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Geografia, Flavio Massimo Lucchesi appunti, Appunti di Geografia

Il corso delle geografia è sempre stato integrato nel contesto storico di riferimento. Nell’epoca del Positivismo per esempio, ha condizionato anche la geografica positivista, oltre a tutte le altre discipline culturali. Tratteremo della geografia del mondo occidentale, anche se è una disciplina che è arrivata anche in oriente. Usiamo il termine plurale “le geografie”. La geografia ha una sua peculiarità che la differenzia da tutte le altre discipline, cioè viene definita una disciplina bifronte

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Scarica Geografia, Flavio Massimo Lucchesi appunti e più Appunti in PDF di Geografia solo su Docsity! Lunedì 1 marzo Il corso delle geografia è sempre stato integrato nel contesto storico di riferimento. Nell’epoca del Positivismo per esempio, ha condizionato anche la geografica positivista, oltre a tutte le altre discipline culturali. Tratteremo della geografia del mondo occidentale, anche se è una disciplina che è arrivata anche in oriente. Usiamo il termine plurale “le geografie”. La geografia ha una sua peculiarità che la differenzia da tutte le altre discipline, cioè viene definita una disciplina bifronte: un volto rivolto alle discipline scientifiche (geografia fisica), l’altro rivolto verso le discipline umanistiche (geografia umana). Questa è una grande ricchezza della geografia, che infatti presenta al suo interno una grande varietà, che porta a dover trovare dei parametri per poter inserire le tante geografie e dividerle l’una dall’altra. Partiamo allora dal presentare alcune di queste pratiche, partendo dalla geografia fisica. La geografia fisica Cosa studiano i geografi fisici? Ad esempio i cosiddetti fenomeni carsici, il carsismo. Esso contraddistingue un certo tipo di suolo e di paesaggio. Altro studio della geografia fisica è la cosiddetta glaciologia. Lo studio dei ghiacciai è importantissimo perché questi presentano residui che ci consentono di capire le caratteristiche del clima di quella zona del mondo anche migliaia di anni fa. I ghiacciai hanno un ruolo anche nei cambiamenti climatici, per capire perché ciò accade e con quale intensità bisogna avvalersi della glaciologia. I glaciologi sono geografi fisici. Un tema a cui questa materia è legata è quello che presenta forse il maggior numero di studiosi, cioè il clima, quindi la climatologia. I climatologi sono quindi geografi fisici. Questa materia studia l’evoluzione dei climi e, oggi più che mai, il discorso dei cambiamenti climatici è nell’interesse degli studiosi, infatti le riunioni sul clima vedono partecipare molti climatologi di tutto il mondo. La geografia umana Se abbiamo individuato alcune branche della geografia fisica, ne vedremo molte della geografia umana. Qui vediamo degli specialisti in vari ambiti, e sono molto più numerosi. Branche della materia sono per esempio la geografia regionale. Questa studia le regioni, che possono avere connotazioni molto diverse, sia dal punto di vista del tipo della regione, sia dal punto di vista della scala regionale. Possiamo parlare di regioni fisiche, in questo caso ci occuperemo in particolare degli elementi fisici presenti in quella regione, per esempio l’idrografia, il clima. Una regione è una parte della superficie terrestre, la quale ha determinato caratteristiche al suo interno che la differenziano da una regione altra. Altro tipo di regione è la regione economica, la quale sarà evidenziata dalla presenza di alcuni ambiti economici che la contraddistinguono: produzione nei vari settori, tipi di produzione, tipi di commercio. Ad esempio ancora la regione culturale, connotata da particolari aspetti di tipo culturale che accomunano i suoi abitanti, quindi la lingua, la religione; o ancora la regione politico-amministrativa, con determinati confini per i quali si distingue una regione. All’interno della regione politico-amministrativa Lombardia possiamo studiare gli aspetti fisici, o economici, o culturali. Le regioni possono essere individuate in base alla tipologia ma anche in base alla scala. È giusto dire che una regione può essere una piccola radura all’interno di una foresta, è una classica micro regione che però ha una connotazione ben precisa rispetto alla macro regione in cui si trova, e quindi anche una piccola radura può essere una regione. Dal lato opposto una macroregione può bene essere una regione come quella Nord- atlantica, perché ha degli aspetti precisi che la connotano di tipo economico, sociale, culturale, che fanno sì che questa regione superi un oceano e che lo comprenda. Al livello scalare quindi ci sono altri tipi di regione, passando dall’estremo della micro regione arrivando alla macroregione. Questa è quindi la geografia regionale, una delle numerose branche della geografia umana. Altra branca è la geografia della popolazione, che studia la distribuzione della popolazione sul pianeta. Distribuzione che non è omogenea: ci sono molte aree densamente popolate e altre quasi disabitate. Già questo comporta molti studi. Questa materia studia anche le migrazioni, l’umanità ha sempre conosciuto le migrazioni dei popoli, e anche oggi il fenomeno migratorio ha molti risvolti in vari ambiti. L’Italia è stata molto studiata perché è stato un esempio abbastanza atipico di territorio che fino a un certo momento è stato terra di emigrazione, e ad un certo punto, dal 1973, è diventato terra di immigrazione. In questo momento i migranti sono stati superati dagli immigranti. Oggi c’è una nuova ondata di giovani italiani che vanno all’estero, con modalità e caratteristiche molto diverse rispetto a quelle del Novecento. Altra branca è la geografia urbana, la storia della nascita dell’evoluzione delle città sul nostro pianeta, nelle diverse epoche e culture. Il fenomeno urbano non è statico ma in evoluzione. Le città forse più che mai nei tempi attuali hanno subito una accelerazione. Le caratteristiche urbane del presente vedono le megalopoli (insieme di città che si sono “fuse” o connesse tra loro, come quella Nord-atlantica, anche nota come Bo-Wash, perchè parte da Boston e arriva a Washington), grandi aggregati urbani, che portano molti milioni di abitanti a vivere in un territorio molto esteso, con tratti urbanizzati. Una delle geografie più importanti è la geografia economica, perché a sua volta è divisa in tante altre: i settori dell’economia. I geografi studiano il settore primario, composto da agricoltura, allevamento, caccia, pesca. Il settore secondario riguarda l’industria, dalle origini ai giorni nostri, passando attraverso la rivoluzione industriale, fino ai moderni metodi di industrializzazione. Per non parlare del settore terziario, o anche terziario avanzato, che comprende a sua volta un insieme molto vasto. Vi entrano per esempio il commercio, i trasporti (a loro volta suddivisi in trasporti su strada, trasporti su ferro o rotaia, ecc.). Con i treni veloci e superveloci che stanno superando in velocità addirittura gli aerei, il settore terziario sta subendo una accelerazione. A loro volta anche sui trasporti aerei si è studiato molto, fino ad arrivare i voli low-cost che hanno rivoluzionato il tipo di trasporto. I geografi si occupano anche delle strutture che contengono questi mezzi, come le ferrovie e gli aeroporti, e i vari collegamenti con le città. Altro importante mezzo di trasporto è quello navale, fino ad arrivare alle super petroliere. Nella geografia economica, nel terziario, un altro ambito è il turismo, importante anche per la storia del nostro Paese. Andando a ritroso: la geografia dei trasporti aerei è quindi inseribile nella geografia dei trasporti, nella geografia del terziario, parte della geografia economica, branca della geografia umana. Abbiamo anche la geografia umanistica, da non confondere con quella umana, perché ne è parte. Le precedenti branche hanno un passato storico importante, ma la geografia è in evoluzione e nel istruttivi. Strabone era un eclettico, anche se pare aver nutrito una particolare propensione per la dottrina stoica, di cui infatti si professò seguace. In particolare pare aver mutuato da questa dottrina, la concezione di un sapere non solo teorico, ma piuttosto orientato verso un impegno concreto. Tanto che nelle sue intenzioni, la Geografia avrebbe dovuto essere uno strumento utile alla società del suo tempo e in modo particolare ai governanti che la amministravano. I primi due libri della Geografia sono l’introduzione all’opera; dal terzo al decimo libro Strabone descrive l’Europa, in particolare dedica molto spazio alla Grecia antica; dall’undicesimo al sedicesimo libro descrive l’Asia minore; l’ultimo libro è dedicato all’Africa, intendendo l’Egitto e la Libia. I primi due libri sono molto diversi rispetto agli altri quindici, perché esprimono l’impostazione degli studi geografici che Strabone si propone, quindi hanno delle finalità diverse rispetto a una descrizione precisa dei territori. Non pochi studiosi hanno pensato che possa essere una composizione autonoma rispetto agli altri libri, successiva, forse neppure scritta da Strabone. Ma in generale si considerano tutti di sua opera, pur tenendo conto di queste considerazioni. Nel suo insieme la Geografia è improntata su uno studio e un’analisi di tipo storico-antropologico, quindi possiamo inserire l’autore nel filone che lo differenzia da Tolomeo, che invece aveva improntato i suoi studi su analisi più rigidamente matematico-scientifiche. Tolomeo (II a.C.) è un grandissimo sistematore delle conoscenze che erano state acquisite fino alla sua epoca. Fu l’autore di quella che viene chiamata Introduzione geografica, considerata come la summa delle conoscenze geografiche dell’antichità. Tolomeo nacque nel 100 d.C. a Pelusio, in Egitto. Visse molto ad Alessandria e morì nel 178 d.C.. Fu un grande eclettico, un astronomo, un matematico, un fisico. È considerato il fondatore della trigonometria, studiò il fenomeno della rifrazione della luce, e fu il sostenitore della teoria che la Terra è al centro dell’Universo, che rimase indiscussa fino al 1500. Nel periodo romano, la geografia aveva come obiettivo la conoscenza dell’ambiente inteso proprio in senso lato (terra, mare e cielo), al servizio dell’espansionismo e dell’imperialismo romano. Quello della geografia e insieme della cartografia, è stato un destino legato agli imperialismi, perché i generali, i condottieri, avevano bisogno di informazioni dettagliate per condurre gli eserciti e approvvigionarsi. Quindi la geografia ha acquisito sempre un carattere strategico: non si trattava solo di preparare i piani delle battaglie, ma poi anche di aprire le strade ai mercanti, ai coloni, alle avanguardie dell’impero. E in effetti la geografia ha generalmente acquisito importanza e la cartografia si è regolarmente sviluppata, quando si è verificato un periodo di espansione di determinate potenze. Caduto l’Impero Romano viene la lunga epoca del Medioevo (III d.C.- XV d.C.), che acquisisce il termine di Medioevo geografico. Periodo contrassegnato da una lunga fase di stagnazione e anche di regresso rispetto all’epoca precedente. Da ricordare però che la storiografia, ormai da qualche tempo, ha dimostrato come il Medioevo non sia stato solo un periodo di ombre, ma anche di luci. E questo vale anche per il Medioevo geografico, da un lato ci fu un periodo di stasi, per esempio negli spostamenti, nei commerci (le strade romane caddero in disuso); nello stesso tempo non mancarono occasioni di viaggi e descrizioni di terre lontane, pensiamo a Marco Polo. Alcune importanti spedizioni avrebbero dato impulso alla cartografia, pensiamo ai normanni, popolo che a prescindere dall’approdo in Groenlandia e forse sul Continente americano, si spostò in tutta Europa (dall’Irlanda al sud Italia). I normanni diedero un apporto culturale, quindi non è esatto dire che il Medioevo geografico vide una stasi completa. Pensiamo anche alle Crociate, da alcuni definita la prima impresa coloniale europea, che sicuramente aprirono nuovi orizzonti di conoscenza e culturali. Con il 1500 abbiamo quindi un periodo di grandi scoperte, viaggi, esplorazioni, conquiste. In primo luogo si parla del fatto che grandi potenze europee come Portogallo, Spagna, Francia, Olanda, Inghilterra, si lanciarono alla conquista dei mari e degli oceani. Nacquero quindi i grandi imperi coloniali e commerciali. Questo periodo annovera personaggi di grandissima rilevanza. Molti di questi non furono geografi di professione, ma coi loro studi e le loro teorie, avrebbero dato un apporto importante alla geografia. Tra questi Niccolò Copernico, col suo De rivolutionibus de orumcelestium, ripudiò la concezione geocentrica e con essa l’antropocentrismo degli Antichi, per fare luogo a una concezione eliocentrica che avrebbe trovato diversi sostenitori per esempio in Giordano Bruno, in Galileo, Keplero, Newton.Bruno morì nel 1600 sul rogo a Roma perché aveva attaccato la concezione aristotelica del cosmo chiuso e limitato, per affermare in difesa dell’eliocentrismo, l’infinità dei mondi dell’Universo. Galileo, con le sue osservazioni sulle macchie solari, la scoperta del primo dei satelliti di Giove, e altre scoperte, diede duri colpi alle tesi degli aristotelici sulla inalterabilità e incorruttibilità, sulla perfezione dei Cieli e dei Corpi celesti. Anche lui si pose quindi tra i difensori dell’eliocentrismo, col suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Keplero aveva riconosciuto la vera natura delle orbite planetarie, le leggi sul moto, contribuendo anch’egli a una stesura di un assetto rivoluzionario del quadro astronomico. Ma è stata questa anche un’epoca di grandi esplorazioni e viaggi, e questo ebbe sia come causa che come effetto, il fatto che la tecnologia conobbe mirabili progressi: pensiamo alle capacità e all’inventività degli artigiani olandesi, e i loro prodotti che permisero a Galileo la costruzione del cannocchiale. Certamente arte e industria in quest’epoca si mettono al servizio dell’espansione commerciale e coloniale. Inevitabilmente poi un impulso straordinario non poteva non averlo l’insieme della cartografia. Queste scoperte le conferirono un ruolo come mai aveva avuto, tanto che da qui in poi avrebbe assunto una sua precisa autonomia rispetto alla geografia. Gerardo Kremer, noto come “il Mercatore”, fu un grande cartografo. Originario delle Fiandre, avrebbe dato il proprio nome a un metodo importantissimo di proiezioni. La “proiezione di Mercatore” per l’appunto, è una proiezione cilindrica conforme (che conserva gli angoli) che seppur elaborata nel 1600 era così ben fatta che sarebbe stata utilizzata per molto tempo a venire, soprattutto nella navigazione. Varenio, olandese, visse nella prima metà del 1600 e scrisse un testo intitolato Geographiageneralis, sintesi critica delle conoscenze geografiche del periodo. Particolarmente interessante perché Varenio operò una distinzione al suo interno: in questa sistemazione distinse la geografia in una parte che definì “generale”, quella che abbraccia tutto il globo, e in un’altra parte che definiva “speciale” o “regionale”, che si occupava più precisamente dei singoli luoghi con attenzione alle descrizioni topografiche, agli usi e costumi di genti lontane. La geografia acquisisce specificità. Nel XVIII secolo si parla di Illuminismo, epoca importante per la geografia perché si accende l’interesse dei grandi pensatori e filosofi rispetto a delle tematiche quali il rapporto tra potere esecutivo e il governo, o l’evoluzione delle società (Rousseau), o la conoscenza dei costumi e dei popoli stranieri. Siamo arrivati al secolo in cui la geografia si sviluppa come disciplina moderna, disciplina ufficialmente riconosciuta come scientifica e quindi istituzionalizzata. Ciò avviene grazie all’opera di due grandi geografi di professione: Alexander Von Humboldt e Karl Ritter.Per l’epoca nella quale sono vissuti, fu possibile considerare Von Humboldt un tardo illuminista, mentre Ritter un pre-romantico. Von Humboldt nacque nel 1769 e morì nel 1859. La sua opera principale è Cosmos, del 1845. Von Humboldt era prussiano, e i più grandi geografi dell’epoca furono tedeschi. Fu un geografo viaggiatore, se non esploratore, infatti compì numerosi viaggi in Europa e nelle Americhe del Nord e del Sud. I suoi studi riguardavano molto la geografia fisica, intesa però come esame delle interrelazioni tra tutti i fenomeni geografici. Egli era convinto assertore della interdipendenza dei vari fenomeni nella trasformazione della superficie terrestre, e da ciò l’importanza dei suoi viaggi. Egli fu inoltre un grande divulgatore ed ebbe una prosa e uno stile di scrittura unici. Questo da un lato lo avrebbe reso successivamente noto, dall’altro lato, nei suoi tempi, non venne sufficientemente capito: i suoi contemporanei non riuscirono a capire la profondità dei contenuti dei suoi scritti, in quanto i suoi critici diedero più importanza alla forma, che era letteraria e quindi non sufficientemente scientifica. In realtà Von Humboldt aveva volutamente affrontato la difficoltà e la necessità di rivestire la scienza di una forma letteraria, trattando in modo estetico le scienze naturali. I critici ritennero che questa scrittura degenerasse in una prosa poetica. Molto noti i viaggi che compì tra il 1799 e il 1804, in cui visitò regioni che corrispondono oggi al Venezuela, Cuba, Colombia, Perù, Messico e Stati Uniti. Questi viaggi lo avrebbero reso famoso nel mondo. Compì ricerche in quasi tutte le discipline scientifiche: geologia, mineralogia, vulcanologia, climatologia, botanica, zoologia, fisica, astronomia, chimica, e ambiti umanistici come storia culturale e linguistica. In questo passo dice quali sono le sue intenzioni nell’iniziare questo viaggio nelle Americhe: “Collezionerò piante e animali, analizzerò e investigherò il calore e la concentrazione magnetica ed elettrica dell’atmosfera, determinerò le distanze geografiche, misurerò le montagne, ma nessuno di questi è il reale scopo dei miei viaggi. Il mio solo e vero obiettivo è investigare le interconnessioni e gli intrecci di tutte le forze naturali, l’influenza della natura inorganica sulla vita delle piante e sulla creazione animale”. Altra caratteristica rilevante del viaggiatore, è proprio il suo modo di viaggiare. Von Humboldt sovvenzionò personalmente questi viaggi molto costosi, viaggiando “come un esploratore e non come un conquistatore”. Generalmente gli esploratori si facevano sponsorizzare da enti pubblici o privati, e invece il geografo viaggiò a proprie spese, così non doveva dipendere da nessuno. Egli trattò dunque le culture indigene con grandissimo rispetto: la sua spedizione è da molti considerata la prima esplorazione puramente scientifica nella storia intellettuale d’Europa, cioè senza altri scopi. La sua idea era il concetto di un cosmos, una descrizione della Terra completa e olistica, perchè era mosso dalla convinzione che tutte le strutture interagissero in un unico organismo. Anche per questa ragione, e per tutte le sue altre competenze, è considerato uno dei fondatori del pensierotransdisciplinare, e il mentore della cooperazione globale, rispettosa e pacifica, tra tutti gli abitanti del pianeta. naturale.Ne consegue che il mondo fisico e quello psichico sono due manifestazioni distinte della medesima realtà. Quindi si cerca di ridurre la vita a un complesso di fenomeni fisico-chimici, e si giunge a considerare i fatti psicologici come delle funzioni cerebrali, emanazioni del cervello, nello stesso modo con cui si studia il fegato che secerne la bile. Estremamente rilevanti sarebbero state alla metà del XIX secolo le ripercussioni che alcuni progressi causarono, per esempio nella biologia o nell’evoluzionismo. Questi due avrebbero avuto sulla scienza e sulla filosofia dell’epoca un grandissimo impatto. La diffusione dell’organicismo a base biologica sarebbe stata potenziata dal trionfo dell’evoluzionismo, che sottintese l’abbandono definitivo della concezione statica del mondo, e invece la sua sostituzione con una concezione dinamica. La concezione evoluzionista trovò piena conferma nella pubblicazione del famoso Origine della specie del 1859, di Darwin. L’accettazione dell’idea che lanatura non è qualcosa di immutabile dalla creazione, ma che invece ha sperimentato unalunga storia ed è il prodotto di uno sviluppo, costituì uno degli avanzamenti più decisivi del pensiero scientifico occidentale. L’evoluzionismo biologico mostrò che anche gli esseri viventi avevano subìto un lungo processo di mutamento. Pensiamo al concetto di lotta per la vita, ereditarietà, selezione naturale. L’evoluzionismo divenne un’importante sintesi esplicativa di tutta la realtà, e una sintesi che ha permesso di connettere le diverse conoscenze scientifiche acquisite induttivamente dalle differenti scienze. Ecco perché il principio evolutivo si estese anche alle scienze sociali, non solo della natura. Risulta chiaro che nemmeno i geografi avrebbero potuto rimanere estranei a questo movimento intellettuale, e in effetti l’analisi del pensiero dei primi grandi maestri della geografia istituzionalizzata evidenzia come i loro concetti scientifici siano stati intensamente influenzati dalle concezioni evoluzioniste e positiviste. In particolare la ripercussione delle idee positiviste fu particolarmente profonda nella geografia tedesca, proprio per l’istituzionalizzazione recente di questa scienza in Germania. Negli scritti di alcuni maestri della geografia universitaria di quegli anni, si sente in modo evidente, l’influenza del positivismo e dell’evoluzionismo. In particolare l’opera di FredrichRatzel, ci può servire ad esemplificare l’impatto che queste concezioni ebbero nella geografia tedesca e in generale nella geografia di quegli anni. Ratzel(1844-1904) è anch’egli tedesco, come Von Humboldt e Ritter, e proprio per il suo pensiero così innovativo rispetto al passato, e portato avanti e spiegato in modo estremamente lucido, avrebbe portato a dimenticare i suoi due prestigiosi predecessori, e avrebbe suscitato molto scalpore. Inserito nell’epoca positivista fu influenzato dall’opera degli evoluzionisti. Da Darwin avrebbe preso il concetto di lotta per la sopravvivenza, legge del più forte, influenza che l’ambiente ha sull’evoluzione delle specie. In sostanza la teoria di Ratzel sostiene l’adattamento dell’uomo all’ambiente. L’uomo riceve dall’ambiente determinati condizionamenti, che lo portano ad evolversi in un dato modo per potersi adattare all’ambiente stesso. Ecco perché il pensiero geografico positivista ratzeliano è conosciuto come ambientalismo, o anche determinismo. La sua opera più famosa è Antropogeografia, del 1882. Altro aspetto fondamentale del suo pensiero è quello per il quale uomo e natura sono un tutt’uno. L’uomo fa parte della natura e pertanto deve essere studiato secondo le leggi di questa, esattamente come dicevano i positivisti. Tanto che, anche nella vita sociale, dobbiamo individuare quelle leggi naturali che la dirigono. Le società, pertanto, diventano la sommatoria di individui, che hanno tutti le stesse caratteristiche proprio perché vivono in quel determinato ambiente. Le società quindi si coagulano dall’interno e si differenziano rispetto all’esterno, perché quelli che lui definisce individui biologici che compongono le diverse società, reagiscono tutti allo stesso modo in funzione dell’ambiente nel quale si trovano. Il pensiero di Ratzel è molto logico, consequenziale, suscita una serie di reazioni e contestazioni. Sulla base di quanto detto finora, Ratzel giunge a definire le razze: insieme di individui biologici che hanno assunto anche determinate caratteristiche somatiche, a loro volta derivanti dall’ambiente in cui vive la razza. I diversi gruppi umani si riconoscono per avere caratteristiche comuni, e questo porta in seguito alla nascita dei popoli, e alla nascita di organizzazioni anche di tipo politico, cioè gli Stati. Questi non sono altro che la concretizzazione della presa d’atto, di un riconoscersi simili, che avviene prima nelle razze, poi nei popoli o nelle società, e infine negli Stati. Lo Stato non è quindi un’identità superiore, come credevano i romantici, ma un prodotto di certi passaggi successivi, è un prodotto logico e naturale. Martedì 9 marzo Secondo Ratzel anche per lo Stato sono valide le stesse leggi biologiche esistenti per l’individuo, ecco allora che la lotta per la sopravvivenza, per la conquista dello spazio, il che porta a formare organizzazioni politico-militari. Ecco allora spiegate le guerre, le conquiste, la nascita e decadenza dei grandi imperi. Quindi stiamo parlando di una storia e di una geografia dell’umanità spiegate in chiave materialista, legata a un positivismo evoluzionista. In Antropogeografia (1882) Ratzel spiega con molta precisione tutto questo procedimento logico di pensiero, in cui si afferma che l’uomo non deve essere considerato separatamente o in opposizione alla natura, perché invece ne è parte integrante, anzi è frutto di questa. Certo è che dalle dottrine di Ratzel hanno preso il via determinati meccanismi ideologici che le hanno strumentalizzate, distorte e asservite per ben altri scopi. Ci si riferisce ad esempio al nazismo. Queste teorie sono venute a coincidere con il periodo in cui la geografia aveva una grande diffusione nella società. Questo anche perché era il periodo in cui le potenze stavano spartendosiil mondo, era il momento in cui gli occidentali avevano un grande bisogno sia certamente di conoscenza pura, ma anche di interpretazioni (perché i fatti vanno capiti e inquadrati dal punto di vista concettuale). Calzava allora a pennello la geografia ratzeliana con le sue radici darwiniane, che veniva a giustificare lo status quo: che gli europei fossero superiori agli altri, e con tutto il diritto di esserlo. Europei che pensavano di avere quindi un compito di progresso, dovevano portare “il fardello” dell’uomo bianco, al fine di “sbiancare” il colore e la cultura di popolazioni indigene. La società europea aveva bisogno di qualcuno che spiegasse e giustificasse il suo agire con le sue interpretazioni, e a questo servirono certamente le idee di Ratzel. In questi passi è meglio chiarito il pensiero di Ratzel, e servono a capire in che modo “diretto” si esprime. Il primo passo è di Ratzel, il secondo di un geografo contemporaneo che ci induce a interessanti riflessioni sul sapere. Il brano del primo esplica la necessità dell’espansione dei popoli “più dotati”. Scrive:“Dove in una parte della terra si trovano vicini un popolo più dotato e uno meno dotato, il primo si è immancabilmente appropriato del suolo migliore, cioè quello più adatto agli scopi di una civiltà superiore. Nell’America settentrionale gli Indiani sono stati infatti cacciati completamente da tutti i territori fertili, la civiltà superiore si sente decisamente attratta verso il suolo di valore più elevato e siccome essa conferisce ai suoi rappresentati i mezzi di acquistare e sfruttare il suolo, tanto economicamente quanto politicamente, vediamo qui congiungersi due sorgenti di forza e formare un fiume al quale la semi-civiltà non può opporre argine alcuno. Se ad un popolo in conseguenza del suo sviluppo storico toccò un paese in situazione più o meno propizia, questo popolo dimostrerà le sue attitudini a superiori destini, migliorando la propria situazione geografica. Esso si libera dalle scissioni interne, migliora i propri confini esterni, mediante conquiste nei paesi vicini, e in quelli lontani acquisterà delle colonie”. Ecco che con Ratzel viene motivato lo status quo della civiltà superiore, che si impone alla semi-civiltà, ottenendo territori migliori. Queste affermazioni suscitarono presto reazioni violente da parte dei geografi successivi. Il geografo spagnolo Horatio Capel (“teosofo”) scrive invece: “Confini, dominio dello stato, espansione, stati dotati e stati deboli, stabilità e potenza dell’istituzione politica. Potrà forse qualcuno dubitare che quando Ratzel scriveva, proprio queste erano le idee che preoccupavano la borghesia industriale tedesca nel momento in cui la Germania si era riunificata, aveva raggiunto confini che la ponevano di fronte ad altri potenti vicini e si spingeva verso l’espansione coloniale extra europea? Vi sarà ancora qualche dubbio sulla relazione che connette le idee scientifiche e l’organizzazione sociale?”. Capel sottolinea il fatto che certamente le teorie ratzeliane dell’ambientalismo e determinismo erano molto in sintonia con i tempi, con la politica del tempo. Ma Capel allarga il discorso da Ratzel ai pensatori e filosofi anche delle epoche successive, continua: “si potrà negare che a volte gli scienziati e gli studiosi con una impostazione che pretende di essere obiettiva in verità non fanno alto che contribuire a giustificare ideologicamente gli interessi della classe dominante impostando proprio i problemi che ad essa interessano e nella forma che ad essa preme?”. Il discorso è spostato a una indipendenza un po’ ambigua della scienza e degli studiosi nei confronti del mondo politico e sociale in cui si trovano ad agire. Se gli assunti ratzeliani potevano eventualmente essere validi nel definire popoli e culture primitive, in questo legame indissolubile con la natura, in verità essi dimostrano di non essere per nulla applicabili invece nel definire società più moderne e complesse, in continua trasformazione. In effetti questa fu una della prime critiche mosse al pensiero ratzeliano, che presenta insomma fin dall’inizio una notevole e sconcertante rigidità. Il tutto avrebbe portato ad una serie di reazioni che avrebbero fatto proprio riferimento a metodi e presupposti ideologici della disciplina geografica molto diversi rispetto a quelli di Ratzel. Reazioni a Ratzel. La geografia storicista Queste reazioni, che partivano anche da presupposti in parte diversi, avevano alcuni aspetti in comune. In particolare una storicizzazione degli studi geografici, da cui appunto il termine “geografia storicista”. La storicizzazione parte dal presupposto che non è per nulla vero che l’uomo sia determinato dall’ambiente, in qualsiasi tempo o contesto. Invece, ci dicono i geografi che si sarebbero contrapposti a Ratzel, che il rapporto tra uomo e ambiente non può prescindere da fattori di tempo e di spazio. Il rapporto uomo-ambiente viene appunto storicizzato, cioè collocato in una precisa situazione temporale e territoriale in cui quel rapporto si è verificato, e in possibilismoè una concezione idiografica, una varietà che ha per oggetto di studio il particolare, rifuggendo da generalizzazione,e non una concezione nomo tetica la quale invece è normativa perché tende a fornire massime e formulare leggi. Questi geografie crearono studi specifici di regioni anche specifiche, di cui venivano analizzati gli aspetti con estrema attenzione. Il possibilismo si può riassumere così “la natura permette, l’uomo dispone”. Così come invece il determinismo si può riassumere come “la natura determina l’uomo”.L’umanità svolge sempre più il ruolo di causa e non di effetto, perciò l’ambiente geografico non è più un dato grezzo della geografia fisica, ma un dato complesso perché il risultato di molteplici interrelazioni in cui l’uomo svolge un ruolo sempre crescente. Da ciò deriva una serie di conseguenze, tra le quali quella che il geografo non può fare a meno dell’analisi storica. Dagli studi vidaliani nacquero molte monografie, studi regionali, che furono e sono ancora oggi estremamente ricche, ma alcune di queste (le meno riuscite) non si preoccupavano di confrontare tra loro le varie unità territoriali studiate. Quindi è stato notato che le monografie meno riuscite erano in verità interessanti studi analitici di particolari regioni, ma non pervenivano alla sintesi dei risultati ottenuti, sintesi assolutamente necessaria per avere un quadro d’insieme utile al geografo. Mercoledì 10 marzo 3) La terza scuola di pensiero è la geografia culturale americana. Un terzo filone che nasce in opposizione all’antropogeografia che prese avvio all’Università di Berkleynegli anni ’10-’20 del Novecento. Questo filone fu lo sviluppo dell’incontro tra il geografo americano di origini tedesche Carl Sauer, e i famosi antropologi americani del tempo impegnati soprattutto nello studio delle aree indiane americane. Sauer definì la geografia culturale come l’applicazione dell’idea di cultura ai problemi geografici. Dunque come assunto iniziale del rapporto uomo-ambiente, i geografi culturali affermano che questa relazione è regolata fondamentalmente dalla cultura del gruppo. Perciò viene posta attenzione in particolare ai reperti archeologici, alle tradizioni scritte e orali, agli usi e costumi, per poter descrivere un quadro culturale della data società e perciò anche del suo territorio. Abbiamo quindi un interesse nei confronti dello sviluppo sociale delle popolazioni considerate e si studiano due aspetti fondamentali quali la distribuzione delle lingue, delle religioni. Alcuni interessanti prodotti dei geografi culturali sarebbero state le carte, la mappatura e il tracciamento della diffusione delle culture, sulla base di determinati elementi ritenuti fondamentali nello sviluppo di quel gruppo e nella conformazione paesaggistica del suo territorio. Quindi forti legami con l’antropologia. 4) La quarta scuola ci riporta in Germania, e fece riferimento all’ambito sociologico. Parliamo della Sozialgeographie, fondata dall’austriaco Hans Bobek ancora negli anni ’20 del Novecento.Bobek si occupò di geografia sociale, così come di geografia culturale e urbana, molto spesso questi ambiti della geografia si intersecavano. La Sozialgeographie prese spunto dalla notevole sociologia tedesca di fine Ottocento, che aveva essenzialmente basi storiche, da cui trasse una serie di spunti in base ai quali si affermava che ogni società ha delle caratteristiche proprie che sono individuabili con l’aiuto della sociologia. E danno origine a delle particolari strutture sociali. Saranno poi proprio queste che agiranno nella società condizionandola, condizionando anche il territorio. Era quindi fondamentale conoscere le istituzioni della società. Quindi una scuola ancor più complessa ed aperta a casi di studio relativi a disparati gruppi sociali in rapporto al loro sviluppo e la loro organizzazione sociale. Vennero infatti chiamati sociogeografi, e trassero i loro strumenti dalla sociologia per poi adattarli a un ambito più propriamente geografico. 5) L’ultima corrente di pensiero è la geografia d’ispirazione marxista. Un filone che ebbe un percorso parallelo a quelli dei precedenti filoni, ma che non si pose come in netta opposizione sin dall’inizio all’antropogeografia. Anzi, inizialmente almeno in parte da questa avrebbe tratto spunto. Un filone che presenterà profonde differenze durante i suoi sviluppi. Differenze che diventeranno ancora maggiori quando l’area dell’Est avrebbe dato una struttura ben definita alla geografia. Parliamo di due diverse fasi interne al filone:  Tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti del secolo successivo. Questa fase non è differente dal determinismo perché ha il tentativo di fondere i concetti positivisti con le idee materialistiche marxiste. Attraverso un meccanismo di analogie si cercò di interpretare la geografia positivista secondo i concetti marxisti. Se per Ratzel era l’ambiente che imponeva all’uomo di innescare un meccanismo di sviluppo nella società, invece per la geografia marxista questo meccanismo di sviluppo della società nasce sulla base della lotta di classe. Quindi potremmo dire quello che per i concetti darwiniani era la lotta per la sopravvivenza, per le idee marxiste è la lotta di classe.  Il secondo periodo va dagli anni ’20 del Novecento in poi. Qua dobbiamo individuare due diversi indirizzi di interpretazione geografica, quello che si sarebbe diffuso nei paesi occidentali e quello che si sarebbe diffuso in Unione Sovietica. - Nei paesi occidentali vi sono alcuni geografi che applicano gli spunti marxisti ai diversi filoni di ricerca esistenti ai loro tempi, cioè ci sono studiosi dell’Europa occidentale i quali studiano filoni e casi appunto legati a fenomeni geografici che vengono studiati anche nel mondo occidentale, ma secondo un tipo di pensiero che si ispira alle idee marxiste. Tra questi i francesi, tra cui Pierre George. - Diversa la situazione nei paesi del blocco sovietico, dove il marxismo divenuto dogma di Stato strutturava ogni disciplina nei suoi assunti ed obiettivi. Il punto di partenza secondo l’idea marxista, e qui siamo decisamente in una posizione di opposizione a Ratzel, era che l’uomo non è soggiogato dalla natura ma anzi è in grado di usarla. La geografia dunque viene divisa in due rami ben distinti: una geografia fisica (nella quale si deve analizzare, catalogare il territorio per quantificare le disponibilità di risorse materiali, lavoro necessario per pianificare lo sviluppo del Paese) e una geografia umana (essendo di impronta marxista era quindi soprattutto di tipo economico: sono i rapporti economici a muovere l’uomo e determinare l’ambiente). Le geografie delle due fazioni non si conoscevano tanto tra loro, non comunicavano, a partire dal fatto che vi erano concreti problemi linguistici e mancavano traduzioni. Un’eccezione si può trovare nella geografia polacca, un po’ a metà strada tra i due blocchi. Ci sono alcuni studi in cui ci si pone a intersezione tra il pensiero marxista e quello dei geografi occidentali. Gli eventi successivi alla caduta del Muro di Berlino hanno portato queste considerazioni a dover essere ampiamente riviste, data una fluidità culturale che è tuttora in corso. Critiche verso la geografia storicista La critica fondamentale che sta alla base di tutte le altre venne mossa all’approccio storicistico. Infatti si afferma che questo approccio può certamente far comprendere il caso singolo, ma poi ha la carenza di non essere in grado di astrarre delle regole generali. Non si riesce a risalire poi ad aspetti più generali individuando ossia delle norme, delle leggi applicabili universalmente. Quindi si dice anche che le geografie storiciste, essendo troppo proiettate verso il passato, non erano in grado di capire il presente, e ancora di meno di prevedere il futuro. La geografia storicista venne quindi considerata statica e conservatrice. La geografia doveva invece anche generalizzare e diventare una disciplina più connessa al presente, ed essere al servizio della società. Sono critiche che avrebbero trovato il massimo risalto fondamentalmente negli anni ’50-’60 del Novecento, e avrebbero messo indistintamente in crisi tutti i filoni visti finora. Quindi reazioni che avrebbero teso a individuare metodi il più possibile generali e generalizzanti, applicabili e che potessero dare dei risultati tra loro comparabili in modo tale da arrivare a delle generalizzazioni, evitando quegli aspetti troppo particolari e contingenti che non permettono di trovare risultati simili. La prima manifestazione di queste critiche ebbe la peculiarità di essere cronologicamente contemporanea agli stessi filoni criticati. Nasceva infatti in opposizione alla geografia ratzeliana ma era anche caratterizzata da presupposti molto diversi da quelli delle correnti della geografia storicista. Perciò si poneva anche contro di esse. Walter Christaller (1893-1969) Stiamo parlando nella fattispecie di un geografo, Walter Christaller, economista tedesco che con un testo che è diventato una pietra miliare nella storia della geografia. La teoria delle località centrali del 1933, avrebbe criticato l’antropogeografia dicendo che partiva da presupposti sbagliati e questo perché traeva i propri assunti dal positivismo naturalistico biologico. Mentre secondo Christaller si dovevano reperire le soluzioni nell’ambito delle scienze umane e non naturali. In più siccome Christaller veniva dalla scuola economista di Monaco, di base sociale e umanistica, nel rapporto uomo ambiente i metodi dovevano avere basi di tipo economico. Non è la natura che condiziona l’uomo, ma l’umanità che attraverso gli strumenti economici organizza l’ambiente. E ancora Christaller, contro gli storicista, si pone affermando che non ci si deve fermare al caso singolo. Questo deve servire per poi trovare e confermare delle regole (economiche) che siano generali. Christaller è famoso per la sua teoria delle località centrali, teoria che ci potrà forse inizialmente sembrare complicata. Egli ha elaborato questa teoria focalizzando l’attenzione sulla funzione commerciale e amministrativa svolta dai centri abitati. Questa teoria è stata pubblicata nel 1933 in un libro nel quale Christaller fornisce una sistemazione completa da un punto di vista teorico, nei riguardi della gerarchizzazione dei centri urbani e della organizzazione delle reti economiche e di servizi che connettono tra loro le varie località. Secondo lo studioso compito del geografo è quello di: rispetto a cui le località centrali di rango diverso si comportano e offrono ai loro cittadini delle funzioni di rango diverso. Pensiamo al piccolo comune italiano, dove ferma il treno locale. Nel piccolo comune, ossia località centrale di rango minimo, il servizio dei collegamenti ferroviari, è di rango minimo. Se saliamo di rango, passiamo a una stazione più grossa, dove fermano treni che percorrono distanze diverse e superiori: gli Intercity passeranno in una località di rango superiore rispetto a quella dove passa soltanto il treno locale. Sino a quando arriveremo alla località di rango massimo, che sarà quella con la grandissima stazione dove fermeranno i Frecciarossa. Però nella località centrale di rango maggiore, come Milano, fermano anche gli altri tipi di treni: le località di rango maggiore offrono tutti i servizi delle località di rango inferiore più altri servizi che le rendono di rango superiore alle precedenti. Pensiamo ad un altro tipo di funzione, come le scuole. La località centrale di rango inferiore, il piccolo comune, in genere ha almeno l’asilo, quindi abbiamo la funzione legata al sistema scolastico di rango minimo presente nella località centrale di rango inferiore. Se passiamo di livello in un comune più grande avremo anche le scuole elementari: lo rendono di rango superiore ma ci saranno anche gli asili: ciascuna località centrale di rango superiore possiede via via anche tutte le funzioni di quelle inferiori. Poi troviamo anche le scuole medie, in altre le superiori, fino ad arrivare alle località di rango massimo, le quali offrono anche le università, ma naturalmente hanno anche a scalare le altre. Un ultimo esempio: le funzioni ospedaliere. Partiamo dal piccolo comune, in genere un ambulatorio medico c’è, la località di rango inferiore avrà l’ambulatorio. Via via salendo di grado saliranno anche le funzioni offerte dalle località di rango maggiore sino ad arrivare ai grandissimi ospedali specialistici che si trovano in quelle di rango massimo. Le località centrali di rango massimo avranno tutte le loro funzioni al massimo rango. Riassumiamolo nei suoi tratti fondamentali: 1) la funzione di base di una città è quella di essere una località centrale (e quindi le località centrali sono tutti gli insediamenti, anche quelli di rango inferiore), che provvede/fornisce di beni e di servizi un’area circostante, un contado, un intorno. Il termine località centrale è usato perché una città, per poter adempiere a tale funzione, deve essere in una posizione centrale rispetto all’area stessa, ossia rispetto all’area di massimo profitto che la località centrale stessa può controllare. 2) le località di rango più elevato offrono un numero maggiore beni, hanno maggiori funzioni, hanno una maggiore popolazione più grande e più cospicua, hanno un intorno più grande, cioè hanno maggiori aree e una maggiore popolazione tributaria. Inoltre sono maggiormente distanziate l’una dall’altra se confrontate alle località centrali di rango inferiore. 3) le località centrali di rango inferiore forniscono beni e servizi di grado inferiore, che derivano da necessità di richieste più frequenti e che quindi richiedono piccoli spostamenti da parte del consumatore. Sono il famoso ambulatorio, asilo, stazioncina dei treni locali. Perché appunto offrono servizi che richiedono necessità più frequenti e che richiedono piccoli spostamenti. Viceversa le località centrali di rango superiore forniscono dai beni di rango inferiore ai beni di rango superiore per raggiungere i quali il consumatore è disposto a compiere spostamenti più lunghi ma meno frequenti. Per andare nell’ospedale molto specialistico, il cittadino è disposto ad andare a compiere molti chilometri, perché va per usufruire di questi servizi con una bassa frequenza. Mentre lo stesso per andare a fare il prelievo non è disposto a fare molta strada, infatti questo servizio di rango inferiore gli viene offerto anche dal suo piccolo comune. In pratica siamo arrivati a una considerazione: la frequenza dei tipi di servizi è inversamente proporzionale al loro rango, perché la frequenza dei tipi di servizi aumenta con il diminuire del loro rango. 4) i centri di ciascun ordine superiore compiono tutte le funzioni dei centri di ordine o rango inferiore più un gruppo di funzioni centrali di rango maggiore che li pongono al di sopra delle località centrali di rango inferiore: quindi abbiamo una rete di aree commerciali di rango inferiore all’interno invece (come ci dice l’esagono che comprende esagoni più piccoli) di aree commerciali di rango superiore: c’è una gerarchia nei ranghi delle funzioni e delle località centrali. 5) la gerarchia tra le varie località centrali può essere organizzata secondo 3 diversi principi: di mercato, della circolazione, della divisione amministrativa. Ciascuno di questi tre principi determina secondo proprie leggi il sistema delle località centrali. Sino a che punto la teoria delle località centrali è ancora applicabile? Questa teoria e tutto il pensiero di Christaller non avrebbe per nulla trovato seguito nell’epoca in cui visse, perché si sarebbe posto decisamente fuori dal coro, ossia contro al determinismo come i suoi contemporanei ma anche contro la geografia storicista dei suoi contemporanei: non sarebbe stato compreso. La sua teoria avrebbe avuto grandissimo riscontro nei decenni successivi, anni ‘50 e ‘60 del Novecento, avrebbe avuto una serie di applicazioni in un periodo ancora successivo, magari venendo modificata. Si è parlato di centri e periferie a scale molto diverse anche negli anni ‘70 e ‘80. Le località centralidel mondoche nel pianeta avevano il ruolo propulsore dal punto di vista economico, e invece le periferie del mondo, le località centrali di rango minimo: quasi un intorno rispetto ai centri del mondo. Abbiamo detto che le località centrali di rango superiore hanno una maggiore distanza tra loro rispetto a quelle di rango inferiore: anche oggi possiamo individuare ciò. Arriviamo sino a quelle che sono state definite le capitali del mondo: non saranno altro che le località centrali di rango massimo a livello planetario, New York, Londra, Shangai.Non a caso si parla di grandissime metropoli così distanti da essere in continenti diversi. È ancora applicabile la teoria ma c’è un grande ma. Ci sono state due critiche poste alla teoria. - La prima in verità piuttosto ovvia: si è detto da parte di alcuni geografi che questa teoria tende a considerare lo spazio come una struttura geometrico-formale, mentre si è detto giustamente che i fenomeni nella realtà non si presentano mai in modo decontestualizzato. La critica sta nel fatto che stiamo parlando di una teoria, è inevitabile che una teoria parta da basi teoriche e decontestualizzate, starà poi allo studioso l’applicarla per vedere se, come e in che termini corrisponda alla realtà. - Più interessante è la seconda in base alla quale si afferma che l’evoluzione delle città e delle loro funzioni avvenuta nei decenni successivi all’elaborazione della teoria è connessa alla specializzazione delle attività e dei servizi, per cui questa evoluzione urbana dei tempi più recenti, legata proprio a una specializzazione dei servizi dei centri, avrebbe reso con il tempo la teoria imprecisa e sempre meno applicabile e anzi obsoleta. Christaller diceva che a seconda del rango ci sono delle funzioni: ma è accaduto che determinate località centrali si siano specializzate solo in alcune specifiche funzioni e non in tutte: non è più valido quello che affermava. Pensiamo a Ivrea, vicino a Torino: con la Olivetti è stata per un certo periodo una località centrale di rango medio ma che per una funzione in particolare, era al rango massimo, equiparabile a quello di altre località centrali per questo particolare servizio, di massimo rango, ma solo per quello, e questo va contro la teoria. Martedì 16 marzo Il Neopositivismo Si può anche definire l’epoca dello strutturalismo. Sono gli anni ’40-’50 del Novecento, anni considerati da molti autori come un periodo davvero decisivo nell’evoluzione delle scienze sociali. Questo in quanto sarebbero entrate in crisi molte idee che si erano sviluppate a partire già dall’Ottocento. Periodo di crisi che coincise con une profonda crisi sociale ed economica, legata agli anni del dopoguerra. In questa situazione, caratterizzata anche da avanzamenti tecnologici straordinariamente rapidi, le scienze sociali si videro stimolate a procurare delle risposte ogni volta più rigorose e più tecniche. Questo portò innanzitutto al rifiuto di tutte quelle approssimazioni che lasciano posto all’intuizione, o anche al rifiuto di quelle facoltà considerate non strettamente scientifiche. Quindi emerge un chiaro interesse per l’applicazione di sistemi logici al materiale empirico delle varie scienze, sia di quelle naturali sia di quelle sociali. Perciò in questi anni si pone l’enfasi sulla costruzione di modelli, e cioè si cerca di trattare i problemi scientifici nel quadro di una teoria più generale. Cominciano quindi a diffondersi i metodi quantitativi anche nelle scienze sociali. Ciò risulta così tanto generalizzato e importante che si viene a parlare di euforia quantitativa, che raggiunse l’apogeo all’inizio degli anni ’60, allorchè tutte le scienze provano appunto ad introdurre i metodo statistici, matematici quantitativi, come una panacea per risolvere i propri problemi. Parliamo quindi di un quantitativismo, che trova il fondamento e la forza in un neopositivismo logico che andava di norma associato anche a un riduzionismo naturalista, più precisamente fisicalista. Ciò significa che si affronta lo studio dell’uomo e della realtà sociale postulando che essi attengano al modo fisico, e in quanto tali devono essere studiati. Inoltre si ammette che le regolarità che si incontrano nella natura, appaiano anche nelle diverse sfere della realtà socioculturale. A tutto questo dobbiamo aggiungere una decisa attitudine anti-storicista. La nuova geografia Parlando di geografia, anche se un po’ più tardi ad altre scienze sociali come l’economia o la sociologia, anche la geografia venne interessata da queste correnti. La trasformazione che ne determinano una regionalizzazione molto chiara. C’è unaparte di questa macroregione che è polarizzata dal polo A, un’altra polarizzata intorno al polo B, una terza microregione polarizzata senza dubbio dal polo C. Molto diversa la situazione del caso a fianco, perché nella macroregione in alto a destra abbiamo alcuni flussi che chiaramente si accavallano. Quindi i flussi legati al polo A vanno ad accavallarsi con alcuni flussi del polo B o del polo C. In questo caso abbiamo sicuramente delle aree che hanno dei confini abbastanza netti, ma anche zone intermedie in cui vi è l’accavallarsi dei flussi economici. Secondo le teorie funzionaliste questo non è il caso migliore perché c’è una dispersione. Mentre nel caso precedente la scansione subregionale è molto chiara, in questo non lo è, e c’è un determinato territorio in cui abbiamo la confluenza dei flussi. Altro caso ancora è quello della regionalizzazione che si trova in fondo alla pagina. In questo caso abbiamo evidentemente un polo A che è più potente degli altri due. Quindi i flussi andranno anche dal polo B e dal polo C tutti nella direzione del polo A, che è la località centrale evidentemente di rango maggiore. E quindi anche il polo B e C graviteranno sul polo A. le aree dominate dai poli B e C sono all’interno di un’ampia regione dominata dal polo A. Questa carta riguarda la funzionalità del sistema urbano tedesco. Siamo in Germania e la carta evidenzia i centri con grandi funzioni di capoluogo, cioè le località centrali più importanti, ma evidenzia anche quali siano le principali direzioni di traffico. Le maggiori direzioni di traffico tra i principali centri urbani tedesche sono quelle che partendo da Berlino vanno verso ovest, e ad ovest notiamo la presenza di Colonia, Bonn, Dusseldorf, che era una zona molto importante per l’industria tedesca. Parliamo della Ruhr, quindi è logico che i traffici vadano verso occidente. Poi si scende passando attraverso Francoforte arrivando fino a Stoccarda, e infine si va a sud-est verso Monaco. Ritornando a nord si ritorna a Berlino. Ecco determinata la rete delle maggiori direzioni di traffico presenti in Germania. In tutto questo sorprende Amburgo, importantissimo porto, che non è presente. Questa cartina fa capire quali fossero gli scopi a cui i funzionalisti volevano giungere. Presenta la frequenza settimanale dei voli di linea nazionali in Italia (traffico aeroportuale). Si parla quindi della gerarchizzazione dei diversi scali aerei. Ogni segmento rappresenta una tratta, ma ognuno ha uno spessore che equivale a un certo numero di voli settimanali. Quindi risulta evidente che il volo Milano-Roma sia quello più frequente, il suo spessore è maggiore rispetto agli altri. Questo ci aiuta a capire il ruolo dei diversi aeroporti italiani. Esponenti della geografia quantitativa F. K. Schaefer nacque in Germania ma si trasferì negli Stati Uniti dove operò le sue ricerche. Fu uno dei pionieri della geografia quantitativa. Si oppose alla concezione idiografica regionale della geografia storicista, e divenne un punto di riferimento per la generazione dei giovani geografi economisti del secondo dopoguerra. Questi reclamavano di reinventare la geografia come scienza spaziale, in grado di formulare teorie deduttive generali. William Bunge, statunitense, fu un altro pioniere. Lesley J. King avrebbe invece fondato la rivista Geographical Analysis, che sarebbe diventata fondamentale per veicolare le idee della geografia quantitativa. Sulle sue pagine si sarebbero pubblicati numerosissimi studi. L’inglese Peter Hagget fu un altro importante geografo. Interessante la vicenda di David Harvey, britannico, il quale partì come geografo quantitativo, ma poi sarebbe passato alla geografia di impostazione marxista-radicale. Molto importante Roger Brunet, francese, che equipariamo in qualche modo a King perché anch’egli avrebbe creato al rivista L’Espacegeographique, su ci avrebbe pubblicato in francese gli studi della geografia funzionalista. Qualche geografo italiano: Eliseo Bonetti, Berardo Cori, Carlo Da Pozzo e Giuseppe De Matteis. Negli anni ’50 e ’60 avrebbero in Italia applicato le teorie funzionaliste e ciò li avrebbe portati a pubblicare studi particolarmente interessanti. Mercoledì 17 marzo Già verso la fine degli anni Sessanta iniziarono a maturare delle critiche all’indirizzo funzionalista, di cui si individuarono dei limiti e delle debolezze. Per esempio nella pretesa certezza di poter comprendere i problemi territoriali con l’uso degli strumenti dell’analisi statistico-matematica. Si criticò la convinzione, definita perfino arrogante, di poter fondare lo sviluppo territoriale sul settore secondario, a sua volta concentrato nei grossi poli industriali e urbani. Come sempre è fondamentale anche la contestualizzazione storica: stiamo parlando della fine anni Sessanta, primi anni Settanta. Ifatti stavano smentendo questa sicurezza nello sviluppo del territorio fondato sull’industria: ci riferiamo alla crisi petrolifera del 1973, che dimostrò come ciò non fosse realisticamente e concretamente vero. La geografia qualitativa Proprio perché questi geografi praticarono un tipo di geografia che si contrapponeva decisamente a quella quantitativa, ci riferiamo a quella geografia successiva definita geografia qualitativa, per la forte contrapposizione con la precedente. In particolare, questi geografi qualitativi criticavano il metodo di analisi che veniva utilizzato dai loro predecessori e criticavano anche la scelta ideologica insita in questo metodo. 1) Critica al metodo di analisi: il concetto di regione funzionale venne considerato dai qualitativi troppo rigido oltre che incompleto e questo perché non considerava degli aspetti non quantificabili ma altrettanto fortemente incidenti nell’organizzazione territoriale. 2) Critica alla scelta ideologica che trovavano all’interno del metodo quantitativo: venne dai qualitativi accusata di conservatorismo l’ideologia sottesa a una metodologia di studio che elaborava i dati relativi alla realtà economica del presente, ritenendo tale realtà come valida e immutabile. Sino ad ora abbiamo visto la parte destruens dei geografi qualitativi: cosa fortemente criticarono della geografia precedente. Ma ovviamente contrapposero delle loro metodologie, teorie. Vediamo la parte construens. Le numerose critiche mosse alla geografia quantitativa portarono a due nuove nozioni di regioni. Una fondata su una base esistenziale l’altra su una base di tipo ideologico. 1) Base esistenziale: la nozione di regione su base esistenziale vede il cosiddetto indirizzo behaviorista-comportamentalee anche l’indirizzo fenomenologico-esistenziale, infine l’indirizzo semiologico-semantico. Questi tre diversi indirizzi rientrano in una nuova nozione di regione di base esistenziale che rientrano pienamente nella geografia qualitativa. A prescindere dai diversi aspetti dei tre indirizzi, i quali rientrano in una concezione regionale a base esistenziale, tutti hanno in comune il fatto di recuperare la dimensione individuale dello spazio geografico, anche attraverso l’esame della percezione del rapporto tra l’uomo e l’ambiente. È grandissima la novità: l’interesse di questi studiosi viene spostato dall’oggetto di studio(lo spazio, il territorio) al soggetto (l’essere umano): ossia, come il soggetto percepisce il territorio? Questo non era mai stato considerato, ed è un apporto enorme alla storia della geografia che si era evoluta fino a quel momento. Si parlò e si parla di geografia della percezione. Ad esempio: come un cittadino percepisce lo spazio? Se fossimo in aula il professore sarebbe di fronte a noi, quindi percepirebbe l’aula in un certo modo, e noi studenti in un modo diverso. Quindi a seconda semplicemente della posizione in cui ci troviamo, lo spazio viene diversamente percepito. Uno studio compiuto alla fine degli anni ‘70 da una professoressa dell’Università di Milano riguardava la percezione di piazza del Duomo. Si concretizzò il fatto che viene differentemente percepita a seconda che il soggetto sia un maschio o una femmina, un bambino/giovane/anziano, una persona che la attraversa per lavoro o C’è poi stato un gruppo di studiosi di lingua inglese. 1) John Bodley, americano, il quale è molto ben ricollegabile a Lacoste perché scrisse un testo da ritenere complementare perché s’intitolava Vittime del progresso: si capisce molto bene un’impostazione molto diversa negli studi rispetto a quella tradizionale. Il progresso crea delle vittime. Bodley infatti studia le sue diverse manifestazioni in diverse popolazioni ed i suoi risvolti drammatici. 2) Abbiamo anche Yi-Fu-Tuan, americano di origini cinesi, importantissimo per lo sviluppo di questa geografia per il fatto di aver introdotto il concetto di topofilia: termine greco che significa amore nei confronti del luogo. È un concetto fondamentale perché a questa sono legati altri concetti come quello di senso del luogo, sino ad arrivare a quello di identità culturale. Quando c’è topofilia da parte del soggetto nei confronti del luogo in cui vive vi sono caratteristiche di positività. È vero anche il suo contrario: la topofobia. Invece la topofobia quindi recherà con sé un disagio, una non identificazione del soggetto nella località in cui vive, quindi anche un concetto di sradicamento. Questo è fondamentale nello studio e nell’analisi delle società. L’emigrante può partire da un luogo da lui conosciuto per il quale sente topofilia, per arrivare a un luogo a lui ignoto in cui si sente sradicato, dove domina il concetto di topofobia. 3) Vi è poi la geografa irlandeseAnneButtimer che si sarebbe occupata delle migrazioni e sarebbe stata una delle studiose a introdurre il concetto di genere e identità negli studi geografici. Si parla proprio di geografia del genere. 4) Un altro geografo di questo periodo che è sicuramente opportuno citare è Thomas Saarinen. Lui avrebbe compiuto in particolare degli studi sulla percezione dell’ambiente, in particolare sulla percezione dei disastri ambientali: compie degli studi in queste località per capire come questi eventi drammatici venissero percepiti dalla popolazione, la quale spesso non si allontanava da località soggette a catastrofi naturali. Saarinen cerca allora di capire le ragioni. La geografia della percezione ha avuto degli esponenti anche in Italia. Tra questi ricordiamo Vallega, Farinelli, Corna Pellegrini. Quest’ultimo geografo viaggiatore è stato un docente di geografia presso l’Università di Milano, si è accollato il conto, l’onere ma anche l’onore di sdoganare in Italia la geografia della percezione. Organizzò anche verso la fine degli anni ‘70 una serie di convegni nei quali invitò numerosi psicologi: era una novità ma il tutto rientra nella geografia qualitativa e nello specifico della percezione. Lunedì 22 marzo L’epoca contemporanea e la geografia sistemica Il discorso ci porta dal paradigma dello strutturalismo al paradigma sistemico. Negli ultimi decenni il paradigma generale dello strutturalismo e quello più specificamente disciplinare-geografico del funzionalismo, hanno mostrato numerose debolezze. L’emergere della questione ambientale da un lato, e del paradigma cosiddetto “del sistema generale” oltre che della teoria della complessità dall’altro, hanno sottolineato le carenze e le lacune del paradigma strutturalista. Parliamo dunque di paradigma sistemico e di geografia sistemica. Gli epistemologi che hanno maggiormente contribuito all’elaborazione di questo paradigma, hanno considerato e immaginato la realtà come un aggregato di oggetti che si trasformano in un ambiente e si dirigono verso un obbiettivo. Dunque il mondo è ritenuto un “holon”, un impasto inscindibile composto dall’umanità e dall’ambiente. Ambiente che viene definito “ecosistema”. Lo strutturalismo concepiva la realtà in termini appunto di strutture, che generano funzioni e così facendo si evolvono. Invece il pensiero sistemico concepisce la realtà come un’organizzazione di elementi che interagiscono con l’ambiente esterno, e così facendo si trasformano. Notare la differenza tra “evolversi” e “trasformarsi”: il verbo trasformarsi è più fluido rispetto al verbo evolversi, il quale invece presuppone una serie di cause e di effetti, che portano da un certo punto (attraverso un’evoluzione) a un determinato risultato. La trasformazione invece è qualcosa di più complesso. Nella teoria del sistema generale compaiono tre componenti che non erano presenti nei paradigmi precedenti: l’ambiente esterno, il cambiamento (o trasformazione), l’obiettivo. Il paradigma del sistema generale è sicuramente più ricco del precedente: passando dall’impostazione strutturalista precedente a quella sistemica la regione non viene più considerata come un’area che gravita su un determinato punto del territorio, bensì come un sistema territoriale aperto. È molto diverso perché se noi consideriamo, secondo il principio funzionalista, che la regione era determinata dall’insieme di flussi che gravitavano su un polo, e quindi su questo andavano a essere magnetizzati, al contrario i geografi sistemici affermano che la regione è un sistema territoriale aperto anche verso l’esterno. Quindi ci sono importanti novità che vengono introdotte da questa nuova teoria del sistema generale: il concetto di struttura è sostituito da quello di organizzazione. Questo significa che non ci si limita più solo a descrivere come sia fatto un oggetto geografico (come la regione), ma si vuole capire e studiare cosa faccia l’oggetto geografico. Non la sua fisionomia, ma la sua organizzazione. 1) Concetto di ambiente esterno, inteso come gli elementi esistenti al di fuori dell’oggetto studiato (la regione) e con i quali la regione interagisce. Quindi il concetto di ambiente esterno è fondamentale perché ci aiuta a capire come la regione si comporti rispetto all’ambiente ad essa esterno, e ci aiuterà a comprendere come essa si trasformi. 2) Concetto di trasformazione, che è considerata appunto come una conseguenza delle relazioni tra l’oggetto e l’ambiente esterno, con cui si confronta. 3) Concetto di obbiettivo: si intende il traguardo verso cui conduce la trasformazione. È importante questo innesto concettuale perché imprime un progresso risolutivo nell’analisi geografica della regione: descrivere il traguardo verso cui la regione tende dà senso alla ricerca stessa. Il pensiero che si era sviluppato precedentemente, per quanto concerne la storia della geografia e del pensiero in generale, era fondato sulla logica cartesiana, espressa da quattro principi: evidenza, riduzione, causalità, esaustività. La logica cartesiana appartiene al filone delle cosiddette logiche disgiuntive, così chiamate perché tendono a scomporre l’oggetto in parti, descrivendo dettagliatamente ciascuna di esse, ma non di rado indulgendo a un descrittivismo fine a se stesso. Invece, la logica sistemica appartiene al filone delle cosiddette logiche congiuntive. La sua attenzione non è più rivolta a mostrare solo che cosa sia l’oggetto, bensì a mostrare che cosa l’oggetto faccia, come si trasformi durante la sua evoluzione. Quindi ai quattro suddetti principi cartesiani, il paradigma del sistema generale ne contrappone altri quattro antinomici: pertinenza, olismo, teleologia, aggregatività. Sulla base di questi 1) Principio di pertinenza: l’oggetto di studio (la regione) viene descritto non in sé e per sé, ma in rapporto alle intenzioni dichiarate da parte dell’osservatore. 2) Principio dell’olismo: la regione viene considerata sia nel suo insieme, sia in rapporto all’ambiente esterno. 3) Principio della teleologia: la regione non viene rappresentata in base a relazioni causali tra i suoi componenti, bensì in base al comportamento che essa assume in relazione a un determinato obbiettivo. 4) Principio di aggregatività: la regione non viene percepita in rapporto alla totalità delle proprie componenti, ma in rapporto ai gruppi di componenti che sono funzionali ai fini che si vogliono raggiungere con la ricerca. Differenze tra le due logiche Il principio di evidenza cartesiano ogni oggetto è vero soltanto se appare evidente come tale. Insomma, si deve accettare e studiare solo ciò che è chiaro e distinto nella mente. A questo concetto si contrappone quello sistemico di pertinenza, il quale ci dice che ogni oggetto è definibile solo in rapporto alle intenzioni dell’osservatore. Quando le sue intenzioni cambiano, cambia anche la percezione dell’oggetto studiato. Con questo concetto entriamo pienamente nel concetto di percezione, cioè affermano in geografi sistemici che l’oggetto regione si può definire solo sulla base dello studioso che la esamina, e delle intenzione che questo ha. Se egli sarà un geografo di ispirazione marxista inevitabilmente la regione ci sarà presentata secondo una determinata ottica e impostazione, perché la percezione che lo studioso avrà sarà determinata dalla sua preparazione e i suoi scopi. Quindi non esiste un oggetto che sia invece evidente come tale, perché quel medesimo oggetto sarà percepito in modo diverso a seconda del soggetto che lo esamina. Per il concetto cartesiano disgiuntivo della riduzione i diversi aspetti della regione vanno scomposti in tante parti affinchè in modo più facile sia raggiunta una descrizione e una soluzione del problema. A questo principio si contrappone quello dell’olismoperchè i geografi sistemi affermano che la regione va considerata come una parte immersa e attiva in una realtà più grande. Va quindi percepita globalmente nelle sue relazioni tra i componenti interni ed esterni. Non sarà mai possibile giungere a capire e studiare l’unicità della struttura interna di una regione, è un’ambizione a cui è persino inutile tentare di far fronte. Per il principio della causalità la conoscenza si deve basare sugli oggetti più semplici e risalire ai più complessi attraverso una serie di nessi di causa e di effetto, legati proprio alla struttura dell’oggetto studiato. Invece secondo il principio delle teleologica, l’oggetto di studio va considerato in base al suo comportamento senza cercare le leggi relative alla sua struttura perché modulo essere umano rispetto al modulo ecosistema, la domanda è molto pertinente. La risposta è delicata e tutto sommato imprevedibile. Si parla di processo: il processo è l’insieme dei cambiamenti a cui va soggetta l’organizzazione del sistema nel corso del tempo. Ora, se la regione si trasforma senza cambiare la tessitura fondamentale dei propri elementi e delle relazioni che intercorrono tra essi, abbiamo delle fasi di adattamento strutturale. Se invece la regione muta la propria organizzazione assumendo un orientamento diverso da quello in atto, abbiamo la cosiddetta biforcazione. Questa può portare a destinazioni ignote, a reazioni non prevedibili, non conosciute. Quindi di nuovo il fare riferimento alla contemporaneità e alle reazioni in essere tra i due moduli del sistema regionale, comunità umana e ambiente, ci fa molto riflettere su queste osservazioni che i geografi sistemici suggeriscono. Lo sviluppo sostenibile Vediamo che l’idea di sistema generale conduce, come abbiamo visto, a concepire la regione come un organismo territoriale aperto che si trasforma dirigendosi verso un obbiettivo. Ora, l’Agenda 21 che è stata approvata a Rio de Janeiro nel 1992 a conclusione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo, prescrive che lo sviluppo sostenibile debba essere perseguito a ogni scala geografica, compresa quella regionale. Quindi la regione è un ambito territoriale che deve essere gestito sulla base del principio dello sviluppo sostenibile. Possiamo dire che esista un paradigma scientifico, quello del sistema generale, ma anche un paradigma politico, quello dello sviluppo sostenibile. E per affrontare in termini corretti e con una certa consapevolezza questo concetto, analizziamo il confronto tra due concetti differenti di sviluppo: ossia il concetto di sviluppo come crescita, e il concetto di sviluppo sostenibile. Due concetti che costituiscono altrettanti campi di obiettivi politici e che implicano della visioni diverse sul rapporto tra l’ambiente e il comportamento sociale, umanità e uso delle risorse, dei criteri secondo cui organizzare l’utilizzazione del territorio. Nell’esaminare la differenza tra i due concetti partiamo dal secondo dopoguerra, cioè le teorie dello sviluppo si sono affermate negli anni Cinquanta e poggiavano su questi obiettivi: - Aumento degli investimenti - Aumento dei consumi - Aumento dell’occupazione - Aumento del reddito Invece, venivano considerate delle esternalità (cioè estranee) variabili quali: - La qualità della vita - L’ambiente naturale - I criteri di gestione delle risorse, naturali e umane 1 . Primo concetto: di importanza storica, relativamente al concetto di sviluppo come crescita, è stato il famoso discorso dei quattro punti, il discorso di insediamento alla Casa Bianca del presidente Henry Truman nel gennaio 1949. In un mondo da poco uscito dalla guerra, e in cui libertà e diritti umani sembravano minacciati da più parti, Truman incitò sia democratici che repubblicani, ad assistere le popolazioni del mondo che lottavano per la libertà e i diritti civili, invitò a proseguire i programmi per la ripresa dell’economia mondiale, e rafforzare le organizzazioni internazionali. Si chiama dei quattro punti, quindi vediamoli in sintesi: Continueremo a dare il nostro supporto risoluto alle Nazioni Unite e alle agenzie ad esse associate, e continueremo a cercare nuovi modi di rafforzare la loro autorità e di aumentare la loro efficacia. Continueremo nei nostri programmi per la ripresa economica mondiale. Rafforzeremo le nazioni amanti della libertà contro i pericoli dell’aggressione. Dobbiamo impegnarci in un nuovo e coraggioso programma per rendere disponibili i benefici delle nostre scoperte scientifiche e del nostro progresso industriale per il miglioramento e la crescita delle aree sottosviluppate. In pratica tutto verteva sul PIL, e secondo alcuni studiosi questo discorso introdusse i concetti di sviluppo e sottosviluppo, che avrebbero profondamente condizionato la politica e l’economia del dopoguerra. Sul piano dell’organizzazione del territorio questa politica si esprimeva attraverso una industrializzazione forzata che provocò espansione urbana e sviluppo dei trasporti. Il prodotto tipico di questa concezione fu il polo industriale. La conferenza dell’ONU sull’ambiente umano (On the human environment) a Stoccolma nel 1972, diede il primo scossone a questa teoria che identificava lo sviluppo economico nella crescita. Infatti questa conferenza introdusse gli obbiettivi ecologici nelle equazioni dello sviluppo. La difesa dell’ambiente comincia a venire considerata e ad essere proposta per lo sviluppo. Negli anni ’70 e ’80 vennero formulate delle riflessioni sull’idea stessa di sviluppo, il tutto portò al convincimento che tra crescita e sviluppo possa esistere una differenza anche sostanziale. Infatti si disse che lo sviluppo deve sempre implicare, per essere realmente tale, l’idea del miglioramento della qualità della vita. Mentre la stessa cosa non accade per la crescita, la quale semmai può anche essere associata a dei peggioramenti nella qualità della vita. Basti pensare alla evoluzione più recente delle metropoli, le città-regioni, la cui crescita dimensionale è spesso associata a un peggioramento della vita dei suoi abitanti, provocato ovviamente da alterazioni ambientali, degrado sociali, da cui è stato identificato il concetto di crescita senza sviluppo. A tutt’oggi esistono quindi due modi profondamente diversi di intendere lo sviluppo e perseguirlo a livello politico. Possiamo parlare in senso lato di una posizione convenzionale e di una posizione innovativa. La posizione convenzionale è ispirata da questi assunti: - Lo sviluppo coincide con la crescita economica, per cui una società si sviluppa se un’economia cresce - La crescita economica è espressa da indicatori quali il tasso di aumento dell’occupazione, del PIL, ecc. - Il rapporto tra comportamento sociale e ambiente non riguarda lo sviluppo, anzi costituisce una esternalità rispetto al sistema economico. La posizione innovativa sostiene che: - Lo sviluppo non si identifica necessariamente nella crescita, anche se non la esclude - Lo sviluppo deve incorporare l’ambiente nelle proprie internalità - Lo sviluppo comporta sempre un miglioramento qualitativo della vita e il riconoscimento di valori che riguardano sia società sia natura Quest’ultima posizione ha preso corpo attraverso la messa a punto dei concetti di sviluppo umano e sviluppo sostenibile. Ineffetti il primo concetto è stato elaborato dagli anni ’80 così come il secondo. La visione dello sviluppo umano postulava che lo sviluppo non potesse essere identificato solo nella crescita di variabili macro-economiche, ma che dovesse estendersi anche alla qualità della vita. Pertanto lo sviluppo umano venne assunto come il contemporaneo perseguimento di tre campi di obiettivi: la crescita economica, la qualità della vita, la libertà politica. Nell’introduzione del Rapporto sullo sviluppo umano pubblicato nel 1990 leggiamo: “Quello che chiamiamo sviluppo umano è il processo che amplia il ventaglio delle possibilità offerte alle persone. Vivere a lungo e in buona salute, essere istruiti e possedere risorse che consentano un livello di vita dignitoso, sono esigenze fondamentali per tutti. [..] Vi si aggiungano la libertà politica, il godimento dei diritti dell’uomo e il rispetto di se stessi”. Mercoledì 24 marzo Le Nazioni Unite inoltre hanno elaborato quello che si chiama indice di sviluppo umano (ISU), costituito da un insieme di diversi aggregati, diversi parametri. È un indice comparativo, relativo dello sviluppo dei vari paesi, che viene calcolato tenendo conto dei tassi di aspettativa di vita, di istruzione e di reddito nazionale lordo pro capite. In questo indice sono rappresentati praticamente quasi tutti gli stati del mondo, 180 circa. Sono ordinati in base all’ISU e quindi divisi in 4 gruppi sulla base del quartile di appartenenza. L’ISU si concretizza in un elenco degli stati che compongono dal punto di vista politico il mondo, divisi in 4 quartili a seconda del quartile/indice di appartenenza. Uno stato appartiene all’uno o all’altro quartile a seconda dei parametri relativi ai diversi aspetti della sua economia, qualità di vita ecc. Questi 4 quartili corrispondono: 1) il primo a un ISU molto alto, 2) al secondo appartengo gli stati con un ISU alto, 3) al terzo quei paesi che hanno un ISU medio, 4) al quarto tutti quei paesi con un ISU basso. Può naturalmente risultare interessante e utile esaminare l’ISU che peraltro viene aggiornato ogni anno. Al primo apparterranno inevitabilmente gli stati del cosiddetto nord del mondo. L’Italia appartiene al primo in una posizione più o meno media: su poco meno di 50 stati l’Italia si 2) efficienza dell’economia: non più il principio di produttività, secondo il quale un sistema economico è tanto meglio organizzato quanto più è elevato il rapporto tra ricavi e costi bensì quello di efficienza, secondo il quale un sistema economico è tanto meglio organizzato quanto più ridotto risulta l’uso di risorse non rinnovabili, e tanto più intenso quello delle risorse rinnovabili. Inoltre ecologia e etica diventano elementi interni del sistema, per cui l’economia che sia efficiente deve essere organizzata anche in loro funzione, deve rispondere anche ad essi. 3) equità sociale: equità che deve essere sia intragenerazionale che intergenerazionale. Intragenerazionale vuol dire all’interno di ogni singola comunità così come tra le varie comunità di un determinato periodo storico di una determinata generazione. Intergenerazionale vuol dire un’equità sociale tra la generazione presente e le generazioni future (richiamo a Brundtland). Lo sviluppo sostenibile costituisce un obbiettivo politico importantissimo che deve esprimersi attraverso una serie di iniziative su tutte le scale: dalla scala locale sino a quella internazionale per arrivare alla scala planetaria. In effetti l’agenda 21 che è stato il prodotto più rilevante della conferenza. L’agenda 21 esamina/propone/fornisce delle prescrizioni molto precise per conseguire questo obiettivo dello sviluppo sostenibile, che deve essere tripolare: a livello economico, ambientale, sociale. Perché lo sviluppo sia davvero definibile come sostenibile deve considerare tutti questi tre ambiti: economia, ambiente società. Si chiama agenda 21 in quanto significa le cose da farsi per raggiungere l’obiettivo della sostenibilità (agenda) nel ventunesimo secolo. È un prodotto estremamente articolato ed elaborato in tutta una serie di capitoli/sezioni in modo tale che nulla venga lasciato al caso. Chi intendesse regolarsi per avviarsi sulla strada della sostenibilità ha una serie di indicazioni molto precise che propone. Un altro aspetto importante legato alle diverse conferenze che si sono alternate riguarda un tema che anche oggi e più che mai è di grande attualità: il clima. Relativamente a questo argomento citiamo l’importantissima conferenza di Kyoto e il relativo protocollo di Kyoto del 1997: trattato internazionale in materia ambientale riguardante il tema del riscaldamento globale. È stato sottoscritto nel dicembre 1997 da più di 180 paesi del mondo in occasione della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici tenutasi nella città giapponese in quell’anno. Però è un protocollo che ha incontrato tanto interesse e tanti problemi. Ce lo dimostra il fatto che è stato sottoscritto nel 1997 ma entrato in vigore solo nel 2005, dopo la ratifica anche da parte della Russia. Che cosa prevede? Prevede l’impegno da parte dei paesi industrializzati aderenti di operare una riduzione delle emissioni di gas inquinanti in una misura non inferiore al 5% rispetto alle emissioni registrate nel 1990, e questo si disse nel ‘97 che doveva avvenire in un periodo compreso tra il 2008 e il 2012. Però perché questo trattato potesse entrare in vigore si richiedeva che fosse ratificato da un numero di nazioni le quali producessero almeno il 55% delle emissioni inquinanti, condizione che è stata raggiunta solo nel 2004 con l’adesione della Russia. Tra i paesi non aderenti figurano gli USA. Quindi: c’è stata una prima stagione del protocollo tra gli anni 2005 e 2012; si è tenuta poi una seconda stagione tutt’ora in corso in seguito a una nuova conferenza a Doha che ha stabilito un secondo periodo di impegno per i paesi oltre che alla realizzazione di nuove strutture volte a trasferire tecnologie e finanziamenti per i paesi poveri. L’estensione però ha visto contraria la Russia, che voleva limiti meno vincolanti e quindi si è ritirata dall’accordo indebolendolo nel suo complesso. Capiamo quante e quali problematiche di tipo politico ed economico vengano sollevate da questi accordi che vorrebbero essere a scala planetaria. Ma il tema dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale sono così attuali che ci sono state nel tempo conferenze internazionali sul clima. Tra queste citiamo la più importante: la conferenza sul clima di Parigi del 2015 per discutere un nuovo accordo finalizzato a ridurre emissioni di gas inquinanti per rallentare il riscaldamento globale. Ha conosciuto fasi molto alterne. Ha prodotto iniziative significative, a questo accordo hanno aderito gli USA con Obama, ma due anni dopo Trump ha annunciato che gli USA non avrebbero mantenuto gli impegni previsti, si sarebbero tolti dall’accordo perché, affermò in un lunghissimo discorso tenuto alla casa bianca, che avrebbe danneggiato troppo l’economia degli USA e lo definì ingiusto: ciò crea a catena una serie di reazioni anche in altri paesi del mondo. Tra i primi punti degli impegni di Biden c’è stato quello di rientrare nell’accordo di Parigi e infatti il 19 febbraio c’è stato il reingresso degli USA nell’accordo sul clima di Parigi. Tutto ciò a dimostrazione di come problematiche importanti per la vita nostra e del pianeta rientrano inevitabilmente in più ampie questioni di tipo economico e politico. Lunedì 29 marzo Si sono tenute, oltre alle conferenze di Rio, Kyoto, Parigi, una serie di altre conferenze in anni successivi. Tra queste una delle più note è la conferenza delle Nazioni Unite Rio +10, tenutasi nel 2002 in Sudafrica a Johannesburg. Si fece il punto della situazione: ci si domandò dieci anni dopo la conferenza di Rio e la pubblicazione di Agenda 21, come andassero le cose. Si verificò che le aspettative di Rio ’92 erano state troppo ottimistiche: dieci anni dopo non si erano raggiunti tutti gli obbiettivi preposti. Allora nuovamente si ridisegnarono gli obbiettivi, si ricalibrarono le tempistiche nella prospettiva di verificare nuovamente, dieci anni dopo ancora. Nel 2012 infatti ci fu la conferenza Rio +20 a Rio de Janeiro. Conferenza che aveva un titolo significativo: The Future We Want. In questa conferenza vennero affrontate diverse problematiche significative per il raggiungimento della sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Ad esempio si affrontò il tema del lavoro, dell’energia, delle città (sviluppo urbano), dell’acqua, dei disastri legati ai cambiamenti climatici. Sono tutte problematiche estremamente attuali che segnano la nostra contemporaneità. Serge Latouche Neanche lo sviluppo sostenibile ha incontrato l’assenso da parte di tutti gli studiosi. Cioè sono state mosse delle critiche, sollevate delle perplessità. Rispetto a questo discorso citiamo Serge Latouche, uno degli avversari più noti dello sviluppo sostenibile, più in generale della occidentalizzazione del mondo, e invece un sostenitore del cosiddetto “concetto di decrescita”. In breve critica, attraverso una serie di argomentazioni sia teoriche sia empiriche, il concetto di sviluppo in sé e le nozioni di razionalità e di efficacia economica, collegate a questo concetto. Secondo Latouche queste appartengono a una visione del mondo che mette comunque al primo posto il fattore economico. Invece per lui, che usa un linguaggio piuttosto forte e provocatorio, si tratta di “fare uscire il martello economico dalla testa dell’umanità” e questo comporta anche secondo Latouche, il decolonizzare l’immaginario occidentale, che è stato colonizzato dall’economicismo sviluppista. Ritiene che lo sviluppo sostenibile sia un’espressione che suona bene ma è contraddittorio perché rappresenta un tentativo estremo di far sopravvivere lo sviluppo, cioè la crescita economica, facendo credere che da questa dipenda il benessere delle popolazioni. Egli evidenzia che i maggiori problemi ambientali e sociali sono dovuto allo sviluppo inteso come crescita, anche quello sostenibile, e a tutti i suoi sviluppi collaterali. Da qui l’urgenza di una strategia invece di decrescita incentrata sulla sobrietà, sul senso del limite, sul risparmio: solo così si può sperare di rispondere alle gravi emergenze del presente (riciclaggio, riutilizzo). È evidente che Latouche sia un nemico del consumismo, anzi allarga il suo pensiero affermando che la globalizzazione (legata al consumismo) non è altro che una creazione ideologica occidentale: di un occidente che in nome della propria identità vorrebbe imporre un imperialismo economico e culturale al resto del mondo. Anche il concetto di decrescita è stato fortemente criticato. Si afferma in particolare che l’applicabilità dei principi della decrescita non sia facile nei paesi poveri, i quali vedono invece nella crescita economica la sola possibilità di uscire dalle condizioni di povertà. È evidente come il dibattito sia ancora molto acceso. Cosa ne penserebbe Latouche del messaggio molto trasmesso in questi mesi da una importante catena di supermercati che pubblicizza la spesa intelligente, secondo cui chi più spende più risparmia? Facciamo un’estrema sintesi riguardo a quanto abbiamo visto sulla storia e sull’evoluzione della geografia dagli anni Cinquanta ad oggi. Negli anni Cinquanta si parla di nuova geografia, che aveva introdotto alcuni concetti chiave, come la regione funzionale. I geografia della rivoluzione quantitativa infatti avvertirono nella concezione classica vidaliana una eccessiva staticità. I modelli regionali da essi proposti pertanto si distinsero da quelli precedenti, infatti nacque con il funzionalismo una nuova tipologia di regione, connotata in modo molto diverso dal passato. Questa coincideva con l’area in cui si verificavano le relazioni prese in considerazione, cioè i flussi. In questo modo la regione non veniva più definita da criteri di omogeneità, per esempio i paesaggi, ma da criteri quali l’attrazione, la coesione attutiva dall’azione ordinatrice e polarizzatrice dei centri urbani (responsabili dell’erogazione e fornitura di servizi di vario livello in un’area che gravitava su essi). La regione esiste quindi in funzione dei diversi centri di attrazione e da qui trae origine la definizione di regione funzionale o polarizzata. reticolato geografico in piano, con i meridiani e i paralleli presenti sulla sfera. Questo reticolato viene costruito mediante leggi matematiche e particolari procedimenti (le proiezioni) che permettono di limitare le deformazioni o comunque di individuarle e di calcolare. È inevitabile che passando dalla tra dimensione alla bi dimensione delle deformazioni ci sono. E quindi attraverso le proiezioni queste deformazioni vengono limitate o comunque si possono calcolare. Il reticolato geografico quindi, che sulla carta può essere disegnato o sottinteso, permette di localizzare luoghi e oggetti geografici nella posizione corrispondente a quella da essi effettivamente occupata sulla Terra. Questo attraverso latitudine e longitudine: le coordinate. Tutto questo fa sì che ci sia una importante distinzione tra la cartografia e altri tipi di figurazione della superficie terrestre. Pensiamo alla fotografia panoramica, aerea, satellitare. La distinzione è che la raffigurazione della carta non è (o non vorrebbe essere) subordinata ad un punto di vista, che inevitabilmente condiziona una fotografia. A seconda del luogo da cui la foto viene scattata è inevitabile che la superficie terrestre si presenti secondo un particolare punto di vista. La qual cosa vorrebbe essere evitata dalle carte. Le carte geografiche possono essere molto diverse e di diverso tipo. Si possono classificare sulla base di due fondamentali parametri: la scala e l’argomento. Martedì 30 marzo La scala La scala può essere o numerica o grafica. Noi ci interesseremo della scala numerica, tendenzialmente la più nota e utilizzata. La scala è un rapporto tra le dimensioni indicate sulla carta e quelle reali. Esprime la realtà rappresentata sulla carta con una frazione che ha sempre per numeratore l’unità, per denominatore un numero che cambia e indica il numero per il quale si deve moltiplicare una distanza sulla carta per avere la distanza corrispondente sulla superficie terrestre. Immaginiamo che questa frazione veda al numeratore 1 e al denominatore 25.000: la leggiamo 1 fratto 25.000. In verità, trattandosi di una scala, diremo che la carta che presenta quella scala ha una scala che leggiamo 1 a 25.000. Ciò significa che la distanza di un centimetro su quella carta corrisponderà a 25.000 cm nella realtà, e via di seguito. Come conseguenza quanto più piccolo è il denominatore, tanto più precisa e ricca di particolari sarà la carta. Nel secondo esempio di 1 a 100.000, 1cm corrisponde a 100.000 cm. Nel primo esempio 1cm corrisponde solo a 25.000 cm nella realtà. Tanto che, nel corretto linguaggio cartografico, si dice che una carta in scala 1 a 50.000 è in scala doppia di un'altra carta la cui scala sia uno a 100.000, perché è doppiamente precisa. Più il denominatore è piccolo, più si dice che la scala è grande, più la carta è precisa. È ovvio che la carta più precisa in assoluto sarà quella con il denominatore più piccolo possibile, ovvero la carta 1 a 1 che per fortuna non esiste. Le carte quindi sulla base della loro scala possono essere classificate. Quindi, indichiamo questa classificazione delle carte in base alla loro scala. - Partiamo da quelli che si definiscono mappamondi o planisferi, essendo così alto il denominatore, rappresentano tutto il mondo: sono carte che vanno in scala da 1 a 100 milioni sino a 1 a 5 milioni. Cambiamo scala e passiamo alle carte geografiche generali. - Le carte geografiche generali rappresentano un continente o una parte ampia di esso: hanno scala compresa tra 1 a 5 milioni e 1 a 1 milione. - Poi abbiamo le cosiddette carte corografice (da koros ovvero regione): rappresentano stati o regioni, la loro scala è compresa tra 1 a 1 milione e 1 a 100.000. Per esempio, le carte del Touring Club italiano, che in Italia sono forse le più diffuse, appartengono a questa categoria. - Abbiamo le carte topografiche (da topos ovvero luogo) che rappresentano regioni poco estese: la loro scala varia da 1 a 100.000 a 1 a 20.000. Sono di questo tipo le carte redatte dall’IGM (Istituto Geografico Militare italiano), che ha sede a Firenze. - Poi abbiamo le mappe che di solito rappresentano delle proprietà private, comprese tra una scala da 1 a 20.000 e 1 a 5000. - Infine, abbiamo le piante delle città, che in genere rappresentano una città con quartiere, piazze, vie e hanno una scala intorno a 1 a 1000. Ma le carte geografiche possono anche essere classificate in base al tipo di oggetto o di fenomeno rappresentato o evidenziato. Stiamo parlando delle famose carte tematiche. Sono delle rappresentazioni di fenomeni visibili e non visibili, cioè anche di concezioni astratte, qualitative, quantitative; e comunque con la limitazione a un solo tema/argomento/fenomeno specifico o a pochissimi. Possono pertanto riguardare fenomeni fisici, come le carte climatiche; possono riferirsi a fatti della vita materiale o spirituale dell’uomo, come le carte demografiche, economiche, politiche. Hanno una operatività squisitamente geografica di inchiesta sul territorio. Nella loro rappresentazione il geografo sceglie un elemento o pochissimi elementi e colloca opportunamente i fenomeni che intende rappresentare. A colpo d’occhio, dal punto di vista visivo risulta chiaro il fenomeno cartografato in quella determinata parte della terra. È naturale che le carte geografiche siano molto utili e abbiano molti campi di applicazione nella ricerca, anche nell’insegnamento. Un aspetto indispensabile per una carta è che questa sia ben chiara e cioè ben leggibile, cioè non troppo densa, affinché risulti chiaro il fenomeno che il geografo vuole rappresentare dal punto di vista visivo. Oltretutto, proprio la carta ci consente attraverso l’osservazione visiva di osservare nella mente determinati fenomeni meglio/più velocemente che leggendo un testo. Una considerazione riguarda il fatto che un apporto interessante alla cartografia di tipo più tradizionale può sicuramente venire dallo studio delle relazioni tra le immagini mentali e la documentazione cartografica. Stiamo parlando delle cosiddette mental maps, le carte mentali o dello spazio vissuto, che sono quelle disegnate nella nostra mente. Dal punto di vista cartografico, ci ricollegano alla geografia della percezione. Quello che per la geografia è la geografia della percezione, per la cartografia possono ben essere le carte mentali. Essendo disegnate nella nostra mente, sono spesso incomplete, possono essere errate o distorte, elaborate insomma secondo una selezione sia quantitativa che qualitativa che deriva dalle nostre esperienze personali. Proprio per questo sono molto significative, perché in genere è in base ad esse che ci orientiamo, spazializziamo le nostre informazioni, prendiamo delle decisioni. Capiamo il ruolo e l’importanza dell’esame delle carte mentali legate allo sviluppo della geografia della percezione. Diversi geografi si sono dedicati allo studio della percezione della città, dell’immagine di una regione, cercando di usare una cartografazione derivante dalle mental maps. Per capire quanto le mental maps siano differenti a seconda del soggetto considerato facciamo un esempio. Pensiamo a quando qualcuno ci chiede un’informazione su come andare in un certo posto, o quando chiediamo a un gruppo di due o tre persone informazioni: ognuna darà indicazioni personali e diverse, perché ognuna di queste come ognuno di noi avrà in sé delle carte mentali estremamente specifiche e personali. Storia della cartografia L’idea di rappresentare in piano la posizione dei luoghi e di certi elementi topografici della superficie terrestre (coste, fiumi, città…) è sicuramente molto antica. Purtroppo, noi non siamo molto ben informati della produzione cartografica antica, neppure di quella greca e romana. Ciò in quanto molto poco ci è rimasto di documenti coevi e non molto di copie posteriori, assai parzialmente ci possono aiutare come integrazioni le notizie che si possono cogliere negli scrittori greci e latini. La cartografia era sicuramente presente nell’antichità perché l’idea di rappresentare luoghi ha una storia anche remota, ma a noi sono giunti pochi documenti originali relativi alle civiltà preistoriche e protostoriche. La carta geografica viene conservata più difficilmente dei libri e anche nelle biblioteche moderne non ha sempre trovato cure adeguate. È certo che in epoche remote alcuni popoli furono capace di disegnare seppur rozzamente rappresentazioni proto cartografiche del territorio da loro frequentato. Si tratta specialmente di popoli conducenti vita nomade o seminomade (pescatori, navigatori, cacciatori, eschimesi, tribù indiane). Ci troviamo di fronte a figurazioni graffite su pietra o anche scalfite o incise su osso, legno, scorza d’albero, dipinte su pelli o cuoio. Anche in altri paesi, alcune raffigurazioni preistoriche possono sembrare appartenere alla categoria in senso lato delle immagini cartografiche. L’asserzione di un’esistenza di una cartografia presso i popoli orientali che crearono le prime civiltà superiori non è da mettersi in dubbio. La scarsità delle effettive attestazioni induce a non fare riflessioni particolarmente approfondite. Però a pensare che probabilmente le rappresentazioni cartografiche, seppure esistenti, non avessero grandissima diffusione: qualcosa in più rispetto al pochissimo che ci è giunto sarebbe arrivato. Le figurazioni proto cartografiche antiche miravano sostanzialmente a scopi pratici. Pensiamo alle sculture in legno degli eschimesi che delineano la costa, potevano servire alla navigazione, al ritrovamento di luoghi privilegiati di caccia e di pesca. I polinesiani delle isole Marshall costruivano degli ingegnosi intrecci con le nervature delle foglie di palma che costituivano una Arriviamo quindi all’epoca medievale. Numerose sono le figurazioni cartografiche medievali originarie o in copie dal sec. VIII in avanti: ci mostrano un forte regresso rispetto ai risultati raggiunti dalla precedente cartografia greca e romana, fino allo scorcio del XIII sec, regresso già iniziato negli ultimi secoli dell’impero romano. Il maggior numero delle carte medievali anteriori al Trecento si debbono all’attività di monaci e si trovano inserite in codici che contengono opere di scrittori latini, oppure sono inserite in scritti teologici e religiosi. Gran parte delle figurazioni comprese tra gli ultimi secoli dell’impero romano e il Trecento sono mappamondi per lo più estremamente schematici e con un disegno geografico così deformato, se non addirittura proprio erroneo, che il nome di carte può anche apparire a detta di molti inappropriato. Questi mappamondi hanno un contorno circolare e i più noti sono definiti mappamondi a T. Entro una circonferenza comprendono un diametro e un raggio perpendicolari l’uno all’altro che possono richiamare in qualche modo una T. Risulta evidente la modellatura allegorica del mondo, sia perché la lettera T è l’iniziale della parola terra e sia perché richiama implicitamente l’immagine della croce. Per molti secoli si sarebbero susseguiti più o meno con questa delineazione. Abbastanza di improvviso nei primi anni del Trecento compare in Italia un nuovo tipo di carte, le carte cosiddette marine o meglio nautiche. Erano in genere delineate su pergamene e offrivano nel loro disegno una figurazione notevolmente approssimata delle linee di costa a cui si accompagnava invece spesso una fitta nomenclatura di porti/ approdi/piccole isole, in alcuni casi erano indicati scogli e bassifondi, messe in evidenza le foci fluviali. Hanno caratteristiche che le pongono in chiaro rapporto con un uso pratico della carta per la navigazione. Certamente 2 fondamentali avvenimenti per la diffusione della carta geografica e degli atlanti sarebbero stati l’arte di fabbricazione della carta (introdotta in occidente nel XII secolo e diffusa in tutta Europa nel XIII e XIV sec.) e la diffusione della stampa a caratteri mobili che sarebbe avvenuta nel tardo Umanesimo e attribuita al tipografo tedesco Guthemberg. Grazie a ciò la diffusione delle carte ha un notevolissimo impulso. In effetti, il Cinquecento viene considerato un po’ il secolo d’oro per la cartografia e l’abbondante produzione a stampa, anche se non mancava ancora per un po’ quella manoscritta. Le carte geografiche nel XVI secolo divennero oggetto di un intenso commercio internazionale. Si cominciarono in questo periodo rilevamenti topografici regolari, si elaborarono molte carte dei paesi europei e di regioni minori avvalendosi di materiali svariati, che i geografi di diverse nazionalità si comunicavano e scambiavano tra loro. Compaiono numerosi atlanti, carte regionali. Quindi la cartografia italiana conobbe un periodo di fama, mantiene in questo secolo il primo piano e si sarebbe allo stesso tempo sviluppata la cartografia germanica e un po’ più tardi quella fiammingo-olandese. Questo in coincidenza con il fiorire nei Paesi Bassi della marineria e del commercio coloniale e internazionale. Molto vivo risultò l’interesse del pubblico per le narrazioni dei grandi viaggi e anche per le carte geografiche stesse, le quali divennero molto apprezzate nel 500 come oggetti decorativi, al pari dei globi, i quali a loro volta vennero costruiti in gran numero e talvolta in dimensione notevole. Erano spesso coppie di globi: il globo terrestre e il globo celeste, che raffigurava la sfera celeste con le sue costellazioni. Anche le carte a stampa diventano di piacevolissima visione: contengono figure varie, stemmi, eleganti cartigli situati agli angoli o nell’incorniciatura, spesso la stampa veniva acquarellata con colori piacevoli. Come elemento decorativo compaiono in questo periodo in pitture murali. Sono famose quelle della galleria del Belvedere, chiamata anche delle carte geografiche, in Vaticano, eseguite nella seconda metà del 500 sotto la direzione di importanti cartografi italiani. Nella seconda metà di questo secolo tutti gli stati italiani cominciarono a dotarsi di una cartografia ufficiale, sotto lo stimolo di necessità militari, legati a lavori per la regolazione delle acque. A questo sviluppo della geografia nel suo secolo d’oro, il 500, seguì invece nel Seicento una sicuramente abbondante produzione di carte e di atlanti a cui però non corrispose un sostanziale progresso scientifico generale. Nel Seicento vennero spesso ripetuti i modelli precedenti con al limite qualche piccolissimo aggiornamento o minima correzione. In epoca barocca i cartografi sembrano più attenti ad arricchire i loro prodotti con vistosi cartigli, disegni, accessori invece di applicarsi a delle nuove elaborazioni scientifiche. Il Settecento vede un notevole sviluppo della cartografia cominciando da una sempre più esatta definizione della forma e della grandezza della terra. Questo fu merito, tra gli altri, delle celebri misure di grado compiute dai francesi su iniziativa dell’accademia delle scienze di Francia. Determinazioni di tipo astronomico delle coordinate geografiche e delle estese triangolazioni avrebbero dato vita nel 700 alla geodesia: disciplina appartenente alle scienze della terra che si occupa dello studio della forma e delle dimensioni della terra stessa (geoide). Sempre nel corso del 700 progredì anche la rappresentazione del rilievo, che fino a quel momento non aveva destato particolare interesse. Continuano i grandi viaggi, ricordiamo quelli compiuti in Oceania da James Kook alla fine del 700 che rivelarono il mondo insulare dell’Oceano Pacifico. I progressi conseguiti nei procedimenti geodetici e topografici avrebbero trovato assolutamente il loro pieno sviluppo nel secolo successivo, nell’Ottocento quando più o meno tutti gli stati europei o molti stati sorti dalla colonizzazione europea si fornirono di buoni carte topografiche, anche gli USA. Si cominciò a impiantare una regolare cartografazione dei territori coloniali. Importanti i rilevamenti compiuti dagli inglesi in India, che più o meno senza eccezione vennero compiuti da enti di stato o per lo più da enti di tipo militare. Siamo giunti alla cartografia del Novecento, che ha conosciuto veramente sviluppi molto veloci che ci portano al presente. Mercoledì 31 marzo La cartografia contemporanea Nel XX secolo la cartografia avrebbe presentato diverse innovazioni, delle quali si ricordano il rilevamento topografico con il cosiddetto metodo aerofotogrammetrico: fotografie fatte da aereo. Un altro importante sviluppo sarebbe stato l’uso larghissimo della cartografia tematica. Importante anche il progresso della cartografia dei territori coloniali, la cooperazione internazionale, e l’utilizzo dell’automazione: la costruzione di carte con l’ausilio di apparecchiature elettroniche. Ma non è da dimenticare la nascita della cosiddetta cartografia planetaria: le carte che già ormai possediamo e che vanno sempre più raffinate, della Luna e di Marte. La cooperazione internazionale è significativamente indicata dall’interesse dell’ONU che ha istituito un suo dipartimento cartografico. Ricordiamo anche la fondazione dell’Associazione Internazionale di Cartografia che festeggia i 60 anni, perché è stata fondata nel 1961. Questa ha promosso e tiene periodicamente dei congressi. La cooperazione internazionale è stata anche molto utile e sollecita nella creazione di una carta batimetrica degli oceani e dei mari. Sappiamo che la batimetria è quella branca dell’oceanografia che si occupa della misura delle profondità, della rappresentazione grafica e dello studio morfologico dei fondali marini. Cartografia che ha fatto rapidi progressi ad esempio con l’invenzione dello scandaglio acustico, che ha perfezionato e accelerato enormemente la misura delle profondità e consente il tracciato diretto e continuo dei profili del fondo. Inoltre, alla cartografia dei territori difficilmente accessibili o desertici, importante è stato l’uso dell’aerofotogrammetria che ha apportato enormi progressi, ma anche molto interessante l’ausilio offerto dalle fotografie da satellite. E non dimentichiamo oggi l’utilizzo dei droni. È rimasta quasi totalmente in mano all’editoria privata la produzione di carte turistiche o anche di carte ad uso didattico. Non dimentichiamo quindi il grandissimo sviluppo che nel secolo scorso le carte tematiche hanno conosciuto. Carte dedicate alla visualizzazione, all’illustrazione di innumerevoli aspetti sia di geografia fisica sia di geografia umana (aspetti sociali, culturali). Qualche parola in più è da dedicare alla cartografia contemporanea dell’automazione. Sono in uso e si vanno raffinando e diffondendo delle apparecchiature elettroniche per il cosiddetto disegno automatico delle carte. Apparecchiature che utilizzano i computer, all’interno dei quali vengono introdotti dati e programmi specifici. I progressi che si sono tenuti nella cartografia con l’utilizzo dei computer si rivolgono sicuramente al disegno delle carte geografiche, ma anche all’elaborazione dei dati, e in questo caso l’utilizzo dei computer è particolarmente vantaggioso. In generale l’automazione cartografica passa attraverso la digitalizzazione delle informazioni, anche i toponimi vengono numerizzati e accade che il computer in connessione con particolari strumentazioni può condurre direttamente al disegno della carta, può anche eseguire operazioni altrimenti e precedentemente molto difficili. Pensiamo al cambiamento di proiezione di una carta, o il cambiamento di scala, o il cambiamento di simbologia. Naturalmente occorre una idonea identificazione che indichi la forma dell’elemento grafico, lo spessore del tratto, l’intensità del colore, ecc. Si tratta di esprimere in forma matematica delle norme cartografiche che già erano applicate con i metodi tradizionali. Da citare anche Google Maps. Siamo arrivati a questo servizio accessibile dal relativo sito web, che consente la ricerca e la visualizzazione di carte geografiche di buona parte del nostro Pianeta. È anche possibile trovare percorsi stradali e visualizzare foto satellitari con diversi gradi di dettaglio. Si possono anche distinguere case e strade. Ultima considerazione per ricordare i cosiddetti GIS: Geographic Information System. Cioè un sistema informativo computerizzato che permette l’acquisizione e la visualizzazione di informazioni che derivano da dati geografici georiferiti. È composto da un insieme di software che studio e nelle sue tante branche. Come prima cosa ricordiamo come la geografia sia definita scienza bifronte, per il fatto di avere questi due volti, uno rivolto alle scienze “dure” (geografia fisica) e l’altro rivolto alle scienze umane, sociali (geografia umana). Quindi è una ripartizione questa, che va sicuramente fatta, però è da sottolineare che in una prospettiva che sia rigorosamente scientifica, si deve assolutamente rifiutare una discriminazione netta tra fenomeni e processi di origine naturale e fenomeni e processi di origine umana. Non è infatti possibile separare in modo gratuito realtà che sono quasi sempre profondamente in comunicazione tra loro, e in un necessario e costante dialogo. Però detto questo, utilizzeremo questa ripartizione tra geografia fisica e umana, e all’interno di ciascuna di queste individueremo altre ripartizioni. Questo senza aderire a una apparentemente esistente dicotomia concettuale, ma solo a fini pratici, affinchè la ricchezza della geografia ci permetta di chiarire i vari ambiti di studio. Geografia fisica Uno degli argomenti più interessanti e più praticati dai geografi fisici è costituito dai fenomeni carsici. Sono numerosi gli studiosi sia italiani sia internazionali che si soffermano su questo argomento, e ce le dimostrano i numerosi contribuiti. Il carsismo indica l’attività chimica esercitata dall’acqua su rocce calcaree e gessose ad opera delle precipitazioni, rese leggermente acide dall’anidride carbonica presente nell’atmosfera. La parola carsismo ha origine dal nome della regione dove inizialmente questo fenomeno è stato studiato: il Carso triestino. Questo si sviluppa principalmente a seguito della corrosione della disgregazione delle rocce. Con il passare del tempo la pioggia buca la roccia e si insinua sempre più nelle sue spaccature, facendovi scivolare anche la terra. Dissolvendosi le rocce calcaree danno luogo a fenomeni caratteristici sia all’esterno che nel sottosuolo. Infatti il paesaggio carsico generalmente è privo di una rete idrografica superficiale, cioè è piuttosto vedere dei fiumi o laghi. Invece semmai presenta distese pietrose, solchi, doline (particolari forme di avvallamento) ma presenta anche voragini, grotte. Però questo non vuol dire che non sia presente un’idrografia, perché i fiumi molto spesso scompaiono dalla superficie e sprofondando nel sottosuolo dove possono scorrere anche per chilometri. Un’altra conseguenza sta nel fatto che il gocciolio dell’acqua che penetra nel sottosuolo, spesso crea delle caratteristiche strutture calcaree tra cui le ben note stalattiti e stalagmiti. In Italia ci sono molti esempi noti di questo fenomeno, per esempio le Grotte di Castellana nelle Murge, oppure il complesso carsico delle Alpi Apuane. Ma importanti fenomeni di carsismo si manifestano anche altrove nel mondo, dall’Austria alla Germania, sia in altri continenti. I geografi fisici si occupano anche di altri studi, quali l’evoluzione dei versanti o le variazioni dei litorali. Sappiamo che questi sono fenomeni anche molto rilevanti e interessano anche l’Italia. Però certamente uno degli argomenti che vengono più trattati è lo studio dei ghiacci, la glaciologia. I ghiacciai e il clima formano un binomio strettamente connesso. È infatti chiara la dipendenza dei ghiacciai dal clima e contemporaneamente risulta evidente il loro valore di segnalatori delle variazioni climatiche. Infatti i ghiacciai contengono una delle migliori documentazioni della storia dell’atmosfera nel recente passato geologico. Stiamo parlando dei ghiacciai polari e di quelli che si trovano sulle vette più elevate, i ghiacciai permanenti. In questi tipi di ghiacciai, la neve si deposita anno dopo anno e conserva molti degli originali elementi chimici e fisici acquisiti dalle condizioni e dai caratteri delle masse d’aria in cui si è cristallizzata. Quindi abbiamo un meccanismo naturale di sequestro di campioni d’aria sotto forma di “bolle gassose occluse”: i ghiacciai polari che conservano una diretta memoria delle condizioni atmosferiche, climatiche, ambientali del passato. Quindi vengono estratti dei campioni attraverso le “perforazioni a carotaggio”, cioè le famose carote di ghiaccio. Da questi campioni noi possiamo reperire dati in successione teoricamente continua, proprio sulle variazioni del passato, incluse quelle della concentrazione di alcuni gas serra. Si pensi che con le carote di ghiaccio si può scendere sino a profondità di 3000 metri, e più a fondo si va più possiamo risalire a dati relativi a tempi remoti, cioè al clima di alcune decide di migliaia di anni fa. Infatti per esempio possiamo risalire alla temperatura media annua sul sito in cui viene fatta la perforazione, possiamo risalire all’accumulo annuo di neve, si può fare una serie di analisi chimiche che consentono di ottenere informazioni sul carico chimico presente in atmosfera nel passato (compreso quello dovuto alle eruzioni vulcaniche), alla concentrazione del pulviscolo, alla provenienza di questo. Recentemente si sono identificate polveri di origine cosmica. Utilizzando queste e altre informazioni si possono ricostruire le traiettorie delle perturbazioni, le variazioni di quota della superficie della calotta glaciale, per non parlare del fatto che a causa del riscaldamento climatico molti ghiacciai si stanno sciogliendo, e anche questo è causa e fonte di studi. Questa immagine è relativa alle Grotte di Frasassi ad Ancona, esempio tipico di un paesaggio carsico sotterraneo con la presenza di stalattiti e stalagmiti. Questa rappresenta una carota di ghiaccio. È una sorta di campione cilindrico che può avere dimensioni, che si mette nel ghiaccio, da cui poi si estrae e si possono allora studiare i campioni che vengono estratti. Lunedì 12 aprile Anche i climatologi sono geografi fisici. Il clima, secondo la definizione adottata dall’Organizzazione Metereologica Mondiale, è la sintesi delle condizioni meteorologiche che regnano in una porzione della superficie terrestre per un periodo di tempo lungo abbastanza da consentire di stabilire delle proprietà statistiche. Sono diversi i fattori che concorrono nel determinare un determinato tipo di clima. Fondamentalmente si riconoscono due principali famiglie di fattori: i fattori di natura astronomica e i fattori di natura geografica. Tra i più noti fattori di natura astronomica ci sono la latitudine e il movimento di rotazione e di rivoluzione della Terra. Tra i fattori di natura geografica si ricordano la distribuzione delle terre e dei mari; la presenza dei rilievi; le caratteristiche dei suoli e l’intervento dell’uomo. Data l’estrema complessità dei fenomeni climatici, nel tempo sono state proposte dai climatologi diverse ipotesi di classificazioni dei vari climi terrestri. Ciascuna di queste prende le mosse da determinati presupposti, ma tutte si propongono lo stesso fine: quello di ridurre i numerosissimi climi locali presenti sul pianeta, a un numero relativamente esiguo ma pur sempre esaustivo di classi climatiche. Bisogna però tenere presente il fatto che i limiti tra una classe climatica e l’altra non risultano evidenti, netti. Questo perché le differenti regioni climatiche si compenetrano, sfumano l’una nell’altra, non hanno linee di demarcazione. Per regione climatica si intende quella porzione della superficie terrestre, all’interno della quale le caratteristiche del clima sono uniformi. Però dobbiamo fare una precisazione: le regioni climatiche con caratteristiche analoghe si possono anche trovare in parti del pianeta che si possono trovare anche lontane tra loro, anche se generalmente alle medesime latitudini. Per esempio il clima mediterraneo caratterizza le coste del bacino mediterraneo, ma si può ritrovare anche sulle coste della California, dell’Australia sud- occidentale. C’è una classificazione in particolare che, per essere molto precisa ma anche molto sintetica, viene utilizzata da tanto tempo. È certamente datata ma per le sue caratteristiche di chiarezza e sintesi viene usata ancora oggi. È la cosiddetta classificazione di Koppen. Wladimir Koppen è un climatologo russo di origine tedesca, che ha lavorato a questa classificazione per quasi tutta la vita, tra il 1884 e il 1936. Egli si riferisce fondamentalmente a due valori numerici: quello delle temperature e quello delle precipitazioni. Questo ha consentito di esprimere le caratteristiche salienti di un tipo climatico anche grazie all’elaborazioni dei grafici termopluviometrici. Questo sistema distingue cinque principali classi climatiche, contrassegnate da una lettera maiuscola, dalla A alla E. A) Climi megatermici umidi: ne fanno parte quello equatoriale, quello monsonico, quello tropicale; B) Climi aridi: ne fanno parte quello arido-caldo e quello arido-freddo; C) Climi mesotermici umidi: ne fanno parte quello mediterraneo e quello temperato-oceanico; D) Climi microtermici: ne fa parte il clima continentale; E) Climi polari o nivali: ne fanno parte quelli della tundra e del gelo perenne. Quello delle cause delle variazioni climatiche è un tema importante e attuale. Generalmente le variazioni climatiche di lunga durata dipendono dai cicli glaciali e interglaciali. Le variazioni di medio o breve periodo, che possono dipendere da una serie di cause, anche diverse tra loro. Tra le principali ci sono i fattori astronomici (le variazioni dell’emissione solare determinate dalla presenza delle macchie solari); i grandi moti oceanici; i grandi moti atmosferici (i venti); i fattori geologici (l’attività vulcanica) e l’umanità. È noto come le grandi correnti marine rappresentino un fattore essenziale nella distribuzione del calore e dell’umidità su tutta la superficie terrestre. Gli oceani trasportano oltre metà del flusso globale di calore che viaggia fra l’equatore e i poli. È chiaro come queste abbiano un ruolo fondamentale come fattori climatici. Ne consegue che le variazioni della loro energia interna rappresentano delle cause molto importanti nei mutamenti di temperatura diversa nei centri delle grandi metropoli, a causa dell’uso dei riscaldamenti. La temperatura media, sovrastante i grandi agglomerati urbani nei periodi invernali, è di 4 o 5 gradi superiore a quella delle periferie. Si chiama fenomeno dell’isola di calore. È evidente come sia fondamentale la previsione di quello che potrà accadere in futuro. Martedì 13 aprile Le previsioni di ciò che potrebbe accadere in futuro presentano aspetti di grande complessità. Il primo passo consiste nel riuscire a prevedere come evolveranno le emissioni. Le emissioni, come è facilmente comprensibile, dipendono sia da fattori socioeconomici: quantità di popolazioni, sviluppo dell’economia di quella data popolazione, aspetti tecnologici che contribuiscono a determinare le emissioni (misure di risparmio energetico, uso di energie/combustibili alternativi). Le emissioni si ripercuotono sulle concentrazioni nell’atmosfera, anche se il legame tra ciò che viene emesso e ciò che si accumula nell’atmosfera, ovvero i materiali inquinanti, è sicuramente assodato ma non è semplice relativamente alla quantità di materiale inquinante che viene accumulato effettivamente nell’atmosfera. Bisogna ricorrere per capirlo a opportuni modelli matematici che sono stati elaborati, ma che sono tutt’ora in corso di aggiornamento. Quindi ci sono dei limiti che fanno sì che gli scenari di cambiamento climatico, che la comunità scientifica dei climatologi è attualmente in grado di produrre per il futuro, siano ancora scenari tutto sommato legati ancora ad incertezza. Un’incertezza frutto della nostra ancora parziale capacità di comprendere e di descrivere il sistema climatico. Questo giustifica una certa prudenza da parte degli esperti nel fare previsioni per il futuro, e spiega la ragione per cui vari climatologi e ricercatori in genere, invitano a non trarre delle conclusioni affrettate in merito ai cambiamenti climatici di natura antropica. Però dobbiamo con forza affermare che, anche se le attuali conoscenze scientifiche non sono in grado di fornire stime quantitative del tutto chiare/affidabili per il futuro, esse sono però più che sufficienti nel giustificare una profonda preoccupazione, e nell’indurre ad agire con decisione, con concretezza, con tempestività; mettendo in atto tutta una pluralità di interventi che siano volti a ridurre in modo significativo le emissioni dei gas serra. È uno sforzo che richiede l’intervento di tutti i governi, di tutti gli stati: un intervento volto molto anche alla ricerca, all’utilizzo di risorse rinnovabili, di tecnologie nuove; tutto questo riguarda il presente e l’immediato futuro. Ieri sera su rai 1 c’è stata un’interessante puntata di Sette Storie: è una puntata sul tema della sostenibilità ambientale, dell’inquinamento, dei cambiamenti climatici, dei cospicui investimenti fatti dai vari governi per la ricerca in questo settore, programmati. Inoltre, nel corso della puntata, è stato intervistato anche Roberto Cingolani (un fisico), che è il ministro della transizione ecologica. Questo è un ministero appena istituito dal Governo italiano, quest’anno, come successore del ministero dell’ambiente, a questo sono state attribuite delle funzioni anche in materia energetica. Possiamo considerare concluso il discorso relativo alla climatologia, e quindi concludiamo in questo modo la presentazione su alcuni dei temi toccati dai geografi fisici. Passiamo a qualche considerazione ed esempio relativo alla geografia umana. La geografia umana In particolare esaminiamo la geografia urbana, che all’interno della geografia umana costituisce una branca di assoluta rilevanza. Uno dei filoni più cospicui nelle ricerche della geografia umana è per tradizione costituito dallo studio della geografia delle sedi umane. In verità è un termine ormai un po’ obsoleto, non si parla più di geografia delle sedi. Però se vogliamo dal punto di vista della tradizione degli studi geografici risalire un po’ alle origini dell’importanza dello studio della geografia urbana dobbiamo fare riferimento a questa. La geografia delle sedi umane si è occupata della geografia degli insediamenti rurali e della geografia urbana. La geografia degli insediamenti rurali ha studiato, e continua a farlo, le dimore rurali: vengono esaminati per esempio i tipi architettonici presenti in queste dimore nelle campagne, i tipi di materiali che sono stati utilizzati per costruirli, la distribuzione degli insediamenti rurali. Tutto questo facendo riferimento alle funzioni delle case rurali in rapporto con le diverse strutture agrarie. Però un fenomeno di assoluto rilievo, soprattutto nei decenni più vicini a noi, ha assunto il cosiddetto fenomeno urbano, e la geografia urbana costituisce uno dei settori di ricerca più cospicui e appassionanti specialmente nel periodo post bellico, ossia da quando il fenomeno urbano ha assunto particolare evidenza. Il filone della geografia urbana si articola in una varietà di sotto temi tutti di estremo interesse. In primo luogo, numerosi sono stati gli scritti che si propongono un’indagine teorica sull’origine ma anche sul significato stesso del termine ‘città’, nel tentativo di giungere a una definizione sufficientemente valida, di giungere ad una classificazione dei diversi tipi di città. Il fenomeno urbano è così complesso che, anche in termini teorici, lo stesso significato della parola ‘città’ non ha visto e non vede concordi tutti gli studiosi. La definizione di città è una definizione che deve comprendere tutta una serie di elementi per cui noi possiamo trovare definizioni anche diverse del significato della ‘città’. Per questa ragione, ne proponiamo una. È una definizione datata, così ben costruita e precisa e anche oggi a distanza di molti decenni da quando è stata proposta ha un valore assolutamente esemplificativo e molto utile, seppure un po’ obsoleta ancora oggi la possiamo sicuramente ben applicare. È stata formulata da un geografo italiano, il professor Cesare Saibene, che ha ricoperto la cattedra di geografia alla Cattolica. Risale al 1967, è un po’ obsoleta. Leggiamola e discutiamone i diversi aspetti che ci indica, perché in quanto decisamente completa è anche elaborata. Ci dice: “la città è un lembo di territorio occupato da edifici alternati a spazi per la circolazione e i servizi dove è insediato un aggregato cospicuo, compatto e durevole di popolazione dedita prevalentemente ad attività del secondo e del terzo settore, e pertanto socialmente molto frazionata e stratificata che esplica funzioni di: orientamento, di coordinamento e di direzione delle vocazioni culturali, politiche, economiche e sociali degli abitanti di una plaga (un intorno) più o meno vasta esterna all’agglomerato stesso”. Tutto quello che noi diremo sulla città e sulla geografia urbana in qualche modo ricalca queste parole. Riprendendo quanto ci dice, ovviamente la città per essere definito un insediamento urbano, deve occupare un certo spazio di territorio, con edifici che siano alternati a strade per la circolazione e per i servizi. In questo insediamento deve vivere, perché si possa parlare di città e non di paese, un certo numero di abitanti deve dedicarsi prevalentemente ad attività del secondo e terzo settore. Nell’ambito dell’economia il secondo settore è l’industria, il terzo settore sono i servizi. Gli abitanti di una città prevalentemente si dedicano a ciò, per questa ragione dal punto di vista sociale si presentano molto diversificati, stratificati, frazionati. Questi abitanti esplicano delle funzioni di vario tipo: coordinamento, orientamento, direzione di tutte quelle vocazioni a loro volta di vario tipo degli abitanti della città stessa ma anche di un intorno più o meno vasto che su questa città gravita. Un numero nutrito di scritti relativi alla geografia urbana si propone di analizzare il territorio della città tentando di scoprire quali siano le funzioni esercitate dalla città e anche di analizzare quale sia l’assetto che la stessa città si è dato. Per esempio esaminando i problemi che sono sorti e sorgono da uno spesso incontrollato sviluppo urbano: congestione del traffico, inquinamento sia dell’aria ma anche acustico. Altri problemi possono essere di altro tipo, per esempio relativi all’aumento vertiginoso dei prezzi degli alloggi e delle aree edificabili in genere, l’esaurimento delle disponibilità idriche, di grande importanza l’acqua potabile per una grande metropoli, cosa non scontata, o ancora il problema legato agli spazi verdi. Molti geografi urbani si sono dedicati allo studio delle funzioni urbane e alle problematiche sorte in seguito al grande sviluppo delle città. Un posto ovviamente sempre più rilevante ha assunto, tra le attività degli abitanti delle città di cui Saibene ci parlava, il settore terziario, e stanno assumendo anche le attività del cosiddetto quaternario o quinario. Limitiamoci per semplificare a dire terziario o più in generale terziario avanzato. In una prospettiva dinamica, l’esame delle attività più sviluppate dei centri urbani, ci porta sicuramente ad affermare che mano a mano che si sono sviluppate le città nelle loro funzioni e dimensioni, si è manifestato un duplice fenomeno, contemporaneo. - Il primo di tipo centripeto, ovvero di progressiva terziarizzazione del centro urbano. Nei centri urbani delle grandi città spesso sono e continuano a farlo confluite le attività del terziario e del terziario avanzato: pensiamo alle grandi banche, alle sedi di enti anche internazionali. - Il secondo di tipo centrifugo, di espulsione delle funzioni industriali del secondo settore, le grandi industrie in una prima fase proprio nei centri cittadini, di particolari settori che vengono invece lentamente ma costantemente allontanati dalla città e confinati eventualmente ai suoi margini se non in posti più lontani. Capiamo quali e quanti sono gli argomenti di studio della geografia urbana. Un altro aspetto peculiare della ricerca di geografia urbana è rappresentato anche proprio dall’esame del fenomeno della mobilità urbana, che ormai non coinvolge più soltanto la città, ma anche l’esterno, quella zona che gravità sulla città stessa per tutta una serie di funzioni. L’attenzione degli studiosi è stata legata all’esame di questi aspetti legati alla mobilità, aspetti che, lo possiamo immaginare, pongono sempre nuovi problemi, nell’ambito della regione urbana in senso lato, nel riassetto delle periferie urbane; ma nella stessa organizzazione della mobilità urbana interna e esterna della città che deve assolutamente assicurare una fluidità costante della mobilità. Questo per permettere alla città di svolgere le sue funzioni. Se non ci fosse la fluidità della mobilità urbana ci sarebbe il rischio di una paralisi dell’apparato produttivo, da cui argomenti di studio di interesse sono per esempio quelli relativi alla ripartizione dei vari quartieri, alla sistemazione della rete stradale, all’articolazione di tutti i flussi di traffico: su ruota, su rotaia, ma anche di superficie o sotterraneo (metropolitana); quindi tutta una serie di problemi legati alla pendolarità del lavoro che riguarda le grandi metropoli, che può derivare da questioni di lavoro/studio/divertimento che va molto ben organizzata. Altri problemi riguardano la disponibilità di aree verdi, che soprattutto per le città italiane è sempre stato un problema. O soprattutto la disponibilità di attrezzature sportive, la grande sfida della ristrutturazione dei centri storici. Quindi abbiamo tutta una serie di Abbiamo il caso di Milano con classica pianta radiocentrica. Molto caratteristiche sono le cerche, le circonvallazioni, che sempre più allargate verso l’esterno riproducono questo disegno circolare. Un altro discorso estremamente importante legato alle città è quello che riguarda le funzioni delle città. Ogni città esercita una o più funzioni che ne caratterizzano la stessa esistenza. Tra le diverse funzioni urbane sono di sicuro particolarmente significative le funzioni economiche, sociali e le cosiddette di irradiamento, che tra loro spesso interferiscono reciprocamente. - Le funzioni economiche sono dirette ad accrescere i beni disponibili. Attraverso lo sviluppo dell’industria/del commercio/degli investimenti si produce plusvalore e si esercita un’azione economica anche sul territorio circostante. - Le funzioni sociali sono naturalmente connesse a quelle precedenti e riguardano i servizi collettivi, destinati alla società/collettività: strutture scolastiche, sanitarie, della pubblica amministrazione. - Le funzioni di irradiamento sono destinate sia alla popolazione cittadina sia alle popolazioni esterne e riguardano le relazioni materiali cosiddette (condizioni di accessibilità, mezzi di trasporto urbano ecc.) sia anche le relazioni culturali, cioè l’offerta di cultura che la città irradia verso l’esterno (giornali, manifestazioni culturali, spettacoli ecc.). Stiamo parlando delle diverse funzioni che la città esercita, spesso interconnesse, queste sono le significative. Può capitare che una città abbia una sua funzione dominante e questa funzione dominante può essere colta dall’occupazione prevalente degli abitanti di quella data città. A questo punto di possono distinguere città che sono connotate da una determinata funzione. Ad esempio si possono distinguere poli commerciali. Pensiamo ai grandi porti di Rotterdam, New York. Possiamo individuare centri fondamentalmente destinati sin dalle origini a funzioni politico- amministrative. Ricordiamo capitali come Washington, Brasilia, Canberra: sono tutte città nate per essere proprio capitali di stato. Possiamo individuare città religiose, come Gerusalemme, Lourdes, La Mecca. Ci sono anche centri universitari: Cambridge, Heidelberg. Abbiamo anche località turistiche, sia climatiche sia città d’arte, e qui gli esempi di città italiane sono in entrambi i casi innumerevoli. Concludiamo ricordando come la crescente importanza assunta dalle città dell’organizzazione dei territori antropizzati ha favorito lo studio e l’interesse dei geografi urbani nei confronti di quella che si chiama la rete urbana di un paese. La rete urbana di uno stato è l’insieme dei centri urbani di quel determinato stato. Pensiamo all’Europa: abbiamo l’esempio di stati in cui domina certamente un polo urbano. L’esempio più eclatante è quello di Parigi; oppure stati in cui abbiamo una sorta di bipolarismo urbano. Sempre in Europa molto evidenti esempi di questo tipo sono l’Italia con Milano e Roma e la Spagna, con la presenza di Madrid e Barcellona. Mercoledì 14 aprile La conurbazione indica un insieme di due o più città vicine, che si sono dilatate fino a saldarsi. Le conurbazioni possono fondere i loro nomi, un esempio tipo è Massa Carrara, o assumere un nuovo nome, come Oneglia e Porto Maurizio che hanno formato Imperia. La veloce crescita urbana dei nostri tempi ha anche portato alla creazione di conurbazioni così vaste da occupare un’intera regione. È questa la cosiddetta regione urbana o urbanizzata o regione città. Un esempio ne è la Ruhr, costituita da una settantina di città, addensate in circa 8000 km2. C’è una manifestazione ancora più estesa di conurbazione: la megalopoli. Una vastissima regione urbanizzata, dove si concentrano una grande quantità di città, abitanti e attività. Col termine megalopolis è stata indicata per la prima volta nel 1961 dal geografo Gottman un’area che si allunga per circa 650 km da nord a sud, lungo la costa atlantica americana. Questa è la cosiddetta megalopoli Bo-Wash che comprende città che da Boston arrivano a Washington (New York, Philadelphia, Baltimora). Qui, addensati su circa 125mila km2, vivono oggi oltre 50milioni di abitanti (quasi un sesto del totale della popolazione statunitense). Altre megalopoli sono state individuate nel mondo: la più nota è quella giapponese, che ingloba da Tokyo a Yokoama, a Nagoya, a Osaka, a Kyoto a Kobe. Gli addensamenti sono arrivate anche sul mare, costruiti su piattaforme per mancanza di terreno su cui costruire. Oltre a queste due gli studiosi hanno individuato altre megalopoli, non sempre con caratteristiche davvero simili a quelle precedentemente citate. Verso la fine degli anni Settanta si è voluta individuare la Megalopoli Padana, un’immensa regione che parte da Torino giunge a Trieste. Per la verità la situazione è diversa rispetto a quella giapponese, però per ragioni di correttezza rispetto agli studi compiuti è un esempio da citare. Addirittura secondo alcuni il progressivo sviluppo delle conurbazioni potrebbe portare alla costituzione delle “eperopoli”: gigantesche formazioni urbane con anche un miliardo di abitanti. Questo discorso quasi fantascientifico viene esasperato con l’affermazione che il prodotto finale potrebbe essere la “ecumenopoli”: la quasi completa urbanizzazione della superficie terrestre, e di parte degli oceani. Un aspetto importante è legato al termine megalopoli. Questa, per essere tale, deve essere costituita da almeno due se non più città insieme. quando sentiamo o leggiamo “la grande megalopoli londinese” non è corretto, perché parliamo di metropoli. Tokyo è una grandissima metropoli che fa parte di una megalopoli. L’urbanesimo indica la concentrazione della popolazione nelle città. Un fenomeno che in epoca moderna si è sviluppato in Europa con la rivoluzione industriale, e poi si è esteso in altri continenti. All’inizio del 900 la popolazione urbana era pari a circa il 15% della popolazione mondiale. Nel 1950 la percentuale era raddoppiata al 30%. Solo trent’anni dopo, nel 1980, la percentuale aveva raggiunto il 40% e nel 2008 per la prima volta la popolazione urbana ha superato quella rurale. Quali sono le cause? Sicuramente il desiderio degli abitanti delle campagne di abbandonare un ambiente arretrato e statico, cercando in città una vita più soddisfacente e un’attività più remunerativa. Il fenomeno è stato favorito dalla meccanizzazione nelle aree agricole, che ha prodotto una riduzione del numero dei posti di lavoro nelle campagne. Questo esodo ha inevitabilmente creato notevoli problemi sia nelle città sia nelle campagne. Queste ultime si sono andate spopolando, hanno perso in particolare gli abitanti più giovani. Questo ha portato a una sottoutilizzazione dei campi, in alcuni casi a un degrado. Per altro le città si sono trovate ad affrontare gravi problemi economici e sociali derivanti dal forte afflusso di persone. È opportuno fare una precisazione: negli ultimi decenni l’urbanesimo interessa in maniera diversa il nord rispetto al sud del mondo. Nei paesi del nord l’urbanesimo ha subito un rallentamento, o un assestamento: le maggiori città vedono restare stazionario il numero di abitanti, se non diminuire. È il caso di Milano. È il fenomeno della contro-urbanizzazione. Le città medio-piccole conoscono ancora una certa crescita. Quali sono le ragioni? I costi sempre più elevati degli immobili nelle grandi città; il desiderio di molti di abbandonare la congestione della vita metropolitana: si preferiscono località più salubri, meno care, utilizzando per il lavoro le funzioni e i servizi offerti dalle grandi città. Da qui il pendolarismo legato al problema della mobilità. Nei paesi del sud le più importanti metropoli continuano a gonfiarsi, spesso in modo caotico e incontrollato. Folle di contadini lasciano le campagne e si riversano in misere bidonville, quartieri di baracche, cercando lavori magari occasionali o qualunque mezzo di sopravvivenza. Anche molto distanti tra loro (Mumbai, Nairobi, Città del Messico) immense e degradate periferie sono abitate da emarginati, disoccupati, sottoccupati, costituendo un serio problema umano e sociale. I tassi di concentrazione di popolazione urbana sono alti in Europa: in Francia e Gran Bretagna, circa l’80% della popolazione vive in città. In Italia circa il 70%. La stessa percentuale c’è anche nei paesi nuovi a popolamento europeo: gli USA, il Canada, l’Australia, con circa il 75/80%. Altro caso è il Giappone, intorno all’80%. Questo vigoroso e caotico slancio verso l’urbanesimo ha innalzato anche la percentuale di cittadini in termini eccezionali in paesi dell’America latina. In Argentina, Messico, Brasile siamo introno al 75%. Mediamente basso o molto basso, nonostante l’afflusso alle bidonville, resta il tasso di concentrazione in stati dell’Africa e Asia come Kenya, Nigeria, India, intorno al 20%. Da quanto detto è chiaro che un discorso significativo e attuale è quello dell’identificazione dei caratteri che differenziano il paesaggio urbano da quello rurale. Caratteri che sono sia visivi, sia funzionali. Stiamo parlando di realtà diverse ma spesso non così tanto, e in molti casi complementari. I termini città e campagna sono ancora lontani dall’aver trovato un consenso di opinioni riguardo al significato, anche perchè le due realtà spesso non sono ben distinte. Spesso si sovrappongono, si mescolano in situazioni spaziali e funzionali così intricate, che è piuttosto difficile affermare dove la città finisca e inizi la campagna. Ci sono sempre più situazioni urbane e rurali tanto che si parla di realtà semiurbane, o semirurali, o periurbane. La realtà dunque dei due mondi si sta facendo sempre più fluida. Oggi si parla anche di terzo paesaggio: la terzità è un paesaggio che non è né l’uno né l’altro. Sono dei processi questi, legati a una crescita che avviene essenzialmente lontano dal centro. Nel centro delle città sicuramente si assiste a fenomeni di paesaggio rurale. Il problema si risolve parlando di geografia dell’agricoltura, che comprende entrambe. Gli studiosi di geografia dell’agricoltura si occupano della storia dell’agricoltura, da quando e dove è nata (probabilmente nel Vicino Oriente), alle sue fasi (la formazione delle prime società agricole, le civiltà potamiche), agli sviluppi nei secoli, alla nascita dell’agricoltura moderna, fino ai più recenti sviluppi industriali. Altro tema riguarda le basi biologiche dell’agricoltura: gli aspetti della fotosintesi, la catena alimentare, l’uomo inserito all’interno della piramide ecologica alimentare. Si parla dell’insieme dei condizionamenti naturali legati a questo settore, come la temperatura, l’umidità, il rilievo, i tipi di suolo. Altro tema è quello che riguarda i regimi delle proprietà fondiarie, delle forme di conduzione delle aziende (la grande o piccola proprietà, la frammentazione delle proprietà stesse, gli interventi pubblici nell’evoluzione delle strutture fondiarie, la riforma agraria). Ancora un altro ambito riguarda la tecnologia, ovvero tutta l’evoluzione delle strumentazioni che hanno portato a diversi gradi di affrancamento dell’uomo nella natura dalla conduzione dei campi, quindi si parla di bonifiche, l’irrigazione, la lotta contro i parassitismi, sino ad arrivare alla “rivoluzione verde”, alle biotecnologie. Ancora molto interessanti sono le indagini sulle diverse tipologie di agricoltura, cioè si parla di agricoltura primitiva (quella itinerante caratterizzata da una debole densità umana e una bassa produttività, nel passato fondamentale e ancora oggi presente), di agricoltura tradizionale (quella a maggese, a rotazioni, la policoltura, cioè delle piccole proprietà contadine, quindi di sussistenza, l’agricoltura intensiva irrigua dei paesi monsonici, l’agricoltura latifondistica), l’agricoltura commerciale (attività orientata verso le richieste del mercato, che può essere molto specializzata, pensiamo a quella nordamericana con immense agricole estremamente meccanizzata), l’agricoltura di speculazione o di piantagione (esasperazione dell’agricoltura di mercato, cioè basata su piantagioni che si dedicano a una monocoltura, specializzate in cotone, cacao, caffè… generalmente condotte da multinazionali, ha molte fragilità di tipo ambientale perché l’utilizzo di un suolo sempre con lo stesso prodotto porta all’inaridimento, di tipo economico perché se in un dato periodo il prodotto non si vende c’è il crollo dell’economia, di tipo sociale perché essendo monopolizzate da aziende multinazionali i lavoratori sono spesso sfruttati e sono lavoratori locali che non vedono i frutti del loro sforzo), l’agricoltura collettiva (il collettivismo che ha visto il modello sovietico, vede ancora ad esempio in Cina una applicazione, una forma ancora diversa in Israele). Vi sono anche studi relativi alle diverse colture presenti nel mondo, a partire dai problemi di classificazioni (i cereali, le piante da tubero, gli ortaggi, le piante da frutto), come vengono coltivati, in quali quantità, dove. Ancora, il rapporto tra l’agricoltura e l’ambiente è un altro settore che vede molti studi: il rapporto con l’erosione del suolo, gli squilibri ambientali dovuto ai prelievi dell’acqua, all’uso di falde freatiche, i pesticidi, i fertilizzanti, la desertificazione dei suoli. Infine il rapporto tra città e campagna, tra attività agricole e mondo urbanizzato, con quelle fasce periurbane a cavallo e che possono svolgere un ruolo importante nel ruolo produttivo agricolo. Il termine “rivoluzione verde” è stato creato per un approccio innovativo ai temi della produzione agricola. Un approccio he attraverso l’accoppiamento di varietà vegetali geneticamente selezionate ha consentito un incremento significativo delle produzioni agricole. Un processo che è iniziato in Messico nel 1944 ad opera di uno scienziato statunitense, che ha avuto il premio Nobel per la pace nel 1970 perché l’obiettivo era quello di ridurre le aree a rischio di carestia. La rivoluzione verde è un fenomeno che non si è rivelato esente da problematiche, prevalentemente ambientali ma non solo. Nel ’44 la fondazione Rockfeller iniziò questa serie di esperimenti volti a incrementare la produttività agricola di alcune fattorie messicane. L’esperimento venne condotto e guidato da Borlag in Messico. I risultati furono sorprendenti a livello dell’economia: il Messico doveva importare metà del frumento necessario, invece dal ’44 al ’56 il Messico era passato all’autosufficienza nella produzione di frumento, e ancora dieci anni dopo risultava un grande esportare di frumento. Quindi Borlag incrociò diversi tipi di frumento, cioè frumenti bassi e poco produttivi e frumenti altamente produttivi ma alti, ottenendo una taglia media di frumento capace di grandi produzioni. Altro scopo era quello di creare una varietà di grano in grado di adattarsi a condizioni climatiche differenti e avverse, e anche questo riuscì. Vennero progettate le “razze ibride”, create mediante la riproduzione incrociata di diverse varietà, fino alla combinazione desiderata. Sicuramente il tutto per aumentare i rendimenti, la longevità per la conservazione dei prodotti, però queste piante ibride necessitano dello sfruttamento di fertilizzanti chimici che rendano il suolo più ricco. Mentre in precedenza le condizioni del suolo dovevano contare solo su tecniche come la rotazione, invece a questo punto diventano fondamentali i fertilizzanti, per aggiustare il pH, il grado di acidità. Ancora con la rivoluzione verde diventa importante il discorso legato all’irrigazione, che deve essere molto efficiente. Però questo significa utilizzo di acqua. Ancor diventano necessari i prodotti fitosanitari, che hanno permesso ulteriori risultati con l’abbattimento di insetti nocivi. Queste varietà sono chiamate quindi varietà al alta resa o ad alta risposta. Uno scopo della rivoluzione verde è stato quello di aumentare la produzione di quelle parti della pianta che sono più utili, e che possono essere usate in modo più efficiente a scapito invece delle altre parti della pianta che non interessano. Però questa rivoluzione è stata molto criticata e presenta una serie di problematiche: perdita di biodiversità (la diffusione degli ibridi e le tecniche associate ha portato alla coltivazione di poche varietà di sementi, alcuni raccolti hanno visto la riduzione del 90% delle sementi utilizzate. Nasce la pianta perfetta a scapito delle altre), il basso valore nutritivo (molti ibridi hanno un valore nutritivo inferiore rispetto agli antenati), l’alimentazione povera (come risultato di un passaggio che partiva da diete varie con fonti nutritive alte), la forte dipendenza dai combustibili fossili (l’energia che è richiesta dal processo di produzione fa affidamento su fertilizzanti, pesticidi, erbicidi che devono essere prodotti attraverso l’uso di combustibili fossili, quindi su derivati dal petrolio). Tutto ciò porta all’inquinamento, al degrado del suolo, all’aumento della salinità dei suoli, all’erosione. Non dimentichiamo l’aspetto sociale: questo meccanismo genera una impossibilità da parte dei piccoli coltivatori di gestire spese adeguate a mantenere questo genere di produzione, e risulta una dipendenza dalle multinazionali che possono permettersi le spese. Molte piccole o medie aziende sono fallite nel tentativo di stare al passo di questo progresso e quindi hanno dovuto vendere la propria terra alle multinazionali. Una dimensione sociale che ha introdotto cambiamenti in un mondo dove molte delle persone dipendevano ancora da una cera agricoltura più tradizionale. Una risposta alla rivoluzione verde può venire dall’agricoltura biologica, che comporta un diverso modo di coltivare e allevare. In primo luogo perché c’è l’intenzione di offrire prodotti senza prodotti chimici, e si vuole cercare di non determinare esternalità negative nell’ambiente. Ad esempio la fertilità del terreno viene salvaguardata mediante fertilizzanti organici, si praticano le rotazioni delle colture, si sta attenti al miglioramento della struttura dei suoli, e si cerca di utilizzare preparati vegetali, minerali, animali, che non siano di sintesi chimica. Gli stessi animali sono allevati con tecniche che rispettano il loro benessere, vengono nutriti con prodotti vegetali, sono evitate tecniche di forzatura. Però anche l’agricoltura biologica suscita perplessità, soprattutto se vista come modello di sviluppo globale si ritiene che non sia sostenibile su larga scala: certamente in alcuni contesti circoscritti può funzionare, ma se pensiamo su scala globale non regge. Dal punto di vista scientifico non tutti sono d’accordo sull’assioma: naturale = buono. Martedì 20 aprile Del settore secondario fanno parte l’artigianato e l’industria. Quest’ultima ha una lunga storia che parte da quando si parlava di opifici. L’industria si sviluppa con la prima e poi la seconda Rivoluzione industriale. Da ricordare poi in particolare le industrie di base e di beni di consumo, che sono le due tipologie fondamentali. La prima è anche chiamata industria pesante, la seconda è la cosiddetta industria leggera. Poi ci sono diversi tipi di concentrazioni industriali, orizzontali (che vedono tutta una serie di industrie raccolte in un territorio circoscritto che si occupano della stessa produzione) e verticali (vedono anch’essa una concentrazione di imprese che però si occupano di tutta la produzione, dall’estrazione della materia prima fino al prodotto finito). Un tema attuale riguarda la delocalizzazione, perché dagli ultimi decenni si assiste al fenomeno per cui le grande industrie non si trovano più nei luoghi in cui originariamente erano, cioè vengono spostate in paesi lontani perchè andando a produrre in aree del mondo dove c’è una minor tutela dei lavoratori, dove ci sono minori leggi sull’ambiente, si risparmia. I produttori sono portati a spostarsi. Per quanto riguarda il settore terziario, le branche sono numerose perché ne fanno parte i commerci, i trasporti, la sanità, l’istruzione, la pubblica amministrazione, la giustizia, i servizi bancari, il turismo e lo spettacolo. Per ciascuno di questi sotto-settori c’è molto da dire, sono ambiti dal punto di vista economico molto rilevanti e in evoluzione. Geografia e letteratura Bisogna distinguere il paesaggio geografico da quello culturale. Il concetto di paesaggio geografico indica nella sua accezione più generica un insieme di scenari naturali che fanno da sfondo alle vicende umane. In termini più precisi risulta essere l’insieme degli aspetti scientifici e sensibili sia fisici che umani di un luogo, che cade sotto la diretta osservazione del singolo e che costituisce la sintesi di tutti quei fattori che hanno portato all’utilizzazione dello spazio da parte dell’uomo secondo una plurima varietà di risposte alle proposte dell’ambiente. Non appena l’essere umano è intervenuto intenzionalmente nel controllare o nell’indirizzare la riproduzione spontanea dei vegetali, quindi l’essere umano si è inserito nel processo naturale, ha plasmato il suolo e ha fissato la propria impronta, marcando nei paesaggi che precedentemente erano solo fisici una più o meno profonda umanizzazione. Se passiamo da questo concetto a quello di paesaggio culturale, è chiaro che il discorso si fa ancora più complesso. Infatti subentrano ulteriori variabili che vanno analizzate, ponendo l’accento su nuove linee di attenzione non più solo oggettive. Questo perché il
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