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Geografia delle lingue, terzo anno mediazione linguistica, Slide di Geografia

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2022/2023

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federicadirisio
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Scarica Geografia delle lingue, terzo anno mediazione linguistica e più Slide in PDF di Geografia solo su Docsity! Lezione 1 ▪ Cos’è la geografia? ▪ A che serve la geografia? ▪ Come può essere utile la geografia in un corso di lingue? ▪ Qual è l’oggetto di indagine della geografia delle lingue? Ad Anassimandro di Mileto (610-546 a.C.), filosofo ionico discepolo di Talete, viene tradizionalmente attribuita una prima mappa del mondo, ma né Erodoto né Aristotele ne danno notizia. Secondo Diogene Laerzio, il commentatore del secolo III d.C. dal quale deriviamo molte delle notizie sui filosofi della Scuola Ionica, Anassimandro fu il primo a tracciare uno schema (perimetron) del mondo, e pure il primo a costruire un globo. Più tardi Eratostene di Cirene (284-192 c. a.C.), filosofo, matematico e bibliotecario ad Alessandria, grazie al suo ruolo disponeva di tutte le informazioni relative alle conoscenze geografiche fino a quel tempo trascritte, così da indurlo a scrivere la sua opera Geographika, in cui viene utilizzato per la prima volta il termine geografia, sebbene di essa sia rimasto solo qualche frammento. Effettuò inoltre la prima misura delle dimensioni della Terra con una approssimazione veramente singolare considerati le tecniche ed i mezzi all’epoca impiegati. A partire dal XVI secolo, si registrò una rinnovata rifioritura degli studi geografici, astrologici e cartografici; l’approfondimento e il rinnovato studio di tali materie permise di riacquistare alla geografia il carattere di universalità avuto nella scienza greca. L’invenzione della stampa, la scoperta di nuove terre da parte dei grandi navigatori oceanici, quali Cristoforo Colombo (1451-1506), Amerigo Vespucci (1454-1512), Giovanni Caboto (1450 circa-1498 circa) e Ferdinando Magellano (1480-1521) nonché il forte interesse politico venutosi a creare intorno ai nuovi territori crearono l’humus adatto per lo sviluppo di nuove problematiche inerenti alle tecniche cartografiche allora conosciute. La sfericità della terra diventò un concetto affermato. La navigazione a stima fu abbandonata. Crebbe il bisogno di mezzi strumentali e cartografici sempre più precisi. Ed in questo clima, furono riconsiderati i sistemi di riferimento geografici. "Che cos’è un geografo?" "È un sapiente che sa dove si trovano i mari, i fiumi, le città, le montagne e i deserti". (…) "Le geografie", disse il geografo, "sono i libri più preziosi fra tutti i libri. Non passano mai di moda. È molto raro che una montagna cambi di posto. È molto raro che un oceano si prosciughi. Noi descriviamo delle cose eterne". Antoine de Saint-Exupery, Il Piccolo Principe, 1943 È l’uomo che conferisce alla Terra un significato, un destino, un motivo per esistere. Tutti gli aspetti e le forze della Terra diventano geografici soltanto nell’incontro con l’uomo. La geografia non esiste infatti senza la natura ma nemmeno senza l’uomo. Con la conoscenza geografica comprendiamo sempre meglio il mondo ma anche noi stessi e il dovere di ciascuno e di tutti di operare a beneficio dell’intera umanità. Osvaldo Baldacci, Perché la geografia (1978) I corsi di Geografia si incentrano sulle relazioni tra uomo e ambiente. Perciò una gran parte della nostra attenzione sarà rivolta allo studio delle “impronte” che l’uomo lascia sulla Terra. L’uomo rientra in questo campo di studio sotto un duplice aspetto. In primo luogo, egli è sensibile – nel modo di distribuirsi sulla Terra e nella estrinsecazione della sua attività – all’influenza dell’ambiente fisico in cui vive, dato che questo può essere più o meno ostile alla sua vita e alla sua diffusione: si ha pertanto un adattamento all’ambiente. I fattori fisici più rilevanti per l’uomo: 1) Clima 2) Idrografia 3) Orografia In secondo luogo, i gruppi umani non sono passivi e reagiscono modificando – secondo il loro tipo di cultura e di organizzazione sociale – l’ambiente in cui vivono. Anzi, divengono protagonisti di profonde trasformazioni delle “offerte” o possibilità naturali, in quanto le piegano a soddisfare i loro bisogni: bisogni che sono un prodotto della storia, in quanto legati a una determinata fase dello sviluppo. La presenza e l’attività dell’uomo si inscrivono sulla Terra con segni più o meno evidenti. La geografia umana studia anzitutto la varia distribuzione degli uomini e la dinamica demografica in rapporto alle risorse disponibili e alle strutture socio-economiche; questo filone di studi si denomina “Geografia della popolazione”. Soprattutto l’avvento di nuove tecnologie rende accessibili comunicazioni a distanza (ICT), cosicché, secondo gli autori che seguono tale impostazione, diventa sempre più irrilevante e ridondante il significato di localizzazione e di luogo. Thomas Friedman scrive nel 2006 il libro «The World is Flat». Già nel passato diversi autori avevano parlato di «mondo senza confini», o di «processo di deterritorializzazione» o di «scomparsa della distanza», ma egli categorizza i fattori determinanti del cosiddetto progressivo «appiattimento» del mondo. Le «forze» per Friedman che hanno spinto verso l’appiattimento del mondo sono le seguenti: Richard Florida su The Atlantic nel 2005 fornisce una prima risposta denotando alcune situazioni di concentrazione. Lo sviluppo urbano, che concentra popolazione e attività economiche: Population density is of course a crude indicator of human and economic activity But it does suggest that at least some of the tectonic forces of economics are concentrating people and resources, and pushing up some places more than others. Still, differences in population density vastly understate the spikiness of the global economy; the continuing dominance of the world's most productive urban areas is astounding. L’innovazione sempre più concentrata: Population and economic activity are both spiky, but it's innovation—the engine of economic growth—that is most concentrated. So although one might not have to emigrate to innovate, it certainly appears that innovation., economic growth, and prosperity occur in those places that attract a critical mass of top creative talent. The world today looks flat to some because the economic and social distances between peaks worldwide have gotten smaller. Connection between peaks has been strengthened by the easy mobility of the global creative class—about 150 million people worldwide. They participate in a global technology system and a global labor market that allow them to migrate freely among the world's leading cities. Dunque, le rafforzate interazioni sociali permettono, grazie anche ai nuovi mezzi di comunicazione, di avvicinare le aree “aguzze” del pianeta, ossia le aree di concentrazione. Ma per le periferie che succede? Economic and demographic forces are sorting people around the world into geographically clustered "tribes" so different (and often mutually antagonistic) as to create a somewhat Hobbesian vision. We are thus confronted with a difficult predicament. Economic progress requires that the peaks grow stronger and taller. But such growth will exacerbate economic and social disparities, fomenting political reactions that could threaten further innovation and economic progress. Managing the disparities between peaks and valleys worldwide - raising the valleys without shearing off the peaks - will be among the top political challenges of the coming decades. Secondo Ethnologue oggi al Mondo si parlano 7.151 lingue. Questo numero è in costante mutamento, perché ogni giorno impariamo di più sulle lingue del mondo. E oltre a ciò, le lingue stesse sono in continuo mutamento. Sono vive e dinamiche, parlate da comunità le cui vite sono modellate dal nostro mondo in rapida evoluzione. Nell’epoca attuale la diversità linguistica è a rischio: circa il 40% delle lingue è in pericolo, spesso con meno di 1.000 parlanti rimasti. Nel frattempo, solo 23 lingue rappresentano più della metà della popolazione mondiale. Secondo Ethnologue ci sono altri dati interessanti da mettere in luce. Nel 2020 le prime 8 lingue concentrano circa 2,8 miliardi di parlanti come prima lingua, pari quasi al 40% della popolazione mondiale. D’altra parte, circa il 27% delle lingue attualmente censite ha meno di 1.000 parlanti. Se si considera il numero di parlanti totali, solo due superano il miliardo di individui, l’inglese e il cinese, mentre altre 8 i duecento milioni. Classifica Lingua Parlanti 1 Inglese 1,452 miliardi 2 Cinese Mandarino 1,118 miliardi 3 Hindi 602,2 milioni 4 Spagnolo 548,3 milioni 5 Francese 274,1 milioni 6 Arabo standard 274 milioni 7 Bengalese 272,7 milioni 8 Russo 258,2 milioni 9 Portoghese 257,7 milioni 10 Urdu 231,3 milioni --- --- --- 29 Italiano 67,9 milioni Si distinguono: - Luoghi culturali e cuori culturali - Regioni culturali - Aree culturali - Mondi culturali Lo spazio esistenziale o di vita è la struttura più interiore dello spazio così come appare nelle concrete esperienze del mondo come membri di un gruppo culturale. Tale spazio è intersoggettivo e riferibile a tutti i membri facenti parte del gruppo poiché essi hanno socializzato secondo un insieme comune di esperienze, segni e simboli. I significati dello spazio esistenziale, quindi, sono quelli di una cultura così come filtrata dall’esperienza dell’individuo, piuttosto che la somma dei significati degli spazi percepiti individualmente. Lo spazio esistenziale non è un mero spazio passivo, ma viene costantemente creato e ristrutturato dalle attività umane. La definizione del luogo è al centro degli studi geografici, ma solo a partire dagli anni Settanta si è cominciato a dare allo studio dello stesso una connotazione scientifica. Secondo la definizione di Agnew (1987), il luogo è frutto di una combinazione di tre componenti: - sito (location), riferito a un punto assoluto nello spazio con una specifica attribuzione di coordinate (latitudine e longitudine) e con distanze misurabili con altri siti; - località (locale), ovvero la struttura materiale prodotta dalle relazioni sociali, il modo in cui un luogo appare (edifici, strade, parchi e tutti gli altri tangibili e visibili aspetti di un luogo); - senso del luogo (sense of place), si riferisce ai legami immateriali con il luogo, ai sentimenti e alle emozioni evocate dal luogo, che possono essere individuali o condivise con altri, in tal ultimo caso perciò mediate e rappresentate. «Il luogo si riferisce a qualcosa creato dall’essere umano. Un luogo viene creato quando si prende un’area dello spazio e intenzionalmente si tracciano intorno ad essa dei confini e si cerca di controllare cosa succede dentro di esso attraverso l’uso (implicito o esplicito) di regole riguardo a ciò che può essere o non può essere fatto. Questa perimetrazione e la produzione di regole conduce alla creazione del luogo ad ogni scala, da una stanza allo Stato-nazione». (Sack, 2004) Le relazioni sociali di un luogo, possono portare a relazioni di potere sistematicamente asimmetriche, che si traducono in «norme» di comportamento esplicite oppure implicite (questo avviene anche nei luoghi più familiari, come la propria abitazione). La mappatura di particolari significati, pratiche e identità di un luogo conducono alla costruzione di luoghi «normativi» dove gli individui si possono o trovare «in place» (a proprio agio) o «out of place» (spaesati). Ciò che viene etichettato come fuori posto (persone, cose, pratiche, ecc.) si dice che abbiano trasgredito confini invisibili che definiscono ciò che è appropriato da ciò che è inappropriato. Pertanto, si può evidenziare una geografia dell’esclusione di alcuni individui che non rispettano la «normativa» dei luoghi, il senso sociale comune dello stesso. Le esclusioni possono essere dovute alla classe sociale, alla razza, al genere e alle disabilità. Secondo Relph (1976) vi sono sei maggiori componenti che conducono al concetto di luogo: - l’idea della collocazione, intesa sia facendo riferimento alle caratteristiche interne (sito) sia alle interrelazioni e alle connessioni con gli altri luoghi (situazione); - il luogo implica un’integrazione di elementi di natura e cultura, rendendolo un unicum; - i luoghi sono interconnessi da un sistema di interazioni e di trasferimenti spaziali, sono parte di uno schema di circolazione; - i luoghi sono localizzati, fanno parte di aree più grandi e sono punti focali in un sistema di localizzazione; - i luoghi emergono o sono in divenire, attraverso i cambiamenti storici e culturali vengono aggiunti nuovi elementi e altri scompaiono, denotando una propria peculiare componente storica; - i luoghi hanno significato; sono caratterizzati dall’agire umano e dalle credenze che esso ha degli stessi. Le componenti essenziali del luogo sono dunque: - la struttura fisica statica - le attività umane - il significato individuale A queste componenti bisogna aggiungere quello che viene definito il senso del luogo, il genius loci. Esso coinvolge la topografia e l’aspetto apparente, le funzioni economiche e le attività sociali e assume particolare significato da situazioni del passato e del presente, ma differisce dalla mera somma delle stesse. Lo spirito del luogo può rimanere persistente anche in presenza di profondi cambiamenti nelle componenti di base dell’identità. « » « » L’essenza del luogo non risiede tanto nelle forme materiali dallo stesso, ma nell’esperienza di appartenenza («insideness») distinta da una sensazione di esclusione («outsideness»). Si ha dunque la sensazione di appartenere a un luogo e di identificarsi nello stesso. Le manifestazioni di differenziazione fra «interno» ed «esterno» sono significativi sul territorio come le mura e le porte di una città, i cartelli stradali dei limiti cittadini, le frontiere. «La soglia concentra non solo il confine fra dentro e fuori ma anche la possibilità di passaggio dall’uno all’altro» (Eliade, 1959). Le aree interne ed esterne sono definite non chiaramente, ma variano a seconda delle nostre intenzioni e, nel momento in cui ci muoviamo, esse si spostano con noi. Riusciamo sempre a percepire ciò che è il nostro luogo da ciò che è fuori dal nostro luogo. « » Relph (1976) nota che alcuni luoghi nel tempo tendono a perdere la propria identità per uniformarsi a una cultura di massa consumistica («macdonaldizzazione» secondo Ritter, «disneyzzazione» secondo Bryman) che rende il luogo «inautentico», incapace di creare veri legami con gli individui e a cui l’individuo non riesce veramente a produrre sentimenti di attaccamento. Relph identifica le seguenti manifestazioni di perdita del luogo: - luoghi che diventano diretti verso altri (luoghi per turisti, distretti del divertimento, centri commerciali, disneyficazione, museificazione, ecc.); - luoghi che si uniformano e si standardizzano (nuove città e suburbi, aree industriali, nuove strade e aeroporti, stili standardizzati di architettura); - luoghi senza forma o con architetture non a misura d’uomo (subtopia, gigantismo, componenti non collegate ai valori culturali del luogo); - distruzione di luoghi (guerra, riqualificazione urbana con distruzione del preesistente, ecc.); - luoghi non permanenti e stabili (luoghi abbandonati, luoghi sottoposti a continui cambiamenti di contenuto). « » Marc Augé ha proposto nel 1992 il termine di «non luogo» per riferirsi a siti come gli aeroporti, le stazioni, i centri commerciali e altri luoghi di transito che non hanno una propria identità, ma si riferiscono indirettamente e all’infinito ad altri luoghi. Al contrario, egli considera le concezioni tradizionali del luogo come legate, radicate ed organiche e associate con modi di vita che sono consolidati nel corso della storia. Secondo Auge il mondo della «surmodernità» è contrassegnato da tre caratteristiche, che comportano la produzione dei «non luoghi»: - velocizzazione delle comunicazioni e flussi informativi, che conducono a un bombardamento di immagini di luoghi diversi da quelli in cui si colloca l’individuo; - compressione dello spazio e del tempo e «restringimento del pianeta» grazie al miglioramento dei mezzi di trasporto; - individualismo sempre più accentuato, come reazione alla maggiore esposizione agli altri, che, per reazione, tendono a far chiudere l’individuo in sé stesso e a ridurre gli spazi sociali. Alla radice, quello di “etnicità” è un concetto legato allo spazio: i gruppi etnici sono generalmente associati a dei territori di cui sono occupanti principali o esclusivi e su cui hanno finito con l’imprimere particolari segni. L’etnicità si rivela, dunque, fondamentale nella strutturazione culturale dello spazio e costituisce, proprio per ciò, argomento di grande interesse per la Geografia umana. Poiché, d’altra parte, parlando di etnicità si fa generale di coesione e adesione a un insieme di valori comuni In altre parole, lo Stato-Nazione è un’entità i cui membri si sentono naturalmente legati fra loro poiché condividono la lingua, la religione, o qualche altra caratteristica culturale abbastanza forte da tenerli uniti e far sì che si sentano distinti rispetto a chiunque si trovi all'esterno della loro comunità. Uno Stato multinazionale è uno Stato che comprende al proprio interno più di una nazione. Spesso in questi casi non vi è un singolo gruppo etnico predominante. In alternativa, una singola nazione può essere distribuita su più territori ricoprendo una posizione dominante in due o più Stati. «L’etnoregionalismo è definibile come la tensione verso l’autonomo raggiungimento - con le proprie risorse umane e naturali - dell'obiettivo di perpetuare un gruppo sociale ove questo coincida con un tratto distinguibile dell'organizzazione del territorio della cultura: con un'eredità che verrebbe altrimenti dissipata. Esso si esplicita nella richiesta di sovranità esclusiva sul territorio da parte del gruppo identificato da una lingua comune ed è ovvio che la segregazione progressiva del sistema così individuato ne è la massima garanzia». (Zanetto, 1987). In realtà, per quanto tutti i Paesi si diano da fare per arrivare ad un patrimonio di valori condivisi e suscitare nei cittadini un senso di fedeltà verso lo Stato, pochi possono definirsi realmente Stati-nazione. Attraverso la richiesta di riconoscimento della propria soggettività storica e le azioni politiche tipiche del nazionalismo un gruppo può cercare di ottenere quello strumento con cui la nazione può finalmente diventare soggetto politicamente autonomo, ovvero lo Stato, che è così Stato nazionale. Se, pur non raggiungendo il suo obiettivo, riesce a conseguire almeno una quota dell'autonomia desiderata, il gruppo nazionale viene far parte di uno Stato multinazionale (il più delle volte una Federazione). Qualora, invece, non riesca a realizzare lo Stato nazionale e debba rimanere nell'ambito di uno Stato a maggioranza nazionale diversa, esso costituisce una minoranza nazionale. Meinig (1972), studiando lo sviluppo della comunità dei Mormoni nell’Ovest degli Stati Uniti (1972), traduce lo sviluppo culturale in un modello spaziale con tre zone di concentrazione: 1. in primo luogo, un'area nucleo (core), contenente l'essenza del complesso culturale, la più forte concentrazione di tratti culturali e un paesaggio omogeneo; 2. poi un dominio, in cui il complesso culturale restava forte, ma in misura minore rispetto all'area nucleo; 3. infine, una sfera di influenza, area esterna e di contatto periferico in cui prevalevano solo certi tratti e le persone appartenenti alla cultura dell'area nucleo potevano essere in minoranza. Il cuore della cultura è la sua «capitale», e spesso il suo luogo di origine. Come regola generale, un elemento culturale è collegato con un cuore e un’area di diffusione. Un cuore è un territorio dove le idee e le pratiche culturali si sono formate e costruite, e dal quale esse si sono diffuse attraverso la differenziazione spaziale. Un cuore può esistere a differenti scale, sia essa una località o una regione. Le ideologie e il mondo del sacro così come molti altri complessi culturali mondiali hanno un cuore o un centro culturale rappresentato da un punto o un canale di origine e un’area di diffusione. « » Quando la portata di un complesso culturale corrisponde a uno spazio geografico preciso, si forma una regione culturale. La scala di una regione culturale può variare. Ogni regione culturale può essere suddivisa in sub-regioni in base a uno specifico insieme di criteri. Un’area culturale raccoglie un insieme di regioni culturali collegate da paradigmi comuni o un’identica fondazione culturale. Per esistere un’area culturale deve esserci uno spazio sufficientemente largo e una misura della continuità spaziale. L’eccessivo peso di una cultura occidentale globalizzante può provocare diverse reazioni che sono state esemplificate in diverse immagini da alcuni autori. Una delle più note è quella dello «Scontro delle Civiltà» («Clash of Civilizations») di Huntington (1996), che ipotizza come le grandi divisioni dell’umanità e i conflitti principali del futuro saranno legati alla cultura. Egli indica nove civiltà attualmente predominanti (con qualche perplessità): - occidentale - cristiana orientale (ortodossa) - latino-americana - islamica - indù - cinese - giapponese - buddhista - africana Con la modernizzazione urbano-industriale e la crescita demografica si assiste a una de-occidentalizzazione del mondo. Schwartz ipotizza che vi siano tre tipi di grandi contrapposizioni culturali: - Autonomy versus embeddedness. L’autonomia delle persone si manifesta attraverso due tipologie fondamentali: intellettuale e affettiva. Il radicamento, invece, incorpora le persone all’interno di una società prestabilita, aumentando il senso di solidarietà e di appartenenza al gruppo sociale. - Egalitarianism versus hierarchy. L’egualitarismo induce le persone a considerare gli altri come uguali, a incrementare la solidarietà fra gli individui. Le culture gerarchiche, invece, inducono a definire più rigidamente strutture e ruoli, in modo da cercare una maggiore produttività nell’agire con compiti ben definiti. - Harmony versus mastery. Le culture basate sull’armonia sono più conservative, esplorano meno il mondo naturale e quello sociale, cercando di non fare troppi stravolgimenti. Le culture basate sul dominio incoraggiano le spinte individuali per portare a cambiamenti guidati, confidando nella risoluzione di problematiche mediante il progresso. La dimensione culturale resta comunque essenziale. Le alleanze sono forti quando possono essere costruite attorno alle maggiori reti culturali o a bacini culturali. Il concetto di mondo culturale o bacino sottolinea la nascita e la morte di spazi geopolitici dominanti. Esso rappresenta il livello più inclusivo nella costruzione della geografia culturale. All’idea di civilizzazione corrisponde quella di mondo. L’idea di metacultura corrisponde a quella di metamondo in divenire, con nuovi mondi culturali e assi maggiori dove le culture di domani e le loro configurazioni politiche vengono create. Questo è l’ultimo stadio dell’analisi culturale. I maggiori processi di strutturazione del mondo sono fondati su valori condivisi e fatti economici, su connessioni mentali e divergenze. Il mondo, pertanto, si auto-organizza in modo interdipendente attorno le linee di metaculture e di metamondi piuttosto che su blocchi nazionali. Ashworth, Graham e Tunbridge classificano le società plurali in alcuni schemi concettuali senza pretesa di esaustività: - assimilatory, integrationist or single-core - melting pot - core+ - pillar - salad bowl-rainbow-mosaic In questi modelli, la società accetta la valida esistenza di un unico assetto di valori comuni, norme sociali e pratiche, e caratteristiche etniche e culturali quale determinante legittima dell’identità locale. L’identità locale è fortemente connessa all’identità sociale, traendo origine dai movimenti nazionalisti romantici europei dell’Ottocento. L’estrema manifestazione di ciò è la negazione di alcun tentativo di multiculturalismo. In tale ottica, si possono accettare variazioni di minoranze solo come fenomeno temporaneo nel processo di assimilazione. Le minoranze etniche vengono coinvolte in un processo di «integrazione», da leggere sia come acculturazione (adattamento culturale alla maggioranza della società così da non distinguersi da essa), sia come integrazione funzionale per gli immigrati di nuova generazione allo scopo di essere effettivamente funzionali all’interno della società dominante (mercato del lavoro, mercato della casa, sistema educativo, ecc.). « » Il «melting pot» è una politica conscia nelle società di coloni nelle quali i diversi flussi di immigranti di diverse etnie vengono a essere «fusi» in una nuova identità omogenea. La similarità cruciale fra assimilazione e «melting pot» è il fatto che il prodotto finale desiderato sia, per entrambi i processi, una società composta da un nucleo singolo, con valori, norme e identità culturali condivisi. La differenza, però, fra i due modelli è che in quelli di assimilazione il nucleo è già preesistente, mentre nel «melting pot» esso cambia e si trasforma ogni volta che vi sono nuovi elementi etnici che si aggiungono ad esso. Questo modello è presente in tre tipologie di società: - società di coloni; - società che hanno bisogno di creare una nuova identità unica nazionale da gruppi etnici differenti; - società in cui i governi hanno cercato di forgiare nuove identità sociali e politiche per parte delle loro popolazioni. Nel «melting pot» vi sono comunque culture «residue». La reazione alle culture «residue» può essere di tre tipi: ignorare, marginalizzare, o procedere con la cosiddetta «cultural hyphenation» (riconoscere la diversità culturale, sino-americano, ispano-americano, italo-americano, ecc.). « » I modelli «core+» sono presenti nelle società occidentali moderne con una riconosciuta identità nazionale da lungo tempo, ma che negli ultimi anni vanno sperimentando una forte corrente immigratoria culturalmente divergente. Essa è anche diffusa nei paesi post-coloniali, laddove, nel tentativo di costruire una identità nazionale, si creano nuove minoranze etniche. Centrale per il modello è l’idea che vi sia una identità centrale consensuale, una cultura dominante a cui si aggregano un certo numero di distinti minori gruppi culturali. Le minoranze accettano la cultura dominante che è radicata nel tempo e nel luogo; piuttosto, la cultura minoritaria rafforza quella centrale, contribuendo a fornire ad essa addizioni in grado di incrementare la propria varietà. Le addizioni possono essere viste dal nucleo centrale o come qualcosa separato, di nessuna rilevanza, ma anche come una minaccia per lo stesso, oppure come un elemento di rafforzamento del nucleo stesso una subcategoria o una variante regionale. « » Il modello dei «pilastri» nasce come reazione difensiva in società profondamente divise, mantenendo un’unità nazionale e al contempo soddisfacendo le tendenze separatiste dei diversi gruppi. In questo modello la società è concepita come un insieme di «pilastri», ognuno auto-contenuto e con scarse connessioni con gli altri. Tutti i pilastri supportano la sovrastruttura statale che impone loro condizioni minime di uniformità, permettendo ad ogni gruppo di gestire le proprie istituzioni culturali, sociali, educative, politiche ed anche economiche. In tale modello ogni gruppo crea, gestisce e consuma la propria eredità culturale. Il ruolo dello Stato centrale si limita a mantenere un’eguaglianza fra i vari gruppi, ma non incoraggia l’interscambio culturale fra i vari gruppi. « » In tali modelli si pensa che i diversi gruppi culturali si riconoscano reciprocamente, ma non cerchino di fondersi in un’unica cultura centrale, lasciando libera espressione per ognuno di essi, che però si arricchiscono dell’interscambio culturale con gli altri, pur rimanendo elementi distintivi e peculiari all’interno della società. Gli strumenti «politici» per promuovere la cultura in tali modelli sono sostanzialmente di due tipi: - inclusivi (ogni singolo gruppo diventa parte della cultura principale e dell’eredità dei luoghi, generando però due ordini di problematiche, ovverosia le questioni riguardanti il «peso» di ogni singola cultura e la possibile distorsione e diluizione delle eredità dei diversi gruppi); - esclusivi (ogni gruppo rimane formalmente distinto dagli altri, riconoscendo e rafforzando la gestione della propria eredità al gruppo di appartenenza). La cultura è la somma dei comportamenti, delle abilità, delle tecniche, delle conoscenze e dei valori accumulati dagli individui nel corso della vita e, su un’altra scala, dell’insieme dei gruppi di cui fanno parte. È un’eredità trasmessa da una generazione a un’altra, ma non è rigida, perché le comunicazioni in atto nei gruppi sociali la trasformano continuamente. La cultura genera flussi di informazione che permettono alla società di funzionare e di trasformarsi. Inoltre, tali flussi la modellano, poiché assicurano la diffusione delle innovazioni, la conoscenza di nuovi atteggiamenti e provocano reazioni di accettazione e di rifiuto. Ciò che viene trasmesso dipende dai media a disposizione del gruppo. È a partire dai processi di comunicazione che si coglie il carattere dinamico della cultura. I tipi di comunicazione - comunicazione orale e gestuale; - scrittura; - disegno e arti plastiche; - disegno tecnico; - nuovi media. Forme di comunicazione - scambio di informazione e comunicazione simbolica; - comunicazione asimmetrica: televisione, società dei consumi e cultura di massa; - ampliamento della vita di relazione e media interattivi; - monopolio dell’accesso all’informazione e autorità; Ciò che viene trasmesso - gesti, atteggiamenti, rituali, abilità; - conoscenze teoriche, norme astratte, sistemi religiosi o metafisici; - la costruzione del reale da parte delle culture («mappe della conoscenza»). Per l’individuo la cultura è innanzitutto eredità. Ciascuno è esposto in un modo particolare agli atteggiamenti e ai valori dell’ambiente in cui si trova. Li riceve in forma diversa e sempre nuova perché non vive nella stessa famiglia, circondato dalle stesse persone, nello stesso periodo e nelle stesse circostanze. - l’individuo agisce mosso da forze esterne (individuo dominato); - l’individuo è il riflesso della società (uomo sociale); - l’individuo è responsabile delle proprie azioni (individuo libero); - il comportamento dell’individuo è una mediazione fra imposizione sociale e pulsioni individuali (concezione freudiana). L’individuo sociale nasce con l’interiorizzazione dei codici di comportamento, delle conoscenze acquisite sul mondo e delle norme morali. Nella maggior parte dei casi, questo individuo sociale non ha una realtà autonoma: la sua consistenza deriva dal fatto che fa parte di un tutto con cui egli cerca di fondersi il più possibile e di interpretare il ruolo assegnatogli. L’integrazione in un gruppo che conferisce all’individuo un’identità sociale inizia molto presto e si conferma nell’adolescenza, quando le prescrizioni sono interiorizzate. Al di là dell’eredità comune di codici che permettono di comunicare, le abilità e le conoscenze sono distribuite in modo diseguale tra i membri di una stessa società: ciascuno è chiamato a ricoprire un ruolo diverso secondo il genere, l’età e le capacità tecniche o intellettuali. Ogni persona è legata a tutte le altre da una rete complessa di relazioni. Sono possibili diverse architetture sociali, che implicano configurazioni spaziali specifiche e assicurano, ma non con la stessa efficacia e con lo stesso stile, il funzionamento e la dinamica dell’insieme. Lezione 4-5 L’ambiente rappresenta il teatro dell’agire umano, da cui l’uomo si distacca man mano che avanza nel suo processo di sviluppo, pur avendo un dialogo con l’ambiente ed operando all’interno delle potenzialità da esso offerte. Non c’è più dipendenza, quindi, dall’ambiente, ma interrelazione: la cultura è un filtro che permette di dialogare con l’ambiente La cultura finisce per avere così valore di insieme, che caratterizza il gruppo e contribuisce a dare “organicità” e “specificità” al territorio. Di questo “insieme” fa parte il linguaggio come elemento essenziale per la trasmissione di quei valori che costituiscono la “cultura”. In effetti, la più grande conquista dell’uomo è il linguaggio. Infatti, impariamo a pensare, a sentire, a giudicare attraverso e nei limiti che le parole, gli idiomi e la sintassi della nostra lingua ci impongono. Esso rende possibile la comunicazione dei significati e la partecipazione attiva all’interno di un gruppo, in modo tale da renderlo capace di formare una società stabile, di creare e di trasmettere una propria identità; ed in questo contesto il linguaggio viene ad assumere una funzione sociale ed espressione di comportamento interpersonale. Il comportamento linguistico dell’individuo riflette necessariamente le caratteristiche più importanti della sua personalità, ma anche gli elementi specifici di un dato ambiente, perché esso ha preso origine e si è sviluppato in un particolare contesto culturale e ambientale. L’influenza dell’ambiente fisico sulle lingue si manifesta in due dinamiche principali: - nel lessico (nome di piante, di animali, fenomeni meteorologici, tipi di terreno, ecc.); - nella localizzazione e distribuzione della popolazione e nei percorsi di diffusione delle lingue. Sotto quest’aspetto influiscono: - morfologia (rilievi, pianure, valli); - insularità (isolamento o contatto); - paludi (aree non bonificate); - clima (freddo, caldo, eventi climatici, ecc.). Espressione di questo rapporto con l’ambiente è la toponomastica, un campo di indagine di indubbio interesse in quanto contribuisce a dare un non trascurabile contributo di conoscenza dei rapporti uomo-ambiente. I termini geografici dialettali riconducono infatti alla umanizzazione attiva dello spazio, delimitano l’area di Infine, Breton prende in considerazione la presenza di istituzioni politiche, il ruolo della metropoli e il tipo di rete urbana esistente (post-strutture). Le istituzioni politiche possono ammettere diversi modi di partecipazione al potere da parte di settori più o meno ampi o ristretti del gruppo, e questo non è privo di importanza perché in un sistema democratico chi gestisce il potere deve saper interloquire con tutti, anche con le diverse classi sociali, e dunque deve conoscerne il linguaggio e la cultura. La metropoli è intesa come il principale centro decisionale del territorio abitato dalla comunità etnica: dalla sua vitalità e dalla sua forza dipende l'elaborazione di nuove idee, di nuovi modelli comportamentali, di nuove espressioni linguistiche e culturali. Nello stesso tempo, l'efficienza della rete urbana influisce sulla solidità e la coesione del gruppo, che deve fare riferimento ad un insieme coordinato di punti di insediamento per essere ben inserito sul territorio. Si possono individuare quattro aspetti principali sul rapporto tra lingue e società in cui queste sono parlate o scritte: a) diversi gruppi umani usano diverse varietà della lingua, in rapporto alle diverse classi e ai contesti sociali; b) gli stessi gruppi umani utilizzano “registri” differenti per esprimere diversi stati d’animo, emozioni, ecc.; c) la lingua rispecchia la società e la cultura nella quale è usata; d) la lingua forma la società nella quale è usata. Secondo H. Gobard per ogni specifica area culturale si possono individuare quattro tipi di linguaggio, indipendentemente dalla lingua utilizzata: a) un linguaggio vernacolare, locale, parlato spontaneamente, legato all’esigenza di un gruppo di sentirsi in comunione; b) un linguaggio veicolare, nazionale o regionale, imparato per necessità e destinato alla comunicazione a scala urbana; c) un linguaggio referenziale, legato alle tradizioni culturali, orali o scritte, espressione di continuità di valori mantenuta viva attraverso la rivitalizzazione della cultura classica; d) un linguaggio mitico, magico, apparentemente incomprensibile, espressione di sacralità. Nelle società tecnologicamente avanzate è probabile che esista una lingua standard, la cui qualità è materia di identità culturale e interesse nazionale. In genere, la scelta della lingua standard di un popolo è legato ai gruppi di potere e a scelte politiche. In generale, i dialetti si possono concepire come varianti regionali di una lingua standard. Cos’è un dialetto? - In senso linguistico, un dialetto è una varietà di una lingua. - In senso genealogico, un dialetto è una lingua che si è evoluta da un’altra lingua. - In senso sociolinguistico, un dialetto è una lingua subordinata ad un’altra lingua. - Comprensione reciproca. Se c’è mutua intelligibilità, ossia se i due parlanti si capiscono tra loro quando parlano, ci si trova sicuramente di fronte a due dialetti della medesima lingua; - Lessico di base in comune. Se più dell’80% delle parole di uso comune impiegate dai due parlanti sono le stesse (anche se pronunciate in modo differente), i due idiomi sono dialetti della stessa lingua; - Morfologia e sintassi omogenee. Se i due parlanti utilizzano le stesse regole grammaticali per esprimersi, parlano due dialetti della stessa lingua. Secondo questa definizione, un dialetto è una varietà linguistica originata da una lingua antecedente. Il dialetto, quindi, è in un certo senso il “figlio” di una lingua “genitrice” dalla quale deriva. I sociolinguisti hanno identificato alcuni parametri per identificare la differenza tra lingua e dialetto: - Diffusione geografica limitata. Mentre la lingua viene impiegata in un territorio molto esteso, il dialetto si parla in un’area geografica di piccole dimensioni. - Assenza di uno standard. Il dialetto non ha elaborato una forma “corretta” riconosciuta da tutti i parlanti. Si trova quindi in una situazione di forte frammentazione locale. In sostanza, ogni comunità lo parla in modo diverso. - Scarso prestigio. Il dialetto è percepito dalla popolazione che lo parla come un idioma rozzo. Viene per lo più parlato dalle persone povere e poco istruite. - Uso informale. Un dialetto viene impiegato in situazioni sociali informali, ad esempio in famiglia o tra amici. Non si usa presso gli uffici pubblici, a scuola oppure per fare conferenze o colloqui lavorativi. - Corpus letterario limitato. Un dialetto viene prevalentemente parlato, e non scritto. La letteratura è in genere assente o scarsa. Quando presente, è di poco valore. - Presenza di una lingua-tetto. Il dialetto, nelle comunità dove viene parlato, è influenzato da una lingua tetto, ossia da un idioma prestigioso che viene impiegato nelle situazioni formali e nella letteratura. Dalla lingua tetto il dialetto riceve prestiti (parole e costrutti grammaticali). - Mancanza di lessico tecnico-scientifico. Il dialetto ha un vocabolario limitato alle parole della vita quotidiana, e quindi non ha i termini adatti per parlare di scienza, tecnologia, filosofia e altre branche del sapere. Esistono lingue che avanzano diffondendosi su vaste aree per poi indietreggiare, lingue che sono parlate da un numero limitato di persone che si mantengono “stabili” (anche se in effetti non esistono lingue completamente omogenee e stabili nel tempo), altre che perdono sempre più consistenza e significato culturale. Rispetto al livello di sviluppo qualitativo raggiunto da una lingua, Breton (1976) individua cinque stadi: a) al primo livello si trovano le lingue prive di scrittura, di tradizione orale e uso locale; b) al secondo livello vi sono le lingue locali (o vernacolari) entrate in uno stadio di “letterizzazione”; c) al terzo livello si hanno le parlate “veicolari”, che all’inizio erano lingue vernacolari, ma poi elevate a lingua relazionale; d) al quarto livello si collocano le lingue nazionali, espressione di un gruppo etnico ormai consolidato; e) all’ultimo livello si collocano le lingue internazionali. Le modalità nelle dinamiche di affermazione, espansione e ritiro delle lingue sono varie e dipendono da fattori flessibili, cioè che riguardano le condizioni influenzate dall’azione umana e possono dunque modificarsi col passare del tempo e con i cambiamenti delle società. - Colonizzazione e decolonizzazione: colonialismo linguistico, nuove lingue post-coloniali - Migrazioni: germaniche e slave antiche, ungheresi, spostamenti di popolazioni post belliche - Religione: diffusione dell’Islam, missioni gesuite in America latina, il ruolo della chiesa - Commercio, economia e trasporti: greco, lingue franche, pidgin, rotte marittime e terrestri - Conquiste e vittorie militari: assimilazione linguistica, sostituzione, nazionalizzazione - Assetto politico: imperi, nascita o dissoluzione di uno stato, legislazione, democrazia vs totalitarismi - Cultura: lingue esportatrici, lingue letterarie (italiano) - Demografia: numero dei locutori, struttura sociale, dinamiche demografiche - Diffusione per spostamento: per dispersione dei parlanti e per migrazioni - Diffusione per espansione: per contagio (propagazione a macchia d’olio – es. acculturazione) per gerarchie (segue vie preferenziali – es. reti urbane) per stimoli (usi imitativi della lingua – es. prestiti linguistici) Breton, completamente allofona. Più avanti ancora ci sarà l’area dell’etnia B, con monolinguismo etnofono b (Bb). Le fasi territoriali del passaggio dalla lingua a alla b attraverso due frange di bilinguismo a diversa prevalenza possono darci un’idea del processo, in questo caso, di deculturazione dell’etnia A per effetto della maggiore influenza dell’etnia B (dal cui punto di vista si può invece parlare di acculturazione). Lo studio della distribuzione territoriale delle lingue e dei loro meccanismi di diffusione nello spazio e nel tempo hanno dato vita alla “geografia linguistica” (o geolinguistica, o linguistica spaziale). Il Bartoli formulò una serie di considerazioni che, pur non avendo l’assolutezza delle leggi (l’Autore preferì chiamarle norme) avevano interessanti contenuti geografici: - Norma dell’area isolata: se di due forme linguistiche una si trova in un’area isolata e l’altra in un’area più accessibile ai mezzi di comunicazione, la prima è più antica; - Norma dell’area centrale (o delle aree laterali): se di due forme di una stessa lingua una si trova nelle aree periferiche della regione che usa quella lingua e l’altra nelle aree centrali, la prima è più antica; - Norma dell’area vasta: se di due forme linguistiche una è usata in un’area più ampia dell’altra, allora la prima è la più antica; - Norma dell’area seriore: Nelle zone in cui la lingua è arrivata più tardi, tende a conservarsi la fase più antica; - Norma della fase sparita: se di due fasi linguistiche, una sta per scomparire, quella che sta per estinguersi è la fase più antica. La norma dell’area isolata, sostenendo che le forme linguistiche si conservano più a lungo invariate in quelle regioni che sono meno esposte agli scambi con l’esterno, è senz’altro convincente; basterebbe considerare la città come zona di più facili comunicazioni e la campagna come zona isolata per ritrovare le osservazioni da cui siamo partiti. Ne abbiamo in Italia un’ottima dimostrazione: quella rappresentata dal sardo, lingua nella quale si conservano numerosi arcaismi. Mentre in italiano, ad esempio, i termini per indicare “domani”, “casa” e “grande” derivano tutti dal latino tardo, in sardo, invece, la derivazione dal latino arcaico (cras, domus e magnus) permane negli attuali kras, domo e mannu. Similmente, l’isolamento dell’Islanda, unito ad una solida cultura scritta, ha reso possibile un’eccezionale conservazione della lingua originale, che è rimasta sostanzialmente invariata negli ultimi mille anni, tant’è che, di fatto, oggi un islandese è capace di leggere senza troppe difficoltà anche una saga del XIII secolo; per lo stesso motivo, d’altra parte, alcune particolarità grammaticali che in altre lingue germaniche sono andate attenuandosi sono rimaste invece immutate nella lingua islandese. La seconda delle norme citate, quella dell’area centrale, potrebbe, a prima vista, sembrare in contraddizione con la precedente, in quanto si potrebbe essere portati a pensare che le aree periferiche siano più esposte ai contatti con l’esterno e che, quindi, costituiscano le zone in cui lo scambio con altre lingue è più intenso. In realtà, la norma asserisce che tra due diverse forme di una lingua, parlate una in periferia e l’altra nel centro, quella che si trova nell’area centrale è più recente, ma fa riferimento non tanto al centro geometrico, quanto piuttosto a quello culturale ed economico: è qui, infatti, che avvengono i più frequenti scambi con l’esterno, produttivi di innovazioni linguistiche. L’esempio che si fa generalmente a tal proposito è quello delle lingue parlate nel territorio dell’ex impero romano: lingue derivanti dal latino e diffuse in un’area compresa tra il versante atlantico della penisola iberica, ad ovest, e la costa rumena sul Mar Nero ad est. Ebbene, molti dei concetti espressi in italiano (o in francese, lingua di un’area in più diretto contatto con Roma, centro di diffusione della lingua latina) con termini derivanti dal latino tardo rivelano invece in castigliano o in rumeno una derivazione dal latino classico. Se in Italia, ad esempio, parliamo di tavolo e in Francia di table (dal latino recente tabula), in Spagna per indicare lo stesso concetto si usa mesa e in Romania masa, vocaboli entrambi derivanti dal latino classico mensa. Questa norma, di minore applicazione pratica generale, evidenzia come l’area maggiore tende a conservare la fase più antica purché non sia troppo esposta a influenze dall’esterno o sia formata da aree laterali. Alcuni esempi vengono ancora dall’osservazione delle lingue neolatine: mentre in Italia, Spagna e Dacia si utilizza la forma più diffusa derivante dal latino caput, in Francia si usa quella derivante dal latino testa. Ancora, nella penisola iberica, italica e in Francia si utilizzino i termini derivanti dal latino aperire, in Dacia si utilizza il termine derivato dal latino dicludere. Si possono tracciare carte tematiche riguardanti la diffusione di un certo linguaggio o di una ben determinata parola, che avrà dei confini immaginari, dette linee di “isoglossia”. Si definisce isoglossa la linea immaginaria con la quale, mediante un’ipotesi metodologica, si uniscono i punti estremi di un’area geografica caratterizzata dalla presenza di uno stesso fenomeno linguistico. Questo fenomeno può essere di natura fonologica (isòfona), morfologica (isomòrfa), sintattica, oppure lessicale (isolessi o, più di rado, isòsema); con riferimento all’accentazione si può usare il termine isòtona. - indonesiano (199 milioni) - tedesco standard (135 milioni) - giapponese (125 milioni) - pidgin nigeriano (121 milioni) Diverse dalle lingue naturali o spontanee sono le lingue “artificiali”, create per far fronte ad avvertite esigenze di comunicazione su vasta scala. Si possono poi avere delle lingue “resuscitate”, ossia lingue morte riportate in uso da un gruppo etnico come espressione di una identità ritrovata. Fra i linguaggi artificiali si possono evidenziare: - linguaggi con intenti universali, il più noto di tutti è l’esperanto; - linguaggi di inclusione, per esempio il linguaggio dei segni (Ethnologue al 2022 ne classifica 157); - linguaggi letterari, in alcune opere si inventano non solo nuovi termini, ma anche delle lingue o parte di esse; - linguaggi tecnici specifici, in questa epoca, per esempio, i linguaggi di programmazione dei computer. Lezione 6 – ‘La lingua sanscrita, quale che sia la sua antichità, è una lingua di struttura meravigliosa, più perfetta del greco, più copiosa del latino, e più squisitamente raffinata di ambedue, nonostante essa abbia con entrambe una affinità più forte, sia nelle radici dei verbi sia nelle forme della grammatica, di quanto probabilmente non sarebbe potuto accadere per puro caso; così forte, infatti, che nessun filologo potrebbe indagarle tutt'e tre, senza credere che esse siano sorte da qualche fonte comune, la quale, forse, non esiste più.’ (William Jones, 1786) - Rilevazione di somiglianze linguistiche tra sanscrito, greco, latino, gotico e lingue celtiche a cura di William Jones. Possibile derivazione delle stesse lingue da una comune lingua originaria estinta: il Protoindoeuropeo. - Franz Bopp (1791-1867) e Rasmus Christian Rask (1787-1832) comprovano per primi le relazioni tra le suddette lingue attestando numerose corrispondenze sui differenti livelli di analisi (fonetico, fonologico, morfologico, lessicale e sintattico). - Elaborazione del concetto di famiglia linguistica indoeuropea in base al criterio dell’albero genealogico di August Schleicher. (Protoindoeuropeo come lingua madre di lingue figlie a loro volta lingue madri di ulteriori lingue figlie). La prima teoria formulata sull’origine dei linguaggi è quella “dell’albero genealogico”, formulata da A. Schleicher nell’Ottocento, per cui le lingue sono intese come organismi autonomi, naturali, che nascono, crescono, invecchiano e muoiono indipendentemente dall’azione umana, sulla base di leggi determinate, secondo il cosiddetto principio della “decadenza fonetica”. Secondo tale teoria, si configura un processo di “divergenza linguistica”, con la differenziazione nel tempo e nello spazio e la ramificazione delle lingue in dialetti, che si differenzierebbero sempre più a causa dell’isolamento fino a divenire con il passare del tempo lingue a sé. Un fattore di complicazione a questa teoria è la mobilità umana, che può dare vita a un contrapposto fenomeno di “convergenza linguistica”. Inoltre, a volte, gruppi etnici più forti prendono il sopravvento su altri più deboli, dando vita a un processo di “sostituzione linguistica”. – - Durante la metà del XIX secolo fu proposto un modello alternativo a quello dell'albero genealogico elaborato dallo studioso tedesco Johannes Schmidt. Secondo questo modello, ovvero la teoria delle onde (Wellen theorie), i mutamenti linguistici dovevano essere considerati come fenomeni che, partendo da un centro di irradiazione, si diffondono a cerchi concentrici, indebolendosi man mano che si allontanano dal centro. - Si tratta di principi apparentemente contrapposti ma entrambi diedero un contributo fondamentale alla ricostruzione attuale del protoindoeuropeo. – METODO COMPARATIVO Il metodo principale usato per la ricostruzione di questa lingua originaria e per l’analisi delle somiglianze attestate nelle lingue figlie è il metodo comparativo. Si tratta di un metodo di ricostruzione di tipo deduttivo, che consiste nel confrontare sistematicamente tra loro tutti i dati disponibili, individuare le regolarità e in base a esse ricostruire una forma che spieghi attraverso gli esiti attestati i mutamenti regolari. Questo metodo viene utilizzato principalmente in chiave diacronica all’interno di uno stesso idioma ma può essere utilizzato anche confrontando idiomi differenti. Queste tipologie di analisi hanno permesso l’attestazione di concordanze soprattutto per quanto riguarda le corrispondenze fonetico-fonologiche. Esempio: Si è registrata la presenza nella maggior parte delle lingue indoeuropee dello stesso fonema nella stessa parola. La parola nove, ad esempio, è caratterizzata da una nasale dentale in posizione iniziale in tutte le lingue indoeuropee in cui è attestata: latino novem, inglese e tedesco nine e neun, sanscrito nava, greco ennea. CONDIZIONI Ovviamente questi studi presuppongono un cospicuo numero di condizioni, una delle quali consiste nel dover analizzare elementi caratterizzati da una spiccata propensione alla conservatività. Questo rappresenta uno dei principi fondamentali per l'autenticità della ricostruzione. Elementi di neo-formazione linguistica, infatti, determinano una ricostruzione senza fondamento storico. Si tratta di un fenomeno a cui prestare molta attenzione in quanto è possibile che lingue non imparentate tra loro manifestino, ad esempio, somiglianze nel lessico derivanti da condizioni differenti come ad esempio il contatto per prossimità geografica e dunque non come risultato di parentela linguistica. È il caso dell’italiano ed il turco. (italiano: bagaglio; turco bagaj). Ricostruzione non totalitaria della lingua. Ogni aspetto finora emerso deve essere contestualizzato nella visione che il protoindoeuropeo è una lingua non attestata ma ipotetica. Essa non corrisponde ad una lingua reale; dobbiamo sempre tener presente che le corrispondenze sopra citate rappresentano forme ricostruite. La ricostruzione, dunque, può e deve perseguire una verosimiglianza, ma deve al contempo abbandonare l'idea di raggiungere una spiegazione univoca di fenomeni. Una buona parte dei dibattiti si sono tenuti in relazione alla terra di origine, nonché la patria di provenienza nota come Urheimat dal tedesco ur- (originale, antico) e heimat (casa). Le ricerche definite hanno dato luogo ad un ampio ventaglio di ipotesi. Inizialmente, essendo la nascita stessa dell'indeuropeistica in gran parte connessa alla "scoperta" del sanscrito da parte degli europei, i primi studiosi propenderono verso una collocazione asiatica della Patria ancestrale. La prima teoria proposta fu quella che l'India fosse la Patria originaria ed il sanscrito la lingua originaria. Nelle teorie successive, si è cercato di trovare una lingua proto-indoeuropea, che si è poi diffusa in tutta Europa e nell’India. Nel tentativo di trovare una lingua-radice comune sono state proposte: - la teoria della conquista; - la teoria dell’agricoltura (poi ulteriormente approfondita nel modello Renfrew). A Marija Gimbutas, archeologa e linguista lituana, va attribuita l'identificazione del processo di indoeuropeizzazione con quello della diffusione della cultura kurgan (l'insieme di culture preistoriche e protostoriche dell'Eurasia ovvero la zona di territorio comprendente l’Europa Orientale, Asia Centrale e Siberia, fino ai Monti Altai e alla Mongolia occidentale, che usavano seppellire i morti di alto rango in tumuli funerari, edificati a partire dal 4000 a.C. circa e in particolare nell'Età del bronzo), mediante una meticolosa osservazione delle culture materiali dell'est-europeo. ‘La cultura dei Kurgan sembra l'ultima candidata rimasta a poter essere definita protoindoeuropea: non vi è nessun'altra cultura nei periodi neolitico e calcolitico che potrebbe corrispondere all'ipotetica cultura madre degli Indoeuropei come la si ricostruisce con l'aiuto delle parole comuni e non vi furono grandi espansioni e conquiste che influenzarono territori interi in cui le più antiche fonti storiche e una continuità culturale provano l'esistenza di individui di lingua indoeuropea.’ M. Gimbutas, 1970 La Gimbutas riuscì a far conciliare il dato archeologico con le realtà linguistiche per ricostruire l'habitat e la cultura del popolo in questione. In base agli studi condotti, indicò come territorio di origine degli indoeuropei la steppa euroasiatica, o meglio, la zona compresa tra il Volga e il Dnepr nel periodo 4500-3000 a.C. Successivamente le popolazioni indoeuropee si sarebbero spostate sia verso l’Europa Occidentale sia verso l’India sovrapponendosi alle popolazioni neolitiche preindoeuropee imponendo la loro lingua, la loro religione e la loro struttura sociale. L’interpretazione in questione è la più accreditata oggi in quanto testimoniata da dati archeologici e scientifici. termini di numero di parlanti delle lingue indoeuropee ricordiamo inoltre come queste si siano diffuse anche nelle Americhe, in Australia, in Nuova Zelanda, in Siberia e in alcune regioni dell’Africa in seguito a esplorazioni geografiche, migrazioni e colonizzazioni. La divisione centum-satem è un'isoglossa della famiglia delle lingue indoeuropee, legata all'evoluzione delle tre consonanti dorsali ricostruite per il proto-indoeuropeo. I due termini provengono dalle parole per il numero "cento", in due lingue rappresentative dei due gruppi (latino centum e avestico satəm), derivanti dal termine indoeuropeo *[ḱṃtóm] (si ricordi che nella pronuncia latina classica la c aveva sempre il suono velare /k/ come in casa). Le lingue centum sono caratterizzate da articolazioni velari, mentre nelle lingue satem ad articolazioni velari corrispondono articolazioni anteriorizzate (affricate palatali) o nettamente anteriori (sibilanti). Quanto a geografia, la divisione si presenta grosso modo verticale, con le lingue centum prevalentemente ad ovest (lingue germaniche, celtiche, latino e lingue romanze, greco) e le lingue satem specificatamente ad est, tra Europa orientale ed Asia. Probabilmente la forma più antica è quella centum; tale ipotesi è rafforzata dallo studio della lingua tocaria estinta in Cina, che presenta forme simili a quelle del latino, come se queste due siano delle aree laterali secondo la norma introdotta dal Bartoli. L’area centrale è stata indicata in un’area delle steppe uraliche comprese fra la cultura di Sintashta, fiorita intorno al 2100 a.C., che insolitamente per un popolo steppico era rilevante per la lavorazione di rame e bronzo e probabilmente i primi a inventare le bighe, e la cultura di Srubna (o delle tombe di legno), fiorita sul Dnepr e la costa settentrionale del Mar Nero dal 1850 a.C., popolazione iranica di agricoltori con una particolare abilità per le lavorazioni in legno. Le lingue anatoliche furono fra le prime a distaccarsi dal proto-indoeuropeo o comunque le prime di cui si ha testimonianza scritta di radici indoeuropee. In generale si fa risalire la loro formazione al IV millennio a.C.. La lingua più importante e dominante è stato l’ittita, altre lingue furono il luvio, il licio e altre di cui si hanno testimonianze frammentarie o incerte, come il palaico, il cario, il lidio, il pisedico, il sidetico e forse l’isaurico. Il crollo dell’impero ittita e la progressiva ellenizzazione dell’Anatolia portano alla estinzione di tutto il ramo linguistico, probabilmente dopo le conquiste di Alessandro Magno, stimando comunque la totale estinzione entro il I secolo a.C. - Ramo linguistico indipendente all’interno della famiglia linguistica indoeuropea. - Parlato all’incirca da 13 milioni di persone, principalmente in Grecia, nell’isola di Cipro dove la stessa è riconosciuta come lingua ufficiale (a fianco del turco) ed in Albania dove è riconosciuta lingua minoritaria. - Parlato anche in Bulgaria, in Turchia, in Romania, in Italia meridionale, in Egitto, in Libia e in Siria. - Scrittura fenicia all’origine dell’alfabeto greco, a sua volta all’origine dell’alfabeto latino e dell’alfabeto cirillico. - Nell’antichità il greco era considerato lingua franca nel mondo mediterraneo e nell’Asia occidentale. Essa fu inoltre la lingua ufficiale dell’impero bizantino. - Date le sue antichissime attestazioni è possibile risalire ad una vera e proprio storia della lingua greca che può essere sintetizzata come segue: Miceneo (1600-1100 a.C.) Greco antico 8800-300 a.C.) Koinè greca (330 a.C.-330 d.C.) Greco medievale (330 d.C.-1453 d.C.) Greco moderno (dal 1453 d.C.) - La lingua albanese è parlata principalmente in Albania, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro. Essa è anche diffusa in alter aree dell’Europa come Grecia, Balcani, Bulgaria, Italia. - Comunità arbëreshe in Italia (fuga all’invasione turca e al consolidamento dell’Impero Ottomano 1478). - Varietà ghega (parlata nella parte settentrionale dell’Albania) e varietà tosca (parlata nella parte meridionale dell’Albania). - Ramo linguistico indipendente all’interno della famiglia linguistica europea. - Due dei suoi possibili gruppi originari, ovvero, il gruppo illirico e il gruppo linguistico daco-trace. - Possibile affiliazione alle lingue romanze balcaniche (Matteo Bartoli). PORTOGHESE, FRANCESE, SPAGNOLO, ROMENO, ITALIANO, LADINO, CATALANO, FRANCO- PROVENZALE, SARDO SETTENTRIONALE, SARDO, OCCITANO, ROMANCIO, FRIULANO. Queste lingue rappresentano l’evoluzione diretta del latino volgare sviluppatosi in seguito all’espansione dell’Impero Romano. Le lingue romanze nacquero e si svilupparono nell’Europa meridionale, un tempo conquistata e colonizzata dagli antichi romani. In seguito al colonialismo del XVI e del XVIII secolo, all’espansione delle potenze europee nel corso dell’Ottocento si diffusero anche nelle Americhe, in Asia, in Africa e in Oceania. Dal punto di vista dei locutori madrelingua lo spagnolo è l’idioma più parlato, seguito dal portoghese e dal francese. Per quanto riguarda invece il numero di Paesi in cui è parlata, la lingua più diffusa è quella francese, presente in Francia, Svizzera, Belgio, in Canada, nei Caraibi, in molti stati dell’Africa e negli arcipelaghi dell’Oceano Pacifico. Lo spagnolo è parlato in Spagna e nell’America Latina, il Portoghese, oltre che in Portogallo, è parlato anche in Brasile e in alcune aree dell’Africa. Segue il romeno parlato, oltre che in Romania, anche in Moldavia, e l’italiano, presente in Italia, ma anche in Svizzera (Canton Ticino). Secondo una ricostruzione recente i Celti potrebbero avere come area di origine i territori fra Francia, Germania e Svizzera compresi fra il Reno e le sorgenti del Danubio. Le lingue celtiche sono idiomi derivanti dal proto-celtico. Nell’I millennio a.C. queste lingue erano parlate in tutta Europa, mentre oggi ricoprono unicamente l’area della Gran Bretagna e della Bretagna in Francia. Il proto-celtico era diviso in quattro gruppi: - il gallico (parlato in un vasto spazio che andava dalla Francia fino alla Turchia, dal Belgio fino all’Italia settentrionale); - il celtiberico (parlato nella penisola iberica); - il goidelico (irlandese, gaelico scozzese ed il mannese); - il brittonico (gallese, bretone, cornico, cumbrico). INGLESE, TEDESCO, OLANDESE, DANESE, SVEDESE, NORVEGESE. Prima dell’Era Cristiana le lingue relative al gruppo germanico vissero un periodo di ipotetica omogeneità e questa fase linguistica venne definita come protogermanico. Le popolazioni germaniche in quel dato periodo erano essenzialmente stanziate nella cerchia Nordica, ovvero, la zona compresa tra la fascia meridionale della Scandinavia e la Germania settentrionale. Successivamente, con l’avvento dell’Era Cristiana e delle successive migrazioni le popolazioni germaniche iniziano a dirigersi in alter direzioni conseguendo quello che poi sarebbe stato il raggruppamento convenzionale dei rami del germanico, ovvero: - Germanico orientale (rispetto al fiume Elba): gotico (forse burgunda e vandalica). - Germanico settentrionale: antico nordico (che si è evoluto nelle lingue scandinave ovvero danese, islandese, norvegese e svedese) - Germanico occidentale (rispetto al fiume Elba): inglese, tedesco, frisone, nederlandese, ecc. di arabo maghrebino, il turco (appartenente alla famiglia altaica). A ciò si aggiungono inoltre minoranze paleosiberiane e il calmucco, lingua mongola. - Dal punto di vista geografico-linguistico possiamo affermare che ogni Stato è rappresentato da almeno una propria lingua ufficiale che lo simboleggia; oltre ciò si possono riscontrare dei caratteri di multilinguismo e di contatto linguistico tra idiomi differenti all’interno di uno stesso territorio, a seguito di stratificazioni linguistiche antiche e recenti. Il greco e il latino sono stati i serbatoi iniziali per il processo di acculturazione dell’Europa. Anche dopo la conquista romana della Grecia, la parte orientale delle sponde del Mediterraneo ha denotato una scarsa penetrazione della lingua latina e un mantenimento della lingua, degli usi e dei costumi di tradizione greca. Le due culture avevano dunque raggiunto una sorta di equilibrio e di coesistenza, attraverso una serie di tappe. - Espansione romana nel Mediterraneo e in Europa dalla fine del III sec. a.C. all’inizio del II sec. d.C. - Affermazione del latino nei territori conquistati, resistenza nei confronti del latino nelle aree grecofone di Grecia, Anatolia, Medio Oriente. - Greco come lingua di cultura nel mondo romano; gli uomini di cultura conoscevano sia il greco che il latino. - Formazione di una koiné greco-romana. - Continuum territoriale e centro simbolico nella penisola balcanica meridionale, lungo asse della via Egnatia. La situazione di equilibrio si caratterizzò sempre più come contrapposizione. L’Impero Romano, sotto le pressioni esterne delle popolazioni germaniche e di altre migrazioni di massa, i cosiddetti «barbari» e con segnali sempre più preoccupanti di difficoltà del mantenimento del senso di romanità, minato soprattutto nei territori appena conquistati come la Gallia e la Britannia, decidono di suddividere l’Impero Romano d’Occidente da quello d’Oriente. Diocleziano, imperatore romano di origini dalmate, completa fra il 285 e il 293 d.C., l’architettura istituzionale nota come «tetrarchia». Alla morte di Teodosio I, l’Impero Romano venne diviso formalmente in Occidente e Oriente, ma l’Impero Romano d’Occidente cessò di esistere ben presto, nel 476 d.C. Da un punto di vista formale, l’Impero Romano d’Occidente fu annesso all’Impero Romano d’Oriente. I legami fra area orientale e occidentale del bacino mediterraneo, dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e le migrazioni germaniche, si approfondirono ancora di più dopo l’insediamento di genti slave meridionali e turco-tatare (sklavinoí/sclavini) nel sud-est europeo (VI-VII sec.). I due mondi, ambiente latino-romano (e romano-germanico) e ambiente greco-bizantino, ebbero un primo elemento sostanziale di separazione, perdendo contatti sempre più fra di loro. Un episodio cruciale fu la “creazione” del paleoslavo (IX sec.), reso grafematicamente mediante l’alfabeto glagolitico (a base greca), lingua religiosa ed amministrativa per le popolazioni slave (diffusa dai fratelli tessalonicesi Ss. Cirillo e Metodio), che permise l’attrazione sempre più marcata verso la chiesa d’Oriente. Germaniche (Völkerwanderungen) Un’imponente ‘migrazione di popoli’ germanici avvenne nei primi cinque secoli dell’era cristiana e contribuì a ridisegnare la carta linguistica dell’Europa: sotto la pressione degli Unni, le tribù germaniche abbandonarono le terre più orientali per passare nelle regioni dell’Europa centrale e meridionale. Dal 800 al 1300, coloni agricoli germani si rivolsero di nuovo ad est riconquistando terre a scapito delle popolazioni slave. Slavi (VIII secolo) A partire dall'inizio del VII secolo gli slavi incominciarono un collettivo movimento migratorio. Verso occidente gli Slavi occuparono i territori dell'Europa centrale lasciati in parte vuoti dai Germani, che si erano spostati all'interno di quello che era l'Impero romano. Evitando la pianura pannonica attraverso la Polonia giunsero fino alla Pomerania Verso sud, gli slavi scesero lungo la penisola balcanica: attraverso la "Porta Morava", scesero verso il Danubio, che attraversarono a Vindobona; attraversando la Serbia giunsero fino in Dobrugia e nel Pindo. Magiari (IX e X secolo) Il popolo magiaro discende dal ceppo ugro-finnico dei popoli uralici, formatosi nella prima metà del I millennio a.C. nelle vicinanze dei Monti Urali (sul versante asiatico). Gli ungheresi si spostarono nel corso dei secoli in conseguenza di cambiamenti politici, strategici e ambientali finché non raggiunsero il Bacino dei Carpazi e la pianura pannonica intorno l’895 d.C. Gama da Lisbona a Calcutta, in India, nel 1498 e nel 1499 - cambiarono decisamente la direzione della storia mondiale. La comprensione del mondo da parte dell'umanità e il nostro posto in esso, l'organizzazione dell'economia globale, i centri del potere globale e le tecnologie decisive della società sono stati tutti sconvolti dalla nuova era della globalizzazione basata sull'oceano. Il motivo principale per cui gli europei stavano cercando una rotta marittima verso l'Asia era l'effetto a catena della caduta dell'Impero Romano d'Oriente. Nel 1453, il sultano ottomano Mehmed II sconfisse l'imperatore bizantino Costantino XI Paleologo e occupò Costantinopoli. Con l'Impero Ottomano che regna nella città da quel momento denominata Istanbul, le antiche rotte della seta e le rotte marittime verso l'Asia erano a rischio. Le rotte marittime coinvolgevano il commercio del Mediterraneo verso un porto in Egitto o nel Levante, il trasporto via terra all'Oceano Indiano via Suez o la penisola arabica, e poi il commercio via mare con i mercanti arabi verso l'India o la Cina. La navigazione nel Mediterraneo orientale era sotto la minaccia della flotta ottomana, e la sfida di trovare una rotta marittima alternativa verso l'Asia divenne urgente. I governanti dell'Europa occidentale hanno guadagnato un nuovo e vivo interesse per la navigazione oceanica. Improvvisamente, i paesi del Nord Atlantico (Spagna, Portogallo, Gran Bretagna, Francia e Olanda) hanno avuto il sopravvento sulla geografia rispetto ai precedenti leader di lunga data del commercio est-ovest, Genova, Venezia e Bisanzio. Opportunamente, nel 1492, lo stesso anno che vide il completamento della riconquista cristiana della Spagna dal lungo regno delle potenze islamiche, il re Ferdinando e la regina Isabella sponsorizzarono il viaggio di Cristoforo Colombo, che propose di navigare a ovest attraverso l'Atlantico per trovare un nuovo rotta marittima verso l'Asia. Il terzo atto del 1492, purtroppo, fu l'espulsione degli ebrei dalla Spagna. I grandi fatti del secolo XX - Istanze autonomiste delle minoranze linguistiche - Democratizzazione politica - Derussificazione - Regressione del francese Scenari futuri del secolo XXI - Aree con forme di pluri- e multi- linguismo (leggi migrazione) - Bilinguismo lingua nazionale-inglese - Latino = lingua di cultura (neutra) → lingua sovranazionale - Inglese = lingua di lavoro (nazionale) → lingua ausiliaria internazionale Attualmente, considerando soltanto i locutori madrelingua, le lingue più utilizzate in Europa sono: - Russo (circa 100 milioni); - Tedesco (circa 95 milioni, lingua più parlata nella UE) - Francese (circa 66 milioni); - Inglese (circa 65 milioni); - Italiano (circa 65 milioni); - Spagnolo (circa 45 milioni); - Polacco (circa 40 milioni); - Ucraino; - Neerlandese; - Rumeno. L’UE ha 24 lingue ufficiali: bulgaro, ceco, croato, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, neerlandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco, sloveno, spagnolo, tedesco, svedese e ungherese. Di queste tre (inglese, francese e tedesco) hanno lo status più elevato di lingue “procedurali” della Commissione europea (mentre il Parlamento europeo accetta tutte le lingue ufficiali come lingue di lavoro). Cronologia Con le adesioni all'UE di nuovi paesi, il numero di lingue ufficiali è aumentato. Lingua ufficiale dell'UE a partire dal... 1958: neerlandese, francese, tedesco, italiano 1973: danese, inglese 1981: greco 1986: portoghese, spagnolo 1995: finlandese, svedese 2004: ceco, estone, ungherese, lettone, lituano, maltese, polacco, slovacco, sloveno 2007: bulgaro, irlandese, rumeno 2013: croato La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, adottata nel 2000 e resa giuridicamente vincolante dal trattato di Lisbona, proibisce le discriminazioni fondate sulla lingua (articolo 21) e obbliga l'Unione a rispettare la diversità linguistica (articolo 22). Il primo regolamento, datato 1958 e che istituiva il regime linguistico della Comunità economica europea, è stato modificato seguendo le successive adesioni all'Unione europea e definisce le lingue ufficiali dell'UE [1], unitamente all'articolo 55, paragrafo 1, TUE. Le disposizioni di tale regolamento e dell'articolo 24 TFUE prevedono che ogni cittadino dell'Unione europea possa rivolgersi per iscritto a qualsiasi istituzione od organo dell'UE in una delle suddette lingue e ricevere una risposta redatta nella stessa lingua. La politica dell'UE in materia linguistica si basa sul rispetto della diversità in tutti gli Stati membri e sulla creazione di un dialogo interculturale in tutta l'Unione. Al fine di applicare concretamente il rispetto reciproco, l'Unione incoraggia l'insegnamento e l'apprendimento delle lingue straniere, nonché la mobilità dei cittadini, attraverso programmi dedicati all'istruzione e alla formazione professionale. Nella sua risoluzione dell'11 novembre 2021 sullo spazio europeo di ricerca: un approccio olistico condiviso, il Parlamento ha sottolineato l'importanza dell'apprendimento delle lingue straniere, in particolare dell'inglese. Poneva l'accento sulla necessità che gli Stati membri si adoperino per promuovere lo sviluppo della competenza linguistica a tutti i livelli, in particolare nell'ambito dell'istruzione primaria e secondaria, per accogliere l'obiettivo del "plurilinguismo" formulato dal Consiglio d'Europa e per raggiungere il parametro di riferimento che prevede che tutti gli studenti abbiano una conoscenza sufficiente di almeno due altre lingue ufficiali dell'UE entro il termine del ciclo di istruzione secondaria di primo grado. Oltre ai tre grandi gruppi linguistici della famiglia indoeuropea, ossia le lingue romanze, germaniche e slave, vi sono altre lingue indoeuropee che meritano attenzione per la loro evoluzione: - Lingue celtiche; - Lingue baltiche. Fra le lingue non indoeuropee, si evidenziano: - Lingue ugro-finniche (finlandese e ungherese); - Lingue altaiche (turco); - Lingue semitiche (maltese); - Lingua basca. Per quanto riguarda il gaelico irlandese, questo si consolidò nella zona attuale dell'Irlanda. Così come solitamente accade nel processo di sviluppo ed evoluzione linguistica, le condizioni caratterizzanti il territorio si ripercossero sull'idioma. La dominazione inglese che interessò questa zona conseguì una situazione di estremo disagio per il gaelico irlandese, sia in quanto la lingua inglese iniziò ad insediarsi rapidamente nella regione, sia in quanto essendo espressione della religione cattolica, venne combattuta in tutti i modi dagli inglesi. Un altro importante fattore che contribuì a determinare l’indebolimento della lingua irlandese fu la rivoluzione industriale del XVIII secolo, in seguito alla quale, l’irlandese assunse la sfumatura di lingua secondaria. - Nel 1921, nel momento in cui l’Irlanda raggiunse l’indipendenza, figurò tra gli obiettivi principali quello di ristabilire l'uso della lingua gaelica. - Istituzioni scolastiche di primo e di secondo in cui le lezioni vengono impartite esclusivamente in irlandese, favorendo così l'apprendimento della lingua grazie al metodo dell'immersione linguistica. Inoltre, proprio per incrementare il numero di locutori gaelici, il governo irlandese ha varato nel 2010 la cosiddetta strategia ventennale per la lingua irlandese 2010-2030, che punta a raggiungere i 250.000 parlanti entro il 2030. - In alcune zone dell’Irlanda, in particolare in prossimità delle coste occidentale e settentrionali e meridionali vi sono zone che, a differenza del restante territorio, viene parlato quasi esclusivamente l’irlandese, queste aree sono chiamate gaeltacht. - Irlandese prima lingua ufficiale (seconda l’inglese) ma, nonostante ciò, ad eccezione dei gaeltach, l’uso dell’inglese riveste una posizione più alta rispetto all’uso dell’irlandese. - Il numero totale di persone (3 anni in su) in grado di parlare irlandese nell’aprile 2016 era di 1.761.420, ossia il 39,8 per cento della popolazione. Vi è stato un leggero decremento dal 2001 in cui il dato era pari a 1.774.437. In genere le donne hanno una leggera predominanza sugli uomini (968.777 pari al 55%) comparati ai 792.643 maschi (45%). - Il numero di parlanti la lingua irlandese per contea mostra le seguenti caratteristiche salienti: ▪ La contea di Galway ha la più alta percentuale di parlanti irlandese con il 49% della popolazione, ma con il 2% di meno dal 2011. ▪ Le contee di Clare (45,9%), Cork (44,9%) e Mayo (43,9%) sono quelle con maggiori concentrazioni in successione. ▪ Le percentuali più basse si hanno a Dublin city (29,2%), Louth (34,1%), South Dublin (34,1%) e Cavan (34,6%). Il gallese ha subito un corso differente rispetto agli idiomi riportati antecedentemente. Esso è ancora diffuso nel suo territorio di origine, ovvero la regione del Galles. L'impatto che questa lingua rivestì sul territorio fu più forte rispetto alle lingue citate precedentemente, sia a livello letterario, sia a livello religioso. Numerosi accorgimenti sono stati messi in atto per preservare la lingua, come ad esempio, l'istituzione di scuole che hanno contribuito alla diffusione della forma scritta e standardizzata del gallese. Malgrado ciò, gli effetti della rivoluzione industriale, della posizione dominante assunta dalla lingua inglese con lo scorrere del tempo, ha portato inevitabilmente una riduzione dell'uso del gallese. I gallesi hanno tentato in svariati modi di respingere questa pressione, ad esempio, mediante l'istituzione di associazioni culturali volte alla difesa della lingua e delle antiche tradizioni culturali non riuscendo, però, a porre freno alla decadenza della lingua. - Al 31 dicembre 2021, l'Annual Population Survey ha riportato che il 29,5% delle persone di età pari o superiore a tre anni era in grado di parlare gallese. Questa cifra equivale a circa 892.200 persone. Si tratta di 0,4 punti percentuali in più rispetto all'anno precedente (anno terminato il 31 dicembre 2020), pari a circa 9.200 persone in più. - Il grafico mostra come queste cifre siano gradualmente aumentate ogni anno da marzo 2010 (25,2%, 731.000), dopo essere progressivamente diminuite dal 2001 al 2007. Il numero di persone che hanno dichiarato di essere in grado di parlare gallese è diminuito da dicembre 2018 a marzo 2020, prima di aumentare generalmente di nuovo da allora. Questo aumento dovrebbe essere trattato con cautela a causa del cambio di modalità di indagine da metà marzo 2020 a causa della pandemia di coronavirus (COVID-19). - Il numero più alto di parlanti gallesi si trova a Cardiff (101.800) e nel Carmarthenshire (93.400). Il numero più basso di parlanti gallesi si trova a Blaenau Gwent (9.700) e Merthyr Tydfil (11.200). Le percentuali più alte di parlanti gallesi si trovano a Gwynedd (75,5%) e nell'isola di Anglesey (63,3%). Le percentuali più basse di parlanti gallesi si trovano a Blaenau Gwent (14,6%) e Torfaen (16,6%). Il 14,8% (448.400) delle persone di età pari o superiore a tre anni ha riferito di parlare gallese ogni giorno, il 5,2% (158.400) settimanalmente e il 7,6% (228.600) meno spesso. Circa l'1,9% (56.500) ha riferito di non aver mai parlato gallese nonostante fosse in grado di parlarlo, con il restante 70,5% non in grado di parlare gallese. Il 33,4% (1.010.300) ha riferito di comprendere il gallese parlato, il 25,9% (782.200) di leggere e il 23,7% (717.100) di scrivere il gallese. Il Cornico è una lingua derivante dal britico ed è considerata una lingua sostanzialmente estinta dal diciottesimo secolo. Nel Novecento si sono avuti vari movimenti che hanno cercato di restaurare la lingua cornica che tutt’oggi però è conosciuta e parlata a livello elementare da un numero esiguo di persone stanziate in prevalenza in Cornovaglia. Pur essendo stimato in modo informale che vi siano attualmente attorno ai 2.000 parlanti il cornico nel Regno Unito, al censimento ufficiale del 2011 risultavano solo 557 parlanti, con la grande maggioranza (464 parlanti) in Cornovaglia. Le lingue ugrofinniche (o finnougriche) sono un gruppo linguistico diffuso soprattutto nell'Europa orientale e settentrionale. Diversamente dalla maggior parte delle lingue europee, le lingue ugrofinniche non hanno un legame di parentela con la famiglia delle lingue indoeuropee. Molte delle lingue ugrofinniche più piccole si trovano in pericolo o sono prossime all'estinzione. Le lingue ugrofinniche si possono classificare in tre gruppi: le lingue obugriche, le lingue ugriche e le lingue finnopermiche. Le lingue obugriche sono lingue parlate in Russia da un modestissimo numero di locutori. Il ramo delle lingue ugriche è di fatto costituito dal solo ungherese o magiaro, con circa 12,6 milioni di parlanti secondo Ethnologue; oltre che in Ungheria è parlato anche in Slovacchia e Romania. Le lingue finnopermiche hanno una articolazione più complessa, con molte lingue minori parlate in Russia, anche se alcune contano circa mezzo milione di locutori ognuna (udmurto, mari, lingue mordvine), la lingua Sami dei Lapponi, ma soprattutto le lingue balto-finniche che comprendono il finlandese (5,7 milioni di locutori) e l’estone (1,3 milioni di parlanti). Le lingue altaiche sono una famiglia linguistica che include 60 lingue parlate da circa 250 milioni di persone, particolarmente in Asia centrale, settentrionale e orientale. La relazione tra le diverse lingue altaiche è ancora oggetto di dibattito e l'esistenza stessa di una famiglia altaica è stata messa in dubbio. I sostenitori della tesi genetica considerano la famiglia altaica costituita dai seguenti sottogruppi: - lingue turche - lingue mongoliche - lingue tunguse (o manciu-tunguse) In Europa, è rilevante soprattutto la lingua turca che ha in tutto circa 88 milioni di locutori, essendo ufficiale oltre che in Turchia, a Cipro e nella autoproclamata repubblica di Cipro del Nord. Storicamente si è diffusa in Bulgaria, ma più recenti migrazioni hanno reso molto consistente la presenza del turco in Germania e in Belgio. Da un punto di vista linguistico, il maltese è una lingua appartenente alla famiglia semitica, imparentato con i dialetti parlati nella regione del Maghreb. È l'unica varietà araba minore ad essere riconosciuta come lingua nazionale. Lo caratterizzano, però, elementi morfologici e semantici propri delle lingue romanze, in particolare del siciliano, acquisiti nel corso della storia, soprattutto durante il dominio dei Cavalieri dell'Ordine di San Giovanni. Malta era completamente latinizzata nel quinto secolo alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente, secondo lo storico Theodor Mommsen nel suo classico "Le Province dell'Impero Romano". Ma la conquista araba - avvenuta dopo tre secoli - probabilmente spopolò quasi completamente l'isola, per cui si sono perse le tracce del maltese neolatino. La lingua maltese attuale nasce infatti dal dialetto arabo di Sicilia, il quale a sua volta era legato alle varietà vernacolari parlate nel Maghreb e in particolare nell'attuale Tunisia con l'arabo tunisino. La pressoché completa sparizione della lingua parlata prima del IX secolo si evince dall'assenza di parole di diretta origine greco-bizantina, punica o soprattutto latina classica. Con la conquista normanna, questo dialetto arabo cominciò ad incorporare elementi lessicali e morfologici dalle lingue romanze, in particolare dal siciliano e dal latino medievale. Inoltre, da allora l'influenza esercitata dalla numerosa emigrazione italiana verso le isole maltesi risulta evidente in molti aspetti culturali e sociali, come la stessa lingua maltese, che risulta essere solo parzialmente semitica dal momento che circa il 60% del lessico proviene dalla lingua siciliana. Attualmente i parlanti sono poco più di 500.000 distribuiti soprattutto sull’isola di Malta. La lingua basca è parlata tutt’oggi in un territorio della Spagna settentrionale della Spagna nella zona a cavallo dei Pirenei, in particolare nel Paese Basco, regione della comunità autonoma dei Pesi Baschi. In basco la regione del Pese Basco è chiamata Euskal Herria che letteralmente significa il popolo che parla la lingua basca. La particolarità di questo termine è che esso viene utilizzato sia per indicare il luogo geografico abitato dai baschi sia l’insieme stesso dei baschi. Un altro termine utilizzato è Euskadi con il quale però si indica semplicemente il territorio dei baschi. Per indicare invece la lingua basca viene utilizzato il termine Euskara. La particolarità più interessante in merito alla lingua basca è sicuramente legata alle sue origini in quanto è considerata una lingua a sé all’interno del panorama linguistico mondiale. Non ancora è stata data una risposta certa in merito alla sua possibile affiliazione o parentela con altre famiglie linguistiche. È stato possibile constatare che il basco ha circa un 10% di concordanze linguistiche con le lingue caucasiche settentrionali e che sicuramente le sue origini risalgono al periodo pre-indoeuropeo. Nonostante essa sia parlata all’incirca dal 20% della popolazione c’è un forte senso di appartenenza che lega i parlanti di questa lingua alla sua sopravvivenza e alla sua difesa. Stessa cosa accade anche per quanto riguarda la sua cultura e le sue tradizioni. Nei Paesi Baschi spagnoli nell’inchiesta 2016 governativa regionale sono attestati più di 846.000 parlanti, pari al 41% della popolazione, in crescita negli ultimi anni. Un dato positivo è che la popolazione giovane ha una maggiore propensione a usare la lingua basca. b) Romània orientale Italia centrale e meridionale Dalmazia Romania c) Sardegna In una prima fase l’Italia è il centro di irradiazione delle innovazioni: è il periodo in cui si forma il vocalismo romanzo comune, che copre tutta la Romània salvo le zone più conservative (la Sardegna e la Dacia). In una seconda fase (a partire dal III sec.), centro d’irradiazione diventa la Gallia: si determina allora la separazione tra la Romània occidentale (con lenizione) e quella orientale. Più recentemente è stata sottolineata, in particolare da Renzi e Salvi (1994) e da Bossong (2008), l’importanza anche a fini classificatori dei fattori morfosintattici. Se ne deduce l’esistenza di una grande area senza variazioni brusche, detta Romània continua, sullo sfondo della quale spiccano due varietà più originali, il francese da una parte, il rumeno dall’altra. Si noti che: 1) l’originalità del francese è data quasi esclusivamente da fattori di evoluzione, quella del rumeno a pari merito da tratti conservativi e innovativi; 2) il panorama sarebbe decisamente monco se non rappresentasse anche delle varietà non-standard: in particolare non emergerebbe la divisione tra l’Italia centro-meridionale e quella settentrionale, orientata verso il polo francese; 3) si disegnano delle concordanze tra l’Iberoromania, l’Italia meridionale e la Romania. Proprio quest’ultimo fenomeno è focalizzato da Zamboni (2000), che distingue una Romània settentrionale e una meridionale caratterizzate da precisi tratti sintattici. Se i criteri fonologici conducono dunque a una divisione longitudinale della Romània, quelli sintattici portano a una divisione orizzontale, separando, per esempio, all’interno della Romània occidentale, il francese dallo spagnolo, all’interno di quella orientale, il fiorentino popolare dal palermitano. Vengono classificate 43 lingue romanze. - Nordiche (4 lingue fra cui il romeno); - Lingue romanze italo-occidentali (34 lingue); italo-dalmate (5 lingue, fra cui le lingue meridionali d’Italia); occidentali (29 lingue); gallo-iberiche (28 lingue); gallo-romanze (15 lingue); gallo-italiche (6 lingue); gallo-retiche (9 lingue); oil (6 lingue); francese (5 lingue); sudorientali (1 lingua); retiche (3 lingue); iberico-romanze (13 lingue); iberico orientale (1 lingua); oc (2 lingue); iberico occidentale (10 lingue); asturiano-leonese (2 lingue); castigliano (4 lingue); portoghese-galiziano (4 lingue); pirenaico-mozarabiche (1 lingua); - Lingue meridionali (5 lingue); corso (1 lingua); sardo (4 lingue). All'interno della penisola iberica, la principale divisione iniziale, evidente già nel IX secolo, era tra catalano da un lato, che aveva e ha strette affinità con l'occitano a nord dei Pirenei e i cui parlanti erano all'interno dei domini franchi per diversi secoli, e gli altri dialetti della Spagna e del Portogallo, indicati collettivamente come ispano-romanzi. Quest'ultimo gruppo comprende sia i dialetti del nord cristiano (limitati nel X secolo all'incirca al terzo nord- occidentale della penisola) sia quelli del sud a dominanza araba, noti collettivamente come mozarabico. In termini linguistici possiamo osservare che gli otto secoli dalla prima invasione araba nel 711 nei pressi di Gibilterra (arabo gebel al-Tariq 'monte di Tariq') alla loro definitiva espulsione da Granada nel 1492 possono essere caratterizzati come un periodo che coinvolge in primo luogo la graduale divergenza dei dialetti del sud arabizzato da quelli del nord e poi, dapprima lentamente ma poi con maggiore rapidità, la riconquista del territorio di lingua mozarabica o araba da parte di parlanti di dialetti settentrionali "cristiani". Contemporaneamente a questi sviluppi, troviamo dapprima un processo di frammentazione linguistica tra i regni cristiani e poi il graduale emergere di due dei dialetti risultanti, castigliano e portoghese, per diventare a tempo debito le lingue nazionali di Spagna e Portogallo. Più specificamente, possiamo osservare che all'inizio della Riconquista esisteva una gamma di dialetti ispano- romanzi, tradizionalmente raggruppati, soprattutto a causa delle divisioni politiche dell'epoca, in quattro, da ovest a est, galiziano, leonese, castigliano e (navarro-) aragonese, con il catalano ancora più a est. I parlanti di ciascuno di questi dialetti rioccuparono gradualmente il territorio a sud, ma la fascia centrale dominata dal castigliano si allargò gradualmente, al punto da interrompere l'espansione verso sud di catalano, aragonese e leonese in punti vicini ad Alicante a est e Badajoz a ovest, con una consistente striscia più a ovest cristianizzata da parlanti galiziano-portoghese, che raggiunsero e riconquistarono l'Algarve entro la metà del XIII secolo (a quel punto si può dire che il Portogallo moderno abbia preso forma). All'inizio, fu in gran parte il mozarabico che questi dialetti entranti sostituirono (sebbene forse con una certa influenza residua del mozarabico sui dialetti dell'Andalusia), ma in gran parte del terzo meridionale del paese, dall'ultima parte del XII secolo in poi, furono spesso le lingue non romanze, in particolare l'arabo e il berbero, a cedere il passo al castigliano, proveniente dal nord e ora in posizione dominante. Inoltre, lungo i fianchi orientale e occidentale del territorio spagnolo inizialmente riconquistati rispettivamente da parlanti l'aragonese e il leonese, il castigliano guadagnò terreno abbastanza rapidamente, un processo aiutato senza dubbio dal fatto che le differenze tra i dialetti a quel tempo erano significativamente inferiori a quelle riscontrate ora tra lo spagnolo standard (castigliano) e quelle forme di aragonese e leonese che continuano ad essere parlate oggi. Nel Medioevo il castigliano, uno dei tanti dialetti della penisola, si diffonde al di fuori dei confini della Castiglia per motivi commerciali e, grazie alla flessibilità, diventa una vera e propria lingua franca. Durante il Regno di Alfonso X (1221-1284) non solo diviene lingua ufficiale di Corte, ma si sostituisce al latino come strumento di diffusione culturale. Nella seconda metà del Quattrocento, con i Re Cattolici, il castigliano è insieme alla religione, la condizione sine qua non per la definizione dell'unità nazionale. Il regime franchista, cinque secoli dopo, continua a cavalcare questa idea e reprime duramente tutte le lingue altre presenti sul territorio peninsulare nonostante le tre principali – il catalano, il galiziano e il basco – fossero già state riconosciute come lingue regionali dalla costituzione del 1931 (artt. 4 e 50) che ne autorizzava l'insegnamento, insieme al castigliano, nelle rispettive aree. Con il ritorno della democrazia, dopo la morte di Franco nel 1975, la costituzione del 1978 riconosce il castigliano quale lingua ufficiale dello Stato e il catalano, il basco e galiziano come lingue nazionali nelle Comunità in cui si parlano. Artículo 3 1. El castellano es la lengua española oficial del Estado. Todos los españoles tienen el deber de conocerla y el derecho a usarla. 2. Las demás lenguas españolas serán también oficiales en las respectivas Comunidades Autónomas de acuerdo con sus Estatutos. 3. La riqueza de las distintas modalidades lingüísticas de España es un patrimonio cultural que será objeto de especial respeto y protección. Le lingue co-ufficiali in Spagna sono: - il catalano-valenciano-balearico (in Catalogna con leggi del 1983 e del 1998, nella Comunità Valenciana nel 1983, nelle Isole Baleari nel 1986); - il galiziano (in Galizia con leggi del 1983); - il basco (nei Paesi Baschi dal 1982); - l’aranese-occitano (in Catalogna, limitatamente alla Valle d’Arán, dal 2006 e poi con legge del 2010). « » In una prospettiva europea sempre più aperta alla promozione delle lingue minoritarie la Spagna può dunque essere vista come un modello di plurilinguismo basato sul riconoscimento del valore identitario e culturale di comunità linguistiche «altre» all’interno di una nazione. In questa ottica si può parlare di «decrescita felice» del castigliano intesa come la riduzione controllata, selettiva e volontaria del suo uso in determinati contesti territoriali con l'obiettivo di stabilire relazioni di rispetto e di equilibrio sociale. La consapevolezza del valore del castigliano come lingua per la comunicazione sovranazionale. interna tra i membri delle varie comunità autonome ed esterna per le relazioni internazionali non è dunque messa in discussione dalla presenza di altre lingue, ma è il risultato di una nuova suddivisione dei ruoli attribuiti a ciascuna di esse. Il portoghese, come abbiamo già visto, si sviluppò in concomitanza del movimento verso sud dei parlanti del galiziano, con il quale di conseguenza ha ancora le affinità più strette. Gli abitanti del Portogallo attualmente contano circa 10,5 milioni e si dice generalmente che il portoghese metropolitano abbia due principali gruppi dialettali, settentrionale e meridionale (che riflettono ampiamente i diversi tempi in cui l'occupazione musulmana terminò), con varietà di transizione parlate nelle province di Beira Alta e Beira Baixa. Le tracce più antiche di una lingua portoghese distinta appaiono in documenti amministrativi del IX secolo. Il dialetto scritto divenne gradualmente di uso generale nei secoli seguenti. Il Portogallo divenne un paese indipendente nel 1143, col re Alfonso I. La separazione geografica e politica tra Portogallo e Castiglia (più tardi, Spagna) fece sì che i due paesi sviluppassero i loro dialetti latini in direzioni opposte. Nel 1290, il re Dinis creò la prima università portoghese a Lisbona (Estudo Geral) e decretò che il portoghese, che intanto era chiamato "lingua volgare" o "latino volgare", fosse utilizzato al posto del latino classico e venne denominato "lingua portoghese". Nel 1296, il portoghese fu adottato dalle Cancellaría Reale. Da questo momento non venne usato solo in poesia, ma anche nella stesura di leggi e atti notarili. Fino al 1350, la lingua galiziano-portoghese permase solo come lingua nativa della Galizia e del Portogallo; ma dal XIV secolo, il portoghese divenne una lingua matura con una tradizione letteraria ricchissima e venne adottato anche da molti poeti leonesi, castigliani, aragonesi e catalani. All'interno della Gallia Transalpina si sviluppò un'importante divisione tra i dialetti francesi del nord e del centro (e parte del Belgio moderno), noti collettivamente in epoca medievale come Langue d’Oïl, e l’Occitano, dialetti del sud, la langue d'oc (oïl (> oui) e oc sono i segni di affermazione nelle rispettive aree). Vi è poi una terza varietà, quello di Franco-Provenzale, nome collettivo dei dialetti di una piccola area intermedia nel centro sud della Francia orientale insieme alle varietà originariamente parlate in alcune parti della Svizzera e della Val d'Aosta in Italia. Il gruppo settentrionale dei dialetti è uno dei rami più innovativi del romanzo, in parte a causa dell'intensità dell'influenza del superstrato germanico e in parte a causa dei cambiamenti radicali all'interno dello stesso francese nel periodo postmedievale. All'interno delle tre aree principali appena citate, la frammentazione linguistica è continuata ed è emersa un'ampia varietà di dialetti. Un dialetto settentrionale era il normanno, che ha avuto una profonda influenza sullo sviluppo dell'inglese, e da questa fonte si sono sviluppate quelle varietà di francese parlate a Jersey, Guernsey e Sark. Gaston Paris nel XIX secolo ha ipotizzato che un particolare dialetto, il Franciano, il dialetto dell'Ile de France, sia progressivamente emerso. Da questo dialetto si è sviluppato il francese standard moderno. L'istituzione di una corte reale fissa a Parigi, lo sviluppo di un sistema educativo e giuridico incentrato su quella stessa città e il fatto che l'abbazia di Saint-Denis, nelle vicinanze, fosse in effetti il centro spirituale del regno, furono tutti fattori che tendevano a favorire il dialetto di Parigi e dintorni per lo status di lingua nazionale. Dal XII al XIII secolo, quando il Franciano gradualmente è stato accettato come norma a cui tendere, almeno per iscritto e nel linguaggio colto nel nord e nel centro della Francia, il suo progresso è stato lento ma costante, anche se, in particolare al sud, il francese non è diventato dominante fino al XIX e XX secolo, in particolare al sud, dapprima tra la borghesia e nelle città, e poi anche nelle zone rurali più remote. La tesi del franciano di Paris a partire dagli anni Cinquanta è stata contestata, poiché non vi sono prove che il cosiddetto Franciano sia una lingua pura, ma piuttosto la sovrapposizione di diversi dialetti precedenti. L'altro ramo principale del romanzo che si trova nell'attuale Francia è l'occitano, il nome generico di tutte quelle varietà diverse dal franco-provenzale e dal catalano parlate a sud della linea principale est-ovest, formando una vasta fascia dal provenzale attraverso il linguadociano, l’alvernese e il limosino fino al caratteristico guascone a sud della Garonna. Mentre l'occitano antico e il francese antico erano certamente più simili dei loro discendenti moderni, esistono in realtà parallelismi molto più stretti, sia sincronici che diacronici, tra l'occitano e il catalano che tra occitano e francese. Le forme dell'occitano rimasero in uso generale nella parte meridionale del paese fino alla fine del XV secolo e oltre; in effetti, solo l'editto di Villers-Cotterets nel 1539 lo estromise come lingua scritta ufficiale, sebbene a questo punto il francese fosse ampiamente considerato come dotato di maggiore prestigio, con tutte le conseguenze che derivano da un tale atteggiamento. L'occitano rimase tuttavia praticamente l'unica lingua parlata quotidiana nel suo territorio d'origine fino al nuovo clima sociale e politico seguito alla Rivoluzione, dopodiché il francese fece rapidi progressi, soprattutto nelle città e tra i ceti in ascesa. Sono stati fatti vari tentativi per ristabilire una qualche forma di valorizzare l'occitano come lingua letteraria, in particolare dal movimento Felibrige del XIX secolo. Dall'ultima guerra, vari provvedimenti hanno consentito l'insegnamento delle forme locali di lingua a tutti i livelli di istruzione, ma con scarsi risultati. Il Franco-provenzale è il nome dato al gruppo di dialetti parlati nella Francia centro-sudorientale, all'incirca in un triangolo delimitato da Grenoble, Ginevra e Lione, nella Svizzera romanda e in Val d'Aosta in Italia, sfumando quindi abbastanza nettamente nei dialetti gallo-italiani dell'estremo nord dell’Italia. Condividendo alcune caratteristiche del francese, dell'occitano e dell'italo-romanzo, questi dialetti, avendo perso la presa sulle città menzionate in precedenza, sono ora ridotti allo status di patois, essendosi frammentata la lingua precedentemente relativamente unificatasi basata sull'uso di Lione. Vale la pena notare che il trattamento separato riservato al franco-provenzale è dovuto almeno tanto alla sua diffusione geografica su tre Paesi e alla sua caratterizzazione come zona di transizione linguistica. soltanto non hanno lo stesso peso costituzionale (o perlomeno non sembrano averlo) ma, più ancora, operano tendenzialmente su piani differenti, che in teoria non si dovrebbero incrociare. La legge n. 2021-641 del 21 maggio 2021 relative à la protection patrimoniale des langues régionales et à leur promotion (nota anche come Loi Molac dal nome del suo principale artefice, il deputato Paul Molac) si è posta in apparente discontinuità con la tradizionale tendenza della cultura dominante francese a salvaguardare e promuovere la lingua nazionale. Consiglio costituzionale ha dichiarato la non conformità parziale alla Costituzione della citata loi Molac, legge che appunto mirava a dare finalmente attuazione all’art. 75-1 della Costituzione. La legge sulla protezione delle lingue regionali del 2021 ha infatti individuato uno spazio di interferenza tra il principio dell’ufficialità della lingua francese e il principio della c.d. patrimonialité delle lingue regionali, nel quale si è innestato l’intervento del Consiglio costituzionale. Questo intervento si è posto in continuità con la giurisprudenza pregressa del Conseil, deludendo le attese di quanti auspicavano una svolta in materia. I due articoli maggiormente osservati dai giudici costituzionali come non conformi alla Costituzione sono l’art. 4 sull’insegnamento delle lingue regionali e l’art. 9 sull’utilizzo dei segni diacritici nei documenti ufficiali. «Les langues régionales se définissent, dans l’Hexagone, comme des langues parlées sur une partie du territoire national depuis plus longtemps que le français langue commune. Pour l’Outre-mer, voir fiche spéciale. Par ordre alphabétique : basque, breton, catalan, corse, dialectes allemands d’Alsace et de Moselle (alsacien et francique mosellan), flamand occidental, francoprovençal, langues d’oïl (bourguignon-morvandiau, champenois, franc-comtois, gallo, lorrain, normand, picard, poitevin-saintongeais (poitevin, saintongeais), wallon), occitan ou langue d’oc (gascon, languedocien, provençal, auvergnat, limousin, vivaro-alpin), parlers liguriens.» - Avvicendarsi di numerose varietà linguistiche. - Esclusivamente lingue indoeuropee, alternarsi di varietà romanze, germaniche, slave, greco ed albanese. - Varietà romanze: il Franco-provenzale, l'Occitano, il Piemontese, il Ligure, il Lombardo, l'Emiliano, il Romagnolo, il Gallo-Italico di Basilicata, il Gallo-Italico di Sicilia, il Veneto, il Catalano, il dialetto toscano, i dialetti italiani mediani, i dialetti italiani meridionali, il Sassarese ed il Gallurese, il Sardo, il Ladino, il Friulano, il Siciliano. - Varietà germaniche: il Sudtirolese, il Bavarese centrale, il Cimbro, il Mòcheno, il Walser. - Varietà slave: Sloveno ed il Serbo-croato. - 1861 in poi: le lingue minoritarie divennero sempre più marginali. - Oggi l'articolo 6 della Costituzione italiana si impegna a tutelare tutte le minoranze linguistiche. - Le minoranze presenti sul suolo italiano possono essere sistemate in tre categorie linguistiche: le parlate italo-romanze, le parlate relative ad insediamenti successivi nel territorio italiano e gruppi alloglotti subentrati nel territorio italiano in seguito alle variazioni dei confini. - Alle parlate italo-romanze appartengono quelle lingue che, nonostante i fattori volti all'unificazione linguistica, hanno mantenuto una propria identità, ovvero, il Sardo, l'Occitano, il Franco-provenzale, il Ladino dolomitico, il Veneto, il Siciliano, il Romagnolo ed il Napoletano. - Per quanto riguarda la seconda categoria relativa ai gruppi stanziati sul territorio italiano in periodi successivi, appartengono a questa classe i catalani di Alghero, i mòcheni del Trentino ed i cimbri di Asiago. - Le minoranze linguistiche assorbite per variazioni relative a confini nazionali sono, ad esempio, quelle tedesche acquisite nel territorio italiano in seguito ai cambiamenti dei confini dopo la pace di Versailles del 1919. Esse sono tutt'oggi tutelate dal diritto internazionale. Nella linguistica delle lingue romanze, la linea Massa-Senigallia (nota anche, quando viene fatta coincidere con i confini delle regioni italiane, come linea La Spezia-Rimini) è una linea che si riferisce a un numero d'importanti isoglosse che distinguono le lingue romanze occidentali da quelle orientali. Le lingue romanze orientali includono il toscano (e quindi l'italiano), i dialetti italiani mediani, meridionali intermedi e meridionali estremi nonché il rumeno, mentre lo spagnolo (castigliano), l'aragonese, l'occitano, il francese, il catalano e il portoghese sono rappresentanti del gruppo occidentale, così come le lingue dell'Italia settentrionale: venete, galloitaliche (piemontese, ligure, lombardo, emiliano e romagnolo) e il gruppo retoromanzo (composto da romancio, ladino e friulano). La linea corre lungo lo spartiacque tra Italia continentale e peninsulare, tra le città di Massa (in Toscana) e Senigallia (nelle Marche). La caratteristica più importante della linea riguarda la sonorizzazione di certe consonanti in posizione intervocalica, in particolare /p/, /t/ /k/ del latino. La sonorizzazione, la lenizione o la caduta di queste consonanti è caratteristica della parte occidentale, a nord e ovest della linea; il mantenimento della parte orientale, a sud ed est della medesima. Per esempio, il latino focu(m) (la /m/ finale non era più pronunciata già nel latino classico) è diventato fuoco in italiano e foc in romeno, ma fogo/fog nelle lingue norditaliche[2] e fuego in spagnolo. I dialetti mediani Secondo alcuni studi il territorio interessato dalle isoglosse dei dialetti mediani ricalcherebbe vagamente gli antichi confini del corridoio bizantino romano-ravennate (successivamente acquisito dallo Stato pontificio). In realtà lo spazio occupato è alquanto più esteso ed occupa la maggior parte dell'attuale regione Lazio (esclusa le parti meridionali della provincia di Frosinone e della provincia di Latina), gran parte dell'Umbria, esclusa la settentrionale, e la zona centrale delle Marche compresa fra Senigallia a nord ed il fiume Aso a sud (e quindi gran parte della provincia di Ancona, la provincia di Macerata e la provincia di Fermo). Sconfina a nord ovest anche in territorio toscano nella zona della Maremma, mentre a sud il confine approssimativo è costituito dalla linea Terracina-Roccasecca-Sora-Avezzano-L'Aquila-Campotosto-Accumoli-Aso, che rappresenta l'estensione massima settentrionale della vocale neutra dei dialetti italiani meridionali. I dialetti meridionali Secondo una classificazione ormai consolidata sin dagli ultimi decenni del XIX secolo, il territorio dei dialetti alto-meridionali si estende dunque dall'Adriatico al Tirreno e allo Jonio, e più precisamente dal corso del fiume Aso, a nord (nelle Marche meridionali, al confine fra le province di Ascoli Piceno e Fermo), fino a quello del fiume Coscile, a sud (nella Calabria settentrionale, provincia di Cosenza), e da una linea che unisce, approssimativamente, il Circeo ad Accumoli a nord-ovest, fino alla strada Taranto-Ostuni a sud-est. Mòcheni: L'origine sembra vada fatta risalire ad un'immigrazione di coloni tedeschi, chiamati dai signori feudali di Pergine allo scopo di rendere produttiva una zona fino ad allora scarsamente antropizzata. a lingua mòchena (nome nativo Bersntoler sproch, in tedesco Fersntalerisch o Mochenische) è una lingua appartenente al gruppo delle lingue tedesche superiori, parlata nei tre comuni italiani siti nel versante orientale della valle dei Mòcheni o del Fersina (Bersntol), in provincia di Trento: Fierozzo (Vlarötz), Frassilongo (Garait), Palù del Fersina (Palai en Bersntol) e, in forma minoritaria nel comune di Sant'Orsola Terme (Oachpergh), sulla sponda occidentale. Cimbri: i cimbri costituiscono la minoranza etnica e linguistica attualmente stanziata in pochi centri sparsi nell'area montuosa compresa tra le province di Trento (Luserna), Vicenza (altopiano dei Sette Comuni, in particolare Roana), e Verona (Tredici Comuni, in particolare Giazza). Una minuscola isola cimbra, di origine più recente, si trova inoltre sull'altopiano del Cansiglio (province di Belluno e Treviso). In regime di co-ufficialità con l’italiano, rimandano ad altrettante minoranze nazionali che hanno i propri riferimenti culturali e politici al di là dei confini. Rispetto alle altre tipologie minoritarie, queste lingue presentano proprie caratteristiche peculiari e, proprio in quanto parlate da gruppi il cui nucleo centrale nazionale è situato oltre i confini dello Stato italiano, risultano tutelate da accordi di diritto internazionale. - Tedesco (Alto Adige); - Sloveno (Friuli Venezia Giulia) - Francese (Valle d’Aosta). Lingue regionali: Sardo (1,6 milioni); Gallurese (100 mila); Sassarese (100 mila); Friulano (500-600 mila); Ladino (30 mila); Franco-provenzale (70 mila); Occitano (100 mila). Colonie linguistiche: Catalano algherese (44 mila); Greco-italiota (20 mila); Croato (1.000); Arbëreshe (100 mila). Minoranze linguistiche: Francese (100 mila); Tedesco (comprendente anche le colonie storiche, 345 mila); Sloveno (100 mila). Lingue dialettali: Napoletano-Calabrese (dialetti meridionali, 5,7-7,5 milioni); Siciliano (4,7 milioni); Veneto (3,8 milioni); Lombardo (3,6 milioni); Piemontese (700 mila); Emiliano (3 milioni); Romagnolo (1,1 milioni); Ligure (500 mila). Non vengono conteggiati i dialetti mediani da Ethnologue che vengono classificati nella lingua italiana: i dialetti toscani hanno comunque circa 3 milioni di locutori, i dialetti laziali circa 600 mila. La storia del ramo più orientale della famiglia di lingue romanze è più complessa quella delle varietà che abbiamo finora discusso. Derivando dal latino parlato nella provincia romana della Dacia, e quindi spesso noto come daco-romeno, l'antecedente del moderno romeno, sebbene menzionato dal XIII secolo, è rinvenibile nei testi solo del XVI secolo. In sostanza, vi sono due opinioni sulla persistenza di una lingua romantica in quella che oggi è la Romania: - uno è che il latino è stato preservato senza una pausa a nord del Danubio, sebbene questa provincia sia stata abbandonata da Roma già nel 271 d.C. - l'altro è che il latino è stato perso in questa regione, ma in seguito reintrodotto da locutori romanzi del Danubio, poiché questi migrarono verso nord sotto la pressione delle popolazioni slave. La seconda visione sembra più plausibile, dato che sia il fatto che la provincia settentrionale sia stata una delle ultime ad essere occupate, ma uno delle prime ad essere abbandonate. Il romanzo balcanico è generalmente diviso in quattro tipi principali, di cui uno, daco-rumeno, è l'antecedente del moderno romeno. La lingua romena oggi è parlata da più di 24 milioni di locutori. Il romeno è lingua ufficiale della Romania, della Moldavia e della provincia autonoma della Voivodina in Serbia. Le altre tre principali varianti sub-danubiane sono: - l’istro-rumeno, parlato da meno di mille locutori intorno a Ucka Gora nella parte orientale della penisola istriana non lontano da Rijeka; - il megleno-rumeno, parlato da circa cinquemila parlanti a nord-ovest di Salonicco in Grecia al confine con la Macedonia del Nord; - l’arumeno (o macedo-romeno), parlato da 250.000 locutori in Grecia settentrionale, parti dell'Albania e della Macedonia del Nord. Lezione 9 Nel periodo di frammentazione della comunità indoeuropea, un gruppo di tribù si diresse verso l'Europa nord- occidentale, l'area intorno all'estremità occidentale del Baltico comprendente la Svezia meridionale, la Danimarca e lo Schleswig-Holstein. Qui si sviluppò una cultura dell'età del bronzo. Questa migrazione era probabilmente in via di completamento all'incirca nel 2000 a.C. Nel corso del tempo il dialetto indoeuropeo deli coloni subì una serie di cambiamenti di vasta portata che ne fecero una nuova lingua, nota come germanica o germanica primitiva. Non abbiamo prove dettagliate per i primi movimenti delle tribù germaniche né per lo sviluppo della loro lingua. Nella loro nuova patria quasi sicuramente le tribù indoeuropee in migrazione trovarono il territorio già occupato da altri abitanti con differenti modi di vivere e una diversa forma di linguaggio. Quando questi abitanti originari impararono la lingua degli invasori, alcune delle loro abitudini linguistiche originali - in particolare le abitudini di pronuncia - vennero trasferite al nuovo indoeuropeo, aiutando - sebbene senza dubbio solo come una causa tra le tante - a produrre i cambiamenti che distinguono il germanico primitivo dall'indoeuropeo. Gli inizi di questa evoluzione sembrano essere rintracciabili nella regione baltica meridionale (Germania settentrionale, la penisola e le isole danesi, Scandinavia meridionale), che secondo l'opinione condivisa era stata colonizzata da parlanti indoeuropei intorno al 1000 a.C. Incontrarono parlanti di origine non indoeuropea, cambiarono gradualmente il loro proto-indoeuropeo in proto-germanico e si dispersero oltre la patria originaria per occupare la regione dal Mare del Nord che si estendeva fino al fiume Vistola in Polonia nel 500 a.C. La lingua parlata in questo periodo è attestata solo indirettamente, nelle parole straniere, solitamente nomi propri, usati da autori greci e latini, e nei primi prestiti nelle lingue vicine e co-territoriali, soprattutto ugro-finnico e baltico. Le prime testimonianze dirette sono iscrizioni runiche scandinave dell'inizio del III secolo d.C. Nel frattempo, le tribù germaniche non erano rimaste ferme nella loro patria scandinava. La regione non era particolarmente ospitale, gran parte della costa era soggetta a inondazioni e una popolazione in espansione aveva bisogno di più cibo e più terra. Inoltre, vi era una certa inclinazione di questi popoli per la conquista militare. Le spedizioni di incursioni dei giovani guerrieri della tribù in primavera e in estate avrebbero lasciato il posto a una migrazione su vasta scala, con gruppi di varie tribù che si univano per cercare una nuova casa, preferibilmente in una buona terra conquistata da vicini meno bellicosi di loro, sfruttando il lavoro di altri per il diradamento delle foreste e il dissodamento dei terreni incolti. Questo movimento di espansione e migrazione era iniziato già prima del 1000 a.C., terminando solo nel Medioevo. In questo lungo periodo gruppi più o meno grandi di tribù erano continuamente in movimento; e in certi periodi, in particolare tra il IV e il VI secolo d.C. (il periodo della cosiddetta Volkerwanderung in senso stretto) l'intero mondo germanico sembra essere stato costantemente in subbuglio; così, intere tribù e confederazioni di tribù si spostavano per lunghissime distanze a notevole velocità. Fine 376 d.C.: gli Unni avanzarono attraverso la grande steppa verso l'Europa, in quella che oggi chiamiamo la Grande Migrazione. Le tribù gotiche risiedevano direttamente sulla traiettoria migratoria di questi guerrieri a cavallo. Così, i Visigoti e gli Ostrogoti, uniti sotto la bandiera di uno Iudex (un giudice o dittatore) di nome Fritigerno, la maggior parte dei gruppi gotici si recò sulle rive del Danubio, cercando un ingresso pacifico nell'Impero Romano d'Oriente. Probabilmente contavano almeno centomila persone. Inizio 377 d.C.: I romani stabilirono i Goti in un accampamento temporaneo da qualche parte nella Tracia settentrionale. I continui soprusi dei Romani contro i Goti furono alla base della Guerra Gotica, che permise ai Goti di occupare tutta la Tracia. Anno 382. Ai Visigoti, cui fu riconosciuto lo status di foederati, venne assegnata la Tracia settentrionale (province di Scythia e di Moesia Minor), ma una parte di essi fu insediata in Macedonia. Tra il 400 e il 410, i Visigoti entrarono in Italia e per ottenere una sovvenzione e una provincia in cui stabilirsi, tentarono a più riprese un accordo con l'imperatore Onorio, che era trincerato a Ravenna, finché, spazientiti, ritornarono a Roma (per la terza volta) e, il 24 agosto 410, grazie al fatto che la porta Salaria era stata aperta a tradimento, entrarono e la saccheggiarono (Sacco di Roma), per tre giorni. Nella primavera del 412, passando per la via militare che da Torino portava al fiume Rodano attraversarono il Colle del Monginevro. Si stabilirono tra la Provenza e l'Aquitania. Nel 416 i Visigoti invasero l'Hispania, dove tra il 416 ed il 418 distrussero i Vandali silingi e sconfissero gli Alani così duramente che rinunciarono di eleggere il successore del defunto re Addac e si posero sotto il governo di Gunderico, re dei Vandali Asdingi, che da allora ebbe il titolo di reges vandalorum et alanorum. Durante il V secolo i possedimenti dei Visigoti oltre all'Aquitania e alla Provenza si estesero anche alla parte settentrionale della Penisola Iberica. All'inizio del VI secolo i Visigoti furono sospinti dalla pressione dei Franchi fuori della Gallia (dove mantennero solo la fascia costiera mediterranea, chiamata Settimania) verso la Penisola Iberica, dove diedero vita ad una società con una forte eredità politico-amministrativa romana con capitale Toledo. Il regno dei Visigoti cadde a seguito della conquista effettuata dai Mori guidati dagli Arabi tra il 711 ed 713. I Visigoti resistettero, per poco, solo nella provincia Tarraconense (l'ultimo baluardo, Barcino cadde nel 717) ed in Settimania, che comunque fu occupata dai musulmani, tra il 720 ed il 725. Con la costituzione del dominio di Attila gli Ostrogoti vennero ad essere assorbiti dalle orde unne. Dopo la morte del condottiero unno (453 d.C.) furono impiegati come federati dai Romani. Nel 476 Odoacre depose l'ultimo imperatore romano Romolo Augusto, detto Augustolo, e non osando proclamarsi imperatore si proclamò re di un misto di popoli germanici (Eruli, Sciri, Rugi, Gepidi, Turcilingi). Egli riscattò dai Vandali con un tributo la Sicilia, che rimase dunque unita all'Italia e ne seguì le sorti. Gli Ostrogoti, a cui l’imperatore Zenone aveva già ceduto parte della Mesia e della Dacia, vennero incaricati di invadere l’Italia contro Odoacre, guidati da Teodorico; dopo la vittoria di Verona contro Odoacre, si venne così a costituire il Regno Ostrogoto d’Italia. Gli Ostrogoti costituirono un nuovo regno romano-barbarico in Italia, che si estendeva fino alla Pannonia a nord est e alla Provincia (l'odierna Provenza) a nord ovest. Dopo la morte di Teodorico del 30 agosto 526, le sue conquiste incominciarono a collassare. I Bizantini decisero allora di riconquistare l’Italia innescando la Guerra Gotica che termini nel 553 con la caduta dell’ultimo re ostrogoto. Gli Ostrogoti superstiti furono perseguitati e scomparvero rapidamente anche assorbiti dalla cultura longobarda che divenne preminente. Stirpe germanica orientale inizialmente stanziata nella regione della foce della Vistola, di loro aveva parlato lo storico romano, Tacito, nel suo Germania (scritto nel 98), ponendoli fra le genti di origine germanica. I Vandali lasciarono la Pannonia intorno al 400, spinti alla colonizzazione di nuove terre dall'avanzata delle truppe unne. Nel 401, sotto la spinta di altri popoli germanici, i Vandali, che già si erano convertiti all'arianesimo, si spinsero sino alla Rezia, saccheggiandola. Probabilmente presero parte anche all’invasione dell'Italia nel 405. Nel 406-409 i Vandali passarono il Reno e dilagarono in Gallia. A partire dal 409 si insediarono nella penisola iberica insieme ad altri popoli (Suebi, Alani), contraddistinguendosi per numerose razzie e distruzioni, ma agendo come federati. Nel 429 Genserico guidò il suo popolo (circa 80.000 persone, di cui 15.000 in armi, i vandali erano valutati circa 50.000) nell'Africa, richiamatovi dalla situazione di caos venutosi a creare per la rivolta dei Mauri, che l'autorità imperiale non riusciva a controllare e forse chiamato dal generale romano Bonifacio. Il 19 ottobre 439 conquistarono Cartagine, senza colpo ferire e divenne la capitale del regno di Genserico. Nel 455 i Vandali saccheggiarono Roma insieme ai Mauri. Il regno vandalico terminò quando i bizantini invasero il Nord Africa e deposero l’ultimo re nel 534. La popolazione germanica dei Franchi era piuttosto contenuta all’inizio, ma con la disgregazione dell’Impero Romano e l’assorbimento della cultura gallo-romanza, riuscì a creare una federazione di popoli che vennero man mano consolidati in un regno nella Gallia centrale a partire dal V secolo. Data fondamentale fu nell’800: Carlo Magno fu incoronato Imperatore da Papa Leone III a Roma, in una cerimonia che riconosceva formalmente l'Impero franco come il successore dell'Impero Romano d'Occidente. I Franchi furono importanti perché sopraffecero altre popolazioni germaniche, che vennero pian piano inglobate. Fra queste assumono particolare importanza i Longobardi, stanziati inizialmente nel bacino dell’Elba e insediatisi in Italia a partire dal 568 e integratisi progressivamente con la popolazione italica. La caduta del regno longobardo in Italia fu nel 773-774 ad opera proprio di Carlo Magno, sebbene permase la Langobardia Minor nel Sud Italia, con alcuni ducati che vennero successivamente assorbiti dai Normanni. Dopo una serie di guerre civili all’interno dell’Impero, il Trattato di Verdun dell’843 impose la tripartizione dell’impero grosso modo in quelli che ancora oggi sono Francia (Regno dei Franchi Occidentali), Germania (Regno dei Franchi Orientali e la Francia Media (Paesi Bassi, Lorena, Alsazia, Borgogna, Provenza e Italia) fra i tre figli di Ludovico il Pio. Il numero delle lingue germaniche, pur considerando le diverse varianti regionali, è molto ridotto; più o meno le principali possono essere quantificate in circa una dozzina. Ciò che rende rilevante il gruppo delle lingue germaniche sono le stime dei madrelingua, che variano da 450 milioni a 500 milioni e fino a oltre 520 milioni. Gran parte dell'incertezza è causata dalla rapida diffusione della lingua inglese e dalle stime contrastanti dei suoi madrelingua. Ciò in cui le lingue germaniche non hanno rivali, tuttavia, è la loro distribuzione geografica. Sebbene originariamente queste lingue fossero limitate a una piccola parte dell'Europa, colonizzatori e immigrati le impiantarono con successo, in particolare l'inglese, nelle Americhe, in Africa (es. Sud Africa), Asia (es. India), così come nel Pacifico (es. Australia). Inoltre, l'inglese è diventata la lingua internazionale più importante del mondo, al servizio del commercio, della cultura, della diplomazia e della scienza, compresa la linguistica. e il periodo più giovane (c. 1375-c. 1526); e un periodo svedese moderno con lo svedese moderno più antico dal 1526 al 1732 circa e lo svedese moderno più giovane dal 1732 ad oggi. Il ramo scandinavo occidentale è costituito dall’Antico Norvegese e dall’Antico Islandese, quest'ultimo derivante da una forma di norvegese occidentale portato attraverso l'oceano e sviluppato in relativo isolamento dopo il periodo di insediamento (870-930). La Scandinavia occidentale copriva l'attuale Norvegia, le province di Jämtland, Heijedalen e Bohuslän, ora appartenenti alla Svezia, le isole occidentali delle Shetland, le Isole Fær Øer, le Orcadi, le Ebridi, l'isola di Man, le aree costiere della Scozia e Irlanda e la Groenlandia. ➢ Il norvegese (norsk) in due varietà, neo-norvegese (nynorsk) e dano-norvegese (bokmål), è la lingua di corca 5,3 milioni di abitanti della Norvegia. Sia il neo-norvegese che il dano-norvegese sono lingue ufficiali in Norvegia. Entrambi sono utilizzati da funzionari nazionali e locali e i cittadini che scrivono a un'istituzione pubblica hanno il diritto di ricevere una risposta nella lingua della propria lettera. I distretti scolastici scelgono una delle lingue ufficiali come lingua di insegnamento e insegnano la lingua parallela in classi separate. Durante il periodo in cui il danese era la lingua scritta della Norvegia (1380-1814), la maggior parte dei norvegesi parlava i propri dialetti locali e pronunciava il danese usando i propri suoni norvegesi. Poiché per ragioni storiche non esisteva una lingua norvegese standard, essa doveva essere creato, o sulla base dei dialetti popolari rurali o attraverso cambiamenti graduali nella lingua danese in direzione del norvegese parlato dalle classi istruite urbane. Di conseguenza si sono sviluppati due standard moderni. Lo standard scritto del neo-norvegese, detto anche Landsmål fu stabilito sulla base dei dialetti locali dal linguista e poeta Ivar Aasen a metà del XIX secolo. Fu ufficialmente riconosciuto nel 1885 e si diffuse rapidamente nelle regioni occidentali e centrali, venendo insegnato oggi come prima lingua a poco meno di un quinto degli scolari norvegesi e come seconda lingua al resto. Il dano-norvegese, o "lingua dei libri", la cui forma originaria, il Riksmål, era stata proposta da Knud Knudsen è la lingua della maggioranza della popolazione. Linguisticamente è il risultato della graduale norvegianizzazione dello standard danese ereditato (fornorskninglinjen). Sebbene inizialmente si sperasse che i due standard potessero essere amalgamati in un unico "norvegese unito" (samnorsk), attualmente questa idea degli anni Cinquanta e Sessanta è stata abbandonata e la soluzione odierna è la semplice coesistenza pacifica. ➢ L'islandese (islenska) è la lingua scandinava occidentale parlata in Islanda da quando il paese è stato colonizzato più di mille anni fa. Oggi l'islandese moderno è parlato da una popolazione di circa 320.000 abitanti. Poiché i coloni islandesi provenivano da diverse località lungo l’esteso tratto costiero dal nord della Norvegia fino al sud, così come dalle isole britanniche, è quasi impossibile che la lingua primitiva fosse esente da variazioni. Nonostante ciò, l'islandese non ha mai mostrato una reale tendenza a dividersi in dialetti. Lo standard moderno è una continuazione diretta della lingua dei coloni originari, fortemente influenzata dalla lingua della Norvegia sudoccidentale. Durante i primi 200 anni non c'era alcuna differenza marcata tra norvegese e islandese. I legami culturali tra i due paesi furono forti, anche nel XIV secolo. Tuttavia, sulla scia dell'Unione di Kalmar, l'unione politica di Danimarca, Norvegia e Svezia tra il 1397 e il 1523, islandese e norvegese presero strade separate. Mentre il danese divenne la lingua ufficiale dello Stato e della Chiesa in Norvegia, gli islandesi tradussero la Bibbia e altra letteratura religiosa nel loro nativo islandese. L'islandese è la più conservatrice delle lingue scandinave e rappresenta un caso unico di continuità linguistica in quanto ha mantenuto il suo sistema flessivo originale e il suo vocabolario di base relativamente inalterati fino ad oggi. Vari sviluppi nella pronuncia consentono, tuttavia, di parlare di islandese antico (fino al 1550 ca.) e di islandese moderno (dal 1550 ca.), meno chiaramente anche di islandese medio (1350 ca.-1550 ca.). ➢ Il faroense (føroyskt) è la prima lingua di circa 80.000 locutori di un piccolo gruppo di isole dell'Atlantico settentrionale, a metà strada tra la Scozia e l'Islanda (18 in tutto, di cui una disabitata); insieme al danese è infatti una delle lingue ufficiali delle Isole Fær Øer. Le Fær Øer, precedentemente sotto la corona norvegese, entrarono ufficialmente a far parte della Danimarca nel 1816, ricevendo uno status politico semi-indipendente nel 1948. In quanto lingua scandinava occidentale, il faroense è imparentato con l'islandese e molti dei dialetti della Norvegia occidentale. Si è sviluppato nella sua forma attuale dalla lingua parlata dai norvegesi che colonizzarono le isole all'inizio dell'800. Sebbene ci siano variazioni significative nella pronuncia da isola a isola, non ci sono veri dialetti. A differenza dell'islandese, la tradizione scritta faroense è recente e scarsa. A parte alcune caratteristiche faroesi in alcuni dei testi in antico norvegese del Medioevo, i primi testi in faroense sono tre ballate registrate intorno al 1773 da J.C. Svabo, il primo a registrare ballate popolari faroesi ea raccogliere materiale per un dizionario faroese. Mentre l'origine delle moderne lingue germaniche settentrionali può essere fatta risalire a una lingua madre germanica settentrionale relativamente omogenea, il caso per una parentela simile delle lingue germaniche occidentali è meno chiaro. È stato invece suggerito che l'antico germanico occidentale esistesse solo come un conglomerato di tre gruppi dialettali, a volte indicati da Tacito come "ingevonico", "istevonico" ed "erminonico" o, in termini moderni, "germanico del Mare del Nord", "germanico del Reno-Weser" e "germanico dell’Elba". Questa divisione tripartita non ha alcuna relazione diretta con la divisione delle moderne lingue discendenti, tuttavia. Quindi il tedesco standard (alto) è correlato a due di questi ipotetici gruppi dialettali, vale a dire Istevonico ed Erminonico. L'inglese, il frisone e, in misura minore, il basso tedesco e l'olandese, possono probabilmente essere fatti risalire all'ingevonico, ma a causa della discontinuità geografica e delle invasioni di francesi, vichinghi e normanni nel IX-XII secolo e della conseguente interferenza linguistica, l'inglese sviluppato in modo idiosincratico in modo tale che l'inglese moderno sia fortemente estraneo sia al suo antenato anglosassone che alle sue controparti ingevoniche continentali moderne. ➢ La lingua tedesca è parlata da 134,6 milioni di persone al mondo secondo Ethnologue al 2022. Il tedesco è parlato prevalentemente nell'Europa centrale e occidentale: in Germania, Austria, Svizzera, Liechtenstein, Belgio e Lussemburgo è lingua ufficiale. In Germania parla tedesco il 94% della popolazione (circa 79 milioni di parlanti), in Austria il 97% della popolazione (circa 8,7 milioni), in Svizzera il 62% della popolazione (circa 5,5 milioni). Secondo la classificazione di Ammon (1995) la Repubblica Federale Tedesca, l’Austria e la Svizzera tedesca rappresentano i cosiddetti centri pieni della lingua («vollzentren»). Esistono poi quattro centri parziali della lingua tedesca («halbzentren»), ossia Lussemburgo, Liechtenstein, Belgio orientale e Alto Adige, che non hanno una propria autonoma codificazione linguistica. All’interno dell’Unione Europea, la lingua tedesca è inoltre diffusa in modo marcato in Danimarca (il 30% parla tedesco), Paesi Bassi (il 28%), Slovenia (il 27%), Svezia (19%), Polonia (13%) e altri (Finlandia, Lettonia, Ungheria, Slovacchia). ➢ I dialetti tedeschi risalgono ai dialetti delle tribù germaniche occidentali, Franchi, Sassoni, Turingi, Alemanni, Svevi e Bavaresi, che si stabilirono nell'area grosso modo corrispondente alla Germania ad ovest dell'Elba e Saale, l'attuale giorno Austria e Svizzera tedesca. Dal tempo di Carlo Magno fino al diciottesimo secolo, un movimento di colonizzazione e di commerci portò questi dialetti verso est, principalmente in Boemia, Slovacchia, Alta Sassonia, Slesia, Meclemburgo, Brandeburgo, Pomerania, Lituania, Lettonia ed Estonia, e creò persino enclavi linguistiche come nell Volga o nel Banato rumeno. Con i reinsediamenti all'indomani della seconda guerra mondiale, parte dell'espansione verso est è stata annullata, così che, ad eccezione di alcuni parlanti ed enclavi isolati e alcune regioni di confine, il confine tedesco/slavo-ungherese si è conformato ai moderni confini statali della Germania e Austria. I dialetti del tedesco si suddividono in basso tedesco (Niederdeutsch, Plattdeutsch) e alto tedesco (Hochdeutsch). I primi sono parlati nel nord della Germania, i secondi al centro e al sud. Il tedesco standard moderno si è sviluppato principalmente sulla base della lingua della cancelleria tardo medievale della corte di Sassonia e dell'area dialettale centro-orientale intorno a Dresda. Nel corso dei secoli XVI e XVII questa lingua scritta ottenne una graduale accettazione in tutta l'area germanofona, anche a causa della potenza economica della Sassonia e della posizione del dialetto, intermedio tra il basso e l'alto tedesco e quindi più ampiamente comprensibile di entrambi, e in parte perché Lutero ne fece la lingua della Riforma. In questo processo di espansione geografica, l'emergente standard tedesco moderno ha estromesso - ma è stato anche influenzato da - standard regionali concorrenti, lo standard tedesco basso della Lega Anseatica a nord e il "tedesco comune" della Germania superiore (gemeines Deutsch) nel Sud. Lo standard parlato si diffuse molto più tardi e si basa sulla pronuncia della Germania settentrionale dello standard scritto, a testimonianza del fatto che alla fine del XVIII secolo la Sassonia aveva perso potere politico e prestigio culturale a favore della Prussia. L'espansione dello standard parlato, tuttavia, non fu mai completata: entrambi in Svizzera e in Lussemburgo i dialetti locali, quando parlati, hanno il prestigio sociale normalmente associato a una lingua standard. L'alto tedesco è documentato prima nelle iscrizioni runiche e nelle glosse, e successivamente nei testi clericali, una fase chiamata antico alto tedesco (fino al 1100 circa), seguita dal medio alto tedesco (fino al 1400 o 1500), il periodo della poesia cortese ed epica, poi primo nuovo alto tedesco (fino al 1650 circa), che pose le basi del moderno nuovo alto tedesco (dal 1650 circa). Per il basso tedesco, si distingue tra antico basso tedesco o antico sassone (fino al 1100 circa), medio basso tedesco (fino al 1400 o 1500), contemporaneo al periodo di massimo splendore della Lega Anseatica, e successivamente nuovo basso tedesco. ➢ La lingua basso-tedesca o basso-sassone (niederdeutsche sprache) ha circa 5 milioni di locutori fra Germania, Paesi Bassi, Danimarca e Polonia); è tutelata dal 1998 come lingua regionale dall'Unione europea. La lingua basso-tedesco comprende i due principali ceppi di dialetti parlati nella Germania settentrionale, il basso sassone (westfalico, ostfalico, basso sassone settentrionale e basso sassone) e il basso tedesco orientale (meclemburghese-pomerano, brandeburghese, basso prussiano, medio pomerano e pomerano orientale). Il termine "basso-tedesco", in contrapposizione a quello con cui tecnicamente si designa la lingua tedesca standard, ovvero "altotedesco" (ted. Hochdeutsch), non è dispregiativo nei confronti di questa lingua a favore della seconda, ma significa semplicemente "il tedesco delle terre basse, pianeggianti", così come "alto-
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