numerose sono le iniziative di valorizzazione portate avanti da centri e associazioni che cercano di promuovere il patrimonio culturale locale. Per ciò che riguarda le calli arpitane della provincia di Torino, l'avanzata del piemontese e la sempre maggiore diffusione dell’italofonia hanno ridotto considerevolmente l’area di lingua francoprovenzale. La minoranza linguistica ladina infine — considerata parte del gruppo retoromanzo — è insediata tra Trentino Alto Adige e Veneto. Sviluppatosi a partire dalla romanizzazione delle Alpi, il ladino dolomitico è oggi parlato da circa 30.000 persone; riconosciuto come lingua minoritaria dallo Stato italiano, viene tutelato con diverse norme — riguardanti, tra le altre cose, l’insegnamento nelle scuole — nelle province di Bolzano e Trento. Non è un caso allora se gli abitanti dei territori appartenenti all’ Austria si sentono tradizionalmente legati all’area ladina della provincia di Bolzano, mentre quelli del Cadore, parte del territorio veneto, pur sostenendo la propria specificità, non hanno manifestato una vivacità politica e culturale paragonabile a quella delle altre aree. Ed è per questo inoltre che si parla di una “ladinità tirolese” come espressione di una vera e propria minoranza nazionale, e di una “ladinità veneta” storicamente integrata, invece, nel panorama italiano. 6.2.2. Colonie linguistiche Il secondo gruppo che possiamo individuare all’interno del quadro nazionale è composto da quelle comunità — arrivate in momenti diversi da altri Paesi — che hanno mantenuto la loro identità culturale benché immerse in un contesto differenti. Si tratta di piccoli gruppi che parlano lingue appartenenti a famiglie diverse. Sulla costa nord-occidentale della Sardegna, ad Alghero, circa 18.000 persone parlano catalano, lingua che, pur riconosciuta come minoritaria dallo Stato italiano e dalla Regione Sardegna, non ha ancora ottenuto forme concrete di tutela e valorizzazione da parte delle autorità centrali e regionali. Le origini di quest’isola linguistica possono essere fatte risalire agli anni in cui Alghero fu conquistata dagli Aragonesi. Distante fisicamente dalla madrepatria, il catalano di Alghero se ne distingue tanto per arcaicità quanto per aver subito gli influssi del castigliano e del sardo prima e dell’italiano poi. L’algherese, nell’uso comune, viene mantenuto ancora in vita da coloro che hanno vissuto in quello che era il contesto sociale tipico fino agli settanta, e cioè prevalentemente dalle persone anziane; ciononostante la cultura catalana continua a mostrare un discreto dinamismo: numerose sono le iniziative attuate sia dall’amministrazione locale che da diverse associazioni culturali che mirano a tener vivo l’uso di tale lingua e importanti, in tal senso, sono i segnali che arrivano dalla società. Sempre in Sardegna circa 10.000 persone parlano abitualmente il tabarchino, variante del ligure trapiantata in Sardegna, laddove oggi è ancora presente. I Tabarchini si stabilirono così dapprima nell’isola di San Pietro e quindi, trent'anni più tardi, a Calasetta. Mantenuta integra la loro identità culturale, estremamente attaccati alle loro tradizioni, essi hanno conservato un uso molto ampio della parlata, tant'è che l’impiego del tabarchino è da sempre tratto tipico delle consuetudini linguistiche della popolazione, anche — caso unico nel contesto delle minoranze linguistiche presenti in Italia — presso le generazioni più giovani. Promosso e salvaguardato a livello locale è però ignorato dalla legislazione nazionale; a differenza dei Sardi e dei Catalani di Alghero, pertanto, i suoi locutori non considerato dallo Stato italiano come costituenti una minoranza linguistica e non possono fruire dei benefici della legge 482/1999. Permeabili all’ingresso di piccole comunità germanofone sono state poi le Alpi; stabilitesi in territorio italiano, tali comunità vi hanno trovato spazio per un’autonomia culturale che ha consentito loro di perpetuare forme di organizzazione sociale ed economica molto simili a quelle dei territori di provenienza. Così è accaduto per i Walser, popolazione parlante un dialetto germanico. E nonostante il regresso della loro parlata molti continuano ad essere impegnati nell’organizzazione di iniziative volte a preservare le antiche tradizioni walser. A pochi chilometri da Trento, sopravvivono invece alcuni insediamenti in cui è tuttora parlata una variante arcaica di bavarese; si tratta di quel che resta di un’area più vasta che fu popolata da gruppi di contadini germanofoni. Minoranza dalla storia travagliata, quella mochena — dal tedesco machen — è oggi ufficialmente riconosciuta dallo Stato italiano ed interessata dalle norme di tutela e promozione del Trentino Alto Adige, e conta poco più di 2.000 locutori. Altri gruppi parlanti un dialetto bavarese arcaico — il cimbro — si stabilirono invece prima nel Trentino e quindi sull’altopiano di Asiago. Il loro arrivo non fu casuale: essi vennero espressamente chiamati dai vescovi del tempo per ripopolare aree quasi del tutto abbandonate in seguito a guerre ed epidemie, ed intrapresero l’attività dei pastori. Mentre il cinquecento ed il Settecento la comunità cimbrica poteva contare circa 20.000 membri, attualmente si stima che le persone in grado di parlare o comprendere tale varietà bavarese siano poco più di duemila. Nel Veneto un'isola linguistica germanofona è poi presente a Sappada, comune della provincia di Belluno con all’incirca 1.300 abitanti; somigliante sia al cimbro che alla parlata bavaro-tirolese delle comunità germanofone della Carnia, il dialetto di Sappada è spesso oggetto di studi e di iniziative culturali, e negli ultimi anni è stato al centro anche di svariati progetti di valorizzazione in ambito scolastico. Nel Friuli, in provincia di Udine, dialetti germanici simili di tipo carinziano sono parlati da alcune centinaia di persone come pure in alcuni centri della Val Canale. Anche in questi casi si tratta di isole linguistiche che devono la loro origine alle migrazioni di genti germaniche che hanno avuto luogo durante il Medioevo. Per ciò che riguarda, poi, l’Italia meridionale, non si possono non considerare quelle “colonie” di lingua croata, greca e albanese, nate anch’esse dal trasferimento in nuovi contesti di collettività in grado di tenere in vita le proprie caratteristiche culturali. Il croato è oggi parlato in tre comuni molisani. Tali colonie andarono formandosi quando, per sottrarsi alla violenza turca, gruppi di cittadini dalmati decisero di salpare verso l’Italia. Alla valorizzazione del patrimonio culturale della minoranza croata — sopravvisuta in tre comuni — fanno oggi riferimento tanto la legislazione nazionale quanto alcune disposizioni regionali. Il croato, comunque, è presente nella toponomastica locale e viene insegnato nelle scuole elementari e media dei tre comuni molisano dove è parlato. Due sono le aree dell’Italia meridionale dove tuttora risiedono comunità di lingua greca: il Salento, nella provincia di lecce, in Puglia e in Calabria, nella provincia di Reggio Calabria; è parlato da circa ventimila persone. Assai dibattuta è stata la questione relativa all’origine di queste popolazioni grecofone, discendenti dagli antichi coloni della magna Grecia o frutto delle più recenti colonizzazioni di epoca bizantina. AI di là delle polemiche scientifiche tra quanti hanno sostenuto l’ida di una continuità diretta con le tradizionali linguistiche della Magna Grecia e quanto vi hanno contrapposto quella di un’origine bizantina più recente, sta di fatto che questo è il nucleo alloglotto più antico tra quelli immigrati in Italia. Sviluppatasi autonomamente rispetto al greco moderno e subendo in misura consistente l’influenza delle vicine parlate neolatine, i dialetti grecanici dell’Italia meridionale hanno però via via perso locutori. Ben più consistente è invece la componente linguistica di lingua albanese: in circa tutto 100.000 persone. I comuni che compongono la comunità albereshe dell’Italia meridionale sono distribuiti tra la Campania, il Molise, la Basilicata, la Puglia (alcuni centri delle province di Foggia e Taranto), la Calabria e la Sicilia. Alla base di questo frazionamento territoriale vi è la storia degli insediamenti albanesi nel nostro Paese. L'espansione turca nella penisola balcanica, poi, non fece che incrementare ulteriormente tali flussi migratori, e gli Albereshe, giunti nell’Italia meridionale, poterono occupare tutta una serie di villaggi. Nel corso dei secoli, gli albanofoni d’Italia sono riusciti a mantenere e a sviluppare la propria identità, e questo anche grazie al ruolo culturale dei due seminari ecclesiastici bizantino-albanesi La Valle d’Aosta ottenne nel 1948 dalla neonata Repubblica italiana la concessione della statuto speciale; fu proprio il riconoscimento di questa forte autonomia a scongiurare il pericolo di una secessione. Da allora, pur rappresentando la Francia una sorta di tutor per la minoranza nazionale valdostana, le politiche linguistiche hanno sempre cercato di promuovere l’uso del francese sebbene siano in pochi ad avere questa come lingua materna. Pur essendo, dunque, la Valle d’Aosta ufficialmente bilingue e pur continuando il francese ad essere simbolo dell’autonomia della regione, nella realtà è il francoprovenzale ad essere ancora usato e diffuso nei piccoli centri e nelle valli laterali, rimanendo la lingua effettivamente parlata da molti valdostani, ed è l’italiano ad avere soppiantato nell’uso del francese, oggi adoperato per lo più in ambito culturale e politico. 6.3. La tutela delle lingue minoritarie Per quanto la storia della tutela delle minoranze e dei gruppi culturali, etnolinguistici e religiosi possa farsi cominciare con il dibattito sulla condizione giuridica degli Indios successivo alla scoperta dell’America e con il riconoscimento della libertà di culto dei sudditi degli imperi, una vera e propria riflessione teorica sull’argomento andò sviluppandosi nel corso dell'Ottocento. Fu però solo dopo la Prima guerra mondiale che si giunse ad una discussione concreta su tali argomenti: nell’ambito dei lavori della Società delle nazioni, per la prima volta venne fatto espressamente riferimento alle minoranze di nazionalità e razza in un passaggio del secondo progetto Wilson e fu avviato in quell’occasione un programma di tutela delle minoranze nazionali presenti negli Stati di nuova formazione e all’interno dei nuovi confini di Stati già esistenti; l’attenzione, tuttavia, era rivolta ancora più ai diritti dei singoli che non a quelli delle minoranze in quanto soggetti giuridici. Per ciò che riguarda l’Italia, invece, il problema della tutela delle realtà alloglotte presenti sul territorio nazionale si è posto più di recente: solo nel corso del secondo dopoguerra, durante i lavori dell’Assemblea costituente, si cominciò ad ammettere che anche le espressioni delle culture locali diverse da quelle “ufficiali” andassero, in una qualche misura, valorizzate. La prima norma di potata generale a prendere in considerazione l'argomento fu l’articolo 6 della Costituzione, con cui la Repubblica riconosceva la necessità di tutelare con apposite leggi le minoranze linguistiche; sempre la Costituzione attribuiva d alcune regione un’autonoma capacità legislativa anche rispetto a certi aspetti riguardanti le culture locali. A lungo, tuttavia, non fu chiaro se la tutela delle lingue minoritarie andasse attuata con leggi regionali volte a mettere in prativa un principio costituzionale o se la questione fosse di competenza esclusiva del Parlamento. L'impiego sancito dall’articolo 6, più volte richiamato dagli esponenti di varie comunità alloglotte, è infatti rimasto inapplicato fino all’approvazione della legge 482/1999. Tale provvedimento è l’unico ad aver fissato regole generali, valide su tutto il territorio italiano, relativamente ad un serie di situazioni che vengono ritenute meritevoli di specifiche forme di valorizzazione, benché poi l’elencazione delle lingue ammesse a tutela, che pure evita di dare una definizione unica del concetto di minoranza linguistica “storica”, di fatto vi ponga dei limiti arbitrari. Nell’articolo 2 di tale legge si fa riferimento alla tutela della lingua e della cultura delle popolazioni <<albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelli parlanti il francese, il francoprovenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo>>. Dodici sono, dunque, le minoranze linguistiche storiche cui il testo fa riferimento. D’altro canto, però, è pur vero che non si può riconoscere alle legge 482/1999 nemmeno una reale efficacia quanto a capacità di salvaguardia e valorizzazione delle lingue minoritarie di più antico insediamento. In sostanza quello che è accaduto è che l’elencazione delle lingue ammesse a tutela ha finito con l’incoraggiare un principio di autoidentificazione laddove se ne sono percepiti i vantaggi economici, all’inopportuna dilatazione di aree linguistiche minoritarie o all’inattesa rinascita di identità linguistiche all’interno di comunità presso le quali varietà alloglotta erano ormai già da tempo scomparse. Quanto contenuto nella 482/1999 non si è rivelato garanzia di pieno riconoscimento del diritto di eguaglianza, dal momento che questo si è spesso tradotto in pura retorica, coprendo e rafforzando ineguaglianze sia nella sfera dei diritti che in quella delle condizioni socioeconomiche. Per di più la legge ha finito col trascurare i caratteri specifici di ciascuna zona. In riferimento al “mito cimbro”, d’altra parte, Telmon aveva sottolineato come questo potesse, piuttosto che mettere a disposizione del gruppo le risorse per opporsi ad una trasformazione linguistica ormai avviata, assumere un’importanza extralinguistica, andandosi a configurare come una marca caratterizzante ai fini dello sviluppo turistico della zona. L’Italia, nei confronti delle lingue minoritarie, ha spesso scelto la strada peggiore nell’intento di rendere più malleabile chi aveva di fronte ma mostrandosi in più casi inadempiente sulle misure meno costose e più a portata di mano. Ancora oggi, perciò, e ancor di più a volere tener conto di tutti i limiti che la legge ha rivelato, è necessario rilanciare la questione approfondendola ulteriormente, così da esaminare ex novo le possibilità di tutela del nostro patrimonio linguistico. Questione delicata quella delle comunità linguistiche minori, e spesso affrontata da persone che hanno difficoltà a capirsi. Quel che è certo, però, è che, anche evocando l’oppressione linguistica, la colonizzazione interna o la progressiva estinzione del gruppo, difficilmente si può modificare la realtà dei fatti: ovvero che le diverse espressioni culturali di cui l’Italia era ricca stanno progressivamente scomparendo. Coinvolte in grandi cambiamenti che hanno interessato il Mezzogiorno, le numerose isole linguistiche dell’Italia meridionale sono andate perdendo locutori, e lo stesso è successo per le comunità minori del Nord che a stento sono riuscite a mantenere una loro identità. E sembra che ad essere tutelate siano solo quelle espressioni che possono essere commercializzate. Le prime ad essere colpite sono proprio le realtà più deboli ed esposte. E non è un caso che migliore sia invece la situazione delle due comunità che risultano favorite al maggior numero di locutori; quella sarda, cioè, quella legata alla sua lingua da un insieme di vicende storiche che fanno ormai parte del patrimonio dell’isola; e quella friulana che di poco ha modificato il suo modo di esprimersi pur essendo passata a modi di vita assai diversi da quelli tipici di una società contadina tradizionale. Eguaglianza sostanziale e garanzie istituzionali precise alla libertà di lingua sono l’obiettivo e gli strumenti di uno Stato democratico che possa dirsi veramente tale; il riconoscimento del pluralismo linguistico è infatti una aspetto non secondario di una democrazia reale, nella quale ci sia spazio per l’affermazione positiva del diritto alla lingua. Poter utilizzare il proprio idioma nei rapporti con le istituzioni, nei servizi, nei media, nella scuola e in relazione con il proprio territorio, significa, per ciascuno, veder affermato un bisogno fondamentale, e non subire discriminazione sulla base delle proprie specificità culturali. L’esperienza del nostro Paese ci mostra che andrebbe innanzitutto riconsiderato il concetto di “bene linguistico”, rimuovendo la distinzione tra ciò che è tutelabile e ciò che non lo è. La molteplicità di lingue non rappresenta soltanto un carattere costitutivo delle diverse realtà nazionali, ma è elemento chiave di una comune identità europea. In un’epoca in cui si cerca di difendere le specie animali in via di estinzione o semplicemente minacciate, notava Breton, si continuerà a consentire che le lingue scompaiano? O, piuttosto ci si impegnerà a preservarle, come altrettanti beni preziosi per il patrimonio culturale dell’umanità, come un’enorme risorsa, cioè, come un serbatoio di diversità culturale? A preservarle, però, senza confinarle in delle riserve marginali, ma, al contrario, facendole partecipare alla generale evoluzione col proprio contributo nel rispetto dell’identità di ciascuno; anche se, quindi, i fatti sembrano andare nella direzione di una generale massificazione culturale.
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