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Geografia delle Lingue, Schemi e mappe concettuali di Geografia

Appunti relativi al concetto di Etnia, Regione Etnica, Minoranze linguistiche presenti in Italia, Processi di Acculturazione e Deculturazione

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2021/2022

Caricato il 23/06/2023

Ant0n3llaa
Ant0n3llaa 🇮🇹

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6 documenti

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Scarica Geografia delle Lingue e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Geografia solo su Docsity! Domande: Differenza tra geografia linguistica e geografia delle lingue. Etnia e lingua – la comunità etnica La regione etnico linguistica (Meinig) La regione culturale I confini dei territori etnici Il rapporto tra Lingue e religioni Quadro linguistico in Italia, Le comunità alloglotte del territorio La tutela delle lingue minoritarie in italia La tutela delle minoranze nazionali tedesca e slovena e il caso della Valle d'Aosta Processi di acculturazione e deculturazione delle lingue Espansione contrazione e scomparsa delle lingue La politica linguistica. Quadro linguistico in Europa Scheda paesi europei (fare attenzione alla situazione linguistica in Albania, Norvegia, Finlandia, Bielorussia e Bosnia, Lettonia) Le lingue celtiche Quadro linguistico in Spagna Quadro linguistico in Francia La situazione linguistica in Belgio e Svizzera La formazione delle lingue, la geografia linguistica Nel processo di classificazione delle lingue si studiano le relazioni tra di esse confrontando somiglianze e differenze. Un metodo per identificare e rappresentare graficamente le affinità è l'esame di particolari parole e la ricerca di mutamenti fonetici ( del suono) nel tempo. Un mutamento fonetico è il lieve mutamento del suono di una parola che può avvenire all'interno di una sottofamiglia di lingue. L'italiano, lo spagnolo e il francese appartengono alla sottofamiglia romanza della famiglia linguistica indoeuropea. Per esempio la parlata latina lac è diventata latte in italiano, leche in spagnolo e lait in francese. L'esempio dimostra come anche senza conoscere la derivazione latina delle tre lingue si possa dedurre un nesso fra di esse. Più di due secoli fa l'inglese William Jones intraprese lo studio del sanscrito, lingua degli antichi testi religiosi e letterari indiani. Jones scopri che il vocabolario e le forme grammaticali del sanscrito presentavano una sorprendente somiglianza con il greco ed il latino. Nel XIX secolo Ludwig Karl Grimm (padre fondatore della germanistica) prospettò la possibilità di dimostrare in modo scientifico le relazioni tra le lingue. Grimm spiegò che le lingue imparentate hanno consonanti simili ma non identiche, che cambiano nel corso del tempo in modo prevedibile. Dalle idee di Jones e Grimm sono nate le prime importanti ipotesi che propongono l'esistenza di una lingua comune ancestrale, detta protoindoeuropeo. La scoperta del protoindoeuropeo ci svelerebbe l'origine del greco antico e del sanscrito. Per i mutamenti fonetici i linguisti usano una tecnica detta ricostruzione a ritroso. Se è possibile dedurre gran parte del vocabolario di una lingua estinta, è possibile spingersi oltre e ricreare la lingua che l'ha preceduta. Questa tecnica nota come ricostruzione profonda, ha dato alcuni risultati importanti. In particolare ha avuto grande impatto sulla ricostruzione profonda del protoindoeuropeo e della sua lingua ancestrale il lavoro di due studiosi russi: Markovich e Dolgopolsky cominciarono a lavorare negli anni 60 usando la ricostruzione profonda per ricreare le lingue antiche. Impiegando parole che, secondo loro, erano più stabili e affidabili nel lessico, come braccia, gambe, piedi, mani e altre parti del corpo o i termini usati per indicare sole, luna e altri elementi naturali, entrambi redassero un elenco di parecchie centinaia di parole. I due studiosi lavorarono per molti anni indipendentemente, ciascuno senza conoscere il lavoro dell'altro. quando finalmente si incontrano e confrontarono le liste, scoprirono che esse erano sorprendentemente simili. Concordarono quindi di aver stabilito alcune caratteristiche essenziali non solo del protoindoeuropeo, ma anche del suo antico genitore, il nostratico. La geografia delle lingue La diversità delle espressioni linguistiche ha sempre appassionato gli studiosi; non solo glottologi, filologi, ma anche i geografi si sono dedicati allo studio della lingua riconoscendovi un elemento fondamentale per la creazione di quel particolare gruppo sociale che va sotto il nome di etnia e di quel particolare spazio organizzato definito come regione culturale. L'origine linguistica e non geografica della geografia linguistica ha condizionato, ogni successivo sviluppo del rapporto tra scienze linguistiche e scienze geografiche. La lingua costituisce un elemento di straordinaria importanza nello studio della geografia umana. I motivi di differenziazione delle aree abitate dovuti all'azione umana sono moltissimi, perché ciascun gruppo umano tende a crearsi uno spazio secondo i propri interessi, le proprie capacità e i condizionamenti dell'ambiente in cui vive. Poiché l'uomo è un essere sociale che non può sopravvivere se non si organizza in gruppo, deve trovare dei mezzi di contatto e di comunicazione con gli altri uomini coi quali ritiene di dover cercare una collaborazione, e si sforzerà di ampliare e di codificare sempre meglio questi mezzi di comunicazione, allo scopo di rendere sempre più forte, più compatta e meglio organizzata la comunità in cui è inserito. Un'idea nuova, emanata dalla singola persona, viene espressa tramite la lingua e tutti coloro che possiedono quella lingua possono rapidamente impadronirsene e rilanciarla all'interno del gruppo. L'informazione non trovando ostacoli di grande portata, permette una partecipazione collettiva al patrimonio conoscitivo comune. Ma al confine dell'area linguistica le innovazioni trovano una barriera che può essere superata soltanto attraverso un sistema di traduzione da una lingua all'altra, introducendo deformazioni nel messaggio originario e rallentandone la diffusione. I limiti delle aree linguistiche diventano barriere invisibili sul territorio, di effetto più ampio dei confini fisici e amministrativi, e definiscono spazi entro i quali l'azione dell'uomo riesce a raggiungere una coesione molto forte e tale da riuscire a dare un'impronta particolare all'ambiente che quel gruppo umano si è costruito come sua dimora. E fra i mezzi di comunicazione è fondamentale l'espressione linguistica, che diventa lo strumento principale per creare una comunità organizzata e socialmente compatta. Ogni gruppo umano infatti elabora la sua propria cultura attraverso lo scambio delle idee e delle informazioni, reso possibile dalla comune forma di espressione. Il sistema linguistico posseduto dal gruppo costituisce così un contenitore entro il quale la diffusione delle innovazioni trova un campo di espansione molto permeabile e veloce. Il continuo sforzo dell'uomo per trasformare, adattare, migliorare l'ambiente in cui vive lo costringe a rendere sempre più completo e codificato il linguaggio che è stato adottato dal gruppo. Una quinta condizione dell'etnia è il rapporto fra la comunità e un territorio determinato, che deve essere sentito come la propria patria. Il territorio patrio può anche essere semplicemente un ricordo, perché la comunità si è dispersa, o è emigrata o è stata deportata, ma esso deve rimanere nella memoria collettiva come un simbolo e un valore che continua a unificare la comunità. Infine la sesta condizione è la solidarietà all'interno della comunità. Infatti il nome, la discendenza, la storia, la cultura, la lingua e il territorio condivisi fra tutti come patrimonio comune alimentano uno spirito di fratellanza che si traduce in mille continui episodi, di piccolo o immenso valore, di solidarietà e di aiuto reciproco. Queste condizioni, o componenti, dell'etnia devono tutte essere presenti, secondo Smith, se si vuole che l'etnia sia in grado di distinguersi da altre comunità con una sua propria e ben definita individualità. Più complessa è l'analisi del concetto di gruppo etnico fatta da R. Breton. Breton, nei caratteri generali della struttura etnica elenca nove elementi. I primi tre (prestrutture) sono i dati demografici del gruppo, la sua lingua e il suo territorio. Queste tre componenti sono essenziali in quanto il gruppo etnico, per esistere, deve possedere una sua consistenza demografica, deve vivere su e in rapporto a un certo territorio e deve, per definizione, parlare una lingua sua propria. Mentre non ci sono problemi a comprendere l'importanza della lingua e del territorio nella determinazione di un gruppo etnico, forse è meno chiara l'importanza del dato demografico, inteso qui non tanto come semplice quantità, ma considerato piuttosto nei suoi aspetti dinamici. Ogni gruppo umano infatti ha una sua particolare evoluzione demografica, per cui tende a ridursi o a espandersi, a invecchiare o a ringiovanire. Questi movimenti hanno una precisa relazione con la dinamica linguistica del gruppo, in quanto se la popolazione è portata all'invecchiamento e alla recessione demografica, anche la lingua perderà la sua forza e fatalmente diventerà sempre meno evolutiva, mentre in un gruppo in piena espansione numerica la lingua sentirà nuovi stimoli, che la porteranno a continue innovazioni. Il secondo gruppo di elementi (strutture) è rappresentato dalla cultura non materiale, dalle classi sociali e dal sistema economico. Per cultura non materiale si intende tutto il patrimonio spirituale ereditario del gruppo, rappresentato dal senso della storia comune, dalla religione, dalle manifestazioni di tipo folcloristico, dalla musica e della poesia popolare. La strutturazione sociale all'interno del gruppo è importante perché dall'esistenza o inesistenza di barriere sociali dipende la possibilità di circolazione della cultura e l'omogeneità più o meno forte della lingua: un gruppo diviso nettamente in classi sociali difficilmente utilizzerà una stessa forma di espressione, perché le classi più elevate cercheranno di distinguersi dalle inferiori anche attraverso il linguaggio, adottando forme espressive più elaborate o anche una lingua straniera, se di maggior prestigio sociale, come a volte è successo per la lingua francese. L'economia ha un'importanza rilevante in quanto dalla forza del sistema di produzione, dalla sua capacità di autoalimentarsi e di espandersi, dipenderà la dinamica culturale e linguistica dell'etnia: un'economia debole, che subisce continue influenze e condizionamenti da sistemi produttivi più forti, condizionerà in senso negativo anche la cultura, in quanto il gruppo che domina economicamente influisce anche sulla cultura, e alla lunga anche sulla lingua, di chi viene dominato. Infine il terzo gruppo (post-strutture) è dato dalle istituzioni politiche, dalla metropoli e dalla rete urbana. Le istituzioni politiche possono ammettere diversi modi di partecipazione al potere da parte di settori più o meno ampi o ristretti del gruppo, e questo non è privo di importanza perché in un sistema democratico chi gestisce il potere deve colloquiare continuamente con tutti, anche con le classi più povere, dunque deve conoscerne il linguaggio e la cultura, mentre in un sistema fortemente accentrato chi ha il potere può permettersi un linguaggio aulico e tale da non essere compreso che dai pochi che lo circondano. La metropoli è intesa come il centro decisionale più consistente nel territorio abitato dal gruppo etnico: dalla sua vitalità, forza e consistenza dipende la elaborazione di nuove idee, di nuovi modelli comportamentali, di nuove espressioni linguistiche e culturali. Nello stesso tempo dalla efficienza della rete urbana dell'intero territorio dipendono la tenuta e la coesione del gruppo, che deve appoggiarsi a un insieme coordinato di punti forti di insediamento per avere rapporto valido e duraturo col suo territorio. Il merito del Breton è di aver dimostrato che un gruppo etnico, o etnico-linguistico, o Gruppo di Lingua Materna, non è caratterizzato soltanto dalla sua cultura e dalla sua lingua, ma da un insieme di elementi in stretta connessione fra loro. Si potrebbe anche ipotizzare un numero di elementi superiore a nove, ma in sostanza quelli indicati dal Breton sono effettivamente tutto quanto condiziona e caratterizza il gruppo etnico. Ed è fondamentale riconoscere che questi elementi costituiscono un sistema di interazioni che li lega uno con l'altro. Per comprendere la situazione di un gruppo etnico bisogna così analizzare la forza e l'originalità di ciascuno dei suoi elementi, e non solo della lingua e della cultura, e bisogna misurare la forza che lega l'insieme del sistema, perché qualsiasi variazione che intervenga in un elemento finisce certamente per modificare anche gli altri. Questa considerazione è molto importante soprattutto in funzione di una politica di tutela, cioè di consolidamento o di accrescimento, di una lingua, in quanto, se questi elementi costituiscono effettivamente un sistema non è possibile agire solo su uno di essi senza prendere in considerazione anche gli altri. Per comprendere tutto questo possiamo ipotizzare una comunità etnico-linguistica dotata di una buona dinamica demografica, saldamente insediata sul suo territorio, con una economia rurale e forme espressive linguistiche e culturali proprie del mondo contadino: essa subisce improvvisamente il condizionamento di nuove forme produttive, in quanto dall'esterno del suo territorio sopravvengono forme di produzione di tipo industriale. Alla lunga tutto il sistema si trasforma, compresa la lingua che, propria di una comunità rurale, difficilmente è in grado di adattarsi alle nuove esigenze e pertanto viene lentamente modificata o sostituita. In questo caso voler difendere questa lingua in difficoltà con provvedimenti esclusivamente linguistici è abbastanza inutile, perché è l'elemento "economia" che ha trascinato tutti i cambiamenti, ed è su questo che prima di tutto bisognerebbe agire, se ce ne fosse la possibilità e la opportunità. Così risulta quanto mai improbabile che si possano tutelare (non museificare) gli aspetti linguistico- culturali di una comunità etnica che, a causa di eventi ormai immodificabili, sia in pieno declino demografico e non abbia prospettive di ringiovanimento, o che si trovi in un'area senza più prospettive di sviluppo economico oppure, ed è questo un caso evidenziato dal Breton, che abbia la metropoli, cioè il centro decisionale, situato al di fuori del territorio etnico. Questo avviene più frequentemente di quanto non sembri, perché può succedere che una comunità etnica di impronta rurale abiti un territorio che non è mai riuscito a esprimere un centro urbano e che, per le necessità di mercato e di acquisizione di servizi proprie dell'organizzazione moderna, si trovi a gravitare su un centro urbano appartenente a un'altra comunità etnica. Tutte le comunità alloglotte della regione alpina italiana, o le piccole isole alloglotte del meridione, si trovano in questa situazione, che le condanna alla staticità culturale e, infine, alla colonizzazione culturale per i continui stimoli che provengono dal centro urbano da cui dipendono. La regione etnico-linguistica Il territorio abitato da una comunità etnica non è sempre percepito dai componenti della stessa con la medesima intensità. Nell'ambito della "patria etnica" la memoria storica e la sensibilità culturale della comunità trovano riferimenti e risposte di segno non sempre uguale: alcune parti del territorio possono avere un significato spirituale e richiamare l'identità culturale del gruppo in modo immediato, mentre altre rivestono un valore molto minore. Per definire la diversa intensità della "etnicità" dello spazio geografico bisogna individuare un nucleo centrale dove sono collocate le forze ideali da cui ha avuto origine quella cultura, dove si trovano i centri di sviluppo e di continua elaborazione della stessa, dove è più intensa l'attività socio-politica della comunità, dove sono ubicate le principali strutture deputate alla produzione e alla conservazione del patrimonio culturale comune. Un modello di regione culturale è stato elaborato dall'americano Donald Meinig, che ha individuato il "nucleo centrale" o core nell'area più densamente e più anticamente popolata da chi appartiene a quella cultura, l'area cioè dove i riferimenti storici relativi alla sua origine sono più forti e dove l'impronta culturale anche sul territorio è più chiara. Attorno al nucleo centrale si trova " l'area del dominio culturale ", ossia il territorio dove quella cultura risulta dominante, anche se con minore influenza, rispetto ad altre presenti accanto alla principale. All'esterno del dominio possono trovarsi importanti gruppi di persone appartenenti a quella cultura in piccoli territori chiamati "sfere di influenza" della cultura medesima, a volte isolati in ambiti dominati da una cultura diversa. Meinig ipotizza sfere di influenza anche molto staccate dal nucleo centrale e dal dominio, in conseguenza delle migrazioni e della colonizzazione di nuove terre. Questo modello si presta molto bene per la comprensione della dinamica geografica del territorio etnico: il nucleo centrale è quello percepito come il territorio patrio in cui la lingua etnica possiede maggiore forza ed è meno intaccata da influenze esterne, mentre il dominio è quello del contatto con altre culture, nel quale avviene un continuo confronto e dove l'interferenza con esse richiede una costante verifica competitiva del valore della propria cultura. Le sfere di influenza o sono residui più resistenti di un nucleo centrale un tempo più allargato e poi intaccato da una cultura diventata più forte, o sono aree in cui parte della popolazione proveniente dal nucleo centrale è andata ad abitare stabilmente, trasferendovi l'impronta della propria cultura etnica. La regione culturale La regione culturale è caratterizzata non solo per la presenza al suo interno di una comunità dotata di una sua propria e originale espressione culturale, ma anche perché sul suo territorio si avverte l'impronta sia dei prodotti sociali della cultura (cioè delle particolari norme che regolano i rapporti interni al gruppo), sia dei prodotti materiali che danno forma al paesaggio culturale (come le tipologie delle colture agricole, le dimore spontanee, gli attrezzi di uso comune, ecc.). Un altro esempio è quello della chiesa metodista che, diffusasi nel Galles a partire dal 16 esimo secolo, volendo differenziarsi dalla Chiesa anglicana, adottò la lingua celtica del Galles, continuando un'opera di rivalutazione di questa lingua già iniziata nel 1674 dai Puritani attraverso il Welsh Trust. La chiesa metodista ebbe un'importanza straordinaria nella difesa della lingua gallese proprio nel momento in cui la Rivoluzione industriale introduceva anche nel Galles in maniera massiccia la cultura inglese (Barbina, 1974). Per reazione i cattolici della vicina Irlanda, temendo che il Metodismo potesse mettere piede anche nella loro isola, favorirono la lingua inglese a scapito della parlata locale. Sul territorio italiano per lungo tempo al clero cattolico venne impedito di usare per la celebrazione della messa e la predicazione le parlate locali, tanto più se esse appartenevano a nazioni confinanti. Ci sono in Europa e nel resto del mondo molti esempi di relazioni fra lingua e religione, derivati dal fatto che una comunità religiosa che per qualche motivo si trova minacciata da un'altra fede, cerca di rafforzare la propria identità anche attraverso l'uso di una lingua diversa da quella della comunità che la minaccia Così in Polonia la Chiesa cattolica ha sempre difeso l'uso del polacco anche durante i momenti in cui la nazione era spartita fra russi (ortodossi) e tedeschi (luterani), e questa difesa congiunta della lingua e della fede cattolica ha contribuito grandemente a tenere unita la popolazione. È bene però osservare che l'appartenenza a una fede religiosa permane anche dopo la perdita della lingua originaria (gli italiani immigrati negli Stati Uniti rimangono cattolici anche dopo essere diventati anglofoni), in quanto quello linguistico e quello religioso sono due fenomeni dello spirito umano corrispondenti a due esigenze completamente differenti. L'islamismo si è rivelato un formidabile veicolo di diffusione della lingua araba perché Maometto stesso stabilì che il Corano doveva essere letto e insegnato nella lingua originaria, e l'espansione dell'islamismo contribuì alla diffusione della lingua araba su uno spazio molto vasto, dando così a un gran numero di popolazioni diverse una identità linguistica, oltre che religiosa. Ancora oggi, nelle scuole coraniche di tutta l'Africa del nord, dove la lingua veicolare è sempre una lingua locale e la lingua ufficiale è in genere il francese, il Corano viene insegnato in arabo e le preghiere vengono fatte in questa lingua, e se si considera che le scuole religiose sono quasi sempre quelle più diffuse, si capisce come la lingua araba sia compresa, almeno sommariamente, in tutti gli strati sociali. Bisogna inoltre ricordare l'importanza che la religione cristiana ha avuto nello studio delle lingue poco note o nel passaggio alla forma scritta di lingue solo parlate. È noto il caso delle regioni di lingua slava che hanno avuto un alfabeto solo perché l'esigenza della diffusione dei testi sacri richiedeva una scrittura: l'evangelizzazione del popolo serbo da parte dei santi Cirillo e Metodio ha diffuso l'uso dell'alfabeto cirillico in tutta l'area che, per influenza bizantina, è rimasta legata alla chiesa ortodossa. Il rapporto fra lingua e religione è dunque molto profondo e antico e a volte è stato così stretto e immediato da permettere una influenza reciproca fra le due espressioni culturali nella creazione di una regione linguistico-religiosa. L'analisi delle vicende religiose di un popolo e di una regione ci può permettere a volte una maggiore comprensione delle vicende linguistiche, la lingua rimane l'elemento fondamentale per individuare una regione culturale, in quanto è attraverso la comune espressione linguistica che sono stati formulati tutti gli atti organizzativi, nella loro varietà e complessità, che hanno determinato la specificità di un territorio organizzato secondo un progetto culturalmente omogeneo. Le comunità alloglotte del territorio Il territorio italiano, nel suo insieme, comprende una serie di comunità alloglotte rispetto alla lingua italiana che, apparentemente, sembra facile classificare e analizzare ma che, in realtà, rappresenta uno dei casi più complessi di tutto il vasto e articolato panorama dell'Europa occidentale. L'unificazione dell'Italia sotto l'aspetto linguistico è stata infatti un processo tardivo e oggi ancora largamente incompleto, così che in Italia più che in altri Stati dell'Europa occidentale permangono vive numerose situazioni di difformità etnico-linguistica più o meno accentuata rispetto alla lingua "nazionale. Si tratta in genere di sopravvivenze di parlate italo-romanze rimaste in parte escluse dall'integrazione linguistica acceleratasi con l'unificazione politica dell'Italia, quando la popolazione del neocostituito Stato era composta da «una maggioranza di minoranze linguistiche», a queste sopravvivenze (comunemente chiamate dialetti), che possono essere considerate oggi residui di un processo di costruzione di una comunità nazionale di lingua italiana, si devono aggiungere alcune lingue di altre regioni europee e che nel territorio italiano hanno creato delle nicchie etnico- linguistiche rimaste vitali fino ai giorni nostri. Inserire in una classificazione razionale e ordinata questi casi così diversi uno dall'altro e gli altri ancora che si presentano sul territorio italiano, sembra molto difficile. Una possibile elementare sistemazione potrebbe comprendere almeno tre classi di situazioni linguistiche che, per la loro rilevanza, si distinguono con sufficiente evidenza nel panorama linguistico nazionale. La prima classe è quella delle parlate italo-romanze che non si sono integrate nel processo unificatore iniziato nel secolo scorso, il caso del sardo, dell'occitanico, del franco-provenzale, del friulano e del ladino dolomitico. A queste c'è chi aggiunge anche qualcuna delle parlate definite come dialetti italiani (veneto, siciliano, romagnolo, napoletano ecc.), ancora oggi largamente utilizzati in una svariata quantità di situazioni e ricchi di una letteratura che, in certi casi, ha assunto una rilevanza tale da imporsi al di fuori e al di sopra dell'area vernacolare. L'isolamento dei sardi — isolamento non solamente fisico, ha certamente contribuito al mantenimento della parlata sarda e della identità etnica nel popolo sardo, o la posizione marginale ed emarginata del Friuli ha contribuito a dare ai friulani quella precisa e originale fisionomia culturale ed espressiva che sta alla base della loro autonomia etnica. Alcune di queste comunità hanno una vasta estensione spaziale, dunque controllano in modo preciso il territorio in cui sono ubicate (è appunto il caso dei sardi e dei friulani), mentre altre sono arroccate in spazi più piccoli e isolati (come le comunità ladine delle vallate dolomitiche). La seconda classe è quella delle comunità giunte in vari momenti dall'esterno in territorio italiano e che, sistematesi in piccoli ambiti spaziali, hanno mantenuto la loro identità culturale nonostante si trovassero immerse in un ambiente italiano. Queste piccole comunità sono di vario tipo. È di parlata romanza quella dei catalani di Alghero, mentre le altre appartengono a famiglie linguistiche molto differenti. A nord la catena alpina in diversi momenti della storia tutta una serie di piccole comunità germanofone si è sistemata in territorio italiano, trovandovi spazi per una autonomia culturale sempre accettata e rispettata e tali da consentire a esse forme di vita e di organizzazione sociale ed economica molto simili a quelle dei territori di provenienza. Così i walser del monte Rosa' i mòcheni del Trentino, i cimbri di Asiago, hanno potuto conservare in qualche modo fino al tempo attuale le loro parlate germaniche e le loro tradizioni originarie. Simile è ancora il caso delle genti slave giunte in territorio friulano ancora nell'Alto Medioevo, e sistematesi in alcune valli delle Alpi e Prealpi Giulie della provincia di Udine. Nell'Italia meridionale invece c'è stata l'infiltrazione di comunità di lingua croata, albanese e greca, sistematesi in piccoli ambiti territoriali non contigui tra loro e quindi rimaste sempre in posizione di difesa, avvantaggiate in questo dalla arretratezza e dalla staticità delle comunità circostanti. Infine, la terza classe di gruppi alloglotti è quella rappresentata dalle comunità che, per effetto di recenti modifiche di confine, sono senza dubbio minoranze in Italia di nazioni che hanno il loro nucleo centrale al di fuori dei confini dello Stato italiano: si tratta delle minoranze nazionali tedesca e slovena, venute a trovarsi in territorio italiano per effetto dei cambiamenti dei confini dopo la pace di Versailles del 1919; esse hanno mantenuto la loro coscienza nazionale originaria oltre, naturalmente, la loro lingua e la loro cultura, e, in quanto minoranze in Italia di nazioni confinanti, sono tutelate da accordi di diritto internazionale. Questo è soltanto uno dei possibili modi per classificare le diverse situazioni minoritarie presenti in Italia, ed è certamente imperfetto, la casistica italiana presenta situazioni tanto difformi e con aspetti e caratteri così eterogenei da non consentire l'inserimento di tutti questi casi in un unico inquadramento teorico o in un solo modello di politica linguistica. La tutela delle lingue minoritarie Il problema della "tutela", delle realtà alloglotte in territorio italiano è abbastanza recente, in quanto lo Stato liberal-nazionale prima e quello nazional-fascista poi non ammettevano certamente che si potessero in qualche modo valorizzare quelle espressioni delle culture locali che contraddicevano la cultura e la lingua ufficiale. Solo con l'avvento della Costituzione repubblicana e con una più diffusa e partecipata democrazia, nel dopoguerra, il problema ha cominciato a farsi sentire, dapprima in modo incerto, assumendo poi toni polemici e qualche volta anche esasperati, che non hanno certamente giovato a chiarire la situazione. Il primo provvedimento legislativo di portata generale che prenda in considerazione il problema della tutela delle comunità alloglotte italiane è l'art. 6 della Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948, col quale lo Stato assume l'obbligo di tutelare le minoranze linguistiche. L'art. 6 è il risultato di una serie di compromessi che avrebbero dovuto frenare certi autonomismi regionali, con la promessa di una particolare attenzione alle diversità linguistiche da cui questi autonomismi traevano parte della loro forza. Inoltre la Costituzione italiana ha introdotto l'ordinamento regionale, dando ad alcune Regioni (in Sardegna, Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia — ma non in Sicilia — una capacità legislativa anche per alcuni aspetti riguardanti le culture locali; ma non è stato ancora chiarito completamente se la tutela delle lingue minoritarie possa essere attuata con norme legislative regionali, oppure se questa sia materia di competenza esclusiva del Parlamento nazionale: in ogni caso gli impegni dell'art. 6, richiamati più volte dagli esponenti di varie comunità alloglotte, sono rimasti in sostanza inapplicati. Il processo di unificazione nazionale, cioè lo sforzo di fondere in un insieme coerente tutte le realtà politiche dell'area italiana del secolo scorso, è avvenuto all'insegna del nazionalismo. L'idea di nazione italiana era all'inizio nient'altro che una ipotesi idealistica, basata essenzialmente sull'esistenza di un comune retaggio storico e sulla supposizione che tutti gli italiani parlassero un'unica lingua. Il primo censimento del Regno d'Italia, nel 1861, rivelò invece che le cose non stavano proprio così: l'italiano era parlato solamente da meno di un decimo della popolazione del nuovo Stato, e una volta avvenuta l'unificazione politica, lo Stato trovò cosa giusta e doverosa procedere a una fusione di tutti i cittadini attraverso l'eliminazione delle parlate locali: insomma, fatta l'Italia, bisognava fare l'italiano! parte italiana degli impegni presi in sede internazionale, per quanto riguarda la tutela della minoranza nazionale slovena non c'è mai stata una formale dichiarazione di soddisfazione dalla parte interessata. Infine un caso del tutto particolare è quello che riguarda gli abitanti della Regione autonoma della Valle d'Aosta. Questa regione di montagna, con i territori vicini, nei secoli scorsi ha sempre utilizzato, ad ogni livello di comunicazione, il particolare patois franco-provenzale. Con la fine della Seconda guerra mondiale, venne ripristinato il bilinguismo in tutta la Valle, regolato poi dalle norme dello statuto regionale approvato nel 1948. In base a questi provvedimenti in tutta la Valle oggi esiste la possibilità di un bilinguismo italiano- francese (ma la parlata originaria era quella franco-provenzale, non quella francese!), però l'immigrazione di gente di lingua italiana, il turismo, il commercio e tutta una serie di legami col Piemonte e col resto del territorio italiano stanno portando la lingua italiana a una posizione sempre più egemonica. I processi di acculturazione e deculturazione La fascia di contatto fra due aree linguistiche non è quasi mai stabile nel tempo: solo se il confine linguistico è ostacolato da precise barriere fisiche che impediscono o rallentano l'effettivo passaggio delle persone essa assume un carattere di fissità. Ma se fra le due regioni esiste uno scambio di informazioni, di merci, di servizi e naturalmente di persone, allora la pressione linguistica si fa sentire nella direzione del gruppo più forte (culturalmente, economicamente, organizzativamente, politicamente) verso il gruppo più debole. La fascia di contatto, dove avviene l'incontro o lo scontro fra due lingue diverse, è un'area bilingue, in quanto nella stessa ci sarà un certo numero di persone che avrà la necessità di tenere i contatti contemporaneamente con le due comunità linguistiche. Per comprendere gli aspetti territoriali del fenomeno, è opportuno servirsi del modello elaborato dal Breton, che mostra come sul territorio si possa individuare una frangia bilingue in cui è in corso un processo che si può chiamare di acculturazione o di deculturazione a seconda della lingua (e cultura) che si prende in considerazione. Secondo il modello del Breton partendo dal centro di una regione etnico-linguistica A, e andando verso il centro di una regione etnico-linguistica B, si incontrano aree con connotazioni linguistiche differenti. La prima è quella dell'etnia A, caratterizzata dal fatto che in essa si parla solo la lingua a (Aa). Uscendo verso la periferia si incontrerà l'area ancora dell'etnia A, con popolazione di prima lingua a ma che utilizza anche la lingua vicina b (frangia bilingue Aab). Procedendo ancora si incontrerà un'area sempre di etnia A, ma dove ormai prevale come principale la lingua b, mentre la lingua a è ormai relegata a un'importanza secondaria (frangia bilingue A b a). Infine, ancora più all'esterno, si troverà un'area ancora appartenente all'etnia A in cui ormai ci sarà un monolinguismo b (Ab). È evidente che più avanti ancora ci sarà l'area dell'etnia B, con monolinguismo (Bb). Queste fasi territoriali del passaggio dalla lingua A alla B attraverso due frange di bilinguismo a diversa prevalenza danno la misura, in questo caso, del processo di deculturazione dell'etnia A per effetto della più forte influenza dell'etnia B (dal cui punto di osservazione si può parlare, invece, di acculturazione). Il modello del Breton appare troppo schematico per potere essere adottato nell'interpretazione di tutti i casi di influenza linguistica di un territorio nei riguardi di un altro. In realtà il passaggio da un'area monolingue a un'altra non sempre avviene in modo così lineare attraverso una frangia bilingue divisa in due parti con diversa dominanza delle due lingue; tuttavia esso è utile per comprendere come il cambiamento di lingua non avviene quasi mai in modo netto sul territorio e istantaneo nel tempo. La trasformazione culturale e linguistica di una comunità è un processo lungo, di molte generazioni, a volte con fasi alterne e che deriva da cause naturali e spontanee oppure indotte e controllate. Espansione, contrazione e scomparsa delle lingue I processi di acculturazione e di deculturazione rappresentano il motore della dinamica linguistica. Le aree linguistiche sono soggette a continue modificazioni, così come tutte le lingue assumono nel corso del tempo nuovi valori, o potenziano quelli che già possiedono, oppure li perdono in parte o del tutto. La dinamica linguistica non è legata tanto al puro dato demografico, quanto piuttosto alla capacità di un gruppo sociale di elaborare cultura e di trasmetterla ad altri. L'andamento demografico fa variare il numero dei parlanti di una lingua, ed è evidente che quando questo numero scende al di sotto di una certa soglia minima, quella lingua perde ogni vitalità; ma a parte questo caso limite, le variazioni del numero dei parlanti contano poco nell'espansione, o contrazione, di una lingua, in quanto sono le condizioni dell'organizzazione sociale e politica, l'efficienza del sistema produttivo, la quantità di innovazioni che viene prodotta dal gruppo linguistico, la capacità di trasmissione delle informazioni e il controllo dei canali di trasmissione a determinare il valore positivo o negativo della dinamica della lingua. In ogni caso, la dinamica della lingua è legata soprattutto alla forza del popolo che la utilizza. Si potrebbero citare innumerevoli casi di lingue decadute perché chi le parlava ha perso ogni vivacità culturale e ogni capacità di controllo sul proprio territorio a seguito di un cambiamento dei mercati e dei sistemi di produzione, o perché una qualsiasi forma di colonizzazione da parte di un gruppo più forte ha tolto la libertà della produzione culturale. Un esempio di questo fenomeno ci viene dalla situazione di decadenza di molte lingue etniche ancora presenti in Europa ma avviate lentamente all'obsolescenza. Un tempo queste parlate erano lingue di comunione, o di aggregazione, di comunità che riuscivano a mantenere in forme originali la loro cultura con forme di produzione volte soprattutto all'autoconsumo e senza rapporti di interscambio con gli altri mercati. In questi contesti particolari, nell'ambito di territori ben definiti e scarsamente permeabili a modelli esterni, queste lingue rappresentavano lo strumento di unione della comunità e il veicolo per ogni comunicazione. Oggi questi gruppi etnici non sono più chiusi, se queste economie non hanno più alcuna efficienza nel contesto di sistemi produttivi integrati sulle grandi dimensioni territoriali, è evidente che queste lingue diventano "minoritarie" in quanto perdono a poco a poco la loro capacità di servire alle relazioni normali all'interno del gruppo etnico, e finiscono per diventare seconde lingue, utilizzate in ambiti territoriali e sociali sempre più ristretti. Il Breton ha dimostrato con chiarezza che un gruppo etnico-linguistico è costituito da diversi elementi e che la lingua è solamente uno di essi: possiamo affermare che la lingua deve le sue fortune agli altri elementi dell'etnia. Infatti, se tutti o quasi, questi elementi cessano di esistere, la lingua perde ogni importanza pratica e finisce col morire. La scomparsa di una lingua è un evento naturale e normale nella storia dell'umanità, che vede un continuo susseguirsi di civiltà e di forme diverse di cultura. Vi sono però alcuni casi di lingue che, ormai avviate alla decadenza, improvvisamente sono state "rivitalizzate" in conseguenza di eventi che hanno modificato la storia del popolo che ne è custode. Un esempio è dato dal gaelico irlandese. Questa antica parlata celtica era stata per secoli l'unica lingua degli irlandesi, ed aveva avuto anche momenti di grande rilievo culturale e letterario. Ma quando la dominazione inglese riuscì a consolidarsi su tutta l'isola, gran parte della popolazione finì per utilizzare, anche come lingua familiare, la lingua inglese, ritenuta di maggior prestigio; il gaelico venne relegato a lingua delle frange sociali più povere ed emarginate, priva di ogni prestigio e di ogni considerazione. Ma quando l'Irlanda ottenne l'indipendenza nel 1922, all'antico gaelico, diventato simbolo della differenziazione dagli inglesi e della raggiunta indipendenza, sono stati affidati nuovi compiti in quanto, con una serie di provvedimenti legislativi e amministrativi, è diventato lingua di insegnamento, lingua ufficiale, assieme all'inglese, nell’amministrazione dello Stato, lingua di informazione, lingua di espressione della cultura tradizionale ecc. Naturalmente questa operazione non è stata facile poiché la lingua da tempo era ormai tagliata fuori dalle esigenze pratiche di un sistema di vita che si era profondamente trasformato rispetto ai secoli precedenti, quando i contadini vivevano poveramente e semplicemente di pesca, di pastorizia e di una povera agricoltura, si rese pertanto necessario dare un nuovo assetto alla parlata antica. Così uno dei primi provvedimenti del governo irlandese fu quello di creare un istituto per la modernizzazione del gaelico, in grado di produrre vocaboli nuovi, nuove forme espressive, nuovi insegnanti esperti della lingua tradizionale. Ma che tutto questo sforzo sia servito effettivamente a rilanciare il gaelico, dopo i primi periodi di indubbio successo di questa politica, è cosa ancora da dimostrarsi. La politica linguistica La crescita di una lingua o la sua decadenza dipende da un insieme di fattori, alcuni dei quali sono certamente controllabili da chi ha il potere di fare le scelte che governano la comunità sociale. È così certamente possibile effettuare scelte politiche e amministrative allo scopo di modificare in un senso o nell'altro il quadro linguistico di un territorio o di favorire una lingua a scapito di un'altra, o di farla decadere e scomparire, o di impedirne o rallentarne il declino. Gli interventi di politica linguistica possono rientrare in almeno tre prospettive differenti. La prima è quella che trova la sua giustificazione in una visione evoluzionista di tipo darwiniano delle lingue: anche le lingue si evolvono in conseguenza della dura lotta per l'esistenza, che elimina gli organismi più deboli e fa sopravvivere quelli più forti, per cui eliminare le lingue minori è intervenire positivamente in un disegno ecologico universale. La seconda prospettiva deriva da una visione di tipo conservazionista: le lingue minori vanno salvate e tutelate alla stessa stregua di specie animali in estinzione, conservandole se necessario in appositi "parchi nazionali linguistici". La terza infine parte da una visione protettiva di tipo ecologico: le lingue sono elementi di un sistema socio-ecologico all'interno del quale non si può modificare alcun elemento senza compromettere anche gli altri; per conservare un'espressione linguistica bisogna mantenere in vita anche tutte le forme della cultura materiale (tipo di agricoltura, tecniche di produzione, dimore) . Quest'ultima prospettiva si avvicina molto alla visione multidímensionale dell'etnia elaborata dal Breton. Il gruppo dominante su un territorio mistilingue, o di lingua diversa dalla sua, raramente sfugge alla tentazione di esercitare il suo potere anche sulla lingua, anche se spesso commette degli errori nello scegliere gli strumenti usati per ottenere il risultato che si era prefissato. Il mantenimento delle lingue tribali, portate anche a livello di lingue scolastiche e di amministrazione, può essere uno strumento utile per mantenere la divisione all'interno di una
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