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Geografia fisica, geografia umana. Gambi, Dispense di Geografia Storica

Articolo di geografia storica, Gambi

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 08/08/2019

Utente sconosciuto
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Scarica Geografia fisica, geografia umana. Gambi e più Dispense in PDF di Geografia Storica solo su Docsity! Geografia fisica e geografia umana di fronte ai concetti di valore* Non è la prima volta che parlo dell’importanza che ha l’idea di valore in geografia e dell’interesse che gli si deve rivolgere. L’ho fatto in diverse lezioni dei corsi tenuti all’Università di Messina fino dal 1951 e ne ho riportato gli spunti che che mi parevano più maturi in un primo fascicoli di Problemi edito nel ’54. Ne ho parlato poi più volte , e calorosamente negli ultimi cinque anni, con vari amici geografi. I quali in genere, al problema che l’idea di valore impone, consigliavano soluzioni che erano più o meno diverse da quelle mie. Desidero perciò riassumere alcune mie considerazioni su questo tema. Fino da quando l’uomo ebbe coscienza di cosa significa esistere sulla Terra, ha dovuto fare i conti con l’ambiente naturale, cioè con quanto gli sta intorno: cose e fenomeni, oggetti e forze, che non sto qui a ridire, perchè sono quelli a cui i geografi dedicano i loro studi. Ma questi fenomeni e queste forze sono venuti a stimolare nell’uomo una catena di problemi, che emergono dalla sua esigenza di capire via via meglio la natura di quegli oggetti e di quelle forze, inquadrando le loro manifestazioni in certi suoi schemi o ricostruzioni; e dalla esigenza di vedere se ciascuno di quegli oggetti e di quelle forze può entrar nella sua vita. Quindi l’indagare i modi coi quali l’uomo - nella fluidità vivace della sua storia - si è comportato dinanzi a ciò che fu creato fuori di lui (comunque questa relazione sia, e qualunque valore le si dia) è una esigenza che ha una origine antichissima nella storia della cultura. E precisamente per il fatto che è irrefutabile, si deve esprimere in un campo di studio. Questo campo di studio è la geografia tout court, cioè «generale», o è la geografia umana? Il problema non è così elementare come può parere a prima vista. Ho fatto. parola ora di storia della cultura, e non credo inutile ricordare qui che la storia della cultura, in Europa prima e poi in America, ha segnato negli ultimi cento anni (o poco più) due fasi antitetiche: la prima, che ha inizio verso il 1850, vien indicata in genere col nome di posivitismo; e la seconda, che si manifesta in reazione al posivitismo verso il 1900, la indichiamo in modo complessivo col nome di neoidealismo. Ciò mi porta a ricordare pure che la geografia ufficiale, in Italia - quella delle università e quella che ha costituito una disciplina nella scuola media - si è formata, poco dopo la unificazione nazionale, in un clima di caldo positivismo, e si è alimentata alle principali fonti extranazionali di quésto, cioè in Germania specialmente. Dai due fatti che ho ora rapidamente ricordato, a mero scopo di orientazione, emerge una domanda cui voglio fino da ora rispondere. La domanda nei suoi termini più elementari è questa: per la geografia (e per quella di casa nostra in modo particolare) ha avuto importanza e riflessi tale evoluzione della storia della cultura cioè la crisi del positivismo e la irradiazione seguente del neoidealismo? Importanza, è naturale, ne dovrebbe avere teoricamente avuta, come ne ha avuta in ogni vivo campo della cultura. Ma tale importanza si manifestò realmente in apprezzabili riflessi, per cui sia giusto dire che a quella evoluzione la geografia reagì, o da quella fu influenzata? Prima di rispondere a questa parte della domanda sarà bene chiarire in che, in cosa, per i geografi, doveva o avrebbe dovuto consistere la importanza della opposizione fra positivismo e neo-idealismo: cioè se vi era nello spirito, o meglio nella ragione di essere - così come nel metodo di studio - della geografia, qualcosa che si dovrebbe essere considerato in crisi per la opposizione fra positivismo e neo-idealismo. In realtà questo qualcosa c’è: ed è il modo completamente diverso che positivismo e neo-idealismo hanno di vedere e di capire la natura, cioè le cose fuori di noi, le cose con cui l’uomo ha - come dicevo iniziando - dovuto fare i conti da quando è comparso sulla Terra. Per il positivismo, la natura è realmente, anzi obbiettivamente conoscibile: cioè noi possiamo conoscere gli ordini che la governano, anche se poi la evoluzione della umana conoscenza - frutto di più mature e perfezionate esperienze - muterà di tempo in tempo la visione e il valore di quegli ordini. In ogni modo la conoscenza della natura ha in qualunque occasione un valore di probabile verità - al- meno come ipotesi- di lavoro - e il fenomeno si mani- festa, la cosa è, se non altro tendenzialmente, così come noi li conosciamo: e questo vale pure per i fenomeni morfologici e biologici della superfice della Terra e per quelli meteorologici intorno a essa, a cui il geografo rivolge lo studio. Perciò i fenomeni e cose noi li possiamo descrivere, aggruppare in famiglie, e in tipi, secondo le loro configurazioni e composizioni; possiamo stabilire fra loro delle leggi ed esprimere in schemi e in più o meno precise ricostruzioni, o meglio in formule al limite, i loro ricorsi e la loro inevitabile evoluzione. Come si sa, il complesso delle scienze naturali aderisce, si può dire integralmente, pure con i moderni orientamenti relativistici, a questo ordine di idee; ma la polemica con il neo-idealismo lo ha arricchito dopo il 1910 della dottrina dell’organismo. Secondo questa dottrina - che potrebbe avere avuto, con probabilità, qualche influenza sui geografi - la natura è sì oggettivamente conoscibile e conosciuta ma le sue entità assumono un valore via via diverso a seconda degli organismi ove agiscono. Le creature e le forze della natura sono organismi completi, così che la struttura della totalità dell’organismo influenza e condiziona le caratteristiche delle singole parti elementari. Quindi - come pensa il Whitehead, che di questa teoria è uno dei principali formulatori - il medesimo atomo può comportarsi in modo diverso quando esso fa parte ad es. di una corrente idrica o del corpo umano. Nel corpo umano le sue condizioni sono influenzate dalla natura dell’uomo in quanto organismo. Nella struttura totale di questo organismo entra la psiche, ed è probabile che essa, variando il porta- mento delle parti singole costituenti il corpo, porti modificazioni al valore biologico di un atomo qualunque. Radicalmente diversa la visione neo-idealistica: essa nasce come esperienza storica dell’uomo, e nega valore di realtà storica alla cognizione obbiettiva -da parte degli uomini - di ciò che fu creato fuori di essi e quindi anche degli ordini che lo governano. Ma essa dà valore empirico a ciascuna ricostruzione del Farò vari esempi su alcuni problemi del popolamento umano. Noi geografi abbiamo una grande familiarità con le carte del popolamento umano e queste carte le costruiamo con vari sistemi. Lascio da parte ogni rilievo sul valore di questi metodi in sede di tecnologia, e mi faccio qualche domanda: ciascuna di queste carte postula una stabile ubicazione di una certa quantità di persone - cioè di una popolazione - entro una zona esaminata. Ma ignora che quella popolazione forma una o più comunità, e che non vi è comunità di uomini la quale viva veramente isolata, a sè. Qualunque comunità vive non solo di relazioni interne, ma vive per forza in una maglia di relazioni uscenti spazialmente dalla regione che essa abita: relazioni però di cui lei fa parte. Le carte del. la distribuzione della’ popolazione, non rischiano forse di inchiodare gli uomini nei luoghi della loro residenza legale o della loro ubicazione alla data del censimento? Il loro guaio non è forse quello di congelare o nascondere l’idea e il valore delle relazioni degli uomini fra loro? Quando dico uomo penso alle esigenze del suo corpo che deve nutrirsi e coprirsi, e specialmente alle iniziative e alle opere che sono frutto del suo spirito, penso allo irradiarsi intorno a lui di queste iniziative e di queste opere e al confluire verso di lui di beni per la sua alimentazione, il suo abbigliamento, la costruzione della sua casa, le produzioni della sua industria etc.: irradiarsi e confluire il cui raggio e la cui portata muta da comunità a comunità e da tempo a tempo. So bene: non si è ancora scoperto un sistema diverso per figurare la distribuzione della popolazione, ed è stato quindi conveniente prendere a prestito quel sistema dalle scienze naturali. Ma ciò non vuol dire - almeno a mio parere - che le manifestazioni della storia umana sian effigiabili giustamente con i medesimi criteri delle scienze naturali. Per un geografo di mentalità naturalistica il contenuto di una simile carta - una volta che la carta sia disegnata col migliore dei metodi conosciuti - è bastevole a esaurire in sè e per sè il problema della distribuzione della popolazione. Ma per un geografo umanista, no. No per la ragione che il numero, cioè la quantità degli uomini (di qualunque comunità) e il loro modo di distribuzione, gli importano solo a una condizione: che sia chiaro di quali uomini si parla, cioè della loro qualità: o meglio, quale è la struttura della loro cultura. La densità di una popolazione è soprattutto in relazione con il valore della sua cultura, e questa in ogni paese e tempo crea un genere di vita particolare. Così i popoli nomadi - sia tropicali (come i Tuàregh) sia boreali (come i Tungùsi) - esigono vaste zone sopra cui svolgere il loro pascolo migrante: e tre secoli fa, su quelle medesime praterie nord-americane che sono popolate oggi da 40 milioni di uomini, con agricoltura molto progredita e grandi nuclei di industrie, non vivevano più di alcune centinaia di migliaia di indiani, cacciando il bisonte. Invece l’agricoltura lega l’uomo al suolo e vuole molte energie e molto lavoro: ma tali forze sono crea’” te in diverso modo a seconda della particolare costituzione della società, cioè dei suoi ordinamenti agronomici, giuridici etc. Nei paesi agricoli, un notevole affollamento di popolazione o un forte richiamo di mano operaia non si identificano in ogni caso a un genere più elevato di coltura. Questa rispondenza si ha pienamente ad es. nella pianura del Po - in modo speciale fra le vie Emilia e Postumia e il mare Adriatico - dove le zone a vasta produzione di frutta e piante industriali, o di superbi allevamenti, giungono a contenere in media 200 ab. a kmq. Ma non si ha ad es. sui delta dei fiumi cinesi, dove il grande frazionamento fondiario (su quello dello Yangtze, 2/3 delle proprietà non giungono a un ha. di superfice) costringe a rinunziare agli animali da lavoro e impone una coltura a mano minuziosa - meravigliosa anzi per artifici - ma eseguita con sistemi antiquati e superati, e quanto mai pesante (1200 ore di lavoro per un ha. di riso e 600 ore per un ha. di grano: invece nella pianura del Po un ha. di riso ne richiede in media 780-820, e un ha. di grano in media 400-420). Però quando l’agricoltura non si impernia più sopra una esperienza remota (sia pur perfezionata) e l’assidua cura dei lavori a mano o con le braccia, e non giova più del traino animale, ma lascia il posto a forme e attrezzi più moderni quali il trattore, e fa notevole uso di fertilizzanti e di energia elettrica, l’uomo vien molto risparmiato e le densità restano deboli. Così negli stati confederati nord-americani, e in particolare in quelli cerealicoli ad ovest del Mississippi dove, con queste attrezzature, due uomini riescono a seminare 100 ha. a grano, e due operai qualificati, aiutati da altri due non qualificati, sono in grado di eseguire con una mieti-trebbia mobile quel lavoro che una volta richiamava 70-80 persone. Di fronte alla dinamicità di fenomeni come questi, cosa vale il riferimento ad astratti, muti, e - se vogliamo - stupidi dati di superfice e di popolazione, e al quoziente fra loro che si chiama densità? Vi sono dei problemi tra i più imponenti per la umanità di oggi, che si riferiscono alla ripartizione degli uomini: gli aumenti forti della popolazione di alcuni paesi industriali misero in chiaro, già più di un secolo fa (si ricordi Malthus) e oggi sono venuti riacuendo energicamente il fenomeno della saturazione demografica (o del sovrapopolamento, che dire si voglia) la quale - come si sa - è stata, e specialmente ora è alle origini di numerosi conflitti nel campo del lavoro e di frequenti carenze nell’alimentazione, e più di una volta ha influito a invischiare la popolazione di larghe zone in condizioni di vita depresse. Per dare una soluzione ai problemi che questo fenomeno pone, bisogna naturalmente vedere in che consiste il sovra- popolamento. Esso è oggetto di studio per i geografi perchè riguarda l’uomo in quanto abitatore della Terra. Ma cosa è il sovrapopolamento per i geografi? Alcuni (in particolare i nordici) si riprendono all’idea di optimum di popolazione3 a il quale è una specie di equilibrio precisabile in termini matematici, fra il maggior numero di uomini che una regione può sostenere quando lo sfruttamento delle sue risorse sia eseguito nel modo più razionale e integrale. Una volta conseguito l’equilibrio, qualunque visibile aumento di popolazione fa scendere la quantità di risorse da destinare a ogni uomo: perciò deprime le condizioni di vita e crea uno stato di sovrapopolamento. E’ questo un modo di vedere decisamente naturalista: è come trattare questo evento così umano, che è il sovrapopolamento, alla stregua del portamento dei liquidi in evaporazione secondo la esperienza elementare di Franklin. 3 Ad es. I. FERENCZI, L'optimum synthétique du peuplement, Conférence Hautes Études Internationales, Parigi 1937. pp. 123 e H. GLIWIC, Mémoire sur l'introduction du concept de l'optimum de la population, Conférence Hautes Études Internationales, Parigi 1937, pp. 30. Giusti rilievi intorno alla caducità della nozione di optimum in P. GEORGE. Introduction a l'étude géographique de la population du monde, Parigi 1951, pp. 159-167 e più recentemente in Questions de géographie de la population, Parigi 1959, pp. 131-137. A parte i suoi sicuri meriti, il positivismo ha avuto una colpa: e cioè di avere radicato l’abitudine di giudicare gli eventi dell’umanità, le opere dell’uomo, con le regole e alla stregua delle manifestazioni naturali: e quel modo di pensare lo ha lasciato in eredità, più che ad altre discipline, alla geografia. Noi geografi che pur vogliamo indagare le opere dell’uomo, dimentichiamo molte volte che l’uomo è tale perché lo anima uno spirito: le sue opere sono estrinsecazione di questo spirito, e quindi è puerile chiudere in formule sia pure relative o al limite, ma in ogni modo prestabilite, gli eventi dell’umanità. Nei riguardi di quel fenomeno di cui ora dicevo - cioè, il sovrapopolamento - ha invero una percezione molto più viva e giusta delle realtà umane, la tesi che fu enunziata quasi vent’anni fa da Demangeon4: egli dava al sovrapopolamento un valore diverso da regione a regione, meglio da comunità a comunità, secondo le strutture culturali di ciascuna. Il sovrapopolamento era per lui legato a quel complesso dinamico e apprezzabile solo in termini umani che è il genere di vita Qualunque crisi in questo complesso ha riflessi in ciascuno degli elementi e dei fatti che lo formano, quindi pure sul popolamento. Per questo la saturazione demografica è una cosa molto relativa o meglio soggettiva: e se ad es. in diversi paesi montagnosi del meridione italiano nei quali domina una policoltura antiquata (come il Sannio e l’Irpinia e il Cilento) la si sormonta con densità non maggiori a 100 ab. e può considerarsene un indice la esistenza di proprietà così frazionate da non alimentare più in m’odo conveniente la popolazione che vi abita e vi de- dica il suo lavoro, di contro la saturazione non si può di.. re raggiunta sia pur con valori di affollamento fino a 500 e più ab., in un paese industriale in pieno vigore (si pensi alla regione industriale di Milano) il quale può ricevere i generi di cui ha bisogno o di cui è sfornito mediante lo scambio dei suoi lavorati. Ma anche questa esplicazione, questo valore decisamente economico del sovrapopolamento, per quanto razionale, non è forse esauriente. Fa dire ciò ad es. la storia demografica di alcune nostre regioni meridionali - come la Sicilia, la Calabria, l’Abruzzo - indagata e ripensata non solo mediante i repertori demografici, ma nei modi di vita, nel tono sociale delle popolazioni e ancora più nel loro spirito, quali ci appaiono da inchieste e studi eseguiti dopo l’unità nazionale. La Sicilia ha avuto fra il 1820 e il 1870 un aumento demografico pari al 38 %, e poco minore fu, nel risorgimento, l’aumento di popolazione in Calabria e in Abruzzo. Ma l’aliquota dell’aumento demografico in quei cinquant’anni non è stato più forte di quel ‘che ciascuna di queste regioni aveva denunziato un secolo prima. Ciò non di meno ha inizio da queste regioni, dopo l’unità nazionale, la grande migrazione oltre il mare, verso l’America. Ma perchè dunque in quegli anni, e non prima, questi paesi mostra- no segni di una saturazione demografica? Secondo me, perchè in quel tempo le regioni meridionali, unendosi politicamente con altre più civili regioni d’Italia, entrano in un nuovo mondo e le loro popolazioni più o meno coscientemente, per intima reazione o per stimolo proveniente da fuori, valutano quanto sia misero il loro genere di vita e non 4 Cfr. La question du surpeuplement, in «Annales de Géographie », 1938, pp. 113-127, riedito poi in «Problèmes de géographie humaine », Parigi 1952, pp. 35-51. E, per fare un caso più vicino a noi, se indico Lido di Roma e Fiumicino e Fregene come « marine » sul delta del Tevere, farò illazionare che si tratta di bagni di mare, cioè di luoghi di cura o di divago vicini a Roma e quindi per la popolazione di Roma: niente di più. Ma lascerò coperta ogni realtà della configurazione loro non analoga, e specialmente del loro così diverso genere di vita: quella eguale definizione di « marina» ignora la considerazione alquanto elementare, ma di saliente valore, che Fregene è un centro molto signorile ed elegante, pieno di ville sapientemente sistemate nel quadro di una magnifica pineta: un villaggio chiuso ad élites finanziarie, per le quali il mare è solo un piacevole motivo di evasione; e che Fiumicino, di contro, è una domestica stazione di poche pretese, dove il mare è la serenità e la cura di un mese per tranquille famiglie di Roma o dei centri vicini (Rieti, Viterbo etc.); e che infine Lido di Roma ha una mediocre aliquota di villeggianti stabili, ma è decisamente una stazione giornaliera di bagni, con una cinquantina di grandi stabilimenti privati o gestiti da istituzioni ministeriali, a cui i romani si riversano per un rapido svago nelle ore meridiane o da mattina a sera nei giorni festivi e da cui tornano quando declina il sole in auto o in treno: ma di sera (a parte qualche fortunato ristorante folkloristico) il Lido rimane quasi vuoto, squallido. Quindi, sul breve filo di venticinque Km, tre ambienti di valore diverso: ambienti che riflettono classi della società molto disgiunte fra loro e fra cui non è pensabile ora alcuna assimilazione. E così pure dire ad es. che i luoghi dianzi nominati ai margini della pianura del Po sono «mercati» allo sbocco in essa di una valle, può fare nascere solo l’idea giusta, ma - ripeto - molto generica, che la loro vocazione sia quella di punti di saldatura - e perciò di integrazione - di due regioni a struttura economica e sociale diversa, e certamente è quella di nodi di traffico; ma niente di più. E quali poi sian stati di epoca in epoca e quali sian oggi i valori dei traffici nelle valli in quei punti sfocianti e delle piane aperte di fronte al loro sbocco, e i valori delle strutture economico-sociali di queste valli e di queste piane considerate singolarmente e poi nei rapporti vicendevoli - quei rapporti fra città e agro di cui si è iniziato solo negli ultimi anni lo studio5 -: vale a dire il complesso di valori squisitamente umani che fa di Ivrea, di Alessandria, di Parma, di Verona e di Faenza cinque città, cioè cinque personalità diverse per vicende di popolamento e generi di vita e problemi economici e sociali, pur nel quadro abbastanza contenuto della pianura del Po: questo, la astratta definizione funzionale lo ignora o lo lascia perdere; ma per la verità è la cosa che importa di più. Sarà quindi chiaro che io non desidero la mera sostituzione di una classificazione corografica con una di tipo sociale o economico; quello che mi pare sconveniente, quando si parla della vita e dell’opera dell’uomo, è l’abitudine della classificazione, degli schemi e dei tipi prestabiliti sia pure dovuti a esigenze di ordine: una abitudine che nega o irrigidisce o oblitera la dinamicità e la non ripetibilità delle umane manifestazioni. Ma in ogni caso, se la classificazione deve dare una prima orientazione a capire di qual 5 Su questo tema, indico in modo particolare Villes et Campagnes, recueil publié par le Centre d'Études Sociologiques, Parigi 1953. genere di insediamento si tratta, cioè dei motivi che creano la vita di un insediamento, io penso che sia più indicativa una definizione sociale o economica - che per lo meno emerge da un piano umano - di una puramente corografica, che deriva di frequente da una forma del suolo. E questo è quanto ha già fatto il francese George, nel suo volume su La Ville (Parigi 1952). La medesima disparità di modi di vedere torna quando si guardino i tipi di insediamento rurale. In Italia sono stati riconosciuti una decina di tipi, tra i quali ad es. se ne distingue uno «a corte» che vien indicato per largo tratto della pianura settentrionale, in special modo fra la Stura e il Mincio e fra il Tagliamento e l’Isonzo, e poi in Terra di Lavoro e infine negli altopiani della Sicilia sud-orientale. Esteriormente il modo di insediarsi, tipico o più frequente di queste zone, in grandi e complessi edifici che ospitano diverse famiglie e chiudono uno o due o più vasti cortili, può parere simile ed uniforme, o quasi. Ma in realtà la storia di quei modi di abitare è completamente diversa da caso a caso. E se invece della loro forma - la quale è niente più della faccia per l’uomo - si guarda la loro struttura e la loro funzionalità, avremo una visione nuova del problema. Questa struttura e questa funzionalità recano pure, di certo, le tracce o le impronte - secondo i casi - degli stimoli dell’ambiente, ma in unità con essi la reazione umana conseguente. Ciascuno di quei modi di abitare della popolazione rurale, che si usa uniformare e accogliere in un solo tipo, emerge invero da una società particolare, che vive secondo particolari basi o quadri economici e criteri o istituti giuridici. In questo modo, se guardiamo bene le origini - e non parlo della evoluzione seguente - delle forme di abitare «a corte» nelle zone di Italia a cui ho accennato, vedremo che in una - cioè la pianura lombarda - quel tipo è nato con ogni probabilità (almeno per la fascia intorno alle risorgive) in un ambiente di rinascita agricola medioevale, ispirato dagli ordini monacali e qundi con notevole spirito comunistico; e in una - cioè la pianura friulana - è nato con ogni verosimiglianza in un ambiente feudale e le sue forme chiuse forse sono dovute alla esigenza di salvaguardare gli insediamenti rurali dalle scorribande degli slavi. In Sicilia sud-orientale di contro, gli insediamenti a corte sono un portato della crisi finanziaria creatasi fra l’ultima metà del cinquecento e la prima metà del seicento, che invoglia il patriziato rurale a ripopolare gli agri per reintensificare, sopra le loro vaste aziende, la produzione del grano i cui prezzi sono aumentati rapidamente. E nella Terra di Lavoro, forse si può parlare di continuità di una forma largamente usata per insediamenti rustici in età romana. Come si vede, si tratta già alle origini di società decisamente diverse, da non assimilare. E questo ragionamento lo si può fare per altri casi: ad es. per le numerose zone a cui è stato assegnato un tipo di insediamento in minuscoli villaggi, casali e più rare o eccezionali case sparse. Da questo unico tipo dovrebbero essere ricoperti i fondivalle e i bassi terrazzi glaciali delle Alpi (con tendenza ad una aliquota più visibile di case isolate nei grandi fondivalle), poi l’Appennino ligure e apuano (anche qui con minore povertà di case isolate dove il rilievo è meno aspro), i massicci calcarei piceni e aprutini, diverse plaghe della Calabria e alfine parte della Gallura. Ci si soffermi solo un minuto, come dianzi, a vedere le origini di quei modi di abitare, che paiono uniformi: e coglieremo un vero cinematografo: l’ambiente fisico ha avuto - logicamente - la sua parola, per quanto la natura e la configurazione di quelle zone montagnose sian così diverse, ma quel tipo rimonta con molta probabilità a prima dell’occupazione romana in Garfagnana e in Lunigiana; ha forse una origine, o meglio una schietta strutturazione medioevale, nelle valli alpine; certamente è connesso con usi agricoli comunisti nei bacini alti del Trebbia e del Taro, del Potenza e del Chienti e intorno al monte Catria (dove quegli usi sono restati in vigore più a lungo); certamente è legato - fino da età romana - alle linee sorgentizie nei diversi bacini interni abruzzesi; certamente è un frutto della società baronale aragonese nella regione cosentina chiamata «dei casali»; certamente è un risultato della ricostruzione dopo il grande sisma del 1783 nella regione dell’Aspromonte. Cosa vale più la mera somiglianza formale di modi di abitare, desunta molte volte unicamente da considerazioni quantitative o topografiche, di fronte alla disparità di eventi storici e alla varietà di strutture sociali che le scarne indicazioni ora date implicano ed evocano? L’insediamento rurale è una componente di queste strutture: non può essere riguardato fuori di esse e quindi neanche con metodologia diversa da come quelle si indagano. Questa esigenza è stata acutamente riconosciuta da un volume di George su La Campagne (Parigi 1956). E mi fermo qui con gli esempi che sono stati molto scolastici: credo di avere indicato la radicale disparità di apprezzamento, di giudizi e di visione che. si può avere di uno dei principali temi di studio della geografia umana, secondo che il valore della conoscenza, cioè il piano mentale sul quale si ragiona sia dato in termini naturalistici o in termini umanistici. Mi pare che in questa disparità sia da vedere il segno di due diverse arti: perchè quello che - pur nella varietà dei mezzi - unifica un’arte, non è la identità dell’oggetto, ma la identità di spiriti di chi pensa l’oggetto: e qui, nel caso della geografia umana, i piani mentali, gli ordini di idee sono diversi. E non importa se unico, per i professanti le scienze naturali e per i professanti le scienze umane, è l’oggetto di studio particolare della geografia umana: cioè l’uomo in quanto popola la Terra. Così come l’uomo tout court, pure l’uomo in quanto popola la Terra è unità: io credo fortemente in questa unità, e - se non è presunzione - penso che chi non crede così non può fare della geografia dell’uomo. Ma come l’uomo tout court è una realtà complessa, la quale può venire integralmente conosciuta solo quando è indagata e su un piano umanistico e su un piano naturalistico, così pure l’uomo della geografia umana ha una doppia problematica. Vi sono temi della geografia dell’uomo che sono tipicamente ecologici: ad es. il clima e le funzioni organiche dell’uomo, o i complessi patogeni dell’uomo; e altri che sono tipicamente storici: ad es. gli effetti demografici, economici, sociali e morali della immigrazione in un certo paese, o la struttura dei ceti economici-sociali e degli enti giuridici sui quali posa la vita rurale di una certa regione, o la storia di una esplorazione, o la storia di una specialità geografica vista come manifestazione di cultura: ad es. la cartografia (due temi - questi ultimi - nei quali la geografia italiana per merito di Roberto Almagià ha dato opere fondamentali). Ma ve ne è un numero abbastanza elevato nei quali e lo ecologo e lo storico trovano notevoli problemi in comune per le loro discipline: cito la facoltà di una grandemente evoluta? Fino a otto anni fa, da molti secoli, il Negév era per gli Arabi di Palestina una steppa destinata alla pastorizia nomade, perchè il suo clima era una jattura da subire fatalisticamente; oggi in quella zona vediamo avanzare i coloni israeliti per i quali il medesimo clima è solo una opposizione ambientale, più dura di altre, ma da vincere infine. E quei coloni la vincono ora mediante strade e irrigazioni e densi stabilimenti di oasi e semine di cereali e piantate di acacia e di eucalipto, già molto a S di Beersheba. Mi si dirà che queste cose formano un portato della evoluzione della tecnologia. E’ giusto: ma la tecnologia non è un frutto, e quindi un valore, della storia umana? E anche il valore di una catena di monti può mutare per un geografo umanista: prendiamo le Alpi. Fino a cinque secoli fa le Alpi erano un mondo a sè, anzi numerosi mondi a sè quante erano le loro grandi valli (ricordiamo la storia di alcuni cantoni elvetici: in particolare Haut Valais, Uri, Glarus, Lega Grigia, Lega Caddea). I loro legami con la pianura del Po fino al rinascimento sono alquanto deboli, e per l’uomo di governo milanese - si pensi alle vicende della signoria viscontea da Giovanni in poi - come per il mercante veneziano - il quale in quei tempi sceglie più frequentemente la via del mare per mandare in Fiandra le spezie, il cuoio e l’allume, la seta, la lana, il cotone filato, il guado e le uve passe, lo stagno e il rame - questi monti formano una zona di particolare resistenza o di rarefazione commerciale. Le valli più grandi servono, sì, come direzione di transito, ma le loro acque sono fruite solo per l’irrigazione e per l’industria locale (si ricordi l’industria laniera e metallurgica di val Seriana e di val Brembana); esse non attraggono l’uomo di pianura e la vita economica vi si risolve in una policoltura autarcica e in un allevamento di bovini e di lanuti, che si sposta con le stagioni. Se mai sono le pianure a fare da richiamo ai montanari: e invero essi scendono già da quei secoli verso quelle abbastanza copiosamente, o periodicamente. I villaggi non si elevano in media oltre 1750 m. ( in Alta Engadina) e i pascoli più alti a cui l’uomo porta le sue mandrie nei mesi di estate non sono sopra i 2700 m., e rimangono deserti per almeno nove mesi. Di quanto non è pascolo o giace più in alto - ghiacciai e cime - egli non si cura, e non dispone neanche di attrezzi per metter piede su quelle impervie superfici. Anzi quasi le teme (l’Atlas di Mercatore, nel 1591, chiama il Monte Bianco la Montagne Maudite) e popola le solitudini inviolate di dragoni e di demoni, nei quali adombra certamente gli sconcerti organici da cui egli rimane a volte colpito sopra i 2700 m.: quegli sconcerti dovuti a diminuzione di pressione, di cui si darà ragione quasi due secoli dopo. Guardiamo invece le Alpi oggi; la loro realtà umana è decisamente diversa. Più alcuna resistenza: la regione alpina è un reticolo di vie di qualunque genere e lo stato più squisitamente alpino - la confederazione elvetica - è, come lo definisce felicemente il francese Jean Gottmann, «un disco girevole delle comunicazioni interne dell’Europa». Legami energici e numerosi con il piano: pensiamo alla industria idroelettrica da cui è animata per buona parte l’industria di pianura, e al grande allevamento di bovini sui prati stabili o sui pascoli naturali, ma migliorati, di molte regioni (Oberland bernese, Engadina etc.) il quale fornisce di carne e di latte i mercati di pianura. Così il mondo di pianura vi penetra con la grande industria moderna - laniera, cotoniera, serica, siderurgica e degli apparecchi di precisione -, con le sue colture progredite di alberi da frutta, con le sue correnti via via più forti di turismo. Le cime più aspre sono state a poco a poco conquistate - dal sedicesimo secolo in poi - e formano oggi una meravigliosa scuola di educazione per il corpo e per il sistema nervoso. I pianalti una volta quasi deserti, sono occupati ora fino a duemila metri da molte stazioni di cura per le affezioni polmonari. E i ghiacciai prendono nuovo valore come grande risorsa idrica. Se non dei burocrati della statistica, chi avrebbe il coraggio di dire che i ghiacciai sono superfici improduttive? E che le grandi cupole scolpite nei graniti e le creste di dolomia intagliate in forme acute e ardite, sono superfici improduttive? Toglietele di là quelle «superfici» (come qualcuno ancora le chiama) con le loro linee, colori, richiami e significati, in una parola con il loro valore odierno: non avremmo più le Alpi del nostro tempo. E quindi, se per un geografo fisico negli ultimi cinque secoli le Alpi sono rimaste tali e quali - e vi fu solo una oscillazione nelle fronti dei ghiacciai -, per un geografo umanista esse formano oggi una regione radicalmente nuova. Non vorrei che da parte di qualcuno questa tematica fosse ritenuta come un atto quasi di negazione o almeno di diminuzione, del valore che rivestono per la geografia i concetti di ambiente e di spazio. Niente di più alieno da me. Ma, da parte mia, una considerazione umanistica dello spazio e dell’ambiente: lo spazio non come entità (dirò così) astratta e pura, e neanche come area di terra o di mare, o pezzo della crosta della Terra che accoglie su di sè l’uomo, non la regione che nella definizione di Ratzel è «pezzo di terra e di umanità»; ma spazio che assume una dignità di potenza storica, continuamente diversa, perché l’uomo ci vive e ci opera, e quindi lo fa suo e gli dà valori continuamente nuovi. E così l’ambiente: questa grande forza con la quale - qualunque sia il significato da dare a quel con, qualunque provvidenziale favore o dura guerra sia la sua matrice - con la quale si creano le società e i loro generi di vita, e certi loro ritmi e certi loro destini collettivi. Vorrei solo notare un’ultima cosa e cioè che i due concetti di spazio e di ambiente li ha dati alla cultura moderna la geografia, e nella loro formulazione più aperta e più conscia delle realtà umane li ha dati in particolare, più di un secolo fa, la cultura o la problematica geografica di vari pensatori italiani: Giuseppe Maria Galanti, Melchiorre Gioia, , Carlo Afan de Rivera, Gian Domenico Romagnosi e specialmente Carlo Cattaneo. Ma quei concetti sono rimasti quasi esclusivi della geografia per più di un secolo e si è pensato quindi - erroneamente - che essi erano congeniti con la geografia. Ora non è più così: i due concetti sono usciti negli ultimi trent’anni dal suo chiostro, e li vediamo correnti per molte vie della città della scienza. E non solo le vie delle discipline naturalistiche - per il fatto già rilevato che la fioritura moderna della geografia si ebbe in seno al positivismo -, ma pure (quantunque in anni a noi molto più vicini) per le vie delle discipline storiche. Potrei citare, fra i già non pochi esempi italiani, lo studio della evoluzione delle lingue in termini spaziali (da parte di Bartoli e Vidossi), e i vari studi di geografia delle manifestazioni politiche italiane, svolti dopo il 1946 (fra cui principali quello complessivo di Compagna e de Caprariis, e quello regionale di Mazzaferro). Ma mi preme ricordare specialmente che dopo diversi anni di polemica sopra l’idea di una unità nella storia italiana, il Sestan6 ha visto l’originalità della nazione italiana muovere da una prima, un po’ generica ma sicura, nozione di unità fisica, riassorbita poi dalla coscienza di una più umana – e quindi più solida - unità, anche spaziale, di lingua e poi di una unità – pure spaziale, di storia della cultura, e alfine di una discreta unità economica, la quale ha manifestazioni spaziali. Anche più rilevante, fra gli storici, la considerazione per l’ambiente: ma più che in Italia - dove è stato finora più vivo l’orientamento verso la storia delle idee - gli esempi sono numerosi oltralpe. Si guardi la pleiade di storici francesi venuti su alla scuola di Vidal de la Blache; ricordo solo i nomi principali: Lucien Febvre, Marc Bloch, Fernand Braudel. Il primo è già familiare ai geografi per il suo volume La terre et l’évolution humaine edito nel 1922 e poi nuovamente nel 1950. Bloch, prima di cadere per la libertà sotto i mitra tedeschi, aveva lasciato un’opera fondamentale intorno alla società feudale e una dove la vita agricola francese è disegnata e ripensata nei suoi tratti più originali: e in questa e in quella l’ambiente è visto come una forza durevole, energica, che l’uomo deve continuamente metter nei suoi conti, che fa parte quindi della vita dell’uomo. Più recentemente Braudel7 ha portato a fine (ediz. francese 1946, ediz. ital. 1953) una poderosa opera intorno alle civiltà e agli imperi del mare Mediterraneo verso la fine del sedicesimo secolo, opera impostata su una interpretazione della storia umana nuova e originale. Egli vede la storia ordinata come su tre piani o, come egli preferisce, su tre scene che si proiettano una sopra l’altra. La prima, che fa da base, è quasi immobile nella sua natura, ma è mobile nei suoi valori: è la scena dell’uomo nei suoi rapporti con l’ambiente, una storia di lento svolgimento e di lente mutazioni, fatta molte volte di ritorni periodali, regolari o no: è quella che io ho chiamato geografia umana secondo una problematica storica. La seconda, plasmata con quella e scorrente su quella, è una vicenda leggermente più animata, anche per natura: la vicenda delle società, segnata da lenta evoluzione, ma le cui ondate a volte emergono vivaci. La terza scena, più superficiale, molto più mobile, è il quadro agitato delle azioni politiche, delle opere personali. E desidero alfine ricordare uno dei principali storici inglesi: Arnold Joseph Toynbee e la sua opera A study of history nella quale egli traccia la sua teoria della provocazione e della reazione. La provocazione giunge da un ambiente; la reazione è dell’uomo. Ma i rapporti i fra queste entità, ambiente e uomo, escludono qualunque chiusa formula, qualunque quadro determinista. La provocazione - o stimolo o sfida, come pure la chiama il Toynbee - è una vicenda per cui le cose fuori di noi, da astratta realtà fenomenica (quale erano prima) si esprimono via via come forze in grado di essere amalgamate con la realtà umana: cioè come cose a cui, in ultima analisi, l’uomo dà valore. E la reazione è la vicenda che porta alla assimilazione umana di queste entità. Non si deve quindi obbiettare - e l’obbiezione riguarda specialmente i geografi - che la considerazione del valore può aversi solo in quanto la cosa esiste nella 6 E. SESTAN, Per la storia di un'idea storiografica: l'idea di una unità nella storia italiana, in « Rivista Storica Italiana», LXII (1950), pp. 180-198. 7 Che ricordo pure come autore di un articolo su La géographie face aux sciences humaines, in «Annales», VI (1951), pp. 485-492.
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