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GEOPOLITICA DEL MEDIO E DELL'ESTREMO ORIENTE, Sintesi del corso di Geopolitica

ORIENTARSI NEL GRANDE DISORDINE INTERNAZIONALE

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 24/01/2022

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Scarica GEOPOLITICA DEL MEDIO E DELL'ESTREMO ORIENTE e più Sintesi del corso in PDF di Geopolitica solo su Docsity! GEOPOLITICA DEL MEDIO E DELL’ESTREMO ORIENTE Definizione di geopolitica: Karl Haushofer pensava che la geopolitica servisse a vincere una guerra (Germania che aveva perso la prima guerra mondiale perché i suoi dirigenti non conoscevano la geopolitica). La geopolitica la intendeva come l’arte di ritrovare le tracce di un destino già scritto, la coscienza geografica dello Stato. Per il geografo svedese Rudolf Kjellén considerato l’inventore del termine, la geopolitica era la dottrina dello Stato come organismo geografico nello spazio. Oggi la geopolitica non è, e non può più essere quella che fu alle sue origini. Che cosa si intende per Geo-politica: disciplina che studia le relazioni NON costanti tra uomo, società, territorio, confine, Stato, politica, cultura ed economia. Elementi, che rappresentano anche gli «attori» della Geo-politica. Il binomio principale è costituito dal rapporto, ambivalente, tra uomo e territorio (Ferdand Braudel). La Geo-politica studia il rapporto tra Stati (popoli, politiche, culture) e territorio, basandosi, in primo luogo, su due concetti principali, che rappresentano il motore del rapporto tra Stati a livello internazionale: l’antagonismo e l’equilibrio. Antagonismo tra Stati, nella loro costante lotta, anche svolta in maniera sotterranea, per conquistare l’egemonia a livello diplomatico ed economico. Esempi: USA e Cina, per l’egemonia commerciale a livello globale. Russia ed Europa, per l’egemonia sull’Europa orientale e sulla rotta balcanica dei migranti. Iran ed Arabia Saudita per il controllo e la stabilità dell’intera Area Medio-Orientale. Israele e Palestina per l’egemonia dei territori «sacri». Ma la geopolitica è anche un equilibrio che consiste nell’intervento di certi accordi diplomatici, a livello internazionale, al fine di mantenere una costante e più durevole possibile di equilibrio, soprattutto in zone «calde» del mondo, in quanto una guerra sarebbe un peso insopportabile da sostenere, non solo per lo Stato più debole, ma anche per quello più forte. Geo-politica come rivalità di potere su dei territori, sugli uomini che vi abitano e le culture che rappresentano. Ciascuna forza politico-statale, usa degli argomenti, leciti e poco leciti, per dimostrare la sua ragione nel volere conquistare o conservare quel territorio (Israele-Palestina e Cina-Hong Kong-Tibet-Taiwan). Rivalità soprattutto tra Stati, ma anche su altre scale di valori: economico, sociale e culturale. Ma anche nei confronti di minoranze interne agli Stati, sul controllo dell’emigrazione, di partiti politici, ecc. (Rivalità storica tra etnie differenti presenti in Egitto, come i «Fratelli musulmani» vs i civili; o tra Sciiti e Sunniti; e tra Riformisti e Conservatori islamici. Per mostrare e analizzare solo parte di questi conflitti presenti nell’intera area Medio ed Estremo orientale, non occorre solo la storia, ma anche e soprattutto la geografia. Sia la storia che la geografia, in Medio ed Estremo Oriente in modo particolare, NON sono mai uguali a loro stesse, ma sono mobili e cambiano in maniera costante. Geo-politica: tra storia, geografia e politica Uno storico, infatti, non può non essere, pur restando nel proprio ambito, deve essere anche geografo, economista, giurista. Quando studiamo le società e la storia di ieri, dobbiamo occuparci anche di ciò che è durato, del permanente o, almeno in parte, del presente: di ciò che dura al di là dei cambiamenti e al di là del fatto ancillare. Fatti storici, che siamo propensi a definire con il termine di geo-politica e geo-storia. Queste parole sottolineano la presenza di un dinamismo di fattori fisici e biologici che si trasmette alla vita sociale, un dinamismo presente in tutte le epoche. Il difetto della geo-politica, da superare, è quello di studiare questa azione esterna unicamente sul piano delle realtà politiche e di prendere ad oggetto solo lo Stato e non anche la società considerata nelle sue varie forme di attività. Quindi, vediamo un termine più appropriato di geo-storia. La parola geo-storia non è priva di difetti, è nuova. Ha però il merito di segnalare con forza un punto di vista nuovo e poco conosciuto. Ad esempio: l'Irlanda è troppo vicina all'Inghilterra per evitarla, troppo vasta per essere assimilata, quindi vittima della sua stessa situazione geografica. Un'eccellente definizione di geostoria è quella di Karl Haushofer: lo spazio è più importante del tempo. Passano gli anni ei secoli, ma la scena su cui si svolge l'interminabile e incessante storia e commedia dell'umanità rimane la stessa. Il primo compito è mostrare la vastità, la ricchezza di una storia sostanzialmente nuova, rivoluzionaria, imperialista, e dare fiducia nei suoi mezzi. La storia non è solo un romanzo di una semplice raccolta di fatti eccezionali e irripetibili. La storia si impadronisce della vita e deve essere la vita stessa. La storia fa appello alla realtà sociale, non solo dal lato effimero, ma anche dal lato permanente, vivo e attuale. Il vero scopo della storia non è solo la conoscenza del passato, ma la conoscenza degli uomini, che è compito di convergenza delle scienze sociali. Un altro modo per descrivere meglio la geo-storia, è affrontare i problemi nel quadro della regione naturale. Ciò significa scomporre uno spazio, complessivamente variegato, in piccoli spazi che invece hanno colori pressoché identici e caratteri geografici molto simili. Come rompere una finestra per romperla nei suoi frammenti. Descrivere, quindi, non basta. Dobbiamo anche spiegare. La geo-storia, e con essa la geo-politica, è anche una descrizione razionale che si è affermata negli ultimi anni. L'oggetto, cuore della geografia umana e della geo-storia, non è solo il singolo uomo, ma è la società. È lo studio della società nello spazio e nel tempo. Spazio e tempo sono le due principali categorie della geo-storia e della geo-politica per comprendere dinamiche e fatti. Per semplificare, sarà opportuno adottare le ampie classificazioni solitamente utilizzate dai geografi tedeschi. Le loro opere presentano, in generale, una suddivisione in tre blocchi: spazio (Raum), economia (Wirtschaft), società (gesellschaft). Nessuno può sottrarsi all'utilità della parola Spazio: essa riassume un insieme di fattori e agenti che intervengono nell'ambiente in cui si svolge l'evento storico. Rispetto allo spazio, l'economia è l'insieme dei passi in avanti compiuti dall'uomo per conquistarlo e dominarlo. E poi la società, frutto dell'unione di spazio ed economia. Propongo quindi di adottare la trilogia; spazio, economia, società. Queste realtà tendono a cambiare quando entrano in contatto tra loro nel tempo. Due significati di geo-storia e di geo-politica. Esse rappresentano la storia che l'ambiente impone agli uomini, condizionandoli con le sue costanti scelte. Ma la geo-storia è la storia dell'uomo alle prese con il suo spazio, contro il quale lotta incessantemente. La geo-storia e la geo-politica aprono lo studio di un doppio rapporto che va dalla natura all'uomo e dall'uomo alla natura, lo studio di un'azione reciproca e senza fine. Abbiamo parlato di due geo-storie: una degli uomini e l'altra della natura. Lato natura: l'influenza dell'ambiente e della natura è quasi immutabile e si esercita in termini naturali. È una storia quasi immobile, cioè ripetuta nelle stesse condizioni e negli stessi periodi di tempo. Lato uomo: l'azione che l'uomo esercita sulla natura e sullo spazio, muta nel tempo, si esercita lentamente. Una conseguenza della vittoria dell'uomo sulla natura e sullo spazio è, senza dubbio, il restringimento del mondo, e pertanto la sua difficile governabilità!. L'economia, ora è solo internazionale e globale. Il capitalismo delle grandi imprese ha iniziato a conquistare il globo su larga scala, conquistando il mondo. Inoltre, anche i biologi affermano che anche l'aspetto microbiologico tende a spostarsi da un continente all'altro. Sotto questa pressione, le guerre si svolgono anche a livello globale. La Grande Guerra del 1914-1918 è giustamente chiamata Prima Guerra Mondiale, e poi anche Seconda; e l'intera Europa fu il teatro più spettacolare delle guerre mondiali. E i trattati di pace furono il “lasciar passare” della disputa e la conquista del mondo intero. Geo-storia e Geo-politica, nel loro completo significato, quindi. Trascurarlo significa commettere un grave errore con conseguenze inevitabili: visioni generali incomplete, problemi posti in modo errato, realtà fraintese e uso di politiche sempre più assurde. Il nostro destino è legato alla terra in cui viviamo. Ma la cartografia non basta, occorre comprendere le idee e le ragioni che portano al cambiamento della geografia. Esse vanno esaminate quanto i dati statistici e politici, in quanto sono sempre le ideologie politiche, culturali e religiose che determinano le scelte delle strategie di lotta (guerra e/o diplomazia). In Geopolitica queste idee vengono chiamate anche RAPPRESENTAZIONI. Rappresentazioni perché possono corrispondere a Disegno: perché si tratta del rapporto con i territori e con la geografia, che di fatto sono dei disegni che possono mutare costantemente. Atto teatrale: l’atto che rende simbolicamente presenti personaggi e situazioni drammatiche, come avviene anche nella geopolitica con lo studio tra «attori» simbolici e materiali (Stati, popoli…). Oggi si parla molto di Geo-politica, ma, a volte, è un modo nuovo per studiare, analizzare e chiamare conflitti vecchi di secoli: Israele-Palestina, Cina-Tibet, Egitto-Libano). Nello scenario dei vecchi conflitti, oggi, nuovi «attori» moltiplicano e amplificano le situazioni di instabilità o di stabilità diplomatica: l’emergere delle Religioni e il ruolo incisivo dei Social Media. venisse definita la sovranità sulla regione. Nel gennaio 2000, il Sudan ritirò le sue truppe dall'area, cedendo nei fatti il controllo all'Egitto che occupò militarmente il Triangolo. Nel 2006 i posti di confine sul limite settentrionale vengono gestiti insieme dai militari di entrambi gli stati. L'espatrio dei sudanesi verso l'Egitto e viceversa non è tuttavia consentito attraverso questo confine. Nonostante non si preveda una soluzione della controversia riguardante il Triangolo, si osserva già una certa collaborazione: il territorio è coperto dalle reti di telefonia mobile di entrambi gli stati e come valuta sono riconosciute sia la Lira egiziana che la Sterlina sudanese. Dal 2005 il ministero del turismo egiziano ha autorizzato i viaggi nel Triangolo. STRISCIA DI GAZA Un’enclave del territorio palestinese confinante con Israele ed Egitto nei pressi della città di Gaza. Si tratta di una regione costiera di 360 km² di superficie popolata da 1.760.037 abitanti di etnia palestinese, di cui 1.240.082 rifugiati palestinesi. Rivendicata dai palestinesi nel 1994, assieme alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est, come parte dello Stato di Palestina nella regione storico-geografica della Palestina, solo dopo il ritiro dei militari e dei civili israeliani da Gaza nel 2005, è passata sotto il controllo politico- amministrativo dell'Autorità Nazionale Palestinese. Dal 2007 è però governata direttamente da Hamas in seguito alle elezioni legislative del 2006 e alla battaglia di Gaza del 2007. Le Nazioni Unite, le organizzazioni internazionali per i diritti umani, e la maggioranza dei governi e dei giuristi considerano il territorio ancora occupato da Israele, che mantiene sulla striscia un blocco insieme all'Egitto. Israele controlla lo spazio aereo e marittimo della striscia; sei, dei sette attraversamenti della frontiera terrestre e il movimento di merci e persone dentro e fuori dalla striscia. La striscia di Gaza rimane quindi al centro del conflitto israelo- palestinese, e di ripetute guerre tra Israele e Gaza scoppiate negli ultimi anni. CINA-TAIWAN Il governo taiwanese è deciso a non accettare alcuna proposta diplomatica cinese che possa limitare la sua libertà. Dopo l'emanazione della legge cinese anti secessione del 2006, gli analisti militari si sono divisi in due gruppi di pensiero riguardo alla situazione geo-politica taiwanese: alcuni esperti sono d'accordo nel sostenere che Taiwan corra il rischio di essere occupata dalla Repubblica Popolare Cinese, mentre altri sostengono che ciò non sia possibile per via della tradizionale protezione degli USA accordata a quest'ultima. Ma negli ultimi tempi fra i giovani taiwanesi l'idea dell'occupazione di Taiwan da parte di Pechino è diventata più credibile a causa del continuo crescere della potenza militare cinese nell'Estremo Oriente. Le conseguenze di un'eventuale occupazione cinese potrebbero portare a un grave deterioramento dei rapporti tra gli USA (quindi la NATO), e la Cina (protetta anche da un sistema di alleanze reciproche tra alcuni paesi asiatici, denominato Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, che sempre più prende il ruolo di un blocco asiatico anti-Nato sotto l'influenza cinese). Benché le tensioni dell'epoca della guerra fredda si sono alquanto calmate, lo status politico di Taipei rimane comunque oggetto di un contenzioso. Le riforme attuate dal governo nazionalista negli anni ottanta e novanta hanno trasformato Taiwan da uno Stato monopartitico, controllato da coloro che avevano abbandonato la Cina, in uno Stato multipartitico ed aperto anche alla popolazione originaria dell'isola. Benché la Repubblica di Cina fosse uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza presso l'ONU, essa venne rimpiazzata dalla Repubblica Popolare Cinese nel 1971. Come conseguenza della politica di Pechino orientata al riconoscimento dell'esistenza di "un'unica Cina", Taiwan dal 1971 in poi ha molto sofferto sul piano diplomatico. Attualmente la Repubblica di Cina è riconosciuta da 15 paesi. Il ministero della Difesa cinese ha protestato per il passaggio nello Stretto di Formosa della nave da guerra della Marina Usa Kidd, e di un cutter della Guardia Costiera Munro. Gli Usa non hanno relazioni diplomatiche formali con Taiwan, ma mantengono un ufficio di rappresentanza commerciale nella capitale, Taipei. Tuttavia, a livello militare, gli Usa sono il principale fornitore di equipaggiamento bellico per la difesa di Taiwan, e il transito delle navi attraverso lo Stretto dimostra l’impegno di Washington per un Indo-Pacifico libero e aperto, non posto sotto il controllo della Cina. Pechino ha protestato per i colloqui intercorsi tra i comandi delle guardie costiere di Usa e Taiwan, poiché quest’ultima viene considerata secessionista e quindi una parte ribelle della Cina. La Repubblica di Cina (Taiwan), che ospita 23,6 milioni di persone, si è infatti separata dalla Cina durante la guerra civile che ha portato il Partito Comunista a prendere il controllo della Cina nel 1949 e a istaurare la Repubblica Popolare Cinese, mentre nell’isola il potere è stato assunto dal partito nazionalista del Kuomintang. QUESTIONI DI CONFINE E TERRITORIO L'Unione Europea, attraversata da timori di flussi fuori controllo e dalla minaccia di ingressi di terroristi dall'Afghanistan, e mentre i numeri degli sbarchi hanno già ripreso a salire oltre i livelli pre-pandemia, preme per blindarsi alzando recinzioni. Una dozzina di Stati membri (Austria, Cipro, Danimarca, Grecia, Lituania, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia e Repubblica Slovacca) ha scritto a Bruxelles domandando di finanziare "in via prioritaria" ed in "modo adeguato" le barriere fisiche ai confini, definite "un'efficace misura di protezione nell'interesse dell'intera Ue" e del funzionamento dell'area Schengen. Gli ultimi a mettersi all'opera in ordine temporale, a causa degli afflussi dalla Bielorussia, sono stati Lituania e Polonia, ma vari Paesi Ue già possono vantare barriere di filo spinato, dai tempi della grande crisi migratoria del 2015-2016. Una richiesta di esborso rispedita al mittente dalla Commissaria agli Affari interni Ylva Johansson, che dal Consiglio Ue, a Lussemburgo, pur accettando l'idea della fortezza Europa ("ogni Paese ha diritto a difendere le proprie frontiere come crede, pur nel rispetto del diritto europeo"), ha respinto ogni ipotesi di stanziamenti comunitari. "Ci sono già molti altri progetti sul tavolo", ha tagliato corto. L'iniziativa ha trovato invece il sostegno pubblico della Presidenza di turno slovena del Consiglio Ue. Secondo altri Paesi membri, invece, l'Unione europea deve colmare il ritardo fin qui accumulato, sviluppando, in tempi rapidi e con azioni concrete, gli impegni assunti sul fronte dei partenariati strategici con i principali Paesi del Nord Africa, a partire da Libia e Tunisia. 10 TESI PER CAPIRE LA GEO-POLITICA L’attenzione per la Geo-politica, si sta imponendo in maniera «circolare» a partire dall’ultimo ventennio, che ha aperto e caratterizzato elementi strutturali che a livello globale sono in grado sempre più di condizionare l’evoluzione dei singoli Stati, del loro rapporto diplomatico a livello mondiale, e l’atteggiamento della popolazione.  Attacchi dell’11 settembre alle Torri Gemelle di New York (primo attacco terroristico a livello globale ed a impatto mediatico, primo «scontro di civiltà» tra Occidente e Medio-Oriente, tra cultura liberale e cultura estremo islamica.  Conseguente guerra in Afghanistan contro i «Talebani» di Bin Laden, con relativo presenzialismo americano nell’intera Area Medio-orientale.  Le rivolte della «primavera araba» nel 2011, con un apparente movimento democratico in Tunisia e Libia in modo particolare, con l’inasprimento dei contrasti e delle rivolte tra il potere centrale (Generale Gheddafi ucciso poi nel 2011), le forze del «Consiglio nazionale di transizione» e la popolazione…inerme.  La seconda guerra del Golfo tra USA e forze coalizzate ed Iraq, iniziata nel 2003, che ha portato all’uccisione del suo Presidente dittatoriale (Saddam Hussein, nel 2006), con la formazione di una grande instabilità nell’intera area, che avrebbe portato alla creazione dell’ISIS (Stato islamico di matrice terroristica, attivo tra Iraq e Siria).  Nascita dell’era globale del terrorismo, guidato dall’Organizzazione ISIS, un'organizzazione jihadista attiva in Siria e Iraq, dove fino al 2017 controllava militarmente un ampio territorio. Il suo capo Abu Bakr al-Baghdadi ha proclamato la nascita di un califfato nei territori caduti sotto il suo controllo in un'area compresa tra la Siria nord-orientale e l'Iraq occidentale il 29 giugno 2014.  Riforma della Costituzione nella «vicina» Turchia. La riforma Costituzionale, oggetto anche di un referendum, ha aumenta notevolmente i poteri del Presidente della Repubblica e restringe quelli del Parlamento. Con la vittoria del sì, il presidente attualmente in carica, Recep Tayyip Erdogan, esce notevolmente rafforzato e potrà, in teoria, continuare a rimanere al potere fino al 2029. L'esecutivo rimane totalmente concentrato nelle mani del presidente, tanto che per gli avversari il nuovo sistema non avrà alcun contrappeso, aprendo la strada a un regime autocratico.  Il ruolo sempre più strategico della Cina, non solo per l’intera area asiatica, ma anche per l’egemonia a livello mondiale, che sta in sostanza mettendo in atto tramite due strumenti: uno di politica interna, consistente nella crescita della sua economia anche tramite esportazioni fuori misura (protezionismo americano attuato dal presidente D. Trump, 2016-2020); e uno di politica estera, concernente invece una massiccia opera di investimenti, con fondi e mezzi propri, in alcune aree dell’Africa (terra di confine continentale e di crescita potenziale nei prossimi decenni). Situazione pandemica a partire dall’inizio del 2020: Attuale incognita sull’origine del virus e sulla sua diffusione, dalla Cina al mondo. Indebolimento sanitario e sociale dei Paesi in via di sviluppo, contro quelli industrializzati, come Brasile, Venezuela, Argentina, Perù, India, Pakistan, Iraq, Iran e Africa. Preminenza economica della Cina per l’invio, a livello internazionale, di materiale e dispositivi di sicurezza personale (mascherine, camici, gel disinfettante e simili, tutti «made in Cina»). Concentrazione esponenziale del potere economico di poche aziende farmaceutiche (America e Germania) che hanno avuto il brevetto per la fabbricazione del vaccino anti-Covid 19. Spostamento dell’asse geo-politico verso una nuova «guerra fredda» tra USA e Cina: modello di democrazia liberale a carattere capitalistico vs modello di socialismo popolare a carattere semi capitalistico socialistico. PRIMA TESI La Geo-politica, come la parola stessa suggerisce, intende proporre e studiare il radicale rapporto degli uomini con il territorio, a partire dal quale si instaura un legame di natura economica, culturale, politica e linguistica, messo in evidenza ed enfatizzato dallo Stato (che racchiude tutti i suddetti elementi). La Geo- politica, pertanto, per una prima riflessione, deve necessariamente partire dal «Nichilismo contemporaneo», caratterizzato dalla perdita di valori etici e di orientamenti religioso-culturali, metaforicamente indicato con l’immagine del «deserto che cresce»: perdita di punti di riferimento da parte dell’uomo contemporaneo, che, perso il legame profondo con la sua terra, evoca luoghi «utopici» (F. Nietzsche e M. Heidegger). SECONDA TESI La Geo-politica, nella sua valenza contemporanea e nel suo imprescindibile legame con le altre scienze sociali, non può non essere anche Geo-filosofia: una riflessione profonda, a partire dalle considerazioni del Nichilismo espletato da Nietzsche e da Heidegger, sul legame tra Uomo-Terra-Territorio alla luce della sua attuale «sradicatezza», nata a partire dal ruolo incisivo della globalizzazione e dal conseguente «rimpicciolimento» del mondo e dall’omologazione degli spazi, divenuti sempre più neutri e uguali. Una riflessione sul senso dell’abitare e sulla politica del recupero di un nuovo Nomos con il territorio, oltre l’omologazione (concezione politica dello sterminio) e tramite il recupero delle differenze: culturali, identitarie, religiose e linguistiche. Il rifiuto sia dell'occidentalizzazione che della modernizzazione, mostratosi, però, fallimentare e tale da condannare la società che lo adotta ad una pressoché totale sparizione (fallimentari sono anche i casi in cui – questa volta involontariamente – si è conseguita una occidentalizzazione senza modernizzazione); Quello che Huntington chiama il modello kemalista: perseguimento sia dell'occidentalizzazione, sia della modernizzazione, nella persuasione che la prima sia il necessario presupposto della seconda. Si tratta del tipo del quale Huntington evidenzia con maggiore insistenza il tramonto. Il riformismo, che approda ad una modernizzazione senza occidentalizzazione: secondo Huntington è il caso prevalente, e quello che verrà a manifestarsi sempre più nel futuro prevedibile. I caratteri della geo-politica Con la fine della Guerra Fredda, sono scomparse in maniera irreversibile, le «semplicità» del mondo bi- polare. Il «nuovo ordine mondiale» è scomparso, al suo posto emergono nuove conflittualità e nuovi attori che dominano la scena della Geo-politica contemporanea. Sono tramontate le grandi ideologie globali (Capitalismo-liberalismo vs Statalismo-Comunismo). Adesso, sono due le forze che dominano e guideranno il futuro del mondo, e quindi della strategia Geo-politica internazionale: il progresso economico della Cina, con il suo disegno espansionistico verso l’intera Area asiatica; e l’esplosione demografica del Terzo Mondo (Africa in primo luogo), rispetto al primo Mondo industrializzato. Il tutto, reso inquietante dal sorgere degli integralismi e dalla tensione della «minaccia». Geo-politica: elementi di strategia con i principi di antagonismo e di equilibrio tra Stati a livello internazionale e globale. Geo-economia: da un ventennio, la geo-economia ha sostituito il ruolo della strategia di avanzata e di competizione tra gli Stati; non più con la guerra o gli accordi, ma con l’economia, nei suoi aspetti di commercio, crescita e lungimiranza tecnologica (USA vs Cina). Il termine Geo-politica è stato coniato dal politologo svedese Rudolph Kjellén, all’inizio del Novecento, per indicare una particolare analisi della politica in riferimento ai condizionamenti su di essa esercitati dai fattori spaziali e geografici. La Geo-politica, in ogni caso, aveva già conosciuto un periodo di grande popolarità nel primo dopo guerra, soprattutto per impulso da parte del generale K. Haushofer, direttore e fondatore della Rivista «Zeitschrift fur geopolitik». Rimane evidente, in ogni caso, che la Geo-politica analizza i rapporti tra i fattori geografici e le relative scelte politiche che potrebbero derivare in termini di possibilità e di condizionamenti, posti dai primi alle seconde. Da qui, Y. Lacoste, pone in atto una adeguata definizione dei concetti e dei principi della Geo-politica, in termini multidisciplinari. Geo-politica è parola di moda. Corre e ricorre nei media, talvolta al bar o allo stadio. Imprenditori e finanzieri discettano di “rischio geopolitico”. Decisori politici e strateghi militari l’applicano alle loro procedure. Da qualche anno è entrata, sia pure in punta di piedi, financo nell’accademia italiana. Eppure fino a pochi anni fa era tabù. In alcuni (rari) paesi e ambienti lo è ancora. Per esempio nel dibattito pubblico tedesco si tende a non evocare la Geopolitik in quanto presunta scienza nazista. In Italia, quando nel 1993 nacque la rivista di geopolitica Limes, autorevoli esponenti del mondo politico l’accusarono di fascismo. Proviamo a indagare la questione a partire dalla più economica delle definizioni: la geopolitica analizza conflitti di potere in spazi determinati. Per questo incrocia nel suo ragionamento competenze e discipline diverse: dalla storia alla geografia, dall’antropologia all’economia e altre ancora. Non è scienza: non possiede leggi, non dispone di facoltà predittive. È studio di casi specifici, per i quali è necessario il confronto fra le diverse rappresentazioni dei soggetti in competizione per un dato territorio, su varie scale e in differenti contesti temporali, e fra i rispettivi progetti, tutti ugualmente legittimi. Per ciò stesso, il ragionamento geopolitico è dinamico, perché si svolge nello spazio-tempo, e nient’affatto limitato alle guerre ma estendibile a dispute politico-amministrative. Le analisi geopolitiche hanno carattere contrastivo, giacché la loro pregnanza euristica deriva dalla capacità di mettere a confronto i punti di vista in competizione, non di affermarne la verità di uno. Operazione che spetta eventualmente al decisore o ai narratori, nel senso di chi produce propaganda (narrative). La Geo- politica non è quindi patrimonio di una dottrina politica, di una disciplina accademica o di un periodo storico determinato. Esiste da sempre – per noi almeno dalla disputa fra Romolo e Remo nella fondazione di Roma – e cesserà solo con la fine della specie umana. Salvo continuare forse nelle competizioni fra intelligenze artificiali che si siano emancipate dai loro inventori. Come mai questo termine, che ha più di un secolo di storia, ha subìto tanto ostruzionismo durante la guerra fredda? Perché era interesse delle maggiori potenze dell’epoca – Usa e Urss – e dei loro satelliti propagandare la propria irriducibile contrapposizione sotto specie ideologica e moralistica: liberal-democrazia contro comunismo, capitalismo contro economia pianificata. Bene contro Male. Con la crisi del paradigma ideologico – visibile dapprima nel quadrante comunista a partire dalla guerra di confine fra Repubblica Popolare Cinese e Unione Sovietica, poi gradualmente estesa ai più vari spazi e contesti storico-geografici – sono emersi a evidenza latenti conflitti territoriali che le contrapposte ideologie imperiali tenevano ben velati. Da qui, la proliferazione di confini e conflitti territoriali. Si prenda solo una banale carta politica dell’Europa d’oggi, dove s’incrociano le frontiere di oltre cinquanta Stati e staterelli, e la si confronti con quella del 1914, dominata da pochi imperi, o anche del 1949, quando il continente e in specie la Germania – principale posta in gioco della guerra fredda – erano avvinghiati dalla “cortina di ferro”. La complessità dello spazio europeo, sia formale (visibile) che informale (invisibile, spesso per iniziativa di attori criminali, veri e propri Stati mafia o mafie-Stati), ne risulta plastica. Provare a interpretare i conflitti territoriali ricorrendo alle categorie moral-propagandistiche della cosiddetta era bipolare, significa condannarsi al fallimento. La principale congiunzione analitica insita nel ragionamento geopolitico attuale riguarda la coppia storia-geografia. E non solo per lo spatial turn o altri approcci recenti diffusi nell’accademia, che insistono sulla necessità di leggere il tempo storico nello spazio. Conviene partire dal suggerimento di Carlo Ginzburg: «Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, rovesciato». Oggi infatti la Geo-politica è carica di storia, più ancora che di geografia. Gli attori geopolitici ricorrono alla storia, ovviamente interpretata in vista della conferma del proprio status e dei correlativi progetti territoriali, per legittimare se stessi e le proprie azioni. La retroversione del presente cerca selettivamente nel passato la prova della bontà della propria geopolitica. Ecco riapparire magicamente, a partire dalla fine della guerra fredda, spazi e miti un tempo consegnati alla storia. Così Putin è lo zar che intende salvare l’impero russo dalla disgregazione finale, Erdogan il sultano re-inventore dello splendore ottomano, Orbán si propone di ricostruire la Grande Ungheria amputata nel 1920 dal Trattato del Trianon e così via. Negli anni Novanta del secolo scorso, qualcuno, nell’Occidente trionfante, volle stabilire la fine non solo della Geo-politica, persino della storia. E di chi in entrambe le discipline svolge il ruolo di primattore: lo Stato. In nome di un “mondo piatto” omologato dalla liberaldemocrazia e dal libero mercato. Nulla di tutto questo. L’uomo resta animale territoriale. L’utopia del Nuovo Ordine Mondiale è esercizio del passato. I nostri spazi di esistenza restano contendibili. Chi immagina di poterli congelare, magari in nome del diritto internazionale (quasi non fosse anch’esso una ideologia strumentale a progetti geopolitici), soffre di acuta sindrome d’onnipotenza. La Geo-politica aiuta a temperarla. Francis Fukuyama (1957): Un politologo americano, noto per essere l'autore del saggio politico La fine della storia e l'ultimo uomo, pubblicato nel 1992. Nel saggio, Fukuyama sostiene che la diffusione delle democrazie liberali, del capitalismo e dello stile di vita occidentale in tutto il mondo potrebbe indicare la fine dello sviluppo socio-culturale dell'umanità e diventare così la forma definitiva di governo nel mondo. Tuttavia, in seguito, con il libro Trust (1996), ha parzialmente modificato la tesi del saggio precedente. Fukuyama è anche associato alla nascita del movimento neoconservatore, dal quale ha preso le distanze nei primi anni 2000. Altre opere: La grande distruzione, 1999. Il nostro futuro postumano, 2000. La fine della storia di Fukuyama è uno dei concetti chiave dell'analisi filosofica del politologo Francis Fukuyama: secondo questa tesi storiografica, il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell'umanità avrebbe raggiunto il suo culmine alla fine del XX secolo, una pietra miliare epocale a partire dalla quale si aprirebbe una fase finale di conclusione della storia in quanto tale. La concezione storica di Francis Fukuyama non è di natura strettamente filosofica, ma bensì, sia per la sua formazione culturale che per i suoi interessi, volti all'analisi della società contemporanea, una teoria storiografica, che riprende alcuni temi classici della storiografia, applicandoli al presente e all'evoluzione attuale del quadro storico. Gli eventi più significativi che hanno portato ad un'evoluzione della sua concezione sono stati la caduta del muro di Berlino in una prima fase, e poi gli attentati dell'11 settembre 2001, a seguito dei quali il concetto di storia direzionale universale dell'umanità che ha raggiunto il suo apice con la democrazie liberali attuali. La storia è concepita come una storia unidirezionale e universale dell'umanità, una pretesa di rintracciare il loro scopo profondo nella successione degli eventi: cicli e discontinuità di eventi sono inclusi in questa concezione complessiva della storia nel suo insieme. La caduta del muro di Berlino rappresenta la conferma più lampante ed epocale di una tendenza globale volta a conformare i sistemi politici ai principi della democrazia liberale. Per Fukuyama, è l'obiettivo della storia storica di ogni popolo, poiché arriva dopo il fallimento di altri esperimenti politici, come la monocrazia, l'oligarchia o il totalitarismo, che hanno ammesso la loro sconfitta trasformandosi in liberalismo. L'uomo evolve fisicamente e culturalmente, e quindi anche politicamente, per tentativi ed errori: egli è il modello di "evoluzione storica sperimentale" e se l'uomo mantiene al meglio questa tensione anche al di là dei singoli eventi storici e parabole, per Fukuyama dobbiamo conseguentemente ammettere che la storia è un corso intelligente. Possono verificarsi ricadute nello svolgersi del processo storico: ne è prova la somiglianza di scenari ed eventi appartenenti a epoche diverse. Tuttavia, questa somiglianza, per Fukuyama, non risiede nel corso degli eventi, ma nella stessa memoria storica dell'uomo, che gli consente di giustapporre eventi lontani nel tempo: proprio questa capacità di identificare le testimonianze attraverso le varie epoche, rende la storia un lezione per l'umanità, come l'avevano già definita gli antichi. Per Fukuyama la forma di Stato ispirata al liberalismo democratico è l'ultima possibile per l'uomo, e anche la più perfetta: non può infatti degenerare in qualcosa di peggio, e non è essa stessa la degenerazione di nessun'altra forma politica. La storia si muove verso il progresso e il progresso tecnologico e industriale è stato assicurato, guidato e diretto dal capitalismo nella sfera economica. Il capitalismo ha la sua controparte politica nella democrazia liberale, sia perché questa è più compatibile con il governo di una società tecnologicamente avanzata, sia perché l'industrializzazione produce classi medie che richiedono partecipazione politica e pari diritti. tradizionali della maggiore industrializzazione del mondo. Il «vecchio mondo» è diventato sempre più vecchio. Potenza più potente oggi la Cina. LA GUERRA FREDDA HI-TECH. A contendersi la leadership con gli Stati Uniti è la Cina che, a partire dal luglio 2017, ha dato il via a massicci investimenti attraverso un piano di sviluppo decennale per lo sviluppo dell’IA, mobilitando le proprie ingenti risorse per ottenere il primato nelle nuove tecnologie. Un tempo, i ritardi strutturali del colosso asiatico erano molti, a partire da un modello di sviluppo economico che negli anni passati ha investito poco sul contenuto tecnologico delle proprie esportazioni. Tuttavia, l’approccio centralizzato del governo della Repubblica popolare ha portato a risultati immediati, utilizzando le grandi aziende del settore – Weibo, Tencent e Alibaba – come vere e proprie estensioni della propria politica industriale. Già oggi, la Cina possiede il maggior numero di supercomputer fra primi 500 al mondo ed eccelle per numero di articoli scientifici pubblicati nell’ambito del deep learning. Pechino ambisce a diventare la superpotenza mondiale del settore entro il 2030, con un’industria legata all’intelligenza artificiale del valore stimato di più di un miliardo di renminbi. Il panorama internazionale, dal punto di vista “tecno-politico” si sta, dunque, ridefinendo in termini di un nuovo bipolarismo, con Stati Uniti e Cina impegnati in una lotta per l’influenza internazionale lungo le direttrici della propria espansione commerciale. Il progetto cinese per una Nuova Via della Seta attraverso l’Eurasia prevede un’importante parte di investimenti infrastrutturali in cablatura e reti radiomobili, mentre le tecnologie messe a punto dalle aziende di Pechino vengono già esportate in altri contesti autoritari nel Medio Oriente e Africa. La Russia gioca, per ora, un ruolo secondario, concentrandosi su forme di IA più aggressiva per uso militare e per attuare forme di disturbo nei processi politici dei propri avversari. In questo contesto, l’Unione Europea rischia di rimanere schiacciata e vedere la propria posizione strategica compromessa. Secondo uno studio di PricewaterhouseCoopers, allo stato attuale, il 70% dell’impatto economico globale dell’IA (intelligenza artificiale) si concentrerà in Nord America e in Cina. Punti programmatici del G20 Sanità mondiale contro la pandemia I Ministri della Salute del G20 si sono impegnati a vaccinare il 40% della popolazione mondiale entro la fine del 2021 (target portato proprio ieri al 70% entro metà 2022). L’obiettivo 2021 sembra raggiungibile (ad oggi, il 38% della popolazione mondiale ha ricevuto due dosi di vaccino), ma restano amplissime disparità tra le Regioni mondiali (ad esempio, in Africa solo il 5,6% degli abitanti ha ricevuto due iniezioni). Malgrado iniziative come COVAX e ACT-A, gli interventi multilaterali risultano ancora parziali e in ritardo. Questioni ambientali I Paesi del G20 sono responsabili di quasi l’80% delle emissioni globali di CO2. Guidano la (negativa) classifica Pechino e Washington, che insieme producono oltre il 42% delle emissioni. Dati che dimostrano quanto l’impegno del G20 per mantenere l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5°C sia fondamentale. Dal G20 è già emerso l’impegno di mobilitare $100 miliardi all’anno fino al 2025 per finanziare la transizione verde nei Paesi in via di sviluppo. Su un nodo cruciale in vista della COP26 non è stato però finora raggiunto un accordo: il phasing out del carbone e l'eliminazione dei sussidi pubblici alle fonti energetiche fossili. Senza impegni concreti su questi punti, le temperature potrebbero aumentare di 2,7°C entro fine secolo. Il commercio internazionale Anche il commercio internazionale è stato contagiato dal COVID-19, sebbene gli scambi si siano ridotti meno di quanto accaduto nella scorsa crisi finanziaria. Nel 2021 i flussi di beni sono tornati a crescere e, secondo le ultime stime, dovrebbero riallinearsi con le tendenze pre-pandemiche già nel 2022. Tuttavia, lo stallo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) rimane, anche per la mancanza di un accordo tra i Paesi del G20. Sarà difficile che questa situazione si sblocchi al Summit di Roma: un segnale poco incoraggiante in vista della dodicesima Conferenza Ministeriale dell’OMC che si terrà a Ginevra fra poco più di un mese. La transizione digitale e tecnologica Una delle principali sfide globali è la transizione digitale: le nuove tecnologie offrono grandi benefici, ma c’è il rischio che molti vengano lasciati indietro, come mostra questa mappa. Se in Bahrain e in Islanda il 99% dei cittadini può andare online, in Ciad solo il 5,2%, in Bangladesh il 12,9% e ad Haiti il 32,5%. La pandemia ha contribuito ad allargare il cosiddetto “digital divide”, ovvero la differenza tra chi ha accesso a Internet e chi ne è escluso. Il tema è entrato da poco nell’agenda del G20 e i passi avanti appaiono modesti: non si vale molto oltre gli scambi di best practices e dichiarazioni di intenti (come sul tema della tutela dei minori). La cooperazione internazionale La Official Development Assistance (ODA) si riferisce agli aiuti economici pubblici forniti a Paesi per aiutarne lo sviluppo. In ambito ONU, è dagli anni ‘70 che gli Stati più ricchi si sono posti l’obiettivo di trasferire lo 0,7% del proprio reddito nazionale lordo ai Paesi in via di sviluppo (PVS). Ad oggi questo obiettivo è stato raggiunto solo da pochissimi: a livello G20 sono solo due (Germania e Regno Unito); va segnalato che altri membri del G20, come l’India, sono beneficiari netti di ODA. Non solo disuguaglianze. Per la prima volta in vent’anni la povertà è in crescita a livello globale. I lavori del G20 si sono concentrati su due temi: la parità di genere e l’accesso al mercato del lavoro. Tra i suoi obiettivi, va ricordato l’impegno (con un processo già avviato al G20 australiano del 2014) di permettere l’ingresso nel mondo del lavoro a 100 milioni di donne in più entro il 2025. Il G20 ha fatto appello al Fondo Monetario Internazionale (FMI) e ai Paesi a più alto reddito perché rafforzino il proprio sostegno alla lotta alla povertà. Le infrastrutture necessarie Per raggiungere gli obiettivi internazionali legati al cambiamento climatico e favorire la transizione digitale, sono necessarie infrastrutture innovative e sostenibili. Gli investimenti attuali non sono ancora in grado di coprire i bisogni stimati da qui al 2040. Il G20 ha ribadito l’importanza di colmare il gap accelerando sul fronte degli investimenti, puntando anche sul maggiore coinvolgimento del settore privato. Dopo la pandemia, l’indebitamento pubblico ha raggiunto il picco del 100% del Pil mondiale. Un pericoloso aumento rinvenibile sia nei Paesi ricchi che in quelli poveri. Il G20 ha posticipato il ripagamento dei debiti dei Paesi più poveri fino alla fine del 2021, cercando anche di prevenire possibili default nei Paesi in via di sviluppo. Il G20 ha inoltre invitato il FMI a un intervento senza precedenti che mira anche a supportare la transizione verde dei PVS. Quello della finanza e dell’economia è l’ambito “tradizionale” del G20 e quindi si tratta di risultati significativi: tra questi, non va dimenticato anche l’accordo “storico” per l’adozione di una tassa minima globale. Tuttavia, il rischio di una crisi finanziaria non può ritenersi annullato. Le grandi ondate migratorie Nel 2020, 281 milioni di persone hanno abbandonato il Paese d’origine per spostarsi altrove, confermando un trend in atto ormai da decenni. In particolare, il numero di migranti verso i Paesi del G20 è raddoppiato in trent’anni. Va comunque segnalato che molti migranti – e sempre più anche per motivi ambientali – si spostano verso altri Paesi in via di sviluppo aggravando una già difficile condizione socioeconomica. La politica migratoria non è un tema tipico del G20 anche se la necessità di un maggiore coordinamento a livello mondiale è davanti agli occhi di tutti. Governance globale: multilateralismo contro rischio frammentazione Dopo una buona performance in occasione della scorsa crisi finanziaria, il multilateralismo sembra proseguire verso un percorso di declino. Il G20 è decisamente più inclusivo rispetto al gruppo G7/G7+, ma molti Paesi – a partire da quelli più poveri - ne rimangono esclusi. C’è chi chiede quindi una partecipazione molto più ampia, anche se si correrebbe il rischio di costruire una nuova ONU (con tutti i suoi limiti). Il G20 è comunque uno strumento multilaterale che ha una significativa rappresentatività (60% della popolazione mondiale, 80% del PIL globale e 75% del commercio internazionale). In sua assenza il rischio è di trovarsi senza nulla (“G-0”) o in balia di blocchi contrapposti (ad esempio, un “G2” con a capo le due superpotenze USA e Cina). G20 e medio oriente: Arabia saudita L’Arabia Saudita è membro del G20 sin dalla sua creazione. Ha partecipato al primo incontro di Berlino nel 1999, quando ancora si riunivano solamente i governatori delle banche centrali e i ministri delle finanze nonché al primo incontro tra capi di stato e di governo del 2008 a Washington. L’inclusione dell’Arabia Saudita al forum G20 è dovuta al suo ruolo di primo piano nei mercati energetici mondiali, essendo il secondo paese al mondo per riserve petrolifere e possedendo al contempo il decimo fondo sovrano al mondo. Soprattutto alla luce degli effetti delle crisi finanziarie che negli anni Novanta colpirono alcuni paesi emergenti dell’Asia, la selezione dei membri del G20 all’epoca si è basata sull’importanza sistemica di ogni Paese per l’economia globale e la capacità di contribuire alla stabilità economica e finanziaria internazionale, tenendo conto anche di criteri generali di bilanciamento geografico. Fin dall’inizio, l’Arabia Saudita si è spesa per una maggior attenzione da parte dei membri del forum nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, nello specifico in ambiti come il monitoraggio finanziario ed i piani di assistenza successivi alla crisi finanziaria del 2008. Essendo l’unico stato arabo presente nel G20 e grazie al suo preminente ruolo regionale, la membership di Riad ha acquisito un’importanza crescente dopo che, in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, la lotta al terrorismo è diventata uno degli obiettivi del Gruppo dei 20. Nel discorso inaugurale di dicembre 2019 il sovrano Abdulaziz bin Salman lanciò la presidenza saudita incentrando gli obiettivi sulla realizzazione di opportunità per tutti, evidenziando l’importanza di una strategia di lungo termine che garantisca prosperità a tutti i Paesi da perseguire seguendo tra linee d’azione principali: empowering people, safeguarding the planet e shaping new frontiers. La presidenza saudita, inoltre, si è spesa per una rinnovata importanza dell’inclusione finanziaria, soprattutto digitale, per le categorie considerate meno avvantaggiate in questo campo: giovani, donne e piccole e medie imprese. Nel discorso di re Salman è, inoltre, emersa l’ambizione saudita di portare al G20 la prospettiva della regione MENA (Medio Oriente e Nord Africa) oltre che quella dei Paesi in via di sviluppo. Tuttavia, al di là dei propositi iniziali, i membri del G20 sotto la presidenza saudita si sono trovati a far fronte ad una crisi sanitaria ed economica senza precedenti nell’era della globalizzazione, fattore che ha fatto emergere l’importanza del multilateralismo di fronte a sfide globali, rilanciando la centralità di forum internazionali come lo stesso G20. È in quest’occasione che, grazie anche alla spinta della presidenza saudita, i Paesi del forum si sono accordati per stanziare un pacchetto da 5000 miliardi di dollari per sostenere l’economia mondiale di fronte alla crisi pandemica, nonché ad adottare le necessarie misure sanitarie e a collaborare in campo economico e di ricerca scientifica. A giugno i membri del G20 hanno infatti annunciato di aver destinato 21 miliardi di dollari alla lotta contro il virus in campo sanitario per sviluppare piani di ricerca nonché per vaccini e terapie e per la distribuzione di altro materiale sanitario e strumenti diagnostici. L’immunizzazione di massa come bene pubblico globale è stato lo slogan del summit di Riad del 21 e 22 novembre 2020, che ha chiuso la presidenza saudita, con i leader del G20 che hanno espresso la necessità di assicurare a tutti i paesi l’accesso ai vaccini. Anche sul fronte economico le 20 potenze economiche mondiali hanno voluto dare messaggi incoraggianti, come la proroga fino al giugno 2021 dell’Iniziativa di Sospensione del Servizio del Debito (Dssi), alla quale avevano aderito in aprile. Infine, in occasione del summit di Riad hanno annunciato di aver speso 11.000 miliardi per piani di ripresa economica sostenibile L’accordo Sykes-Picot costituiva perciò un tradimento degli impegni presi in primo luogo dalla Gran Bretagna verso gli arabi. Infatti, il nuovo residente generale britannico al Cairo, Sir Henry McMahon, in una corrispondenza scambiata tra il luglio 1915 e il marzo 1916, aveva promesso allo sceriffo (cioè discendente del Profeta) della Mecca Husayn al-Hashimi di favorire l’indipendenza totale degli arabi dagli ottomani e anzi di aiutare gli Hashimiti a costituire un regno su tutta la Mezzaluna fertile e l’Arabia che avrebbe potuto rinverdire le antiche glorie del califfato. Gli accordi Sykes-Picot hanno peraltro un significato più che altro simbolico, poiché nelle conferenze successive alla fine della Prima guerra mondiale e in particolare nel trattato di Sèvres del 1920 i termini dell’intesa furono in parte modificati. Francia e Gran Bretagna si spartirono la Mezzaluna fertile col sistema dei ‘mandati’, ma con qualche rettifica rispetto al 1916. La ‘grande Siria’ fu assegnata alla Francia, la quale estrapolò il Libano dalla Siria propriamente detta creando surrettiziamente due stati che non erano mai esistiti prima e interpretando il suo mandato in modo nettamente colonialistico. D’altra parte, quelle che oggi chiamiamo Palestina/Israele, Giordania e Iraq furono assegnate alla Gran Bretagna, il cui mandato pure condusse alla formazione di stati singoli che non erano mai esistiti prima. In ogni caso, il tradimento britannico, che di questo obiettivamente si trattò, e la durezza del controllo militare francese dovevano pesare moltissimo sull’evoluzione politica della regione in quanto gli arabi appresero che non potevano fidarsi degli europei. Gli accordi Sykes-Picot non avrebbero senso senza considerare la cosiddetta ‘dichiarazione Balfour’ che nel novembre 1917 sancì l’appoggio della Gran Bretagna alla creazione in Palestina di una National home ebraica. La Gran Bretagna, potenza mandataria in pectore della regione, veniva così incontro alle forti pressioni del movimento sionista internazionale e di uno dei suoi più autorevoli rappresentanti, Chaim Weizman. Ciò che accadde dopo è ben noto: l’immigrazione ebraica, la resistenza araba, la nascita dello stato d’Israele, lo spossessamento dei palestinesi, le cinque guerre arabo-israeliane, eccetera. L’assetto regionale fu sconvolto profondamente, per cui è possibile dire che la dichiarazione Balfour, inquadrabile nel clima e nelle trasformazioni epocali provocate dalla Prima guerra mondiale – tra cui ovviamente rientrano gli accordi Sykes-Picot – non abbia ancora finito di esercitare i suoi effetti. È nostro intento analizzare la portata storica di lunga durata degli accordi Sykes-Picot nel quadro più ampio degli effetti a lunga distanza della Prima guerra mondiale sull’assetto del Medio Oriente, ma è chiaro che è impossibile ricostruire nei dettagli la storia ormai secolare della regione. Si crede, perciò, che il filo conduttore più utile per articolare una interpretazione coerente sia quello della nascita, evoluzione e crisi dello Stato moderno, coloniale e post-coloniale, e dei connessi problemi del nazionalismo, o meglio dei nazionalismi, e dell’Islam. Lo stato moderno, quello ‘post- westfaliano’, è un’istituzione importata in Medio Oriente dal colonialismo. Gli accordi Sykes-Picot e i successivi trattati hanno contribuito col sistema mandatario a radicare lo Stato moderno per quanto, come si è accennato, hanno ‘prodotto’ le Nazioni attuali. La Siria, il Libano, l’Iraq, la Giordania, la Palestina/Israele non erano mai esistiti in quanto tali, se non come ‘espressioni geografiche’ dell’Impero ottomano; è stata la spartizione mandataria del Medio Oriente, di cui gli accordi Sykes-Picot sono stati i prodromi, a smembrare l’Impero ottomano e a disegnare l’assetto geopolitico attuale. Ora, è possibile articolare storicamente in due fasi di crescita e in un epilogo di crisi (peraltro in progress) il percorso dello Stato moderno in Medio Oriente. La prima fase, quella dello stato cosiddetto ‘coloniale’, è il frutto, appunto, della colonizzazione; la seconda fase, quella dello stato post-coloniale, è il frutto della decolonizzazione successiva alla Seconda guerra mondiale e dei processi di indipendenza; la crisi dello stato moderno finisce invece per coincidere con l’emergere dell’islamismo radicale – quindi si può dire parta dagli anni Settanta del secolo scorso, ed è ancora in fase di svolgimento. È naturalmente difficile, come sempre accade nella storiografia, tracciare limiti cronologici precisi, e del resto l’evoluzione dei singoli Paesi ha seguito diverse velocità. Basterà forse ricordare che debbono essere considerati ancora stati coloniali: Siria e Libano fino all’indipendenza nel 1946; l’Egitto fino alla rivoluzione degli Ufficiali Liberi di Nasser nel 1952; l’Iraq fino alla rivoluzione del 1958 di Kassem che abbatté la monarchia hashimita; Tunisia, Marocco e Sudan fino all’indipendenza nel 1956; l’Algeria fino all’indipendenza nel 1962, pagata come è noto con otto anni di spaventosa guerra civile; la Libia fino alla rivoluzione del 1969 degli Ufficiali Liberi di Mu‘ammar Gheddafi. Gli Stati post-coloniali evolvono dopo le indipendenze, ma già la Guerra dei sei giorni del giugno 1967 con la disfatta degli arabi, e in particolare dell’Egitto di Nasser, di fronte a Israele ha segnato in qualche modo la fine del periodo post-coloniale. Le scansioni cronologiche sono comunque utili per orientare la periodizzazione. E, ad ogni modo, è a partire dagli anni Settanta che il progressivo emergere dell’islamismo politico, sia quello dei Fratelli musulmani e salafita, sia quello jihadista culminato in al-Qaida e nell’ISIS, ha costituito uno dei fattori decisivi a provocare la crisi irreversibile dello Stato post-coloniale. Quest’ultimo si era largamente ispirato alle ideologie laiche del nazionalismo, del panarabismo e del socialismo, per cui il ritorno dell’islamismo militante dopo il fallimento di quelle ideologie ha innescato una trasformazione che non è ancora terminata. Le convulsioni delle cosiddette ‘primavere arabe’ tra il 2011 e il 2013 sono le ultime propaggini di questo processo. Entrando nei particolari di ogni singola fase, bisogna anzitutto ricordare che all’epoca dell’Impero ottomano, quando non si era verificata l’espansione coloniale e rimanevano vivi i retaggi del passato, le caratteristiche dell’organizzazione politico-statuale vedevano una decentralizzazione dello Stato con larghe autonomie periferiche (la Libia, la Tunisia, l’Algeria, l’Egitto, sebbene formalmente dipendenti dalla Sublime Porta, godevano di ampia libertà amministrativa o potevano essere considerati addirittura semi- indipendenti). Le consorterie locali e i legami tribali erano determinanti nella gestione del territorio, e il tessuto sociale appariva particolarmente frammentato. Sono circostanze in cui non si può parlare di Stato moderno, in quanto mancavano confini territoriali stabili, mancava un’ideologia nazionalista, mancava una struttura burocratica efficiente. Tra Ottocento e Novecento, come esito della conquista e dell’occupazione coloniale mentre l’Impero ottomano si dissolveva lentamente, si sviluppò nel Medio Oriente e nei paesi islamici quello che può essere denominato ‘stato coloniale’. Si intende come ‘stato coloniale’ lo stato sortito dalla dominazione coloniale europea, sia in quanto ha importato i modelli politici dell’Occidente, sia in quanto è rimasto sotto il controllo coloniale più o meno diretto per diversi decenni. Ora, allo Stato coloniale possiamo attribuire le seguenti caratteristiche:  Ha costituito le Nazioni-Stato, una realtà storico-politica prima sconosciuta in Medio Oriente. In precedenza infatti erano esistiti soprattutto o imperi sovranazionali, dal califfato classico all’Impero ottomano, che inglobavano territori e popoli che non si riconoscevano in alcuna idea nazionale, o sultanati locali altrettanto senza alcuna identità propria. La formazione delle entità territoriali in seguito al colonialismo e alla spartizione mandataria favorì la crescita di una coscienza ‘nazionalista’, sebbene ciò provocasse diversi conflitti e ostacolasse la realizzazione di entità più vaste, per esempio la realizzazione del sogno dell’unità araba dall’Atlantico all’Iraq. Casi tipici sono la già citata surrettizia spartizione da parte dei francesi della ‘grande Siria’ nella Siria propriamente detta e nel Libano, due stati che nei decenni seguenti hanno vissuto lunghi conflitti intestini e il cui precario destino resta comunque reciprocamente legato. Altrettanto tese saranno le relazioni tra Siria e Iraq. Anche se non si tratta di Mezzaluna fertile (ma ormai geopoliticamente si parla in senso lato di Middle East North Africa, Mena), la creazione di confini, magari tracciati a punta di matita attraverso i deserti, ha provocato ostilità anche nel Maghreb e nel bacino nilotico tra le nuove compagini statuali di Algeria e Marocco; tra il Marocco e l’ex Sahara spagnolo; tra l’Egitto e il Sudan; eccetera.  Lo Stato coloniale ha senza dubbio realizzato e fornito le infrastrutture moderne di amministrazione e di gestione del potere, creando burocrazie e importando modelli ‘all’europea’ di sistemi costituzionali con parlamenti e partiti.  Lo Stato coloniale ha tuttavia approfondito le tare economiche e sociali favorendo e consolidando la nascita e lo sviluppo di élite patrimoniali che si sono impadronite dei gangli vitali del sistema. Consorterie e potentati locali sono sfuggiti al potere coercitivo della legge e dei sistemi politici centralizzati. Ciò ha provocato oltre tutto l’approfondirsi dello iato tra lo stato e le élite dirigenti, da una parte, e la massa della popolazione, in via di costituirsi in società civile, dall’altra.  È ancora durante la fase dello Stato coloniale che si attivano e si intensificano i processi di islamizzazione. Dal rinascimento (nahda) e dal riformismo (islah) tra Ottocento e Novecento si arriva negli anni Trenta e Quaranta alla fondazione e alla diffusione dei Fratelli musulmani e delle organizzazioni da questi germinate. Se lo Stato coloniale aveva visto l’affermazione, sotto varie forme, di una nuova ondata di islamizzazione, lo stato post-coloniale ha visto il temporaneo trionfo del processo di ‘secolarizzazione’, diverso da quello della nahda e dell’islah. Lo Stato post-coloniale, si è detto, è lo Stato sorto dai processi di indipendenza e di decolonizzazione. ‘Socialismo’ e ‘panarabismo’ (transnazionale) sono state le principali ideologie di questa fase di transizione, ma naturalmente anche i sentimenti nazionalistici locali si sono attivati e sono cresciuti. I casi più interessanti si sono verificati in Siria, Egitto e Algeria. In Siria è nato il Ba’ath, partito della Rinascita araba socialista. In Egitto, Nasser (1956-70) ha portato il mondo arabo sul proscenio della storia e ha rivendicato, pur con le storture di un sistema autocratico, il ruolo dei popoli arabi e islamici, nel più ampio quadro del non-allineamento, a ridisegnare la geopolitica mondiale. La rivoluzione algerina (1954-62) ha prodotto un singolare esperimento di mistione e intreccio tra socialismo e islam proseguito fino alla fine della presidenza di Hwari Boumedienne (1979). Le caratteristiche dello Stato post-coloniale possono essere individuate come segue: 1. La definizione della territorialità ha tracciato la mappa geopolitica che ancor oggi verifichiamo del mondo arabo mediorientale, sebbene le ideologie universalistiche, come il socialismo e il panarabismo, non siano riuscite a frenare i particolarismi nazionali. Accenniamo al mondo arabo perché la Turchia repubblicana, sorta sulle ceneri dell’Impero ottomano, e l’Iran avevano ed hanno conservato un’identità propria. 2. Lo Stato post-coloniale si è strutturato in moltissimi casi a partire dall’intervento dei militari nella politica, nella società e nell’economia (dall’Egitto alla Siria, dall’Algeria al Sudan, e naturalmente in Turchia e Iran). I regimi militari erano ovviamente dotati di forte potere coercitivo, ma senza che vi fosse altrettanto obbligo vincolante alle norme legali per le élite al potere. Burocratizzazione e corruzione hanno spesso caratterizzato questa esperienza. Il potere esecutivo ha di norma prevaricato quello legislativo e giudiziario provocando uno sbilanciamento anti-democratico. 3. Lo Stato ha fagocitato la società civile sottoponendola a un rigido controllo e imbavagliandone le forze più innovative e antagoniste. Gli Stati nazione islamici post-coloniali sono apparsi dunque profondamente deboli sul piano istituzionale e sostanzialmente bloccati sul piano dell’evoluzione politica. E ciò per una serie di concause. Il potere militare si è reso la maggior parte delle volte necessario per governare e dirigere le trasformazioni politiche, sociali ed economiche, ma evidentemente ha prodotto un sistema autoritario e burocraticamente centralizzato che ha provocato gravi crisi interne. Si è verificata una patrimonializzazione dello Stato da parte delle élite dirigenti a scapito della società civile. Le élite dirigenti hanno soffocato la società civile per garantire il mantenimento dei propri privilegi. Spesso élite militari ed élite politiche, e qualche volta anche economiche, hanno coinciso. Naturalmente, il processo di secolarizzazione, spesso forzata, conseguente al predominio di ideologie come il socialismo e il panarabismo ha prodotto una reazione uguale e contraria di islamizzazione che ha conosciuto due fasi teorico-pratiche, l’una positiva e l’altra negativa. La fase positiva può essere considerata quella della thawra o rivoluzione. La thawra può essere definita come un movimento di islamizzazione della modernità nel quadro dello stato post-coloniale, caratterizzato da: una radicalizzazione delle esperienze politiche secolari; un irrigidimento dell’autoritarismo; il successivo progressivo abbandono dei modelli pan- arabisti e socialisti a favore di un nazionalismo particolaristico e di un liberismo capitalistico che ha assunto Medio Oriente nel secondo dopo guerra  Nascita dello Stato di Israele nel maggio del 1948, in seguito al ritiro della Gran Bretagna dalla Palestina, lasciandole una autonomia difficile di districare, tra rivendicazioni arabe e nuova presenza israeliana. (Delibera dell’ONU del 29 novembre 1947).  Prima guerra arabo-israeliana nel 1948, contro la potenza leader del mondo arabo di allora: l’Egitto, Stato confinante con il Monte Sinai appartenente alla Palestina contesa, e guidata dal Re Faruk (1936-1952). (Primo Ministro israeliano: David Gurion, 1948-1954). Risultato: vittoria di Israele con ampliamento dei confini territoriali nei pressi di Gerusalemme, prima sconfitta del mondo arabo- palestinese (Egitto), e primo «esodo» di 600.000 palestinesi, senza terra e senza casa.  29 ottobre 1956: seconda guerra arabo-israeliana tra Stato di Israele (D. Gurion) ed Egitto (nascita della Repubblica nel 1953 con a capo il colonnello Gamal Abd-al Nasser dal 1956 al 1970), causata anche dall’istigazione di Francia e Gran Bretagna con il fine di indebolire l’Egitto ed avere autonomia sul Canale di Suez. 6 novembre 1956: intervento dell’America e della Russia per fine delle ostilità, contro le vecchie rivendicazioni colonialistiche. Risultato: nascita di una nuova forma di Geopolitica mondiale con USA e Russia sempre al centro del nuovo ordine, frutto evidente della «guerra fredda», con USA filo-ebraica e Russia filo-egiziana.  5 giugno 1967: terza guerra arabo-israeliana, tra Stato di Israele ed Egitto, forte dell’appoggio della Russia, facendo bloccare il Golfo di Aqabah attraverso il quale passava buona parte dei rifornimenti israeliani. Israele attacca senza riserve l’Egitto, la Siria e la Giordania, allargando i propri confini fino al canale di Suez e occupando l’intero Monte Sinai (estensione territoriale israeliana massima). Fine della guerra il 10 giugno, chiamata «guerra dei sei giorni». Altri risultati: aumento del numero di «profughi» palestinesi e del loro esodo verso campi «senza territorio e senza Patria», e nascita nel 1969 della OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), guidata da Yasser Arafat (1929-2004, Presidente fino al 2004).  6 ottobre 1973: quanta guerra arabo-israeliana, guidata sempre dall’Egitto (con nuovo Presidente Anwar al-Sadat eletto nel 1970). «Guerra del Kippur» («Giorno dell’espiazione») che comportò gravi perdite territoriali e di vite umane ad Israele. Risultato: un allargamento degli interessi degli USA non solo verso Israele, ma anche verso il mondo arabo e l’Egitto in particolare. Trattato di Camp David: 1979, tra USA (Jimmy Carter, 1977-1981), Egitto (Anwar al-Sadat, 1970-1981) ed Israele (Menachem Begin, 1977-1983). L’Egitto riacquistò il territorio del Sinai, ma molti negoziati rimasero lettera morta e irrealizzati in quanto l’OLP accusava l’Egitto di tradimento facendo nascere una nuova «Lega» tra Giordania ed Arabia Saudita.  1991: Conferenza di pace convocata a Madrid (Spagna) sul Medio Oriente, gestita dal Presidente americano George Bush (1989-1993) con i rappresentanti dello Stato di Israele (Yitzhak Shamir, 1986-1992) e della Palestina.  1992-1993: Accordi di Oslo patrocinato dal Presidente americano Bill Clinton (1993-2001), dal Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin (1992-1995) a dal rappresentante della Palestina, Arafat. («Dichiarazione dei principi riguardanti progetti di auto-Governo ad interim»).  1998 e 2000: nuovi accordi di pace, siglati a Washington, coadiuvati sempre dagli USA, con i nuovi Primi Ministri Israeliani, Benjamin Netanyahu (1996-1999) e Ehud Barak(1999-2001) ed Arafat. Risultati instabili dei negoziati, a causa delle tante questioni aperte: -Ostacoli nella creazione di uno Stato indipendente della Palestina, che rende fragile il suo dialogo a livello internazionale. -Il ruolo degli insediamenti territoriali dello Stato di Israele, considerati troppo fuori norma ed allargati, a scapito degli arabi. - Il destino della contesa Gerusalemme, considerata città «eterna ed indivisibile» da tutti i tre popoli che la abitano. -Atteggiamenti spesso ostili da parte della Siria, Iran e Libia, a volte tagliati fuori dagli accordi «americani». -Nascita, a partire dagli anni Ottanta, di forme di lotta araba, «Intifada» (risveglio), nata come insorgenza popolare ma sostenuta dall’OLP, confluita poi nell’organizzazione di «Hamas». (Varie rivolte di «Intifada»: 1987, 2000 e 2015). HAMAS: Movimento islamico di resistenza, nato in Palestina nel 1987, con una forte ideologia nazionalistica a carattere arabo ed una finalità di imposizione religiosa (islamica) nella gestione della società e della politica. Erede delle ideologie dell’organizzazione dei «Fratelli musulmani» fondata in Egitto nel 1928, e fondato da Ahmad Yasin. Lo Statuto di Hamas dichiara che esiste una soluzione alla questione palestinese solo tramite la «Jihad» (lotta, sforzo, sia verso l’esterno, come guerra ed imposizione, sia verso l’interno, come lotta interiore per raggiungere una perfetta spiritualità). Geo-politica dei disordine Oltre 100 anni dopo, il Medio Oriente è ancora una polveriera in fiamme, dove le guerre infinite vedono l’intervento diretto e indiretto di altri Paesi in termini sia militari sia politici, il tutto connesso al petrolio. Materia prima fondamentale per il modello economico di sviluppo mondiale. Il petrolio prodotto dall’area mediorientale ha raggiunto nel biennio 2018/19 gli 11,5 milioni di barili per soddisfare la crescente domanda mondiale. Uno dopo l’altro i Paesi dell’area hanno conosciuto guerre e tensioni mai sopite: dal Libano alla Siria, da Israele ai territori palestinesi, dall’Iraq all’Iran, dal Kuwait sino allo Yemen per arrivare più lontano all’Afghanistan. La rivalità tra Iran e Arabia Saudita, dovuta non solo ai motivi religiosi (sciita il primo e sunnita il secondo), ma anche ad interessi geopolitici regionali, è un elemento di instabilità abilmente utilizzato da attori esterni. Se i due regimi gareggiano spesso e volentieri nella repressione dei diritti umani e delle libertà civili delle rispettive popolazioni, l’Occidente, e in particolare gli Usa, hanno chiuso ben più di un occhio sul regime arabo, amico di Washington anche dal punto di vista finanziario. L’accordo sul nucleare firmato nel 2015 a Vienna congiuntamente da Iran, Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna, Cina e Unione Europea, ma fieramente contestato da Israele. Tale accordo, finalizzato a garantire l’uso solo civile del nucleare, prevedeva anche una serie di severi controlli ad opera dell’AIEA, l’Agenzia internazionale per il controllo dell’energia atomica. In cambio le sanzioni economiche verso Teheran venivano ridotte. La nuova amministrazione Trump ha denunciato unilateralmente tale accordo, imponendo attraverso un embargo nuove sanzioni non solo verso l’Iran, ma anche verso i Paesi eventualmente in rapporti commerciali con Teheran. La timida risposta europea all’embargo deciso dalla Casa Bianca ha mostrato tutta l’impotenza dell’Unione Europea (sottomettendosi di fatto a questa imposizione), mentre Russia e Cina hanno cercato, invece, di trovare nuovi spazi economici e politici con il Paese persiano. Il regime di Teheran, nel frattempo, in questi anni ha espanso progressivamente la sua influenza allacciando rapporti con gli Hezbollah libanesi (1982), e al-Assad in Siria (dal 2000), nonché, attraverso la lotta contro il sedicente califfato islamico, penetrando anche in Iraq, devastato dal lungo periodo di caos successivo alla guerra contro Saddam Hussein (Pres. dal 1979 al 2003) fortemente voluta dal presidente statunitense G.W. Bush jr. Una serie di attacchi contro le basi statunitensi in Iraq, ritenuti ad opera delle milizie sciite sostenute da Teheran, hanno fornito la motivazione per l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani (Capo delle «Guardie della Rivoluzione»), il 3 gennaio 2020 da parte delle forze militari americane. La vicenda libica, con l’attuale intervento armato della Russia e della Turchia a sostegno delle due fazioni, è esemplare delle irresponsabilità occidentali, che hanno scatenato un’instabilità incontrollabile dapprima facendo cadere il regime di Gheddafi nel 2011 e poi non essendo capace di gestirne la fase successiva. L’Unione Europea, sempre più disunita, mentre la Gran Bretagna assume sempre forme autonome, mostra palesemente di non saper attuare una politica estera e della difesa comune, condizionata da un antico nazionalismo che riaffiora nei momenti cruciali. Nel gran caos, tramonta il sogno europeo, mentre i popoli del Medio Oriente e del Nord Africa stanno subendo gli effetti drammatici di politiche predatorie straniere. Geopolitica del petrolio: Prima e più importante risorsa dell’intero Medio Oriente, molte compagnie petrolifere mondiali, nella forma delle Multinazionali, sfruttano tale risorsa anche con la complicità di molti Governi corrotti che vogliono mantenere inalterato il loro potere. Geopolitica della religione: Prima e più importante risorsa «immateriale», che ingloba non solo gli aspetti privati di fede, ma anche quelli pubblici della cultura, della società, della politica e del generale orientamento internazionale. Religione «pubblica» ed Islamizzazione della società. Strategia del contenimento da parte dell’Occidente: -Produrre alleanze per limitare l’allargamento del ruolo del «panarabismo», che con a capo l’Arabia Saudita potrebbe stravolgere l’equilibrio tra Medio Oriente ed Occidente. -Stilare accordi «misti», tra Gran Bretagna, USA, Turchia ed Iraq, per contrastare un «socialismo arabo», che consiste in una preoccupazione americana che molti Paesi medio-orientali possano creare una indipendenza economica con il timore che possa portare un trasferimento del potere economico dalle vecchie classi dominanti filo-occidentali a nuove classi pro-nazionalistiche e troppo islamizzate. Le nuove parole dell’egemonia americana in Medio ed Estremo Oriente: -«Bandwagoning State»: uno Stato più debole che si allinea con un altro Stato o potere più forte, per non soccombere e trarre piccoli vantaggi politici. -«Pivotal State»: uno Stato guida che può essere in grado di stabilizzare e controllare una regione. (Egitto, Arabia Saudita e Turchia). -«Backlasch State»: uno Stato che non possiede una buona struttura democratica in grado di infastidire altri Stati e creare stabilità internazionale. (Nord Corea, Libia, Iran). - «Rogue State»: uno Stato che raggiunge livelli di pace e stabilità attraverso un Governo autoritario, limitando le libertà personali e/o attraverso l’uso del terrorismo reale o minacciato. I punti principali della «politica occidentale del contenimento» ha le seguenti caratteristiche: -Vuole escludere il peso dell’Islam e del fondamentalismo islamico nelle relazioni internazionali. -Vuole dare assistenza nella stabilizzazione politica in cambio di aperture commerciali. -Dare aiuti militari per garantire che il Paese in questione disponga di mezzi per difendersi in modo strategico. -Necessità di attivare, a volte, il meccanismo repressivo dell’embargo, come arma economico-commerciale per indebolire il Paese. Motivi occidentali al fondamentalismo islamico La logica del «nemico necessario» da affrontare, ha creato anche falsi pretesti e deboli giustificazioni da parte dei Paesi occidentali contro quelli Medio-orientali: -Attacco immediato da parte degli USA, dopo l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001, contro l’Afghanistan, e non solo nelle sue organizzazioni terroristiche di Bin Laden. In sostanza, non è sempre la politica ad affidare alle religioni un ruolo pubblico, ma sono le religioni stesse ad esigere il diritto a prendere parte al dialogo di potere nella società contemporanea secolarizzata, ed a sedere nel «tavolo dei potenti». L’importanza delle religioni, pertanto, diventa adesso inversamente proporzionale alla credibilità verso lo Stato: meno gli Stati sono in grado di offrire risposte credibili, sostenibili e stabili alle crisi politiche e socio-economiche (come continue guerre in Medio Oriente, nascita di gruppi terroristici di natura islamica, indebolimento dell’Unione Europea, aumento delle disuguaglianze economiche a livello mondiale, questione Africa, ecc.), più le religioni acquistano credibilità ed autorevolezza con le loro proposte etiche ed alternative. In questo contesto, le religioni si pongono alla base di una «nuova laicità» in grado di abbandonare le vecchie categorie politico-sociali e di affrontare le sue relative crisi con nuovi equilibri in cui esser stesse rivendicano il loro spazio. Stato laico significa Stato a-confessionale, ma non neutrale ed indifferente ai valori morali, religiosi e di etica pubblica. «Non uccidere», «non rubare» e «non desiderare la roba d’altri», ad esempio, prima che diventassero norme regolativo-legali di Stato, erano comandamenti religiosi che regolavano i rapporti umani in un periodo in cui lo Stato era ancora immaturo. Il versetto cristiano «dare a Cesare ciò che è di Cesare ed a Dio ciò che è di Dio» (Marco, 12, 13-17; Matteo, 22, 15-22 e Luca, 20, 20- 26), significa che l’uomo ha una doppia fedeltà: a Dio ed alla religione ma anche a Cesare ed allo Stato/società di cui fa parte; ed una doppia natura: umana-terrestre e trascendentale. Fondamentalismo islamico Alcuni caratteri basilari del «fondamentalismo islamico»: -Fondato per la prima volta in maniera stabile da un’organizzazione politica egiziana, chiamata «Fratelli musulmani» (1928). -Diventa un attore fondamentale della geopolitica internazionale a partire dagli anni ‘70, in merito ai rapporti tra Medio Oriente ed Occidente. -Si basa essenzialmente anche su un senso di frustrazione e di fallimento che gli arabi hanno vissuto dopo le guerre con Israele, viste come un «castigo di Dio»; ma anche sulla constatazione di adozione di un modello di sviluppo economico e politico di totale derivazione occidentale. -Necessità di ritrovare un sistema di certezze e di stabilità all’interno di una struttura islamica senza contaminazioni esterne e dal carattere endogeno, da fare derivare attraverso un recupero intransigente della Legge del Corano. -Mancanza di una separazione netta tra Stato e religione, in grado di prescrivere i comportamenti umani e le regole sociali attraverso le categorie della giustizia, dell’uguaglianza e della socialità, con una valenza laica e religiosa. -Enfatizzazione del fondamentalismo in chiave estremistica e terroristica, con l’obiettivo di compiere una «crociata al contrario», combattendo anche con le azioni terroristiche l’Occidente. Geopolitica delle religioni Una generale concezione di un «ritorno delle religioni» come attori della geopolitica mondiale, a partire in maniera prevalente dagli anni Settanta e poi enfatizzata dagli «eventi epocali» tra gli anni Ottanta e Duemila. -Ruolo dell’Islam come una religione non necessariamente autoritaria, conservatrice ed anti-moderna. Negli anni successivi alla crisi economica del 2008, si assiste ad una inversione di tendenza tra Paesi ricchi occidentali secolarizzati e Paesi in via di sviluppo musulmani del Medio-Oriente: come l’Indonesia, in rapida ascesa economica, la Turchia del conservatore Erdogan è stato il Paese più dinamico dell’intera area mediterranea, con tassi di crescita quattro volte superiori rispetto alla media dell’Unione Europea. E anche altri Paesi musulmani, come la Malesia, il Libano e l’Azerbaigian e le monarchie del Golfo hanno sperimentato uno sviluppo particolarmente intenso. -Secondo molti studiosi, sarà proprio il fallimento del nazionalismo arabo e di una costante «Lega araba» a riportare la religione islamica come motore principale di uno sviluppo politico e socio-economico. La data simbolo è il 1967 con la «guerra dei sei giorni» e la sconfitta dell’Egitto e dei Paesi arabi. In sostanza, l’umiliazione politica da parte dello Stato di Israele troppo filo-occidentale, ha fatto emergere due elementi: 1) inapplicabilità di un modello occidentale di sviluppo. 2) Proposizione di un unico modello medio-orientale e islamico di sviluppo, a favore di una de- secolarizzazione. Sono almeno quattro gli elementi che fanno della religione un fattore potente di mobilitazione politica. La comunanza di sentire produce infatti uno spirito di gruppo (a), nel quale è facile scambiare il concetto di “popolo eletto” con una sorta di titolo per dominare altri popoli. All’autentico slancio missionario (b) si sovrappongono allora gli interessi di gruppo (c), che poi altro non sono se non gli interessi materiali di ristrette élites. Da qui il ruolo, di (d), copertura ideologica che le religioni vengono spesso ad assumere nel corso della storia. Le religioni erano assai poco presenti negli studi di geopolitica e di geografia politica, una censura intellettuale legata all’origine della geografia umana quale disciplina accademica nella seconda metà dell’8001. È la forza degli eventi a riportare il tema di attualità, trasferendolo dalla “geografia sacra” alla “geopolitica delle religioni ”, nell’ambito della più generale “riscoperta” di un campo di studi che sembrava esser stato compromesso per sempre a causa dell’abuso che ne aveva fatto il nazismo La rivoluzione khomeinista, la guerra nell’ex Jugoslavia e la questione dell’entrata della Turchia nella UE spingono alla riflessione intellettuali ed ambienti culturali che per la loro matrice culturale si presentavano particolarmente sensibili. Storicamente, la coesistenza di comunità religiose differenti ha dato origine ad una varietà di quadri concettuali. Ne ricordiamo i principali: a) lotta per la sottomissione di un popolo a dominatori di altro credo, ciò che alla lunga porta o alla conversione forzata o all’esodo. È il caso dell’avanzata islamica in Asia, Africa ed Europa e della successiva “riconquista” dei territori europei. Molto più complessa è invece la cristianizzazione dei popoli coloniali, che è avvenuta velocemente solo nell’America latina. b) lotta per l’affrancamento di un popolo dai dominatori di diversa religione. È il caso delle “guerre di liberazione” condotte da tutti i popoli slavi nei confronti degli invasori tartari, turchi, nonché dai protestanti tedeschi e svedesi. c) Lotta per tutelare altri popoli che condividono la stessa fede. È il caso delle crociate e della politica estera russa nei confronti delle comunità ortodosse nei Balcani e nel Medio Oriente. d) Lotta per l’affermazione dell’identità/autonomia dei popoli attraverso la rottura dell’unità religiosa che faceva da collante all’interno di più ampie realtà politiche. È il caso dei movimenti di Riforma in Europa e dell’analoga frammentazione religiosa dell’Islam, nel quale l’opposizione più significativa è quella tra Sunniti e Sciiti. Occorre altresì considerare che mancando nell’Islam una divisione fra “quello che è di Cesare e quello che è di Dio”, al suo interno vige tuttora la confusione precristiana tra precetti religiosi e norme di legge. Ne consegue ad esempio che per gli islamici non è ammessa la libertà di culto, ed in materia ogni trasgressione può costare la vita, essendo equiparata a quello che per noi occidentali rappresenta il reato di “alto tradimento”. In termini operativi, la religione diviene così soggetto politico a tutti gli effetti e non esistendo una gerarchia spirituale come nel Cristianesimo, vige la regola dell’auto-investitura. Ciò è tanto più pericoloso quando tale auto-investitura avvenga con un programma di unificazione forzata di tutti i credenti in Allah. Più di recente, sotto l’amministrazione Obama, l’atteggiamento degli USA verso il mondo islamico ha assunto toni «morbidi» che tendono a “lavare” l’immagine di una superpotenza che si è presentata per 50 anni come cristiana e sostenitrice di Israele. Di fatto, all’atteggiamento personale di un presidente con notorie origini islamiche ed una concezione del cristianesimo «laica», corrisponde una politica estera improntata all’appoggio – neanche tanto mascherato – a tutti i gruppi del terrorismo islamico: da Al-Qaeda (in effetti un’invenzione della CIA) ai Fratelli musulmani, fino al cosiddetto Stato islamico. È sufficiente scorrere la stampa per rendersi conto che dietro al mostro che in nome dell’Islam sta riportando nella barbarie più cupa dei Paesi che rappresentano la culla della civiltà, figura una coalizione di paesi quali USA, Regno Unito, Francia ed i loro alleati Turchia, Arabia Saudita, Qatar. L’ISLAM Cosa significa Islam? Letteralmente "sottomissione ad Allah", la risposta a questa domanda si trova nelle parole del Corano. Infatti nel Corano si trovano gli insegnamenti di Dio - Allah. Allah insegna nel Corano: «In verità, la religione presso Allah è l' Islàm. (…) E chi preferisce una religione diversa dall' Islàm, non se la vedrà accolta e nella vita futura egli sarà nel numero dei perdenti». Nel Corano Allah ordina: «Obbedite ad Allah ed ubbidite all'Apostolo e a coloro che di voi detengono l'autorità islamica. (…) Chi ubbidisce all'Apostolo, obbedisce ad Allah. C'è per voi nell'Apostolo un modello esemplare». Con queste parole Allah sottolinea una importantissima verità: gli insegnamenti, i precetti e gli esempi di vita dell'Apostolo (il Profeta Muhammad ) hanno valore di regola di condotta. L'Islàm è il Codice di vita, che si fonda sul Corano e sulla Sunna del Profeta. -La parola Sunna significa "pratica di vita" e nella pratica di vita del Profeta ci sono esempi da imitare e modelli di comportamento da mettere in atto, per chi vuole vivere l'Islàm. Il nome di chi colui che possiede l'identità islamica è quello di muslim (musulmano). -Musulmano è, quindi, solo ed esclusivamente colui che è «sottomesso ad Allah», ha fede nel credo islamico e pratica l'Islàm con un codice di vita che si fonda su cinque regole essenziali: i pilastri. Il libro, che in modo esplicito, chiaro ed evidente afferma che ogni popolo ha il suo profeta ed il suo libro sacro, e che tutti sono stati inviati da Dio, è il Corano. La rivelazione divina è universale per il Corano: (2,213). «Erano un tempo, gli uomini una nazione sola, e Dio mandò i profeti, araldi ed ammonitori, e con loro rivelò il Libro pieno di Verità». Il Libro dunque non va inteso esclusivamente come testo visibile ma come sapienza scritta oltre il tempo e lo spazio. «Se tutti gli alberi della terra diventassero calami, e il mare, e sette mari ancora, fornissero l’inchiostro, le parole di Dio non sarebbero esaurite». (Cor. 31.27). La Rivelazione è eterna e senza confini. Il Corano afferma che Dio ha inviato ad ogni popolo il suo messaggero ed il suo libro (nel Libro) ( 7,52-10,47 e 74 -8,4-15,10-16,326 e 43-17,15-22,75-30,46-35,24- 37,72 e 176) e che tutti saranno giudicati in base a quanto di esso hanno conosciuto. E' ribadito in tre punti che chi prega nel divino (ossia in Sé) e si comporta onestamente è approvato da Dio. (2,62- 5,69- 4,124) quindi non già esclusivamente chi segue una fede particolare «uomini e donne, ebrei cristiani sabei e chiunque prega il divino e compie il bene quegli avrà il suo paradiso e non sarà leso da nulla». Per cui il musulmano è tenuto ad accettare e rispettare tutte le fedi come provenienti da Dio ed a non imporre le sue regole e la sua fede. (2,256) «nessuna costrizione in fatto di religione». sull'anziano Abū Bakr, uno dei primi ad avere abbracciato l'islam. Il breve califfato di Abū Bakr (632-634) diede avvio al periodo dei rashidun, i "califfi ben guidati", comprendente lo stesso Abu Bakr, ‛Omar (634- 644), ‛Othman (644-656) e ‛Ali (656-660). Successori: famiglia Omayyadi (661- 750) e famiglia Abbasidi (750-1258, discendenti dello zio di Maometto, Abbas). Religione e politica in Medio Oriente Nel corso dell’ultimo anno la competizione tra Iran e Arabia Saudita è tornata ad infiammare le tensioni all’interno del Medio Oriente, regione in cui le due potenze cercano di affermare il proprio primato da ormai oltre quattro decenni. Simbolo delle due grandi anime dell’Islam, la Repubblica Islamica e la Monarchia degli al-Saud hanno saputo strumentalizzare a scopi politici le diatribe settarie tra sciiti e sunniti e le divisioni etniche tra persiani e arabi per cercare di cristallizzare le rispettive sfere di influenza e ridimensionare il margine di manovra dell’avversario. Gli sconvolgimenti politici e le crisi di sicurezza che hanno interessato la regione negli ultimi quarant’anni sono stati il contesto dentro il quale i due Paesi hanno consumato questa rivalità, adattando la propria strategia di espansione al mutare degli equilibri sottesi alla stabilità dei propri vicini. Potendo contare sulla portata rivoluzionaria del proprio messaggio, il governo di Teheran ha fatto della guerra «politico-religiosa» il vettore principale della propria proiezione regionale. L’esportazione di un modello, che affonda le radici nella concezione stessa di comunità interna al mondo sciita, ha permesso all’Iran di creare una rete su cui fondare un arco di resistenza sciita che, di fatto, consente alla Repubblica Islamica di estendere la propria influenza fino al Mediterraneo. A fronte della crescita esponenziale dell’influenza iraniana nella regione, l’Arabia Saudita ha, di contro, adottato una postura più rigida e intransigente, orientata a cercare di piegare l’arco sciita ricorrendo al proprio peso politico ed economico, non solo nei confronti dei vicini, ma anche del tradizionale alleato statunitense. Contando sempre meno sulla presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente, Riyadh ha cercato di sfruttare la politica di massima pressione esercitata da Washington sul rivale persiano per ritagliarsi nuovi spazi di manovra e aprire nuovi possibili tavoli di scontro indiretto in cui provare a drenare la resistenza dell’Iran. La rivalità tra Iran e Arabia Saudita è una delle variabili che hanno plasmato e fortemente condizionato gli equilibri in Medio Oriente negli ultimi quarant’anni. Fondata sulla dialettica tra sunnismo e sciismo, tutta interna al mondo islamico, la dicotomia tra Teheran e Riyadh affonda le proprie radici in quell’uso strumentale delle divisioni etnico-settarie che ha contraddistinto i processi di affermazione delle identità nazionali in questa regione. La fondazione della Repubblica Islamica in Iran nel 1979, infatti, ha segnato un momento di svolta epocale per la ricerca identitaria delle comunità in seno al mondo mediorientale, in quanto, per la prima volta nella storia, ha dato agli sciiti un elemento unitario attorno al quale riconoscersi ed identificarsi. La creazione di una teocrazia persiana e sciita nel cuore dello scacchiere mediorientale ha colto impreparato il mondo sunnita, che era alla disperata ricerca di un nuovo collante identitario dopo la fine del Califfato. Con la caduta dell’impero ottomano, infatti, il venir meno della figura politica e unificatrice del Califfo aveva frammentato la Umma (la comunità dei credenti) e aveva lasciato i sunniti in preda ad un senso di disorientamento a cui né il panarabismo né il nazionalismo arabo riuscivano a dare risposta. Il carattere rivoluzionario del fondamentalismo khomeinista e la pretesa di Teheran di presentare l’esperienza iraniana come avanguardia di una rivoluzione islamica globale, hanno stimolato un nuovo fermento all’interno dello stesso mondo fondamentalista sunnita. Il timore che la teocrazia sciita potesse assurgere a difensore della purezza dell’Islam ha innescato un risveglio speculare e di segno opposto di movimenti e organizzazioni sunnite, che ha fatto vacillare la solidità delle classi dirigenti arabe all’interno degli Stati nazione. Da un lato ha portato al rafforzamento o alla nascita di nuovi movimenti politici islamisti pronti a prendere parte alla vita pubblica e intenzionati a promuovere una gestione dello Stato più vicina ai valori e ai precetti dell’Islam. Dall’altro ha favorito la nascita e la diffusione di gruppi salafiti che non solo hanno iniziato a fomentare il risentimento settario in chiave antisciita, ma hanno iniziato a contestare la legittimità delle stesse classi dirigenti nei Paesi arabi. L’inadeguatezza del sistema ereditato dai Paesi europei ha posto gli Stati regionali di fronte al problema di trovare delle soluzioni che rispondessero a tutti gli effetti alle nuove esigenze della popolazione e dessero una nuova giustificazione al proprio potere. Questa dinamica è stata percepita in primis dalla famiglia reale in Arabia Saudita, che ha sempre trovato nel ruolo di protettore dei luoghi sacri dell’Islam (Medina e La Mecca) il fulcro della propria legittimità, soprattutto all’interno del Paese. Per cercare di scongiurare che l’emersione del salafismo e dei movimenti fondamentalisti sunniti potesse diventare un fattore di criticità per il consenso interno, la Monarchia al- Saud ha iniziato a presentarsi come principale promotore degli interessi della comunità sunnita e ad utilizzare il discorso religioso come strumento di consolidamento e messa in sicurezza della propria autorità. L’opposizione all’agenda sciita in Medio Oriente è così diventata la carta da giocare per spingere la comunità sunnita a serrare i ranghi intorno al governo e per promuovere un conservatorismo politico in grado di garantire la stabilità della classe dirigente. L’utilizzo della contrapposizione settaria tra sunniti e sciiti come strumento di potere, di fatto, è diventato il fil rouge della rivalità politica tra Iran e Arabia Saudita. La contestazione da parte iraniana della legittimità degli al-Saud come “Custodi dei Luoghi Santi” de la Mecca e Medina è stato solo l’esempio più evidente di come per Teheran la dialettica religiosa sia da subito diventata strumentale sia alla giustificazione della propria esistenza agli occhi della comunità islamica mediorientale sia al cambiamento degli equilibri di potere nella regione a proprio vantaggio. Di contro, l’Arabia Saudita ha cercato di cavalcare il timore diffuso tra i Paesi arabi che l’ascesa della potenza sciita sarebbe andata a discapito della stabilità interna al Medio Oriente, per gettare le basi di una nuova geometria di alleanze in chiave anti-Iran. Questa contrapposizione è basata essenzialmente su un equilibrio di pieni e di vuoti, che Teheran e Riyadh hanno dovuto cominciare a riempire per allargare la propria sfera di influenza ai danni del proprio rivale e che continua tutt’oggi ad influenzare le dinamiche di potere sottese alla regione mediorientale. La rivalità religiosa tra i due Paesi è quindi sempre immediatamente declinata come una contesa politica, economica e sociale nei diversi contesti locali. L’elemento settario-religioso diventa così la lente attraverso la quale i due Paesi declinano, di volta in volta e a seconda delle opportunità in gioco, la propria politica estera nella regione. L’erogazione di servizi scolastici ed assistenziali come forma di proselitismo religioso, il supporto a movimenti politico-sociali da trasformare in quinte colonne della propria influenza in Paesi terzi, il finanziamento a gruppi armati e di insorgenza per destabilizzare o fiaccare la resistenza del proprio rivale, sono solo alcuni esempi dei vettori sui quali Iran e Arabia Saudita hanno impostato la corsa verso il consolidamento del proprio primato all’interno della regione. Sebbene nel corso del tempo si sia dimostrata un gioco al rialzo, la competizione tra Teheran e Riyadh si è sempre concretizzata come forma di guerra asimmetrica, indiretta, combattuta in scenari terzi o attraverso la mobilitazione dei propri alleati, regionali o extra-regionali. Questa scelta mostra la volontà di entrambi di scongiurare la degenerazione della rivalità in un conflitto convenzionale, che getterebbe tutto il Medio Oriente in una spirale di caos e destabilizzazione dalla quale difficilmente potrebbe emergere un vero vincitore. La fluidità degli sviluppi che hanno interessato il contesto mediorientale negli ultimi diciotto mesi, tuttavia, ha portato ad un animato riaccendersi della antitesi tra i due Stati. La crisi di sicurezza che ha interessato le acque del Golfo nell’estate 2019 e l’attacco contro i siti petroliferi dell’azienda di Stato saudita Saudi Aramco lo scorso settembre, infatti, hanno messo in evidenza la reale portata di questa competizione e i possibili effetti che questa potrebbe avere sugli interessi e gli equilibri di tutta la Comunità Internazionale. La rivalità dell’Iran verso l’Arabia Saudita è il riflesso diretto della parabola evolutiva conosciuta dalla strategia di influenza elaborata da Teheran nel corso degli ultimi 40 anni. Consapevole di dover far fronte alla disparità numerica tra sunniti e sciiti e al conseguente maggior peso politico di cui ha sempre goduto la maggioranza sunnita in Medio Oriente, la Repubblica Islamica ha fatto della lotta per l’affermazione dell’identità sciita il cardine della propria strategia politico-religiosa. Per la leadership iraniana, infatti, la priorità assoluta nella propria agenda politica è la conservazione e il rafforzamento del sistema della Repubblica Islamica. Fortemente segnata dall’immediata contrapposizione degli Stati arabi suscitata dall’insediamento del governo degli ayatollah (palesatasi in modo lampante durante la guerra degli Anni ’80 con l’Iraq), Teheran ha cercato di espandere la propria proiezione esterna, per dotarsi al contempo di una rete di influenza e di una capacità di deterrenza con cui contrastare eventuali aggressioni dall’esterno. Tale priorità si è inevitabilmente concretizzata in una forma di opposizione allo status e agli interessi dell’Arabia Saudita, che è così diventato, di riflesso, il principale rivale per la realizzazione del disegno di Teheran nella regione. Per espandere il proprio orizzonte di azione e assicurarsi una capacità di penetrazione e di influenza in Paesi terzi, l’Iran ha saputo sfruttare a proprio vantaggio la concezione religiosa e sociale di comunità per gli sciiti. L’interpretazione della Umma come collettività di fedeli, che si basa sul sentimento di fratellanza e di assistenza reciproca, infatti, ha permesso al governo degli ayatollah di presentare la propria politica estera come un’azione di soccorso a vantaggio dell’affermazione dei diritti da parte dei propri fratelli musulmani. Questo sforzo è sempre declinato, al contempo, sia come mobilitazione di risorse economiche da destinare a movimenti locali per consentire l’erogazione di servizi di assistenza sociale a favore della propria comunità, sia come addestramento e supporto operativo ai gruppi di insorgenza contro i governi sunniti. Entrambe queste dimensioni rappresentano i pilastri portanti del modello di influenza iraniano che la Repubblica Islamica ha sviluppato e adattato nel tempo per assicurarsi un’entratura privilegiata nelle società dei Paesi mediorientali. Ciò, in particolare, ha permesso a Teheran di trovare delle finestre di opportunità per provare a muoversi dal basso e conquistarsi delle leve politiche in grado di influenzare i vicini dall’interno. L’impianto teologico del «velayat-e faqih» (“tutela dei giureconsulti”) è il principio formulato dall’ayatollah Ruhollah Khomeini ed ispiratore della stessa rivoluzione iraniana. Si basa sulla convinzione che l’unico sistema in grado di difendere la purezza della religione islamica e la comunità sciita sia quello in cui la sua classe si ponga al centro delle istituzioni e assume il compito di governare e di proteggere gli interessi e l’identità degli sciiti. Paragonando l’esperienza storica della fondazione della Repubblica Islamica in Iran, il khomeinismo ha cercato di far assurgere il principio rivoluzionario a elemento costitutivo dell’identità di tutti gli sciiti, al di là di qualsiasi confine geografico o distinzione etnica. Una componente fondamentale di questo successo è rappresentata dall’abilità della Repubblica Islamica di utilizzare la propria rete di alleanze all’interno delle comunità sciite all’estero come vettore principale per l’esportazione della propria esperienza. Forte del già ricordato senso comunitario proprio dello sciismo, la classe dirigente iraniana ha fatto della guerra il fulcro della capacità di penetrazione all’estero. Il sostegno a movimenti sociali e gruppi militanti in lotta per l’affermazione dei propri diritti è lo strumento utilizzato dall’Iran per moltiplicare i focolai della rivoluzione e allontanare i fronti di instabilità dal proprio confine. Attraverso il finanziamento, il mentoring, l’addestramento militare fornito alle realtà locali, l’Iran ha creato una costellazione di interlocutori che ha sapientemente coltivato nel tempo e per mezzo dei quali è riuscita a ritagliarsi degli spazi di influenza politica sempre maggiore. Il ricorso alla guerra asimmetrica, inoltre, ha permesso al governo iraniano non solo di non invischiarsi mai in scontri diretti con i Paesi circostanti, ma soprattutto di poter tirare indirettamente le fila delle diverse crisi regionali e raccoglierne i dividendi. Sono i «Pasdaran» (Corpo delle guardie della Rivoluzione islamica) ad aver gestito, e a gestire tuttora, l’ascesa regionale dell’Iran e, di fatto, ad aver reso possibile la creazione del cosiddetto “asse di resistenza” sciita che Teheran ha potuto contrappore nel corso degli ultimi decenni ai tentativi di contenimento messi in atto da Stati Uniti e Arabia Saudita. È una resistenza che si è trasformata nel tempo e si è adattata all’evoluzione delle stesse esigenze politiche del governo iraniano. Per tutti gli Anni Ottanta e Novanta, infatti, l’invito alla resistenza è stato rivolto a tutti i musulmani come forma di opposizione a Israele, per far risaltare il ruolo della Repubblica Islamica come vero difensore del popolo palestinese e del mondo islamico contro la politica di Tel Aviv, in contrapposizione al fallimento dei Paesi arabi in questo senso. Il grande esempio di questa dinamica è la parabola evolutiva conosciuta da un gruppo come Hezbollah in Libano, nato come banco di prova per testare l’attecchimento della rivoluzione in uno Stato arabo e trasformatisi poi in un pilastro del supporto della resistenza sciita nella regione. Con l’occasione offerta dall’invasione del Libano meridionale da parte di Israele (1982), l’Iran ha provato a raccogliere l’eredità dei movimenti sciiti locali per formare un attore nuovo, portatore di istanze più radicali e più vicino all’interpretazione khomeinista del rapporto tra potere spirituale e temporale all’interno dello sciismo. Tale processo è stato agevolato dallo sforzo olistico messo in campo della Repubblica Islamica per cercare di creare le condizioni ideali al rafforzamento della comunità sciita e al reclutamento per Hezbollah. Per la prima volta, infatti, in Libano, le Guardie della Rivoluzione hanno promosso la creazione di scuole, moschee, ospedali e di una rete di associazioni di  il Presidente della repubblica è cristiano maronita.  il primo ministro è sunnita,  il presidente del parlamento è sciita.  Gli accordi di Ta'if del 1989 non hanno modificato questo sistema, ma si sono limitati a riequilibrare i rapporti di forza tra le confessioni maggiori, facendo in modo che il numero di deputati musulmani fosse pari al numero di deputati cristiani, e aumentando i poteri e le prerogative del primo ministro a scapito del presidente della repubblica. La popolazione libanese comprende diversi gruppi religiosi. Lo Stato riconosce ufficialmente 18 confessioni, tra le più importanti, vi sono quelle cristiana, musulmana e ebraica. Il Libano proclamò l'indipendenza nel novembre 1943, durante la seconda guerra mondiale mentre la Francia era occupata dalla Germania nazista o sotto il regime fantoccio di Vichy, il cui alto commissario mandatario, generale Henri Dentz, spingeva per l'indipendenza. Perciò il Regno Unito, che aveva varie forme di controllo su Sudan, Egitto, Palestina, Giordania e Iraq, occupò militarmente Siria e Libano e li pose sotto l'autorità della Francia libera di De Gaulle. La storia libanese successiva all'indipendenza è stata caratterizzata dall'alternanza di periodi di stabilità politica e di disordini. Il 29 novembre 1947, come tutti i paesi arabi, il Libano non accettò la risoluzione 181 dell'ONU che ripartiva il territorio della Palestina mandataria fra uno Stato ebraico (Israele) e uno Stato arabo (Palestina) a partire dal 1948. Di conseguenza, al termine del mandato britannico (14 maggio 1948) Israele proclamò l'indipendenza e la Lega araba, incluso il Libano, iniziò la guerra, durante la quale il Libano non invase Israele, ma si limitò a dare sostegno logistico all'Esercito Arabo di Liberazione. Dopo l'armistizio del 1949 il Libano non ha più partecipato militarmente ad alcun conflitto arabo-israeliano: non alla crisi di Suez (1956), né alla guerra dei sei giorni (1967), né alla guerra del Kippur (1973). Dopo la guerra arabo-israeliana del 1948, in Libano giunsero più di 100.000 profughi palestinesi in fuga dopo la proclamazione dello Stato di Israele, mentre le risoluzioni delle Nazioni Unite non venivano applicate. Altri profughi si aggiunsero dopo la guerra del 1967 fra arabi e israeliani. La stessa maggioranza cristiana del Libano così non fu più tale, allorché nei suoi confini si contarono alla fine circa 2 milioni di profughi palestinesi, gettando le basi della futura drammatica guerra civile che avrebbe squassato il Paese. Alla precarietà politica nel Libano si è sovrapposta una rapida prosperità economica, determinata dall'importanza che Beirut riveste nel Vicino Oriente quale centro finanziario e commerciale. Le riforme e la modernizzazione, insieme a un'amministrazione efficiente, che il presidente Fu'ad Shihab (1958-1964) tra gli anni Cinquanta e Sessanta seppe imporre al suo Paese fecero del Libano il centro economico-finanziario, ma anche culturale, dell'intero Medio Oriente, e di scambi commerciali con i principali paesi europei, in particolare Francia e Italia. Una guerra civile è stata combattuta nel paese tra il 1975 ed il 1990, che ha visto numerosi contendenti e frequenti capovolgimenti di alleanze. A fronteggiarsi furono da una parte le milizie composte da cristiani maroniti – delle quali la principale faceva riferimento al partito falangista di Pierre Gemayel – e dall'altra una coalizione di palestinesi alleati a libanesi musulmani sunniti, sciiti (Amal) e drusi. Nel 1982 il Paese subì un'invasione da parte di Israele: l'operazione militare fu denominata da Israele "Pace in Galilea" e dagli storici Prima guerra israelo-libanese. Essa fu intrapresa per sradicare dal Libano la presenza armata palestinese e si spinse oltre il sud-Libano, in cui le unità della resistenza palestinese s'erano insediate, arrivando fino a Beirut, dove aveva sede l’OLP, ed ebbe il sostegno dei cristiano-maroniti. Il neoeletto presidente della Repubblica Bashir Gemayel il 14 settembre 1982, nove giorni prima dell'investitura ufficiale, cadde vittima di un attentato (attribuito al Partito Nazionalista Sociale Siriano) perdendo la vita, insieme ad altri 25 dirigenti, nell'esplosione del quartiere generale falangista ad Ashrafiyyeh, nella parte orientale di Beirut. Vi fu a questo punto un intervento internazionale multi forze americano, francese e italiano (Missione Italcon) che consentì la fuga della dirigenza dell'OLP e di molte unità armate palestinesi alla volta dei Paesi confinanti. In seguito agli Accordi di Ta'if del 1989 termina la guerra e nasce la II Repubblica libanese. Amin Gemayel e alcuni dei suoi sostenitori si opposero e andarono in esilio dopo la nomina di un governo presieduto dal generale Michel Aoun, che nel 1990 fu deposto dai siriani. La presenza siriana divenne preponderante, nonostante fosse sotto le insegne della Forza Araba di Dissuasione. Ma con la fine della guerra iniziò anche un periodo di ricostruzione. Il 12 luglio 2006, i miliziani sciiti libanesi conosciuti come Hezbollah, attaccarono una pattuglia dell'esercito israeliano in perlustrazione nei pressi del villaggio di Zar’it. Israele iniziò un'aggressione militare contro il Libano. Nei giorni seguenti i bombardamenti aerei israeliani abbatterono molte infrastrutture moderne e diversi ponti vennero in quel mese distrutti. L'11 agosto 2006, dopo settimane di stallo in cui la diplomazia non era riuscita a giungere ad una tregua tra le parti per consentire l'apertura di corridoi umanitari in favore della popolazione civile libanese, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite votò all'unanimità la Risoluzione 1701. Il testo della risoluzione chiede l'immediata cessazione delle ostilità tra Israele e Hezbollah, il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale, in concomitanza con lo schierarsi nella zona delle truppe regolari libanesi e dell'UNIFIL e prevede la creazione di una zona cuscinetto "libera da ogni personale armato che non sia quello delle Nazioni Unite e delle forze armate regolari libanesi" per dodici miglia tra la frontiera israelo-libanese e il fiume Litani. La risoluzione richiama al rispetto della precedente Risoluzione 1559 del 2004, che aveva richiesto il disarmo delle milizie libanesi, compresa Hezbollah. Dal 2011 nel corso della guerra civile siriana, si è determinato un riacutizzarsi dello scontro settario libanese che vede le fazioni sunnite sostenere i ribelli, mentre quelle sciite, e in particolare la milizia Hezbollah, sostenere anche militarmente il governo siriano. Per anni, il Libano ha pagato gli interessi sul proprio debito pubblico attraverso altri prestiti, in un spirale progressiva di debito pubblico crescente, ma sul finire del 2019 tale meccanismo ha iniziato a scricchiolare, portando il Paese all'insolvenza nel marzo 2020. La dimensione della crisi economica è stata tale che molte famiglie sono tornate al baratto, vedendo il potere d'acquisto dei propri stipendi contrarsi di oltre il 90%; in aggiunta, il paese ha dovuto affrontare la pandemia globale di Covid 19. Il 4 agosto 2020, l'esplosione accidentale di 2750 tonnellate di nitrato d'ammonio stoccato in condizioni precarie nel porto di Beirut ha generato la distruzione di buona parte della città, causando 270 morti, 5000 feriti, 300 000 senzatetto, distruggendo oltre la metà delle riserve di grano del paese e privando il Libano del porto da cui transitava circa il 60% della propria merce. A seguito dell'esplosione si sono riversate in strada migliaia di persone a Beirut per protestare contro il Governo. IRAQ Per circa 25 anni (16 luglio 1979 – 9 aprile 2003) il Paese è stato governato da Saddam Hussein. In seguito alla caduta di questo avvenuta nel 2003, l'Iraq è divenuto nel 2005 una Repubblica parlamentare federale sotto l'influenza e il controllo degli Stati Uniti d'America. Tra il 2014 e dicembre 2017 la parte occidentale del Paese è rimasta sotto il controllo dello Stato Islamico, gruppo fondamentalista jihadista, in guerra col governo centrale. Gli iracheni sono ufficialmente in larghissima maggioranza musulmani (99% della popolazione). Nello specifico, circa il 62,5% della popolazione è di fede musulmana sciita e il 34,5% è di fede musulmana sunnita. Vi è poi una piccola minoranza di cristiani. Il 14 luglio 1958 un colpo di Stato messo in atto dal Comitato degli Ufficiali Liberi guidati dal generale ʿAbd al-Karīm Qāsim (talora scritto Abdul Karim Kassem) e dal colonnello ʿAbd al-Salāam ʿĀrif, istituì la repubblica, giustiziando sommariamente l'intera famiglia reale con i suoi notabili e perseguendo una linea nazionalista e neutralista. L'8 febbraio 1963 Qāsim viene ucciso nel corso di un ulteriore colpo di Stato, che porta al potere il partito Ba'th, di ispirazione socialista e panaraba, favorevole a un avvicinamento in politica estera all'Unione Sovietica. Preso il potere, il Baʿth instaura un controllo molto stretto sulle istituzioni e sulla società irachena, in direzione panaraba e socialista anziché nazionalista, appoggiandosi preferibilmente sugli arabi sunniti, soprattutto dopo la presa del potere da parte di Saddam Hussein nel 1979, che abbandonerà rapidamente l'ispirazione socialista e filo-sovietica e, negli ultimi anni del regime, anche quella panaraba. Il 1º giugno 1972 il governo nazionalizza l'industria petrolifera fino a quel momento in mano alla Iraq Petroleum Company britannica: questa decisione avrà un ruolo chiave nelle successive decisioni dell'OPEC. Il governo repubblicano iracheno si impegna poi fortemente nella modernizzazione del Paese. Grazie alla vendita del petrolio nazionalizzato, il governo finanziò l'elettrificazione del paese, la costruzione di acquedotti, scuole, università, ospedali. La politica interna giungerà al creare ed intensificare un'economia industriale e produttiva non collegata al petrolio, con creazione di posti di lavoro e di benessere per la popolazione. Va inoltre ricordato il riconoscimento di numerosi diritti civili alle donne e l'instaurazione di una forma di governo interamente laica. Nel 1980 gli Stati Uniti e i paesi NATO appoggiarono con aiuti economici e militari la volontà dell'Iraq (che aveva rivendicazioni territoriali) a scendere in guerra il 22 settembre contro l'Iran (dove una rivoluzione fondamentalista islamica aveva rovesciato la monarchia); al termine (8 agosto 1988) del conflitto però non ci furono né vincitori né vinti. Prima guerra del Golfo (1990-1991). Il 2 agosto 1990 l'Iraq occupò il Kuwait, adducendo antiche rivendicazioni territoriali e più recenti ragioni economiche legate allo sfruttamento dei pozzi petroliferi. Con l'annessione del Kuwait l'Iraq diventa il maggior produttore di petrolio con il 20,9% del mondo, inoltre per la ricchezza finanziaria è come se si fosse preso la più grande banca mondiale. Le Nazioni Unite reagiscono autorizzando l'uso della forza per respingere l'attacco. Il 17 gennaio 1991 ha così inizio l'invasione da parte di una coalizione internazionale che agisce su mandato delle Nazioni Unite, invasione che si conclude il 28 febbraio, seguita il 3 aprile dal cessate il fuoco definitivo fissato dalla risoluzione 687 del Consiglio di sicurezza dell'ONU. L'Iraq è costretto a ritirarsi dal Kuwait ma la coalizione a guida americana invade l'Iraq e decide di fermarsi prima di raggiungere la capitale irachena, permettendo al regime di sopravvivere. In seguito a questi avvenimenti, però, l'Iraq subisce un isolamento internazionale che termina solo in seguito al rovesciamento del regime baathista nel 2003. A partire dal 1997 tornò a intensificarsi lo scontro tra Saddam Hussein e l'amministrazione statunitense, causato dagli ostacoli frapposti dalle autorità irachene ai controlli dell'UNSCOM ritenuti opera di spionaggio statunitense: nel dicembre del 1998 una nuova crisi, durante la quale gli Stati Uniti lanciarono l'Operazione Desert Storm. L'intervento personale del segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ottenne la ripresa delle ispezioni. Nonostante quest'ultimo accordo, però, la questione rimase irrisolta, e agli inizi del 1999 gli aerei statunitensi e britannici ripresero le incursioni sul territorio iracheno. Dopo l'attacco terroristico subito dagli Stati Uniti l'11 settembre 2001 il governo di Washington accusò il regime iracheno di produrre armi di distruzione di massa e di collaborare con l'organizzazione terroristica al-Qāʿida, e riprese gli attacchi aerei contro obiettivi strategici e militari iracheni. In seguito all'intensificarsi degli attacchi aerei e all'esplicita minaccia degli Stati Uniti di scatenare una nuova guerra, a settembre l'Iraq consentì la ripresa delle ispezioni dell'ONU. Tuttavia, il presidente statunitense George W. Bush, scettico nei confronti dell'accordo, chiese una nuova risoluzione dell'ONU che autorizzasse un nuovo intervento militare contro il regime di Saddam Hussein; la richiesta di Washington fu tuttavia accolta solo da pochi paesi e da un solo altro membro del Consiglio di sicurezza dell'ONU, la Gran Bretagna. Seconda guerra del Golfo (2003). Il 20 marzo 2003, nonostante l'opposizione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, gli Stati Uniti e il Regno Unito lanciarono l'attacco contro l'Iraq, sostenuti da una trentina di paesi. La forza di invasione anglo-americana, penetrata nel paese dal sud e dal nord (dove si avvalse del sostegno dei curdi), si impose agevolmente sulla resistenza irachena, arrivando a Baghdad il 9 aprile. Saddam Hussein si diede alla fuga e venne poi catturato nel dicembre successivo nei pressi di Tikrit, la sua città natale, venendo poi condannato a morte da un tribunale ad hoc e impiccato il 30 dicembre 2006. A luglio del 2004 venne instaurato un'Autorità Provvisoria di Coalizione (APC), i cui posti chiave vennero assegnati a membri dell'opposizione rientrati dall'esilio e ai rappresentanti delle comunità curda e sciita. La decisione comportò anche il licenziamento di un gran numero di funzionari statali iracheni, inclusi 40 000 insegnanti di scuola che si erano iscritti al Bath soltanto per ottenere più facilmente un lavoro retribuito. Saranno in gran parte gli ex militari rimasti disoccupati e i vecchi quadri dell'amministrazione baathista a saldare un'alleanza con gli estremisti religiosi fornendo gli effettivi militari del futuro Stato Islamico. Le forze alleate vincitrici incontrarono nei mesi successivi alla conquista del Paese una dura resistenza, condotta per lo più da ex membri del regime baathista e da miliziani fondamentalisti iracheni e stranieri (alcuni dei quali più o meno legati ad al-Qāʿida) e costituitosi poi in Stato Islamico. anni. Nel corso degli anni ottanta la guerra Iran-Iraq ebbe importanti riflessi sulla Siria, che prese posizione a favore dell'Iran. Ciò contribuì non poco a isolarla nel mondo arabo, dove prevalente era la preoccupazione per il rafforzamento della rivoluzione islamica iraniana. Paradossalmente anche al-Asad dovette fare i conti con la crescita dell'integralismo islamico. I Fratelli Musulmani organizzarono vere e proprie insurrezioni di massa contro il regime del Ba'th, stroncate da al-Asad con una spietata repressione culminata nel massacro di Hama del 1982 (circa 30.000 morti). La Siria colse l'occasione per uscire dall'isolamento internazionale nel 1990, quando, dopo l'invasione irachena del Kuwait, al-Asad si schierò con la coalizione guidata dagli USA contro Saddam Hussein. Negli anni novanta al-Asad, che continuava a governare autoritariamente il Paese (nel 1991 e nel 1999 venne riconfermato presidente), intavolò trattative di pace con Israele, poi fallite. Nel giugno 2000 al-Asad morì, e il 17 luglio gli succedette il figlio ed erede designato, Bashār al-Asad. Dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 i rapporti con l'Occidente si incrinarono e Bashār si oppose all'invasione americana dell'Iraq (2003). Nel 2004 i separatisti Curdi insorsero nel nord del Paese, nel 2005 la Siria fu accusata del coinvolgimento nell'omicidio di Rafīq Ḥarīrī e dovette richiamare in patria le proprie truppe dal Libano. A partire dal 2011 tutta la Siria venne coinvolta da manifestazioni popolari che chiedevano una maggiore apertura verso le libertà individuali dei cittadini. L'opposizione del Governo siriano a queste richieste portò i manifestanti a chiedere la caduta del regime. Le forze governative risposero alle manifestazioni con una violenta repressione, in particolare servendosi dell'aiuto delle milizie degli Shabiha; la conseguente resistenza da parte di vari membri dell'opposizione siriana portò alla formazione di un movimento insurrezionale, l'Esercito siriano libero (ESL), composto da molti disertori dell'esercito regolare. L'ESL, dopo mesi di combattimenti conquistò varie zone della Siria, tra cui buona parte della città di Aleppo. Con l'avanzarsi della guerra civile vari gruppi armati iniziarono a inserirsi nel conflitto, fra cui i più influenti furono le milizie curde dell’YPG («Unità di Protezione Popolare») e i miliziani dello Stato Islamico. La presenza di quest'ultima organizzazione, a causa delle sue attività terroristiche, determinò l'intervento internazionale in Siria, come parte della guerra al terrorismo: in tale ambito, la Russia intervenne a favore del governo di al-Asad, mentre una coalizione a guida statunitense fornì sostegno alle milizie curde dell'YPG. L'esercito siriano, indebolito notevolmente dai combattimenti, riprese vigore grazie al supporto russo, quello di Hezbollah e di altre milizie sciite straniere, in particolare iraniane e irachene: grazie all'intervento dell'aviazione russa a fianco di quella siriana, il governo di al-Asad poté riprendere il controllo dei più grandi centri abitati della Siria. Nel giugno 2014 si tennero le prime elezioni presidenziali multipartitiche dopo mezzo secolo di regime ba'thista, svoltesi però nelle sole zone effettivamente controllate dalle truppe del governo siriano; le elezioni riconfermarono al-Asad nel suo incarico. Secondo alcuni Stati occidentali e arabi, per la maggior parte solidali con i movimenti di opposizione, le elezioni siriane furono una mera farsa, volte solamente a dare alla presidenza di al-Asad una parvenza di democraticità; per contro, gli osservatori internazionali presenti alle elezioni. Rivendicazioni territoriali: Le alture del Golan, nel Governatorato di Quneitra, sono state occupate da Israele nel 1967 durante la guerra dei sei giorni e annesse nel 1982. La Siria non ha mai riconosciuto l'annessione e fa della restituzione del Golan la condizione necessaria per la stipula di un trattato di pace. La provincia di Hatay, in Turchia, il cui capoluogo è la storica città di Antiochia, è rivendicata dalla Siria come storicamente propria. Etnicamente mista da alcuni secoli, essa fu ceduta alla Turchia nel 1939, durante il mandato francese, senza che la Siria indipendente ne abbia mai riconosciuto la cessione. Aspetti della geopolitica del Medio Oriente È stata in particolare la Siria, fra i pochi alleati russi nella regione, legata al Cremlino da solide relazioni diplomatiche, nonché Paese ospite dell’unica base navale russa nel Mediterraneo, a offrire a Mosca il pretesto per fare ritorno nello scacchiere mediorientale. Nell’estate del 2015, è stato infatti il presidente siriano Bashar al-Assad, schiacciato dall’avanzata delle forze di opposizione, a chiedere aiuto ai russi. Il presidente Vladimir Putin, che già si era dichiarato a favore del regime damasceno fin dallo scoppio delle rivolte nel marzo del 2011, ha risposto positivamente all’appello di Assad, definendo fin da subito e in maniera chiara il proprio obiettivo in Siria: salvare il regime alawita. Per perseguire tale obiettivo, il Cremlino è in breve tempo passato da una politica di non-coinvolgimento a una politica di interventismo, che si è concretizzata con l’intervento militare lanciato ufficialmente il 30 settembre 2015. Stabilizzare militarmente il governo di Damasco, mantenerlo saldo al potere, dare una sferzata alla variegata compagine delle sue opposizioni, queste le priorità indentificate dai russi a motivazione del proprio intervento, giustificate in parte dalla lotta legittima all’escalation del terrorismo internazionale. La strategia militare russa nel conflitto civile siriano si è divisa, sostanzialmente, in due momenti principali. Dapprima Mosca si è concentrata sul lancio di raid aerei dalla base di Khmeimim, nei pressi dell’aeroporto militare nella provincia di Latakia, nel nord-ovest della Siria, diretti principalmente a formazioni jihadiste quali lo Stato islamico (IS), Jabhat al-Nusra e ai gruppi ribelli riuniti sotto il cappello della Coalizione nazionale siriana (National Coalition for Syrian Revolutionary and Opposition Forces). In un secondo momento, Mosca si è impegnata ad aiutare Assad a riprendere controllo dei territori che aveva perso per mano dell’opposizione. È stato proprio Putin il primo ad annunciare la fine della guerra contro lo Stato islamico in Siria, sottolineando allo stesso tempo l’urgenza di passare al piano politico e lavorare per portare ai tavoli negoziali tutti coloro che mirano a una soluzione pacifica del conflitto. Se infatti nel breve termine l’interventismo russo ha giovato soprattutto Damasco, rivelandosi determinante nello spostare l’ago della bilancia in favore delle forze leali ad Assad e permettere al regime di sopravvivere, nel medio- lungo termine potrebbe essere Mosca la vera vincitrice. Forte di aver radicalmente mutato le sorti del conflitto e di aver consolidato la propria posizione in Siria, il Cremlino torna a giocare un ruolo determinante nello scacchiere mediorientale, fino a poco fa esclusivo appannaggio dell’Occidente. Prima che la Russia facesse irruzione in Siria, erano già cominciati a Ginevra nel 2014 i negoziati di pace sotto l’egida delle Nazioni Unite (Onu), con l’allora Segretario generale Ban Ki-Moon. Le trattative di Ginevra, che avevano lo scopo di raggiungere una soluzione pacifica tra il governo di Damasco e la Coalizione nazionale siriana, principale raggruppamento delle opposizioni seppure non racchiuda tutte le formazioni ribelli, rappresentavano l’esito di uno sforzo congiunto fra Onu, Stati Uniti e Russia. Il primo round dei negoziati concertati dalla Russia insieme a Turchia e Iran si è tenuto ad Astana fra il 23 e il 24 gennaio 2017, seguito da un secondo appuntamento già poche settimane dopo (15-16 febbraio). Lo scopo di questi primi incontri era consolidare il cessate il fuoco tra il regime siriano e i principali gruppi dell’opposizione raggiunto pochi mesi prima (dicembre 2016). Sebbene i punti in discussione siano rimasti strettamente legati a quelli del processo di pace guidato dalle Nazioni Unite, si è saldato ad Astana un meccanismo parallelo, e sostanzialmente diverso, a quello di Ginevra, l’intesa trilaterale gestita da Mosca e supportata da Turchia e Iran. Gli Stati Uniti, in maniera alquanto significativa, sono stati invitati ai primi appuntamenti di Astana solo in qualità di osservatori, non trovando probabilmente posto nella visione moscovita di una “pax russa”. Da allora, i dialoghi di pace guidati da Mosca si sono alternati a quelli a guida Onu in un susseguirsi di appuntamenti. Oltre ad accreditarsi il ruolo di principale mediatrice dei dialoghi di pace sulla Siria, la Russia negli ultimi due anni ha esteso la propria influenza a macchia d’olio verso tutta l’area del Medio Oriente e del Nord Africa (Mena). A questo proposito, Mosca si è orientata principalmente sulla vendita di armi che, più che servire gli interessi economici del Cremlino, rappresenta piuttosto uno strumento efficace per costruire solide relazioni geopolitiche con le potenze regionali. Una sorta di “diplomazia delle armi”, come spesso viene definita, facilitata dai forti legami storici fra questi paesi e l’Unione Sovietica. A cominciare dal primo grande accordo con l’Egitto di Gamal Abdel Nasser del 1955, l’Unione Sovietica aveva infatti creato un vero e proprio network di clienti – dalla Siria8 all’Iraq, dall’Algeria allo Yemen e all’Afghanistan – che a lungo sono dipesi dall’approvvigionamento russo. La penetrazione commerciale russa si è estesa anche ai mercati della difesa dei Paesi del Golfo (Qatar, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita), chiusi ai mercati russi durante la Guerra fredda. Ciò testimonia una volontà di Mosca di estendere la propria “diplomazia delle armi” anche in questa regione. Allo stesso tempo, tale strategia sembra entrare in diretta competizione con l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti e i paesi europei, tradizionali fornitori di armi della regione. Paradossalmente, la “diplomazia delle armi” portata avanti dal Cremlino dimostra una profondità strategica forse maggiore di quella che sembrerebbe celarsi dietro i dialoghi di pace. Il crescente attivismo diplomatico di Mosca nella regione Mena, che spazia dai dialoghi di pace alla vendita di armamenti, sembra dunque mettere a nudo le intenzioni del Cremlino di rimanere – ancora a lungo – un attore determinante in tutta l’area. Sono molteplici però i fattori che gettano ombra sulle ambizioni russe: l’instabilità dello scacchiere mediorientale, la tenuta degli accordi, e una collaborazione complessa con gli attori regionali. In particolare, a dispetto di un’influenza sempre più diffusa e variegata, resta il teatro siriano quello dove Mosca gioca la partita più importante. Dichiarata “missione compiuta” da parte del presidente Putin – un annuncio senz’altro utile alla sua immagine in vista delle elezioni presidenziali (marzo 2018) – Mosca concentrerà i suoi sforzi sul versante diplomatico, nel tentativo di accreditarsi come “power-broker” della pacificazione siriana. L’incapacità dell’intesa russo-turco-iraniana di portare al tavolo negoziale le opposizioni al regime di Damasco sembra essere ormai un dato di fatto. Le richieste delle opposizioni, che continuano a ribadire il proprio sostegno a una soluzione politica sotto l’egida delle Nazioni Unite, rifiutano con fermezza qualsiasi ruolo dell’Iran nelle decisioni circa il futuro della Siria e rivendicano le dimissioni di Assad, faticano infatti a trovare uno spazio all’interno dell’intesa russo-turco-iraniana. L’ultimo vertice di Sochi, denominato “Congresso nazionale del popolo siriano”, è stato ampiamente boicottato dalle opposizioni (hanno partecipato solo le Forze democratiche siriane) e ha registrato l’assenza anche di molte potenze occidentali, fra tutte gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna. Ma soprattutto, a gravare sulla sostenibilità della “pax russa” è la collaborazione complessa fra Mosca e i numerosi stakeholder della crisi, che conferisce al Cremlino un peso diplomatico notevole e rischia di metterne a dura prova le effettive capacità. La crescente influenza dell’Iran sul terreno, in primis, rende problematica la gestione di una transizione politica che possa accontentare l’opposizione siriana, ferma sul rifiuto di qualsiasi coinvolgimento iraniano nella definizione del futuro assetto del paese. La proiezione di Teheran in Siria, poi, preoccupa anche i suoi avversari regionali, prima fra tutti l’Arabia Saudita, per la quale il nodo da sciogliere ora è proprio il ritiro degli iraniani dal Paese, prima ancora che il futuro del regime damasceno. A mettere la Russia a dura prova è anche la collaborazione con l’altro partner del processo di Astana, la Turchia, la cui visione sul futuro della Siria non è perfettamente allineata con quella del Cremlino. Nonostante Erdoğan abbia attenuato le sue posizioni su Assad, continua a mantenere la propria presenza militare a nord del Paese e ora auspica un ampliamento della zona di influenza turca nel nord-ovest della Siria, fino al cantone curdo di Afrin. A sud della Siria, invece, la diplomazia russa sembra altrettanto incapace di regolare la questione di Israele, che continua la sua attività militare nel tentativo di contenere la proiezione iraniana, impedendo ad Hezbollah e agli altri alleati di Teheran di stabilirsi nell’area. Anche la relazione russa con l’amministrazione americana resta complicata, sebbene Mosca abbia riaperto il dialogo con gli Stati Uniti, convergendo sulla necessità di continuare la lotta al terrorismo e di ampliare le zone di sicurezza. In Siria, infatti, le posizioni russe e americane si sono assestate fin da subito su due binari opposti; le prime a sostegno di Assad, le seconde a sostegno di alcune frange dell’opposizione moderata e dei curdi. Parlamento europeo ha approvato ad ampia maggioranza una risoluzione sottoscritta da quasi tutti i gruppi che sostiene "in linea di principio il riconoscimento dello Stato palestinese e la soluzione a due Stati, e ritiene che ciò debba andare di pari passo con lo sviluppo dei colloqui di pace, che occorre far avanzare". A questo proposito il Parlamento di Strasburgo ha ribadito "il proprio fermo sostegno a favore della soluzione a due Stati basata sui confini del 1967, con Gerusalemme come capitale di entrambi gli Stati e con uno Stato di Israele sicuro e uno Stato di Palestina indipendente, democratico, territorialmente contiguo e L’Arabia Saudita si interrogò su come rispondere alle dinamiche irachene: cominciò così la mobilitazione di giovani sauditi, ma soprattutto cominciarono i flussi di finanziamento da uomini d’affari del Golfo diretti a fondazioni caritatevoli, con le quali però si finanziano combattenti e acquisti di armamenti. È in questo contesto che nel 2014 è arrivata come uno shock la proclamazione del Califfato da parte di Abu Bakr al- Baghdadi, a capo del sedicente Stato islamico, erede di al-Qaeda in Iraq. In Iraq, la sconfitta territoriale di Daesh non ha risolto i diversi problemi del Paese, che rimane ancora pesantemente in bilico tra una maggioranza sciita – ma frammentata al suo interno – e una minoranza sunnita che soffre condizioni di emarginazione. Non è un caso che sia cominciata l’offensiva – inizialmente ufficialmente solo diplomatica – dell’Arabia Saudita che ha cominciato a “corteggiare” leader politici iracheni in vista delle elezioni. La grande incognita a cui i sauditi guardano con timore è la trasformazione di queste milizie in movimenti politici che possano perpetuare l’influenza iraniana sul paese, esattamente come successo in Libano con Hezbollah. Infine, c’è lo Yemen, schiacciato da conflitto spesso dimenticato ma che si appresta a entrare nel suo quinto anno. Qui, la lotta che i ribelli houthi conducono da anni contro il potere centrale è stata ammantata di settarismo, essendo gli houthi una minoranza sciita. Ciò che emerge in maniera sempre più netta, invece, è il tentativo da parte saudita e statunitense di “esagerare” il ruolo iraniano in Yemen, allo scopo di perpetuare l’ostilità internazionale nei confronti di Teheran e prolungare l’isolamento dal quale ha cominciato a uscire dopo la firma dell’accordo sul nucleare. Questa rapida escursione attraverso gli anni e gli scenari di crisi, la rivalità tra Arabia Saudita e Iran ha contribuito negli ultimi cinquant’anni a destabilizzare il Medio oriente con le basi per la nascita di una nuova Guerra Fredda nel Golfo. Lungi però dal rappresentare una contrapposizione tra sciiti e sunniti, essa ha semmai provocato una politicizzazione delle identità che ha contribuito ad alimentare un conflitto che nasce come essenzialmente politico. Le crisi degli anni recenti – in Iraq, Siria, Yemen – hanno sia alimentato che tratto energia da tale veleno settario, rendendo le prospettive di una ricomposizione pacifica dello spazio politico mediorientale quanto mai incerte. Intifada palestinese e ruolo delle donne In conseguenza di questa opprimente occupazione, a partire dagli anni '80 hanno cominciato a svilupparsi nuove forme di rivolta araba, ovvero l'“Intifada” (“Rivolta”). Nacque come insurrezione popolare ma poi sostenuta dall'OLP e, in seguito, da Hamas. La prima Intifada iniziò nel 1987 e costituì un enorme sforzo in tutti i territori occupati per porre fine alla dominazione militare israeliana. La vita quotidiana di città, villaggi e campi profughi è stata caratterizzata da manifestazioni di piazza, scontri tra attivisti palestinesi e soldati israeliani, atti di disobbedienza civile e l'imposizione di diversi coprifuoco; inoltre, il regime occupante ha reso illegale e sanzionabile con la reclusione l'appartenenza a organizzazioni affiliate all'OLP, oltre a dichiarare illegali tutti i comitati di base vicini all'OLP. Dopo questi eventi, è iniziato un processo di negoziazione. Negli anni '90 ci sono state diverse conferenze e incontri diplomatici tra rappresentanti israeliani e palestinesi, sempre gestiti dagli Stati Uniti. Nel 1993 Palestina e Israele hanno firmato gli Accordi di Oslo, attraverso i quali è stata creata l'Autorità nazionale palestinese per amministrare le limitate terre lasciate ai palestinesi. Nuovi accordi di pace furono poi firmati a Washington nel 1998, ma tutti gli esiti furono del tutto instabili a causa dei numerosi ostacoli alla creazione di uno Stato palestinese indipendente, tra i quali il più importante è il ruolo degli sproporzionati insediamenti territoriali israeliani che è ancora molto dannoso per le condizioni degli arabi. Di conseguenza, nel 2000, è scoppiata la seconda ("Al-Aqsa") Intifada che durerà fino al 2005, mentre la terza (o Gerusalemme) Intifada è scoppiata nel 2015.L'Intifada può essere vista come una lotta nazionale organizzata contro l'occupazione israeliana, che ha impedito al popolo palestinese di esercitare i propri diritti nazionali e umani fondamentali nella propria patria, ma non è solo questo. Infatti, come ha spiegato Kuttab (1993): «Il processo di resistenza e organizzazione contro l'occupazione ha scosso ed esposto la società palestinese dall'interno, determinando un processo di rivalutazione dinamica delle strutture sociali, economiche e politiche tradizionali. Questo processo ha generato un conflitto interno tra diversi gruppi sociali, varie istituzioni e diverse ideologie e ha gradualmente politicizzato le questioni di classe e di genere. Inoltre, la sfida di ricostruire le agende istituzionali al servizio della continuità dell'Intifada è riuscita a mobilitare tutti i settori e le classi del popolo palestinese. Questo aspetto dell'Intifada ha minato la natura individualistica e patriarcale della società e ha rafforzato i suoi valori collettivi, cooperativi e democratici, in particolare durante i primi anni dell'Intifada». Le donne palestinesi hanno avuto un ruolo attivo durante la lunga e ancora duratura lotta nazionale contro l'occupante israeliano. In questo senso, il vasto movimento delle donne palestinesi può essere considerato come parte integrante e un'estensione della lotta democratica nazionale; è un movimento che si è evoluto all'interno delle diverse fasi storiche della lotta nazionale per esporre i bisogni e le aspirazioni di tutte le persone e per rispondere ad esse. Quindi, dall'inizio del secolo scorso, il loro attivismo è stato fortemente legato alla lotta di liberazione nazionale. All'interno di questa più ampia questione della nazione, il processo di resistenza ha plasmato la coscienza di classe e di genere, influenzando sistematicamente l'agenda delle donne e il loro percorso verso l'emancipazione. Kuttab (2009) ha scritto che: «Sebbene la partecipazione delle donne palestinesi alla lotta nazionale fosse stata percepita come una condizione necessaria ma non sufficiente per la loro emancipazione come donne, esse esprimono ancora la loro convinzione che la lotta per la liberazione delle donne non è distinta dall'indipendenza nazionale e allo stesso tempo non costituisce un paradosso». Dopo il 1967 e prima dell'Intifada del 1987, le federazioni e gli enti di beneficenza delle donne si sono organizzati in una rete in tutta la diaspora per continuare a essere coinvolte nello sforzo di liberazione e per rappresentare l'interesse delle donne nelle arene nazionali e internazionali, mostrando la loro capacità di superare la repressione israeliana di attività politiche nei territori occupati. Tra questa rete di sindacati, enti di beneficenza e organizzazioni, il «Comitato per l'azione delle donne» è stato più decentralizzato degli altri e ha promosso la leadership e l'iniziativa locale, consentendo alle donne dei villaggi remoti di essere coinvolte nelle operazioni che hanno avuto luogo a Ramallah, Nablus e Gerusalemme. Tuttavia, nel contesto del controllo totale israeliano delle risorse idriche e all'interno della trasformazione dell'economia palestinese in un'economia completamente dipendente dal mercato del lavoro sionista, sono emerse nuove pressioni e sfide in relazione alle donne e al movimento delle donne. Hanno acquisito un altro ruolo molto rilevante, che era la conservazione della tradizione, del patrimonio nazionale e della cultura per simboleggiare la loro identità e continuità palestinese; in aggiunta a ciò, questo ruolo era efficace nell'incrementare il morale e aumentare la resistenza. Nel periodo poco prima della prima Intifada, le pratiche israeliane di distruzione di tutte le infrastrutture palestinesi, che hanno colpito l'intera società e le istituzioni palestinesi, hanno prodotto un effetto molto impattante sul popolo palestinese, favorendo un'ampia resistenza per difendere la propria identità nazionale. Di conseguenza, nel periodo dal 1976 al 1981, si è verificato un processo di democratizzazione della lotta nazionale. Consisteva nell'emergere di strutture aperte per le attività politiche, sociali e culturali, nell'amplificazione della partecipazione e del coinvolgimento di massa nella sfera politica e nell'incorporazione di nuove forze sociali come i settori meno avvantaggiati della società nella vita istituzionale. In questo particolare ambiente, le strutture tradizionali basate sulla classe, il genere e l'appartenenza religiosa hanno iniziato ad essere inadeguate nell'affrontare i problemi quotidiani e le questioni poste dall'occupazione. Di conseguenza, il cambiamento democratico in termini strutturali e ideologici ha generato nuove organizzazioni, mobilitando la società palestinese in ampie categorie come giovani, lavoratori, donne e studenti. Questo periodo vide la nascita di molti comitati femminili, come il Women's Work Committee (1978), l'Unione dei Comitati Palestinesi (1981) e il Women's Committee for Social Work (1982), che operarono in cooperazione tra loro con l'intento di proporre una nuova agenda delle donne che condivida un'interpretazione comune della relazione dialettica tra lotta nazionale e sociale. Questi comitati si sono concentrati sulle questioni sociali, oltre a quelle nazionali, e hanno espresso nuove rivendicazioni come il diritto di ribellarsi e resistere, di lavorare, di essere istruiti e di essere rappresentati equamente. Ideologicamente, queste richieste hanno rappresentato una seria minaccia per le tradizioni sociali, culturali e politiche che vietano la partecipazione delle donne alla sfera pubblica. L'Intifada del 1987 è esplosa all'interno di questo lungo processo di attivismo democratico di massa che ha creato veicoli ideologici di cambiamento, integrando l'attività culturale, sociale e politica in una strategia onnicomprensiva per l'attività politica. Quindi, l'Intifada ha mobilitato tutti i settori della società, all'interno dei quali studenti, donne, lavoratori e professionisti hanno svolto un ruolo importante nel sostenere la rivolta. Inoltre, nella prima Intifada, come ha osservato Yuval-Davis (1997), la lotta si svolgeva nella comunità, nelle sue strade, nei suoi quartieri e nelle sue case, le pietre erano le principali armi di difesa della comunità, e le donne partecipavano direttamente alla lotta come manifestanti, lanciatori di sassi o soccorritori di giovani. Quindi, in un contesto in cui casa e comunità diventano luoghi quotidiani di conflitto, "la netta divisione sessuale di solito scompare poiché non c'è una chiara differenza tra fronte di battaglia e fronte interno" (Yuval-Davis, 1997). L'intera dinamica di questo attivismo agisce come una forma di nazionalismo partecipativo attraverso la "maternità", determinando una forma di lotta attiva e innovativa. Qui è importante distinguere due tipi di nazionalismo, cioè il nazionalismo ufficiale dello Stato e il nazionalismo del movimento di liberazione. La prima ha costruito un'ideologia della maternità che relega la donna nella casa in quanto considerata la sua sfera appropriata per promuovere l'identità nazionale attraverso le sue responsabilità domestiche; in questo senso, la riproduzione biologica e sociale all'interno della casa sono viste come responsabilità divine delle donne. Quest'ultima, in opposizione alla precedente, ha dato risalto ai ruoli e alle attività delle donne, favorendone così l'emancipazione. Inoltre, alla fine della prima Intifada, Hamas e la Jihad islamica hanno iniziato la loro crescita ed espansione, sconvolgendo la leadership dei corpi femminili. Il movimento delle donne è stato colpito da un contraccolpo conservatore. Ad esempio, soprattutto a Gaza, dove Hamas era più radicato, le donne erano costrette a portare il velo. In risposta, le attiviste hanno rifiutato questo velo non ufficiale e l'OLP ha finalmente posto fine alla campagna. Tuttavia, questo evento ha indebolito le organizzazioni femminili e ha dimostrato che il nazionalismo non deve essere vinto a spese delle questioni di genere. Inoltre, quando Arafat tornò nei Territori occupati nel 1994 e nominò altri uomini esiliati a cariche di governo, l'equilibrio di genere fu seriamente compromesso. Ciò ha confermato una radicata tradizione di sessismo all'interno del movimento nazionale. Fu in questo contesto che scoppiò la seconda Intifada, nel 2000. Anche se entrambe le Intifada hanno la stessa causa primaria, ovvero l'occupazione militare israeliana in corso in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, hanno mostrato caratteristiche distinte. La nuova realtà socio-politica creatasi dopo gli Accordi di Oslo, segnata dalla cultura politica e dallo stile di governo dell'ANP, l'esistenza di rapporti di cooperazione e negoziazioni tra Israele e l'OLP, i nuovi meccanismi di esclusione e la crescita di Il militarismo palestinese, hanno plasmato le differenze rispetto al precedente. La combinazione di questi elementi ha creato una nuova immagine dell'attivismo politico palestinese che ha emarginato le donne e gran parte della società. Quindi, la seconda Intifada ha evidenziato un cambiamento nelle pratiche del movimento delle donne, così come la crescita di molte sfide per loro. È importante notare che in questo periodo le donne sono diventate meno visibili, insieme a gran parte della società civile, e le loro attività non hanno influito direttamente sulla politica dell'Intifada. In questo senso, i risultati in termini di uguaglianza, democrazia ed emancipazione ottenuti durante la prima Intifada sono diminuiti, mentre la voce delle donne ha cominciato ad essere più emarginata. La geopolitica della Cina in Medio Oriente La regione MENA (Middle East and North Africa) da sempre rappresenta una zona strategicamente importante sia per la sua centralità geografica che permette la circolazione dei flussi commerciali tra Asia centrale e Europa, sia per le sue più grandi riserve di idrocarburi del mondo. L’area pur essendo caratterizzata da profonde divergenze culturali, sociali nonché economiche, non è stata in grado di sviluppare un’istituzione regionale capace di gestire i conflitti tra gli attori della zona. Adesso, sono intervenuti diversi attori di nature diverse – statali, Organizzazioni internazionali, para-statali, tra i quali la Cina negli ultimi anni cogliendone le opportunità lasciate dal graduale disimpegno statunitense, si è impegnata sempre di più nella Zona sia economicamente che politicamente. Il nome Cina, può, tuttavia fuorviare, esistendo anche la Repubblica di Cina, comunemente appellata come Taiwan. Entrambe le entità reclamano il controllo sul territorio complessivo cinese. La Repubblica Popolare Cinese, con una popolazione di oltre 1,4 miliardi di persone, è il paese più popoloso al mondo. La Cina è una Repubblica Popolare in cui il potere è esercitato dal Partito Comunista Cinese. Il Governo ha sede nella capitale Pechino ed esercita la propria giurisdizione su ventidue province, cinque regioni autonome, quattro municipalità direttamente controllate (Pechino, Tientsin, Shanghai e Chongqing) e due regioni amministrative speciali (Hong Kong e Macao) parzialmente autonome. La Cina rivendica la propria sovranità anche su Taiwan che a propria volta rivendica la propria sovranità sulla Cina continentale. L'isola è rimasta dal 1949 sotto il controllo del governo della Repubblica di Cina (o Taiwan), che precedentemente governava anche la Cina continentale, ed è rivendicata dalla Repubblica Popolare Cinese come Provincia di Taiwan. La complessa condizione politica di Taiwan è una delle conseguenze della guerra civile cinese che ha preceduto la fondazione della Repubblica Popolare Cinese. PERSISTENZA DEL CONFLITTO FINO AD OGGI! L'ultima dinastia fu quella dei Qing, il cui regno si concluse nel 1911 con la fondazione della Repubblica di Cina. Dopo la sconfitta dell'Impero giapponese durante la seconda guerra mondiale il Paese fu scosso dalla guerra civile che vedeva contrapposte le forze nazionaliste del Kuomintang, il partito che allora deteneva il Governo del Paese, e le forze facenti capo al Partito Comunista Cinese. Nel 1949 la guerra si concluse con la sconfitta del Kuomintang e la fuga del governo nazionalista sull'isola di Formosa, nella cui capitale Taipei ha tuttora sede l'attuale Repubblica di Cina, altresì nota come Taiwan. In seguito alla vittoria conseguita sul continente il 1º ottobre del 1949 a Pechino le forze comuniste guidate da Mao Zedong proclamarono ufficialmente la nascita della Repubblica Popolare Cinese. Dopo l'introduzione di riforme economiche nel 1978, l'economia della Cina è diventata quella dalla crescita più rapida al mondo. A partire dal 2013 è la seconda economia più grande al mondo sia come PIL totale nominale, sia per parità di potere d'acquisto (mentre per quanto riguarda solamente il PIL nominale ha sorpassato il Giappone, sino ad allora seconda potenza mondiale dal 1987, nel 2010); è anche il più grande esportatore e importatore di merci al mondo. La Cina è ufficialmente uno Stato munito di armi nucleari e ha il più grande esercito permanente del mondo, con il secondo più grande bilancio della difesa. La Cina è membro delle Nazioni Unite dal 1971, quando ha preso il posto della Repubblica di Cina tra i seggi dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La Cina è anche membro di numerose organizzazioni multilaterali, tra cui l'OMC, l'APEC, il BRICS, l'Organizzazione di Shanghai per la cooperazione, il BCIM e il G-20. La Cina, unanimemente riconosciuta come grande potenza dal consesso internazionale, è una potenziale superpotenza secondo un certo numero di accademici e analisti che si occupano di questioni militari, politiche ed economiche. Dissidenti politici e gruppi per i diritti umani hanno denunciato la dittatura del governo cinese per diffuse violazioni dei diritti umani, tra cui repressione politica, repressione delle minoranze religiose ed etniche, censura, sorveglianza di massa e la violenza utilizzata nel reprimere il dissenso, come quella esibita durante la protesta di piazza Tienanmen del 1989. La Repubblica di Cina partecipò alla Prima guerra mondiale schierandosi con le potenze alleate. Il contributo militare cinese al conflitto fu limitato a causa della relativa arretratezza dell'apparato bellico, mentre dal punto di vista economico la Cina fornì supporto alle industrie degli Alleati grazie all'invio di manodopera cinese. Partecipò anche alla seconda guerra mondiale schierandosi contro l'Asse. Due guerre civili fra i nazionalisti filoamericani di Chiang Kai-shek e i comunisti di Mao Zedong (1927-1937 e 1945- 1949), intervallate dall'invasione giapponese (1937-1945), sarebbero poi terminate con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese di Mao, il 1º ottobre 1949, e della Repubblica di Cina, detta comunemente Taiwan, sull'isola di Formosa e altre isole (Penghu, Kinmen e Matsu), ancora oggi sotto il controllo della Repubblica di Cina. Il nuovo Governo riunificò il territorio e diede una struttura economica di tipo socialista al Paese, con la nazionalizzazione delle industrie, la creazione delle comuni e la redistribuzione delle terre dei latifondisti ai contadini attraverso iniziative politiche ed economiche che costarono la vita a milioni di persone. Nella seconda metà del Novecento si afferma una linea economica che inizialmente segue il modello sovietico e poi tenta un percorso alternativo che porterà al disastro del Grande balzo in avanti. La terribile carestia, la repressione, i lavori forzati e la Rivoluzione Culturale in cui furono protagoniste le Guardie Rosse, provocheranno decine di milioni di morti. Dopo le molteplici carestie nel Paese negli scontri politici interni del partito si afferma Deng Xiaoping, che riorganizza l'economia cinese, favorendo il riconoscimento costituzionale della proprietà privata e l'apertura del mercato a investimenti esteri. La repressione violenta delle proteste di Tiananmen e le conseguenti sanzioni da diversi Stati non fermano la politica del Partito Comunista che, dopo il ritorno di Hong Kong e Macao, porta l'economia cinese ai primi posti del globo. Anche l'occidentalizzazione della Cina, tentata più volte dagli europei a partire dal secolo XVII e culminata con l'irruzione coloniale dalla seconda metà del secolo XIX, è stata assorbita e trasformata nel corso del XX secolo in una singolare forma di comunismo nazionale, uno dei fattori dominanti nella scena internazionale del secondo dopoguerra, facendo dell'antico "regno di mezzo" uno dei poli della politica mondiale anche nell'era post-comunista. L'importanza della Cina nel ventunesimo secolo si riflette in virtù del suo ruolo come prima potenza economica per prodotto interno lordo; è inoltre membro fondatore dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (è uno dei cinque membri permanenti con il diritto di veto), aderisce al Shanghai Cooperation Organisation (SCO) e fa parte del OMC, dell'APEC, dell'ASEAN, del G2 e del G20. Con l'introduzione della riforma economica basata sul capitalismo nel 1978 la Cina è diventata il Paese con lo sviluppo economico più veloce al mondo, primo maggiore esportatore (2008) e il primo più grande importatore di merci (2010). Molti studiosi hanno definito la Cina come la nuova superpotenza militare emergente; già nel 1964 riesce a sviluppare i suoi armamenti nucleari e mantiene dalla fine della seconda guerra mondiale l'esercito di terra numericamente più grande al mondo (Esercito di Liberazione Popolare), il suo budget per la difesa (con un aumento annuale più 10%) è secondo solo a quello degli Stati Uniti. La rapida industrializzazione e le riforme di mercato hanno ridotto il suo tasso di povertà dal 53% nel 1981 all'8% nel 2001. Tuttavia la Repubblica Popolare Cinese è ora di fronte a una serie di altri problemi, tra cui il rapido invecchiamento della popolazione a causa della politica del figlio unico, le tensioni con Hong Kong, Taiwan e la minoranza uigura in Xinjiang (si veda il genocidio culturale degli uiguri e i campi di rieducazione dello Xinjiang), un ampliamento urbano-rurale, uno squilibrio economico tra regioni costiere e interne e il degrado ambientale. Mao tse-tung (1893-1976): Un rivoluzionario, politico, filosofo e poeta cinese nonché presidente del Partito Comunista Cinese dal 1943 fino alla sua morte. Sotto la sua guida, il partito comunista salì al governo cinese a seguito della vittoria nella guerra civile e della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, di cui dal 1949 fu presidente. Durante la guida della Cina sviluppò un marxismo-leninismo "sinizzato", noto come maoismo, collettivizzando l'agricoltura con il cosiddetto grande balzo in avanti. Il presidente cinese fu anche promotore di un'alleanza (che in seguito ruppe negli anni cinquanta) con l'Unione Sovietica e lanciò la cosiddetta grande rivoluzione culturale. Mao viene comunemente chiamato Presidente Mao. All'apice del suo culto della personalità, Mao era comunemente noto in Cina come il "quattro volte grande": «Grande Maestro», «Grande Capo», «Grande Comandante Supremo», «Grande Timoniere». Dal 1949 al 1953, Mao lanciò la riforma agraria cinese (e le conseguenti uccisioni di massa di proprietari terrieri), la campagna per la soppressione dei controrivoluzionari (e dei lavori forzati). Le campagne politiche hanno provocato la morte di milioni di cinesi. Allo stesso tempo, Mao ha contribuito a implementare l'economia pianificata e pubblicare la prima Costituzione cinese nel 1954. Dal 1955 al 1959, Mao lanciò il Movimento Sufan e la campagna anti-destra, durante la quale furono perseguitati almeno centinaia di migliaia di intellettuali e dissidenti politici, trasformando la Cina in uno stato monopartitico sotto il Partito Comunista Cinese. Nel 1958, Mao lanciò il "Grande balzo in avanti", che portò alla grande carestia cinese (la più grande carestia della storia umana), durante la quale morirono in modo anomalo 15-55 milioni di persone. Nel 1963 lanciò il Movimento di Educazione Socialista e nel 1966 la Rivoluzione culturale, durante la quale milioni di persone morirono a causa di massacri, persecuzioni e torture. Decine di milioni di persone sono state perseguitate durante la Rivoluzione Culturale, mentre un gran numero di siti culturali e religiosi sono stati distrutti dalle Guardie Rosse. Sotto il regime di Mao si stima che a causa della sua politica morirono tra i 40 e i 80 milioni di cinesi. Durante il governo di Mao, la popolazione cinese è aumentata da circa 550 a 900 milioni, a causa dell'aumento dell'aspettativa di vita e del fatto che il Governo cinese non ha attuato rigorosamente la sua politica di pianificazione familiare. Inoltre, dal 1949 nei successivi trent'anni, il tasso di alfabetizzazione è passato dal 20% a oltre il 65% e notevolmente migliorata la condizione femminile. A Mao vengono attribuiti la creazione di una Cina unificata e libera dalla dominazione straniera. Durante l'era di Mao Zedong, la Cina faceva parte della scissione sino-sovietica, della guerra sino-indiana, della guerra del Vietnam. Ha anche inviato truppe per aiutare la Corea del Nord durante la guerra di Corea. Nel frattempo, la Cina ha stabilito un legame con gli Stati Uniti e ha ottenuto un seggio ufficiale alle Nazioni Unite. Deng xiaoping (1904-1997): Politico, rivoluzionario e militare cinese. Dopo avere ricoperto ruoli direttivi nel Partito Comunista Cinese (PCC) a più riprese nell'era di Mao Zedong, divenne leader de facto della Cina dal 1978 al 1992. Era conosciuto come il "capo architetto" della riforma economica cinese. Dopo la fondazione della Repubblica popolare cinese (1949), Deng fu responsabile della "campagna anti-destra" (1957) sotto Mao Zedong, e partecipò attivamente alla ricostruzione economica dopo il disastroso grande balzo in avanti (1958-1962) lanciato da Mao. Fu epurato due volte da Mao durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976) a causa della sua posizione e ideologia di destra. È stato il pioniere della riforma economica cinese e l'artefice del "socialismo con caratteristiche cinesi", teoria che mirava a giustificare la transizione dall'economia pianificata a un'economia aperta al mercato, ma comunque supervisionata dallo Stato nelle prospettive macroeconomiche. Nel decennio tra gli anni ottanta e novanta, da lui guidati, la Repubblica Popolare Cinese restaurò relazioni strategiche e geopolitiche con l'Unione Sovietica, abbandonando la logica, antisovietica e di ascendenza maoista. Il grande balzo in avanti fu un piano economico e sociale praticato dalla Repubblica Popolare Cinese dal 1958 al 1961, che si propose di mobilitare la vasta popolazione cinese per riformare rapidamente il Paese, trasformando il sistema economico rurale, fino ad allora basato sull'agricoltura, in una moderna e industrializzata società comunista, caratterizzata anche dalla collettivizzazione. Mao Zedong basò il suo programma sulla teoria delle forze produttive. Il Grande balzo si rivelò tuttavia un disastro economico tale da condizionare la crescita del Paese per diversi anni. Storicamente, è considerato dalla maggior parte degli autori come la principale causa della gravissima carestia del 1960, nella quale morirono da 14 a 43 milioni di persone. La collettivizzazione avvenne gradualmente, dal 1949 al 1958, prima attraverso le Squadre di mutuo aiuto (5-15 famiglie), poi nel 1953 con le Cooperative semplici (20-40 famiglie), infine nel 1956 con le Grandi cooperative (100-300 famiglie). Tali riforme, furono generalmente impopolari, e condussero a forti resistenze fra i contadini, costretti a partecipare a riunioni di villaggio di giorni o settimane, finché "volontariamente" non aderissero alla collettivizzazione; moltissimi capi d'allevamento furono abbattuti dai contadini, che preferirono mangiarli piuttosto che cederli alle cooperative. Il partito usò metodi coercitivi e requisì i raccolti con la forza; nel 1956 fu introdotto un passaporto interno per costringere i contadini a restare nelle campagne, notevolmente più povere delle città. La rivoluzione «culturale»: il nome ufficiale è Grande Rivoluzione Culturale Proletaria. Fu lanciata nella Repubblica Popolare Cinese nel 1966 da Mao Zedong (con l'aiuto del gruppo della Rivoluzione Culturale), la “attraverso una lotta tenace ha saputo non soltanto smantellare il vecchio mondo, ma anche costruirne uno nuovo”, la seconda è tutta sul leader, “il principale innovatore del socialismo con caratteristiche cinesi”. Tutto ciò rafforza la sua posizione di leader incontrastato e lo proietta verso il 2022 per l’incoronazione – dopo aver eliminato il limite di due mandati nel 2018 – ad una terza e inedita rielezione alla guida della Cina. D’ora in avanti, commentano gli osservatori, se qualcuno proverà a criticare Xi Jinping equivarrà a criticare il Partito. “Chi controlla il passato controlla il futuro e chi controlla il presente controlla il passato”: le parole di George Orwell sono riprese in un lungo editoriale in cui l’Economist rilancia la discussione su Xi Jinping come nuovo Mao. Un tema ampiamente dibattuto, anche alla luce del suo personale percorso di ascesa al potere: appena diventato segretario del partito nel 2012 Xi Jinping ha lanciato una visione di crescita a lungo termine, il ‘Sogno Cinese’, che prevede il raggiungimento di una condizione di “moderata prosperità” entro il 2021 – anniversario della fondazione del Partito – e di piena modernizzazione nel 2049 – quando si festeggerà il centenario della Repubblica popolare (1949-2049). Per questo Xi ha imposto una profonda trasformazione dell’economia cinese, il “new normal”, che prevedeva il rallentamento del tasso di crescita del PIL rispetto a quelli a doppi a cifra degli ultimi due decenni, ma anche una transizione da un modello basato su esportazioni a basso costo e investimenti pubblici, verso un nuovo approccio fondato sui consumi interni e una produzione qualitativamente più alta. Per aggirare ostacoli e resistenze a questa ‘sterzata’ – provenienti in alcuni casi anche dall’interno dell’élite del Pcc – Xi ha avviato l’ormai celebre campagna anti-corruzione per eliminare avversari politici, cercando di limitare la discrezionalità degli enti locali e creando strutture di potere che accentrassero ogni meccanismo decisionale nelle sue mani. In tal modo ha ottenuto di controllare il potere politico e assicurare le riforme economiche necessarie alla trasformazione del paese. Ma al di là dell’epopea nazionale tracciata dalla ‘Risoluzione’ e la narrazione che incorona Xi come suo protagonista, la Cina in realtà attraversa uno dei periodi più difficili degli ultimi decenni. Mentre con l’arrivo dei vaccini anti-Covid le economie occidentali si stanno rialzando, quella della Cina – che era uscita più in fretta degli Stati Uniti e dell’Europa, nel 2020, dalla prima ondata del Covid – sta oggi frenando: Pechino deve riuscire ad aumentare i consumi interni per trainare la crescita, ma non è facile farlo agli attuali livelli di reddito, specie in assenza di un sistema di welfare. La crescita del pil è più lenta e lo scoppio della bolla immobiliare, complica le cose. E fa discutere in queste settimana la rigida strategia ‘zero Covid’ messa in atto dalle autorità cinesi, con l’obiettivo di eliminare ogni forma di presenza del virus dal paese entro le Olimpiadi invernali in calendario tra poche settimane. In questo clima, e finché i consumi interni non riprenderanno ad aumentare, l'export, come leva di crescita, resta insostituibile. Ma in un contesto di relazioni interazionali molto meno favorevoli rispetto al passato. Che si sommano allo scontro già in atto sugli equilibri in Asia orientale e ai nodi critici di Taiwan, Hong Kong e dello Xinjiang. Sia Deng che Mao hanno approvato le precedenti risoluzioni utilizzandole come un modo per rompere con il passato. La prima, adottata da un plenum del partito nel 1945, consentì a Mao di consolidare la sua leadership, in modo da avere piena autorità quando dichiarò la creazione della Repubblica popolare cinese nel 1949. Quando Deng fece approvare la seconda nel 1981, invece, la usò per mandare un segnale di discontinuità, criticando gli “errori” di Mao tra il 1966 e il 1976, durante gli anni della Rivoluzione culturale, che aveva portato a milioni di morti. A differenza dei sui predecessori, tuttavia, la parola d’ordine dell’attuale risoluzione è continuità col passato: “Il messaggio di fondo è che Mao ha creato le basi della Repubblica Popolare, Deng insieme ai successori Jiang Zemin e Hu Jintao l’hanno riformata e arricchita e Xi ha finalmente proiettato la Cina verso una dimensione internazionale di piena grandezza”. Bisognerà attendere il prossimo anno per vedere se tutto questo porterà, come molti analisti sostengono, ad un’incoronazione di Xi ad un terzo mandato. Finora lui non ha designato nessun erede politico e si è premurato di eliminare politicamente tutti i possibili rivali. Oggi, all’interno del partito nessuno sembra in grado di poter contendere la sua leadership mentre sotto la sua guida, come la Risoluzione storica serve a celebrare, la Cina è diventata una potenza globale. Qualcosa di difficilmente immaginabile anche solo pochi decenni fa. “Il plenum del PCC ha elevato lo status di Xi a quello dei due grandi statisti cinesi Mao e Deng, gli unici finora che avevano meritato una 'risoluzione storica' che ne decretasse l'influenza sul progresso della RPC. La risoluzione, la terza in 100 anni, riporta che sotto la guida di Xi, la Cina ha "compito traguardi storici e ha subìto una trasformazione storica". Se Mao aveva favorito un approccio autarchico nell'ambizione sfrenata e folle dell'indipendenza, Deng ha avuto il merito di aver favorito l'integrazione della Cina nell'economia mondiale come unica strada possibile di sviluppo e crescita. Oggi Xi probabilmente compirà una sintesi tra ambizioni di indipendenza e obiettivi di interdipendenza commerciale con il resto dell'Asia”. Il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan a fine agosto ha risollevato l’attenzione internazionale per quelle che sono le dinamiche, di sicurezza e non, che caratterizzano l’Asia Centrale. Non soltanto la Russia – la cui influenza sull’area rimane vasta – ma anche il ruolo di potenze asiatiche, in primis la Cina, così come il Giappone, rimane determinante per comprendere lo scacchiere regionale. Sebbene il vettore asiatico abbia dapprima acquisito importanza nella politica estera delle repubbliche centro-asiatiche grazie all’esempio di sviluppo delle quattro tigri asiatiche, grazie alla Nuova Via della Seta questo vettore si è fatto sempre più «sino-centrico». La Cina, infatti, è riuscita a sovrascriversi all’esempio di Singapore, Corea del Sud, Hong Kong e Taiwan e fare del proprio modello di sviluppo socio-economico uno standard per i paesi della regione. Questo tipo di narrazione si è dimostrata estremamente efficace nel caso di Kazakistan e Uzbekistan, le due economie dell’area che sono maggiormente in crescita, e che possono guardare all’esempio della Cina degli anni ’90 con prospettive raggiungibili. Ma la politica cinese in Asia Centrale non si limita al quadro della Nuova Via della Seta. In ottica cinese, infatti, l’Asia Centrale manteneva – e mantiene tutt’ora – una particolare attrattiva, principalmente poiché è l’unica area del vicinato con cui Pechino non ha dispute territoriali e con il cui tradizionale potere d’influenza (la Russia) ha una relazione cooperativa che le consente di muoversi nell’area con una maggiore libertà. Come ampiamente dimostrato anche dalla questione afghana, la Cina, inoltre, non si propone come promotore di sicurezza, continuando a lasciare campo alla Russia in quest’ambito. In questo modo, Pechino riesce a mantenere una relazione pressoché funzionale con Mosca. Ciò non significa che alcune frizioni non siano state riscontrate nel rapporto tra i due paesi, proprio a causa dello snodo centro-asiatico: si prenda ad esempio l’ingresso congiunto di India e Pakistan nell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione nel 2017. La prima diventata membro ufficiale su spinta russa per bilanciare la crescente supremazia cinese nell’organizzazione; la seconda, in reazione, su spinta cinese. Ciononostante, il binomio tra Mosca e Pechino nell’area continua a funzionare, radicato in quello che è lo spirito di “fronte comune contro le democrazie occidentali” che contraddistingue la relazione tra i due Paesi. Nonostante, quindi, le aspettative vogliano una Cina più assertiva anche in campo di sicurezza dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, Pechino si poggia su una politica estera che vede l’Asia Centrale e le sue aree limitrofe come strettamente legate a quegli obiettivi di sviluppo che la crescita socio-economica della Cina degli anni ’90 ha reso attraenti anche per i paesi dell’area. Politiche di Pechino prettamente finalizzate a migliorare il posizionamento delle economie dell’area nel sistema del commercio internazionale.  Due dei principali tratti comuni a Federazione Russa, Cina e Iran sono un anti-americanismo radicato, che oscilla tra il moderato/strategico e l’estremo, e l’obiettivo di incrinare l’attuale ordine mondiale basato su un rigoroso Occidentalismo. L’ambizione condivisa da ognuna delle suddette potenze, sviluppatesi attraverso processi storico-culturali estremamente differenti, è costituire un’alternativa al persistente unipolarismo su cui si basano le relazioni internazionali economiche, culturali e strategiche a partire dalla fine della Guerra Fredda. Unipolarismo che poggia, inevitabilmente, sullo strapotere americano e che, in vari ambiti, può essere esteso all’intero mondo occidentale.  Iran, Russia e Repubblica Popolare, tre delle principali potenze dell’emisfero Est del mondo, condividono anche lo status di potenze regionali: esse si ergono a riferimento politico, economico- finanziario e culturale per i paesi limitrofi, ponendosi come pivot all’interno della loro rispettiva zona di influenza. In questo senso è possibile affermare che esse stiano effettivamente contribuendo alla multi-polarizzazione dell’ordine globale, benché, ad oggi, l’unica delle tre potenze che si sia dimostrata concretamente in grado di sfidare il colosso americano sul piano globale è la Cina. Mentre la Federazione Russa è ancora limitata, da questo punto di vista, da una struttura economica che si pone in sostanziale continuità con quella dell’Unione Sovietica1 – quindi in gran misura impermeabile ai beni di consumo e all’economia di massa – la Repubblica Islamica si trova imbrigliata in un teatro regionale estremamente variegato dal punto di vista politico-strategico, religioso e culturale, caratterizzato da una fortissima instabilità politica, da una pluralità di potenze regionali rivali e dalla presenza di gruppi ribelli e organizzazioni terroristiche epidemicamente radicate nel territorio. Su questo scenario già di per sé complesso e precario influisce ancor più negativamente una massiccia compenetrazione da parte di attori esterni che, da una parte, sfruttano il Medio Oriente come terreno di sfida reciproca; dall’altra, esercitano forti pressioni, tramutatisi nel tempo in ingerenze, volte ad acquisire alleanze strategiche e partner commerciali. Mettere in evidenza ciò che accomuna Cina, Federazione Russa e Repubblica Islamica è utile per comprendere le ragioni che hanno spinto l’Iran, bersaglio strategico della politica estera americana e attore di rilievo nel mercato energetico globale, a rivolgersi alle prime due in svariate occasioni al fine di costituire un (principalmente occasionale) allineamento. Infatti, negli ultimissimi anni, l’apertura a Est dell’Iran ha ritrovato vigore e nuova vitalità a seguito dalle sanzioni inflittegli dalle varie amministrazioni statunitensi a partire dal 2006 e dalla conseguente firma del JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano, concluso nel 2015 tra Repubblica Islamica, P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – Stati Uniti, Regno Unito, Cina, Russia e Francia – più la Germania) e l’Unione Europea ed entrato in vigore nel 2016. Oggi parte della dottrina considera gli obblighi previsti dal JCPOA non più cogenti a causa della repentina uscita degli USA di Trump dall’accordo nel maggio del 2018 e della conseguente nuova ondata di sanzioni americane verso Teheran, imposte in sostanziale violazione dell’accordo. Il carattere drastico e unilaterale di tale decisione ha comportato l’inevitabile declino dell’equilibrio tra gli aderenti, faticosamente raggiunto attraverso il trattato. Nel 2015, tramite il JCPOA, si era finalmente giunti ad un accordo che soddisfacesse le preoccupazioni americane e occidentali a proposito di un Iran in grado di sviluppare armi nucleari a scopo offensivo e che allo stesso tempo permettesse a Teheran di vedersi sospendere, in parte, le sanzioni. In cambio della garanzia di un approvvigionamento nucleare limitato a poco più del 3% annuo, l’Iran moderato del Presidente Rouhani venne riammesso alle dinamiche del mercato globale e la sua economia giovò di una discreta ripresa. Diversa era la posizione della frangia più conservatrice del Paese, rappresentata a livello istituzionale dall’Ayatollah Khamenei (la “Guida Suprema”), che considerava il trattato come l’ennesimo atto di soggiogamento dello stato all’economia capitalista globale, guidata e regolata in primo luogo dalla super potenza americana. L’asse Teheran-Pechino e la dominante dell’asimmetria È innegabile che l’ascesa della Repubblica Popolare rappresenti uno dei più sorprendenti sviluppi del secondo dopoguerra. Essa si configura oggi come una vera e propria super potenza nel teatro delle relazioni internazionali, in grado di porsi come secondo polo di riferimento per le economie del mondo, benché la sua impronta in ambito ideologico-culturale non abbia ancora acquisito l’impatto necessario per costituire una nuova struttura nelle dinamiche internazionali e il ruolo di garante dell’ordine mondiale spetti ancora, de facto, agli USA. Gli Stati Uniti, dunque, mantengono il loro ruolo di potenza egemone, ma le ambizioni cinesi sono dichiaratamente volte a minacciare tale ruolo. L’Iran, invece, è una potenza di medio livello, influente in modo particolare nel contesto regionale, all’interno del quale deve condividere la leadership con un rivale altrettanto influente: l’Arabia Saudita, con la quale compete dal punto di vista commerciale, religioso e strategico (il principale partner saudita sono proprio gli USA).
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