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Geografia umana per Lettere (Prof. Claudio Minca), Sintesi del corso di Geografia

13 domande e risposte su: - Turismo - Globalizzazione - Ecologia - Antropocene e Capitalocene - Pensiero geografico e natura - Città/suburbia/processo di gentrificazione - La città e i consumi - Stato nazione e ragione cartografica - Geografia della mobilità, campi e biopolitica - Heritage e Dark tourism

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 15/06/2020

giorgiaspinali
giorgiaspinali 🇮🇹

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Scarica Geografia umana per Lettere (Prof. Claudio Minca) e più Sintesi del corso in PDF di Geografia solo su Docsity! 1) LE RADICI MODERNE DEL TURISMO “Oggi il turismo è nel mondo la più grande industria” (Lasansky). Il turismo ha a che fare con i modelli di consumo, con una idea di moderno, con il senso del luogo e con l’immaginazione geografica, ma anche con la soggettività, l’identità, il senso di appartenenza. Il turismo è un fenomeno straordinariamente importante perché rappresenta una modalità della nostra esperienza del mondo e del moderno, rispetto alla quale abbiamo tutti una posizione, un bagaglio, qualcosa da dire. Tutti, sia a livello individuale sia a livello collettivo, abbiamo una immaginazione geografica; tutti abbiamo un’idea di altri luoghi e desideriamo di fare esperienza di determinati luoghi. Tuttavia, la cultura del turismo con tutte le sue pratiche non è sempre esistita. Il turismo ha radici moderne che vanno a collocarsi con l’emergere delle geografie borghesi, della politica imperialista e, di conseguenza, del colonialismo. Alexander Von Humboldt è il primo turista ante-litteram, il modello di esploratore. Egli coniuga il viaggio e la scienza, la necessità di conoscenze territoriali e desiderio e piacere della scoperta. Il viaggio diventa con l’imperialismo un metodo di indagine per una disciplina, la geografia, che necessitava dell’osservazione diretta per essere e presentarsi affidabile. La fase della colonizzazione europea del mondo trova nei viaggi di esploratori e scienziati uno strumento di legittimazione del dominio militare; la conoscenza scientifica dei territori diventa uno strumento di appropriazione del mondo. Il viaggiare per il gusto di farlo diventerà sempre più un modo di essere della borghesia europea. Nasce così la geografia come disciplina scientifica, come materia scolastica e come propaganda per istruire le masse sul progetto imperialista; nascono le figure dell’antropologo e dell’esploratore; nasce la figura del flaneur. Le grandi città come Parigi o Londra sono grandi metropoli e il mito dell’impero viene promosso tramite le Esposizioni Internazionali. La costituzione degli stati-nazione favorì, poi, lo sviluppo e la massificazione del turismo. Il turismo “domestico” diventa un progetto politico guidato da una ben precisa ideologia nazionalista che mappa è i luoghi “sacri” della nazione e le meraviglie naturali, riconoscendo selettivamente alcuni simboli chiave dell’identità nazionale ed escludendone altri. Il turismo, quello internazionale diventa una pratica di identificazione; la vista dei luoghi altri diventa un modo per riflettere sulla propria identità, per trovare il proprio posto del mondo. Oggi si pensa al turismo come a un bisogno, un desiderio, un modo di essere moderni. Oggi, infatti, la frontiera del turismo avanza continuamente inglobando continuamente (o aggirando) città, regioni e paesi. La comparsa di nuove potenziali destinazioni sulla mappa delle rotte europee messe a disposizione dalle compagnie aree low-cost sta riscrivendo la geografia del continente. 2) L’IMPATTO TURISTICO, IMMAGINAZIONE TURISTICA E CICLO DI VITA DEL TURISMO La branca della geografia che si è occupa di turismo prende il nome di tourist studies e si è occupata principalmente dell’immaginazione turistica, del branding del turismo, della destination image e anche del motivo per cui molti turisti sono alla ricerca di qualcosa di autentico (geografie di immaginazione turistica). Più recentemente si sono anche occupati di performance turistica, cioè del modo in cui ci comportiamo in determinati luoghi e ci relazioniamo con gli altri. Si vuole indagare nelle performance turistiche per capire il motivo per cui il soggetto individuale e collettivo si comporta in un determinato modo e produce una serie di determinate pratiche. Le mappe mentali del turista si formano a livello individuale e anche collettivo in virtù del sistema scolastico (si pensi ai libri di geografia e delle illustrazioni che contengono) ma c’è anche una forte componente culturale, una tradizione che porta a prediligere alcune destinazioni rispetto ad altre. E poi, ovviamente, ci sono i media che hanno un ruolo importante per proporre una determinata destinazione o nello scoraggiarla. E poi c’è anche la questione dell’habitus e del capitale sociale: visitare determinati luoghi e fare un certo tipo di vacanze determina l’appartenenza a una certa classe sociale. Dobbiamo domandarci: chi è il turista? Perché fa le cose che fa? Cosa cerca? E, soprattuto, come si impara a comportarsi da turisti? Qual è il significato di certe performance? Fa riflettere il fatto che molti turisti tendono a detestare i turisti o a vergognarsi di essere turisti. O ancora il fatto che si preferiscano luoghi non frequentati dai turisti. Questo è un po’ il paradosso del turismo. Il turismo non è solo una macchina economica: ovunque si afferma come un potente trasformazione territoriale e centrale nella politica territoriale di molte civiltà. La geografia indaga il rapporto tra trasformazione dei luoghi e dei paesaggi e immaginazione geografica. Alcuni luoghi per farsi turistici e attrarre più visitatori si trasformano secondo quella che si crede sia la richiesta del turista, e non sempre questo genere di trasformazioni hanno un esito felice. L’impatto turistico è economico, socio culturale e territoriale/ambientale. Stiamo parlando dell’aumento di reddito, dell’aumento del costo della vita, della conversione di molti settori dell’economia, di una maggiore disponibilità di posti di lavoro (impatto economico) e anche di una risignificazione profonda di molte pratiche territoriali (impatto ambientale). Per quanto riguarda l’impatto socio-culturale, una riflessione che si è sviluppata a partire dagli anni Novanta in poi, si è chiesta quale sia il 1 valore culturale del turismo: il turismo rappresenta un’opportunità di scambio culturale, oppure si tratta di qualcosa d’altro? L’arrivo del turismo e dei turisti in destinazioni lontane ha rappresentato una novità assoluta, innescando nuovi trend e una serie di pratiche culturali. La geografia si concentra sugli aspetti negativi, sulla oggettificazione culturale e sulla “traduzione” dell’Altro, sulla mercificazione o rivitalizzazione dell’arte e dell’artigianato locale. Secondo alcuni, infatti, il turismo può essere, in talune aree, una valida strategia per ridurre la povertà. Tuttavia, soprattuto dagli anni Novanta in poi, si è pensato al turismo come a una forma di colonialismo e considerato negativamente soprattuto nelle zone di massima povertà, dal momento che la ricchezza del turismo nei paesi poveri finisce in mano di quei pochi che controllano il turismo. E poi ci sono le immagini turistiche. Queste sono caratterizzate spesso dall’incontro con l’Altro assoluto, il quale viene enfatizzato in maniera essenziale e questo ricorda alcuni tratti dell’immaginazione coloniale, una sorta di oggettificazione dell'altro culturale con delle persone che vengono fotografate in determinate situazioni e che stanno a rappresentare un gruppo culturale. Le immagini turistiche tendono ad essere il risultato di una negoziazione tra le caratteristiche del luogo (o del paesaggio) e quelle che sono considerate le aspettative del “mercato, cioè quella che si ritiene che sia l’immagine in grado di attrarre più turisti, ciò che si crede che il turista stia cercando. 3) HERITAGE E DARK TURISM Heritage significa letteralmente lascito, eredità; ha poi assunto una connotazione di patrimonio storico, artistico e culturale, naturale del luogo. La conferenza delle Nazioni Unite del 1972 designa come heritage i monumenti, i gruppi di costruzioni e i siti. La geografia, insieme ad altre discipline sociali come i cultural studies, si occupa anche di heritage, delle geografia della memoria: i luoghi in cui un certo tipo di storia viene commercializzata e consumata, i luoghi della memoria (piazze, monumenti, musei) dove si commemora selettivamente il passato di una comunità. Gli heritage studies si occupano, quindi, di quei siti che l’heritage industry trasforma in siti di attrazione turistica, letti e proposti all’interno di un itinerario turistico di una determinata città o regione. Ma l’heritage non è solo un insieme di elementi del paesaggio: è, innanzi tutto, una specifica forma di produzione di sapere associata al potere, un capitale culturale ricreato nel presente per fini politici e culturali. Spesso questi siti turistici associati all’heritage presentano tracce del passato coloniale; sono testimonianza del modo in cui spesso lo stato nazione ha costituito, in maniera selettiva attraverso la celebrazione di alcuni spazi e luoghi, e invece l’invisibilità o non valorizzazione di altri, le proprie narrazioni fondanti e anche il proprio rapporto con la modernità. L’heritage spesso ha un rapporto profondo con la storia della costituzione dello stato nazione che si traduce in una geografia fatta di luoghi materiali che possiamo celebrare e che confermano la storia ufficiale che le nazioni si danno. La letteratura critica che studia i siti heritage, i critical heritage studies, si occupa proprio di come spesso si tratti di una vera e propria attualizzazione del passato, un modo in cui il passato viene reinterpretato e alle volte anche tradotto in una serie di ricostruzione materiali di pratiche associate a costruzioni per usi contemporanei (per questo si parla di attualizzazione del passato). Secondo R. Hewinson quella che gli heritage offrono è una reinterpretazione del passato in chiave contemporanea che somiglia ad una vera e propria messa in scena che ignora o modifica il passato, annullandone la complessità. C’è chi crede che la storia, invece di proporre una copia fedele del passato debba offrirne una valida e coerente interpretazione, evitando distorsioni. Secondo Lowenthal, le distorsioni sono invece intrinseche nell’idea stessa di heritage: la versione del passato raccontata dai siti heritage è del tutto distorta e particolare rispetto a quella ufficiale. L’heritage racconta un passato ricostruito con autoindulgenza; tende ad eliminare dalla narrazione tutto ciò che non contribuisce a fabbricare un’immagine autoglorificante e celebrativa della comunità cui si riferisce e che eredita dal passato. L’heritage falsifica la storia e produce una narrazione del passato fatta su misura per la comunità cui quel passato appartiene. Legittima l’operare delle classi dirigenti del presente ed è essenziale nei processi di costruzione di un’identità collettiva. 4) RAGIONE CARTOGRAFICA E STATO NAZIONE La carta piena traduce i luoghi in spazi. Questa metafora dei luoghi nel linguaggio cartografico ci porta a concepire la superficie terrestre come un qualcosa di rappresentabile attraverso delle coordinate geografiche. I popoli della terra si distribuiscono su questa superficie cartografica secondo la logica degli stati-nazione. Quello dello stato nazione è una formazione geografica che ha delle radici piuttosto recenti. Tuttavia, oggi, è difficile immaginare un mondo che non sia organizzato in stati nazionali, nonostante lo stato-nazione non è una forma di organizzazione sociale e politica necessaria e spontanea, ma un prodotto storico. 2 membri della società non è più tanto l’essere dei cittadini con dei diritti e dei doveri, bensì la nostra capacità di consumare o meno. Gli spazi pubblici e urbani sono costruiti sempre più spesso come luoghi di consumo. Consumiamo continuamente tanto che alcuni studiosi sono propensi a definire la società moderna come la “società dei consumi”. E le persone tendono a spendere più di quanto possono permettersi, finendo per indebitarsi! Il consumo oggi è propulsore del guadagno e può essere visto come una vera e propria forma di lavoro. La crescente visibilità di luoghi di consumo e la disponibilità di un numero apparentemente infinito di merci e servizi inducono a credere che sia il suo consumo, e non la produzione, il motore centrale e la forza trainate della società contemporanea e della sua distinzione per classi. Secondo Pierre Bourdieu, un sociologo francese famoso per avere scritto un libro dal titolo “La distinzione. critica sociale del gusto”, noi non ci comportiamo più, in termini di consumo, seguendo le gerarchie delle classi sociali, ma sempre più le società occidentali si sono strutturate secondo classi di consumatori. Bourdieu stabilisce, mettendo insieme le forme di capitale, una gerarchia di consumi e di consumatori e pone al vertice di questa piramide dei consumi c’è una classe che spesso anticipa le mode o addirittura crea le mode e genera desideri. Spesso molte classi di consumatori ambiscono a consumare come la classe dominante che genera i desideri sembra indicare. Quindi, egli insiste sul bisogno di identificazione individuale e collettiva che passa attraverso i consumi. Spesso questa identificazione tra consumo e la soggettività individuale e collettiva si traduce in modo specifico di vivere conoscere e sperimentare la città. Le città, infatti, si sono via via strutturate in funzione dei consumi e anche in funzione di un modo di pensarci cittadini all’interno di determinati spazi del consumo, di esperienza del consumo associati a determinati luoghi. Anche il processo di gentrificazione, cioè un nuovo interesse per i centri urbani a cui abbiamo assistito negli ultimi due, tre decenni, rientra in queste dinamiche. Negli ultimi decenni abbiamo assistito, in molte città occidentali e non solo, una vera trasformazione. Si pensi alle vie del consumo, alle grandi città che hanno una o più vie con negozi di lusso. In generale il centro delle città si è strutturato attorno a una serie di pratiche o per favorire tutta una serie di pratiche legate al consumo. Durante gli anni Novanta la geografia si è anche deviata allo studio dei “paesaggi del consumo” come i centri commerciali, i parchi tematici, che spesso sono stati definiti dagli studiosi come “luoghi dell’illusione”, spazi irreali dove la realtà e l’altrove sono del tutto simulati. Gli shopping mall hanno una funzione diversa rispetto al supermercato: si tratta sempre di uno spazio di alta distribuzione in cui la presenza delle merci è ampia e diversificata. È uno spazio di specializzazione associato al consumo che si fa città, una sorta di ibrido che include alcune delle componenti della spettacolarizzazione dei consumi e al tempo stesso è uno spazio che inizia a competere con la città in termini di divertimenti e di luoghi di socializzazione e di sicurezza. Gli shopping mall tendono ad imporsi sempre più come città nelle città ed assumono delle forme che richiamano gli spazi pubblici ma sono, in realtà, gestite da privati. Una cosa importante è, infatti, il fatto che questi nuove forme urbane riproducono esattamente i luoghi urbani con le vie cittadine, riproducendo anche le arcade della città ottocentesche. I centri commerciali diventano uno spazio di aggregazione importante, ed è interessante il fatto che spesso sorgono a vicino agli spazi suburbani della città, nelle periferie delle grandi città. Parte di questo processo viene anche definito come l’emergere della città post-moderna. Resta di fondo un forte livello di standardizzazione e una serialità dei consumi, ma, nella città post-moderna, gli spazi che invitano a consumare in maniera diversa sono spesso associati in una nuova forma di spettacolarizzazione che ancora una volta riproducono altri luoghi reali. La città moderna è pensata come spazio del consumo e soprattuto della spettacolarizzazione dei consumi. La città post moderna rimette in discussione il rapporto di spazio pubblico / privato. C’è una gerarchia degli spazi urbani che è determinata dall’idea del consumo: IL CONSUMO E LA SUA ESPERIENZA SONO ASSOCIATI IN MANIERA SEMPRE PIÙ DIRETTA E IMPORTANTE AI LUOGHI E ALLA GEOGRAFIA DEI CONSUMI COME SONO PERCEPITI E MESSI IN PRATICA. 7) RAPPORTO TRA GEOPOLITICA E RAGIONE CARTOGRAFICA Le mappe popolano l’immaginario di tutti e la dipendenza da un modo pensato e costruito come carta è straordinario. Le rappresentazioni cartografiche semplificano la realtà e hanno a che fare con il potere performativo della geografia: noi pensiamo gli spazi sulla terra sulla base della rappresentazione geografica sulla terra. La carta viene usata come se fosse il mondo, perché è chiaro che questo modo di procedere risponde anche a un processo di semplificazione. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, con il consolidarsi degli stato-nazione e del progetto imperiale, il geografo diventa un esploratore di stato che fornisce saperi e conoscenze per il progetto coloniale. Rispetto all’espansione coloniale la geografia assume un ruolo politico sempre più importante: 5 rappresentare il mondo significa misure il mondo e la misura del mondo è alla base del principio di conquista; anzi la misura è già conquista in quanto controllo cognitivo necessario e precedente al controllo militare. Le grande esplorazioni fornivano informazioni sempre più dettagliate e compito del geografo sintetizzare queste informazioni per offrire un “quadro” del mondo. L’idea che molto posso essere descritto su una tavola riguarda la tradizione cartografica e apre, anche, il terreno al modo in cui in descriviamo il non-europeo, come qualcosa di riassumibile in una immagine. I popoli vengono collocati sulla carta delle culture del mondo. Timothy Mitchell parla di teoria della metafisica della rappresentazione per parlare dell’obiettivo della geografa di fornire delle rappresentazioni quanto più possibili esaustive di ogni popolo con le sue caratteristiche e la sua culturale. Vi è l’idea che il reale sia rappresentabile e che si possa stabilire un rapporto di certezza tra il reale e ciò che viene rappresentato. Da qui si origina l’idea di Oriente e lo stesso colonialismo risponde a una logica di mondo rappresentabile e stabile, un mondo governabile con gerarchie di territori e popoli secondo a una certa idea di “civiltà” e civilizzazione. Il progetto coloniale si presenta come una “missione civilizzatrice” (mission civilisatrice) che altro non è che un modo per legittimare quell’operazione di conquista. La teoria dell’assimilazione è l’idea che il colonialismo sia una forma di integrazione del mondo: il progresso diventa una misura attraverso la quale dobbiamo portare i benefici del progresso al resto del mondo. C’è, tuttavia, un dibattito già ampio di tipo politico e anche epistemologico sul bisogno di comprendere i popoli colonizzati. Ecco che a questa teoria si oppone il principio dell’associazione. Se l’assimilazione prevedeva un assorbimento da parte della potenza europea dei popoli colonizzati e portarli alla civiltà, riducendo il gap; il principio dell’associazione partiva dal punto che la diversità è inconciliabile. Era quindi necessario aiutarli a crescere e a svilupparsi a modo loro. Questo ha portato, un esempio efficace è offerto dal Marocco, colonia francese, dalla costruzione di città che non vanno a integrare quelle già esistenti nelle colonie, ma che stanno accanto, riservate agli occidentali. Si tratta di un nuovo modello epistemologico per cui pensiamo alla cultura di questi popoli come a qualcosa di separato, folcloristico che bisogna proteggere. Cartografare descrivere e conquistare sono parte dello stesso progetto di appropriazione del mondo: si finisce per rendere invisibile la centralità europea di questi concetti che nascono in Europa e si universalizzano, trasformando la visione europea in legittima. Le carte è il punto di partenza e risponde alla necessità di ordine. Ogni popolo viene identificato con un determinato spazio e la cartografia fornisce dei modelli per pensare il mondo secondo questa logica che si propone di essere oggettiva. La ragione cartografica non ci abbandona, anche se in forme leggermente diverse, neanche nelle riflessioni politiche più recenti o contemporanee. La perfomatività della geografia e l’ordine espresso dalla “mappa” sono gli strumenti della geopolitica, disciplina accademica emersa alla fine del XIX secolo che studia le relazioni tra il territorio fisico, il potere dello stato e la rivalità tra le potenze globali militari e politiche. La geopolitica è fatta di azioni che sono spaziali e hanno una loro materialità e una loro performatività, ma al tempo stesso è fatta di rappresentazioni che possono rappresentare il mondo, proponendo una narrazione indiscutibile, oggettiva, l’unica reale possibile. L’idea che sta alla base della geopolitica è che tutte le relazioni spaziali hanno una componente politica e, soprattuto, che tutte le relazioni politiche hanno la componente spaziale. 8) ORIENTALISMO L’Oriente indica un sistema di rappresentazioni formulata dalla classe e dalla forza politica, che ha portato l’Oriente nel sistema educativo occidentale, nella coscienza occidentale nelle pratiche imperiali occidentali. L’Orientalismo e così anche l’Occidentalismo sono due concetti interrelati. “L’Oriente” e “l’Occidente” sono stati storicamente prodotti come stabile collezione di testi, discorsi e idee che sono giustapposte, entrambi a rappresentare un campo di conoscenza e una serie di pratiche. L’Oriente esiste per l’Occidente e in funzione dell’Occidente. L’Oriente è costruito da e per l’occidente ed è una immagine riflessa di ciò che l’Occidente considera inferiore e alieno, altro. Parlare di oriente, scrivere di Oriente, costruire immagini dell’Oriente: noi con queste pratiche tendiamo a rispondere a un imperativo, a una prospettiva e a una visione ideologica che è stata costruita in funzione di uno spazio che chiamiamo Oriente. E questa immagine è stata generata da un intero sistema di pensiero e da un lavoro accademico. L’orientalismo ha a che fare con la costruzione di una identità europa (the European self) a partire da ciò che europeo non era; e a questo ha contribuito anche il fascino esotico: sognando questo contatto e una possibilità di esperienza dell’Oriente, abbiamo contribuito a produrre l’Oriente stesso. La geografia e gli studi sull’orientalism studiano come le tracce delle pratiche politiche e soprattuto delle pratiche di viaggio riproducono certe performance che al loro interno rivelano chiare tracce associate proprio a 6 quella ragione cartografica e a quel modo di porsi rispetto al resto del mondo che abbiamo definito come una delle componenti epistemologiche geografica, del discorso della costruzione dell’altro e dell’altrove. Edward Said, un teorico culturale americano-palestinese, è colui che fumosamente ha proposto per primo una visione critica dell’Oriente e definito l’Orientalismo come un corpo di studi accademico, scientifico, che si concentra sull’Oriente e che è largamente implicato nella realizzazione delle condizioni politiche e culturali che hanno prodotto il più grande prodotto coloniale, e anche nei corsi di studio sull’Oriente nelle università occidentali e nei circoli intellettuali. Secondo Said, l’Orientalismo è un interesse culturale nell’Oriente; un approccio critico all’idea di “Oriente” sostenuta, approvata dalle autorità culturali europee e americane. È un regime di verità riguardo una specifica regione e cultura immaginata come una sorta di entità discreta, come una impostazione teatrale disponibile all’ispezione accademica occidentale. L’indagine di Said ha ispirato la procreazione di molti lavori nei decenni passati sulla costruzione degli altri popoli e regioni da parte del potere imperiale. Il pensiero orientalista era (e rimane) il risultato di categorie ontologiche ed epistemologiche che approvano una razziale e indissolubile distinzione tra “l’Oriente” e “il resto”, e soprattuto “l’Occidente”: una prativa reale dell’altro, del diverso (othering). Ovviamente a Said non sono mancate le critiche. Si assistette quindi a un processo di geo-scrittura dell’Oriente che non ha fatto altro che produrre una falsa dicotomia cartografia che si traduce in un costruzione di spazi urbani sul modello europeo distanti dalle città colonizzate ma che richiamano elementi orientali. Agli occidentali non è concesso vivere negli spazi dei coloni. Un esempio evidente è offerto dal colonialismo francese in Marocco che da un lato richiama quei territori remoti del suo impero, ammarandoli di una immagine esotica, dall’altro nasconde una politics of design, con una importante trasformazione dello spazio urbano. 9) GEOGRAFIE DELLA MOBILITÀ, CAMPI E BIOPOLITICA La geografia ragiona per scale di analisi. Da una parte c’è la politica globale che è ha una importante dimensione geografica, dall’altra ci sono tutta una serie di scale di analisi che sono altrettanto importanti per capire il funzionamento dei rapporti di potere in termini spaziali. Ad esempio l’idea di confine. Cosa sono i confini? Limiti, posti dalla natura o dall’uomo, di ostacolo alla mobilità e agli spostamenti delle persone o al desiderio di conquista. Il più elementare dei confini è quello terra-mare. Individuarli e rappresentarli su carta, che sia confini naturali o politici, permette al geografo di sistematizzare lo spazio. Il limite antropico è palese, visibile sul terreno e rappresenta un elemento di grande forza di uno stato nei confronti di migrazioni o mobilità; rappresenta la cessazione della sovranità e dei diritti di uno stato a vantaggio della sovranità dello stato limitrofo. Il confine non è la frontiera (spazio attorno al confine). Anticamente però aveva tutt’altro significato: indicava il territorio di nessuno, sotto nessun controllo; nel Medioevo diventa il limite territoriale del signore feudale; è con la nascita degli stati nazionali che assumerà il significato attuale (anche se la globalizzazione potrebbe portarne a una rivisitazione). I confini possono materializzarsi attraverso la costruzione di recinti, di barriere e di muri. Di questi ultimi la storia del mondo ne è piena e continua ad arricchirsi e stanno a segnare una divisione non solo politica ma anche culturale, sociale e ideologica. Si pensi al famigerato muro di Berlino, simbolo della cortina di ferro che durante la guerra fredda era calata sull’Europa divisa tra il comunismo dell’Unione sovietica e il modello della democrazia liberale sul modello occidentale, rappresenta dagli Stati Uniti. O ancora al muro della Cisgiordania costruito da Israele, bene 700km di barriera per evitare la penetrazione dei terroristi islamici. Tutto ciò ha causato un vero problema per gli spostamenti umani ed è un ostacolo alla mobilità di molte di quelle persone che vogliono scappare dalle zone di guerre. Le geografie della mobilità e della migrazione nel continente eurasiatico oggi si presentano tutt’altro che pacificate. Si pensi alla rotta balcanica. La rotta balcanica è operativa da almeno cinquanta anni. Ma tra il settembre 2015 e marzo 2016 ben 700 mila persone che provengono dalle zone di guerra del medio oriente, come Siria e Iraq, e dall’Asia centrale, principalmente Pakistan e Afganistan e cercano di entrare nell’Unione Europea. La rotta era “aperta” nel senso che quel massiccio flusso di persone erano autorizzate ad attraversare i confini dei paesi della regione balcanica, senza incontrare nessun sostanziale ostacolo. Infatti, i governi dei paesi nella regione balcanica speravano forse che l’emergenza provocata dalla guerra e dalla crisi umanitaria in Siria e in Iraq sarebbe presto finita e gli altri paesi europei si sarebbero occupati dei diritti fondamentali dei rifugiati. Speravano anche che i rifugiati avrebbero semplicemente attraversato il loro paese e che non sarebbero diventati un fardello economico sulla loro debole economia. 7 È così, allora, il lavoro ad essere al centro dell’analisi del «Capitalocene» e non il tema generico del deterioramento ambientale dovuto ad un’indistinta azione umana: ma non solo il lavoro retribuito, quello associato nel capitalismo alla produzione di valore, ma tutto il lavoro, l’insieme delle attività di trasformazione socio-ecologica. Seguendo la lezione di una parte della politica e teoria femminista, specialmente il lavoro non retribuito, quello di cui il capitale si appropria senza pagare, posto al di fuori dell’area della mercificazione e base reale dei processi di accumulazione della ricchezza.  È per questo che affrontare la cosiddetta questione ambientale significa ridefinire il lavoro e superare i rapporti di potere, anche patriarcali e coloniali, in cui è ingabbiato, costruendo una diversa, rivoluzionaria, politica della natura. 11) ECOLOGIA POLITICA (Geografia delle politiche ambientali) L'ecologia politica si differenzia dagli studi ecologici apolitici, come dice il nome stesso, per la politicizzazione delle questioni e dei fenomeni ambientali. Questa disciplina studia i cambiamenti ambientali in relazioni a fattori politici, economici e sociali. La letteratura definisce l’ambiente come atmosfera, come insieme di elementi biofisici: acqua, terra, aria, esseri viventi. Dall’etimo di ambiente definiamo tutto ciò che gravita attorno agli esseri umani, ciò che è al loro esterno. Ma, chiediamoci, includendo gli esseri viventi, le società umane possono essere incluse nel concetto di ambiente? Dalla metà dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta del XX secolo, l’ecologia viene considerato una scienza che studia le relazioni fra organismi viventi e mondo esterno e risorse naturali, ma le società umane rimangono esterne all’ambiente. Solo nel secondo dopoguerra, e maggiormente dagli anni Sessanta in poi, si inizierà a riflettere sul concetto di società umane e sul loro ruolo nel trasformare i quadri ambientali; ci si interrogherà sulle problematiche della crescita/boom economico post-guerra (soprattuto in Usa e in Eu). I paesi, tanto del blocco capitalista quanto di quello socialista hanno sempre più capacità di governare le risorse attraverso meccanismi di controllo e messa a profitto delle stesse. E la gestione delle risorse, insieme con le politiche di sfruttamento, hanno giocato un ruolo importante nel concetto di legittimazione politica! Si pensi ai processi di colonizzazione: il controllo totale dello stato sulle risorse è stato uno strumento di consolidamento della politica nazionale e internazionale dello stato. In parallelo allo sviluppo del paradigma centralità statale - controllo nazionale delle risorse si inizia a riflettere sulle relazioni società- ambiente e sviluppo capitalista- equilibri ambientali. L’ecologia, ecco, è una disciplina anticapitalista: il capitalismo e i suoi principi caratteristici sono in contraddizione con l’idea di equilibrio ecologico e sostenibilità ambientale. Un contributo importante è “Primavera silenziosa”. Il titolo originale: Silent Spring, un libro scritto nel 1962 da Rachel Carson, un classico del pensiero ambientalista ed ecologista, tuttora di grandissima attualità. La Carson, attaccata violentemente dalle multinazionali della chimica e dell’industria agroalimentare, descriveva con dovizia di ricerche e analisi scientifiche i danni irreversibili all’ambiente e all’uomo causati dai pesticidi (DDT e fitofarmaci). Il suo titolo deriva dalla constatazione del maggior silenzio nei campi primaverili, rispetto ai decenni passati, dovuto alla diminuzione del numero di uccelli canori provocato dall'utilizzo massiccio di insetticidi. Il libro è comunemente ritenuto una sorta di manifesto antesignano del movimento ambientalista; la Carson fu la prima a denunciare con appassionata forza l’uso crescente dei pesticidi e composti organici di sintesi in agricoltura (tutti dei potenti aggressivi ad azione cancerogena). E’ stato proprio il contributo della Carson a svegliare la coscienza pubblica e a cambiare il corso della storia, segnando così la nascita della tradizione ambientalista mondiale. Con parole profetiche, ha, infatti, anticipato di molto lo scenario di degrado ambientale in cui oggi si ritrova a vivere l’umanità del secondo millennio. Questo contributo, molto discusso negli USA, arriva anche nel nostro paese e a farsene portavoce è Laura Conte, esponente del partito comunista italiano e considerata la madre dell'ecologismo italiano. La Conti è tra le prime in Italia ad aprire un dibattito a livello politico e, anche, una riflessione importante per interrogarsi sulle relazioni capitale-lavoro-ambiente. Un altro contributo improntate arriva nel 1972 ad opera di quattro autori tra cui Caldwell, “Il socialismo e l’ambiente”, grazie al cui lavoro il dibattito si estende a livello internazionale. Si pone attenzione all’ecologia e si riflette sulle problematiche dell’inquinamento, sull’accesso alle risorse, sul diritto alla salute. Questo volume si chiude con un quesito: quale può essere il futuro del pianeta? Un altro contribuito importante è quello di Meadows, I limiti dello sviluppo (The limit to growth) sempre del 1972, dove si pone attenzione sulla disponibilità e l’accesso alle risorse in relazione alla progressiva crescita demografica, con l’idea di capire se le risorse presenti su scala globale e gli attuali meccanismi di sfruttamento possono essere realizzabili a scala planetaria. Questa pubblicazione è fondamentale per apre un dibattito a livello internazionale che culmina nella Conferenza internazionale di Stoccolma, sempre nel 1972, dal titolo “Human environment”. La conferenza di Stoccolma è la prima conferenza internazionale sull’ambiente, e lo stesso titolo, Ambiente umano, è una novità, dal momento che fino ad allora le società umane erano rimaste escluse dal discorso “ambiente.” Si apre un dibattito a cui partecipano molti esponenti della politica europea e 10 degli altri continenti sull’accesso alle risorse (disponibilità e disuguaglianze), sulle pratiche ambientali che avevano comportato la degradazione dei suoli, deforestazione e desertificazione, sulla disparità globale e sulla contraddizione tra crescita capitalistica e conservazione ambientale. Viene anche creato l’UNEP, Environment Program. La conferenza di Stoccolma è il punto di partenza delle politiche ambientali internazionali e della formalizzazione della problematica sociale sull’ambiente. Risale, invece, agli anni Ottanta e precisamente al 1987 il concetto di sostenibilità ambientale. Venne proposto per la prima volta nel Rapporto Brundtland, Our common future, un documento pubblico nel quale viene proposto per la prima il concetto di sostenibilità ambientale, cioè lo sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri. Non si parla propriamente dell'ambiente in quanto tale, quanto più ci si riferisce al benessere delle persone, e quindi anche la qualità ambientale. Viene messo in luce un principale principio etico: la responsabilità da parte delle generazioni d'oggi nei confronti delle generazioni future secondo il principio dell’ecosostenibilità. Lo sviluppo sostenibile deve mirare a garantire la redditività del territorio nel lungo periodo con obiettivi di sostenibilità ecologica, socio-culturale ed economica, creando così una interazione fra lo sviluppo economico, equità sociale e protezione dell’ambiente. La teorizzazione dello sviluppo sostenibile ha comunque alle spalle anche i contributi scientifico da parte di police maker ed economisti che negli anni precedenti all’87 si occupano di sostenere un discorso che poi emerge come paradigma scientifico nel campo degli studi economici che è quello della modernizzazione ecologica. 
 La teoria della modernizzazione ecologica nasce come una scuola di pensiero nell'ambito della sociologia dell'ambiente. Le sue origini risalgono ai primi anni '80 sulla base dei lavori di Martin Jënicke e, soprattutto, di Joseph Huber. Scalzando in larga misura il più vago discorso sullo "sviluppo sostenibile" ha assunto il ruolo di discorso dominante (politicamente corretto) nell'ambito delle arene pubbliche e private della politica ambientale offrendo legittimazione ideologica per una serie di iniziative nel campo dell'ecobusiness. Di più è divenuto anche un programma prescrittivo di politiche di ristrutturazione "verde" del sistema industriale. La modernizzazione ecologica ostiene che il progresso scientifico-tecnologico possa permettere una crescita sostenibile al livello ambientale. Hajer (1995) definisce molto sinteticamente la modernizzazione ecologica come “il discorso che riconosce il carattere strutturale dei problemi ambientali ma presuppone che le istituzioni attuali (imprese in primis) siano in grado di farsi carico della cura dell'ambiente". Non solo si confida che i soggetti economici privati abbiano l'interesse ad adottare politiche "verdi", ma si postula anche che tale possibilità sia concretamente attuabile grazie ad una riconfermata fede nella tecnologia. Attraverso investimenti tecnologici si può avanzare una crescita, che non ponga limiti: si tratta di nient'altro che di una nuova fiducia capitalistica, ai meccanismi di mercato ed equilibri economico-finanziari a scala globale. I meccanismi di mercato, quindi, possono autoregolare gli equilibri ambientali e la tutela dell’ambiente. Di qui la riconferma di un ruolo centrale delle istituzioni scientifiche e tecnologiche nella "riforma ecologica". Ad esse è affidato il compito di sviluppare nuove tecnologie "di frontiera" con le quali la modernizzazione ecologica si prefigge di aumentare l'efficienza dei processi industriali, riducendo l'inquinamento entro limiti "tollerabili" (che nel caso dei contaminanti cancerogeni, però, non esistono), riducendo l'uso di energia fossile. In questo modo, fornite le opportune rassicurazioni circa la non messa in discussione del percorso della modernizzazione e dei suoi principali artefici (l'industria e la tecnoscienza), la modernizzazione ecologica ha trovato l'appoggio dei principali centri di potere della società contemporanea. Che hanno abbracciato con slancio una teoria e un programma che vanno in direzione opposta alla critica ecosociale degli anni '70 ma anche alle più recenti teorie sulla "modernizzazione riflessiva" e sulla "società del rischio" che hanno raccolto un vasto consenso nella sociologia con echi anche nel pubblico attraverso il lavoro del tedesco Beck particolarmente critico verso le carenze dei sistemi di conoscenza specialistici e del ruolo della tecnoscienza quale fattore di disordine sociale ed ecologico e di rischio. Emerge a questo punto una riflessione critica di come la modernizzazione ecologica abbia abbandonato la riflessione sui rapporti Capitalismo-Ambiente. Vari scienziati sociali tra cui antropologi/sociologi/economisti e anche politici sostengono sempre di più la necessità di riflettere sulle dinamiche di potere e sulla natura politica e sociale dei meccanismi di governance sociale (per capire l’essenza stessa dello sviluppo sostenibile è necessario scavare sulle logiche dei paradigmi ambientali). In questa fase il contributo di geografi e scienziati sociali di scuola marxista e non, fondano l’ecologia politica che come campo di studio si contrappone alla scuola classicista dell’ecologia, riflettendo sulle tematiche/problematiche attuali dell’ecologia che contraddistinguono il pianeta: squilibri politici di accesso alle risorse, giustizia politico-ambientale. 11 - IPCC 1988: Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico è il foro scientifico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l'Organizzazione meteorologica mondiale (OMM) e il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente (UNEP) allo scopo di studiare il riscaldamento globale. Nascono le conferenze delle parti (COP) che includono gli stati nazionali e organismi internazionali, con l’obiettivo di impegnarsi nella discussione delle problematiche di cambiamento globale e riflessione sugli accordi che mitighino questa problematica complessiva. - Il protocollo di Kyoto: trattato internazionale riguardante il surriscaldamento globale, pubblicato l'11 dicembre 1997 nella città giapponese di Kyoto da più di 180 Paesi in occasione della Conferenza delle Parti "COP3" della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Il trattato prevede l'obbligo di operare una riduzione delle emissioni di elementi di inquinamento (biossido di carbonio e altri cinque gas serra, ovvero metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo) in una misura non inferiore all'8,65% rispetto alle emissioni registrate nel 1990 – considerato come anno base – nel periodo 2008-2012. > L'idea è che le attività umane siano probabilmente responsabili della maggior parte dell'incremento della temperatura globale ("riscaldamento globale”). Premesso che l'atmosfera terrestre contiene 3 milioni di megatonnellate di CO₂, il protocollo prevede che i Paesi industrializzati riducano del 5% le proprie emissioni di questi gas. Le attività umane immettono 6 000 Mt di CO₂ all'anno, di cui 3 000 dai Paesi industrializzati e 3 000 da quelli in via di sviluppo; per cui, con il protocollo di Kyoto, se ne dovrebbero immettere 5 850 ogni anno anziché 6 000, su un totale di 3 milioni. A oggi, 175 Paesi e un'organizzazione di integrazione economica regionale (EEC) hanno ratificato il protocollo o hanno avviato le procedure per la ratifica. Questi Paesi contribuiscono per il 61,6% alle emissioni globali di gas serra. |=> riduzione del 5% delle emissioni di CO2 entro il 2010. - 2015, Agenda 2030 (Sustainable Development Goals, SDG); obiettivi di sviluppo sostenibile, sono 17 tra cui i seguenti: 1) sconfiggere la povertà; 2) sconfiggere la fame e promuovere un'agricoltura sostenibile; 3) buona salute; 4) garantire a tutti un'istruzione inclusiva e promuovere opportunità di apprendimento permanente eque e di qualità; 5) parità di genere: raggiungere la parità di genere attraverso l'emancipazione delle donne e delle ragazze; 6) garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile di acqua e servizi igienico-sanitari; 7) energia rinnovabile e accessibile. 12) LA CITTÀ NELLA STORIA, SUBURBIA E GENTRIFICAZIONE La città è una manifestazione molto evidente, positiva o negativa che sia, dell’azione umana sul territorio. Se vogliamo la città è una metafora geografica, un modo di concepire e vivere lo spazio che si contrappone a ciò che urbano non è. Secondo Peter Hagget, la “città è un gran numero di persone che vivono insieme a densità molto alte in una moltitudine compatta”. Secondo Max Weber, invece, la città è un insediamento circoscritto, un insieme di abitazioni poste le une vicine alle altre che formano una colonia così estesa che la reciproca conoscenza degli abitanti viene a mancare. Le dimensioni da sole non possono essere decisive per una definizione di città, dal momento che in passato quelle che erano definite città non erano contrassegnate da questa caratteristica; allo stesso modo oggi molti villaggi in Russia, sebbene contino migliaia di abitanti e sono molto più grandi delle città antiche, non sono definiti tali. In termini economici la città è un insediamento i cui abitanti vivono principalmente piuttosto che di agricoltura. Il ruolo delle città come elementi dominanti della nostra civiltà è stato decisamente accentuato dallo sviluppo tecnologico dei trasporti e delle comunicazioni. Il dominio delle città, infatti, deve essere considerato come una conseguenza della concertazione di strutture e attività commerciali, industriali, finanziarie, amministrative, delle reti di trasporti e delle comunicazioni, delle attrezzature ricreative, degli ospedali, delle scuole… E nonostante oggi la tecnologia sembri togliere importanza alla questione della concentrazione urbana della popolazione, la risorse decisiva è sempre il capitale umano. Secondo Torres, infatti, la città è l’ambiente che garantisce lo sviluppo di innovazione e cultura. La città è storicamente il punto di massima concentrazione del potere e della cultura di una comunità; è il luogo dove si concentrano i risultati della civiltà. La storia ha visto sorgere diverse forme urbane e, oggi, girando per le città europea si può osservare come queste siano composte da varie “stratificazioni” risalenti a epoche diverse. Dalla città stato, le polis greche, sistema urbano adottato anche dai romani, alla città medievale di tipo feudale; dai grandi centri portuali, commerciali e amministrativi alla città rinascimentale, ovviamo aspettare la rivoluzione industriale per parla di “grandi città”. In Gran Bretagna, alla fine del XVIII secolo, anziano a nascere presso le risorse minerarie diverse città; il cuore dello sviluppo urbano è la fabbrica, attorno alla quale nascono i quartieri operai. 12 Già Galilei e Cartesio avevano posto le basi per la concezione meccanicistica della natura. Il diagramma cartesiano promuove una classificazione dello spazio che permette di assegnare una determinata posizione a ogni elemento preso in considerazione. Si parte dal presupposto che esista una condizione oggettivamente, che esiste al di fuori del soggetto, il quale può quindi essere misurato con criteri geometrici e matematici. Quindi, la conoscenza della natura è descrivibile tramite modelli matematici. Con Carlo Linneo compare un sistema scientifico che trasforma la complessità della natura in un sistema logico astratto. Nella sua opera, Systema Naturae (1735), egli opera una classificazione gerarchia del mondo naturale, basandosi sugli elementi che presentano caratteri di somiglianza. Jean Jacques Rousseau è tra i primi a proporre il concetto di natura intatta che contrappone al progresso scientifico e tecnologico, le cui risultanze egli giudica negativamente. Parte dell’ambientalismo attuale si basa a sua volta sull’idea di natura incontaminata e ordinata che va al di là dell’intervento umano. È, invece, Kant a porre le basi per lo sviluppo del concetto di natura. Per Kant la natura è soggetta al principio di casualità e subisce la stessa sorta degli altri oggetti naturali, ma può anche essere conosciuta. Si forma così un dualismo che alla base della Critica della ragion pura, dove l’autore segna i limiti della conoscenza umana e pone le basi di conoscenza della natura. Fino a quel momento si è pensato che la conoscenza della natura e, in generale, la conoscenza razionale sono proprio di ciò che è soggetto all’esperienza. Secondo Kant, invece, alcune forme di conoscenza appartengono in maniera prioristica alla mente umana. La conoscenza scientifica non è solo conoscenza della natura, ma anche delle leggi della natura e si basa su una determinazione meccanica del funzionamento della natura. Gli studi determinarono una differenza fondamentale tra una costruzione scientifica del mondo, con l’individuazione di leggi e causali e di schemi classificatori, e un’analisi di come elementi di vita e natura si relazionarono nello spazio intorno a noi. Il tentativo di mettere insieme questi due aspetti, cioè la classificazione scientifica delle cose della natura e l’analisi della natura nella sua globalità, è stato compiuto da Alexander Von Humboldt, che incarna la figura del geografo per antonomasia. In seguito alle sue numerose esplorazioni, favorite anche dal fatto che discendeva da una aristocratica famiglia prussiana e perciò possedeva molto capitale per questi viaggi, egli sperimenta un metodo nuovo di fare geografia e offre un esempio maestro di resoconto scientifico moderno. Humboldt associa la geografia e i quadri della natura; la sua rivoluzione nel modo di fare un resoconto scientifico di viaggio sta all’adottare un approccio visivo e descrittivo, che media con lo strumento letterario per descrivere in maniera soggettiva la natura. Si tratta di una idea insita nel dispositivo del paesaggio in cui all’immagine estetica si associa il principio scientifico di conoscenza della realtà. Egli fornisce all’immagine o al racconto un valore scientifico, avendo alla base l’idea che il resoconto soggettivo può contribuire a definire una conoscenza scientifica del mondo. L’approccio di Von Humboldt è anche una forte critica politica nei confronti del potere dello assoluto, fornendo alla borghesia europea, che lotta contro l’assolutismo, un nuova forma di conoscenza critica per emanciparsi dal sapere esistente, prodotto dallo stato. Una geografia che si basa sull’osservazione scientifica delle leggi naturali depura il sapere delle implicazioni politiche con il potere. A Von Humboldt segue Ritter. Egli riprende l’idea della geografia come sapere puro, depurato dalle incrostazioni di sapere occidentale dell’antico regime. Elabora un atlante dell’Europa nel quale supera la tradizionale divisione politica della carta dell’Europa, caratterizzata dalle divisioni politico amministrative in stati e imperi, e disegna una carta secondo il principio naturale, dicendo l’Europa i province naturali. Inverte anche la tradizionale colorazione di altitudini e depressioni del territorio, per mettere in evidenza il sistema fisico naturale, per disegnare una Europa pura, in cui non compaiono regni, sovranità e divisioni politiche; si superano le divisioni segnate sulla carta geografica degli stati in nome di una idea pura di geografia che si basa sull’ordine naturale delle cose. Ritter prefigura così la costruzione dello stato borghese. La sua non è una riflessione deterministica, non vuole fare dipendere la conoscenza dalle leggi naturali: è una visione critica strutturata storicamente. Possiamo perfezionare le nostre conoscenze, ma ciò che possiamo conoscere della terra come insieme è ciò che abbiamo conosciuto individualmente e che abbiamo acquisito sul piano storico. Il soggetto umano è il punto di riferimento della geografia: su di esso si basa la descrizione del mondo, che perde i caratteri di assolutezza e totalità, che sarebbero possibili solo in termini matematici. Egli rifiuta la cartografia come strumento metodologico per la ricerca per via dei suoi limiti, cioè del fatto che l’unica misurazione possibile è quella di spazio, quando invece ci sono anche delle entità relative che dipendono dall’osservatore nella misurazione dello spazio. Nella seconda metà dell’Ottocento si ha un cambiamento per quanto riguardai quadro teorico delle scienze. Quando la società borghese prende effettivamente il controllo dello stato rivela una contraddizione: il sapere che ha permesso alla società borghese di prendere possesso dello stato diventa esso stesso uno strumento di controllo dello stato. 15 Con la crisi di legittimità dello stato, e l’inizio della fase imperialista europea, con stati dal carattere autoritario e come potenze imperialiste ed espansioniste, si assiste a un ritorno a una pretesa di oggettività del sapere scientifico. é in questo periodo che si affermano evoluzionismo e positivismo in tutte le scienze umane e sociali. Ne deriva che le relazioni ambientali determinano il destino dei gruppi umani. Il darwinismo, cercando nella natura le determinazioni causali, proietta questi modelli sull’organizzazione della società umana. L’idea evolutiva giustifica il sistema politico-economico dominante, fondato sulla lotta per la sopravvivenza. La geografia diventa la scienza del come e del dove, che indaga gli oggetti geografici secondo i principi naturali. I principi biologi che regolano la vita degli esseri viventi sono applicati a qualsiasi identità, secondo una prospettiva organistica: le leggi della biologia contengono una spiegazione della società e delle sue forme organizzate, come lo stato. In questo contesto si inserisce la teoria di Ratzel, il quale elabora un sistema di conoscenza che è etichettato come determinismo geografico, per cui le leggi della natura, il clima, la morfologia terrestre… esercitano un’influenza e condizionano l’esistenza dei gruppi umani. A questa teoria generale si affianca il concetto di Lebensraum, lo spazio vitale, secondo il quale ogni nazione ha bisogno per sopravvivere in termini di risorse e per assicurare prosperità e la sua esistenza di una spazio vitale, dello spazio per tutta la popolazione, che sarà una delle cause per così dire ideologiche della prima guerra mondiale. Di fatto questa teoria è alla base di una serie di teorie espansionistiche ed imperialiste, in cui lo spazio vitale ha un ruolo chiave per attuare politiche espansionistiche e imperialistiche che saranno importanti nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale. Negli anni Trenta emerge e si sviluppa poi nel secondo dopoguerra la geografia quantitativa, grazie a sistemi di calcolo e, soprattutto, grazie ai moderni calcolatori. La rivoluzione quantitativa riduce la geografia a scienza esatta: l’ambiente naturale scompare, ridotto a dimensione spaziale in senso assoluto. L’ambiente corrisponde, quindi, alle dimensioni di calcolo, a un costrutto geometrico e matematico; la scienza geometrica si riduce a formule per spiegare le forme sociali e gli elementi primati. Walter Christaller elabora un modello per questo tipo di approccio che prende il nome di teoria delle località centrali. I centri abitati si collocano nello spazio per struttura gerarchica, a seconda della capacità di offrire servizi estesi a un raggio nello spazio. Si presume la presenza di un numero minimo di utenti per garantire una certa risorsa. La cartina che ne deriva presenta una gerarchia di come le città si sviluppano nello spazio a seconda dei servizi che offrono e la domanda che generano. Le geografia quantitative sono applicate a studi che costruiscono una distribuzione geometrica dello spazio. Il forte limite di questo tipo di approccio è che include nei fenomeni spaziali solo ciò che può essere quantificabile, il resto ne viene escluso. L’evoluzionismo del pensiero scientifico europeo si identifica all’inizio del XX secolo con l’idea di possibilismo (ecologismo umanista), sviluppata nella Scuola degli Annales e che ha trovato spazio di studio nella rivista fondata da Marc Bloch e Lucien Febvre; quest’ultimo ha coniato il termine. Questa corrente vede come suo pensatore anche Paul Vidal de La Blache, Vidal, dopo aver studiato la geografia del determinismo di scuola tedesca che affermava che l'uomo è rigidamente vincolato dall'ambiente fisico, formulò un pensiero innovativo secondo il quale l'individuo è invece un fattore geografico in grado con la sua libera azione di modellare e modificare il territorio. Muovendo critica alla geografia deterministica di deterministe di Friedrich Ratzel e Halford Mackinder che era molto popolare nel panorama geografico politico, fino alla conclusione della seconda guerra mondiale. Il possibilismo è una critica a tutte le spiegazioni meccanicistiche che presuppongono che tutto è dato una volta per tutte., mentre la realtà si muove secondo leggi che non sono precostituite: agire umano è imprevedibile e non è il risultato di spiegazioni meccaniche. A questa teoria si collega anche la teoria del genere di vita di De la Blache: gli umani modificano l’ambiente e producono rappresentazioni testuali del genere di vita. Si crea una interazione tra l’ambiente naturale e la diversità della collettività umana. Un pensatore italiano particolarmente noto e importante per lo sviluppo del pensiero geografico è natura è Lucio Gambi, allievo di Alberto Almagià, il quale rappresenta una figura di geografo meno ortodossa, rispetto alla corrente del Positivismo proprio della geografia umana italiana di quegli anni. Dalla fine degli anni Quaranta l’autore sviluppa una critica della rappresentazione geografica e della sua pretesa di oggettività, con cui contestò ala metodologie e il quadro teorico della geografia di quegli anni. Egli attacca le teorie neo-positiviste della geografia quantitativa che dominavano nel Secondo dopoguerra. I suoi lavori non furono accettati dalle riviste scientifiche, ma vennero stampati da una tipografia faentina. Il suo primo scritto teorico è del 1956, nel quale emerge il suo contributo rivoluzionario: smonta la prospettiva cartesiana per riallacciarsi a quella umana e si distanzia pure dalla geografia quantitativa di Christaller. Riallacciandosi al pensiero di Ritter, la sua teoria considera l’ambiente come qualcosa di modificabile da parte dell’azione umana. 16 La sua critica è rivolta all’uso della cartografia come strumento di conoscenza. La cartografia, infatti, restituiva una rappresentazione statica degli oggetti ignorando il valore della loro materializzazione: è quindi posta in discussione l’idea di classificare che irrigidisce la complessità e la non ripetitività delle manifestazioni umane. In sostanza, si tratta dell’essenza della metodologia storica. Con cambi si ha il ritorno alla soggettività che mette in discussione la rappresentazione della realtà in maniera oggettiva. La critica mossa all’impostazione geografia di Gambi è legata al fatto che il suo approccio, prevalentemente storiografico, e la presa di distanza da qualsiasi problematizzazione della natura, hanno fatto si che la geografia non sia stata in grado di problematizzare la questione ambientale in termini spaziali. E non si problematizzava la questione ambientale e il rapporto con l’ambiente naturale per evitare di cadere nel determinismo. 17
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