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Giampiero Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

1. Il diritto processuale civile e la giurisdizione Il diritto processuale è quella branca del diritto che disciplina l’insieme dei procedimenti attraverso cui si esercita la giurisdizione. Il diritto sostanziale mira a regolare in astratto tutti i possibili conflitti intersubiettivi, attribuendo posizioni di vantaggio e le corrispondenti situazioni di svantaggio; il diritto processuale serve, invece, a disciplinare l’intervento del giudice quando lo stesso sia necessario al fine di rendere concreto ed effettivo l’assetto di interessi delineato dal diritto sostanziale. La differenza tra legislazione e giurisdizione appare dunque evidente; problematico è, invece, definire il “proprium” dell’attività giurisdizionale, ossia i caratteri minimi essenziali che la differenziano dalla funzione amministrativa, preordinata anch’essa all’applicazione della legge.

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Giampiero Balena, Istituzioni di diritto processuale civile e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! Giampiero Balena, Istituzioni di diritto processuale civile Capitolo I - Il diritto Processuale civile e la funziona giurisdizionale 1. Il diritto processuale civile e la giurisdizione Il diritto processuale è quella branca del diritto che disciplina l’insieme dei procedimenti attraverso cui si esercita la giurisdizione. Il diritto sostanziale mira a regolare in astratto tutti i possibili conflitti intersubiettivi, attribuendo posizioni di vantaggio e le corrispondenti situazioni di svantaggio; il diritto processuale serve, invece, a disciplinare l’intervento del giudice quando lo stesso sia necessario al fine di rendere concreto ed effettivo l’assetto di interessi delineato dal diritto sostanziale. La differenza tra legislazione e giurisdizione appare dunque evidente; problematico è, invece, definire il “proprium” dell’attività giurisdizionale, ossia i caratteri minimi essenziali che la differenziano dalla funzione amministrativa, preordinata anch’essa all’applicazione della legge. Sul piano oggettivo è lo stesso codice di procedura civile che riconduce alla giurisdizione due fenomeni decisamente eterogenei, quali la giurisdizione contenziosa e la giurisdizione volontaria; quest’ultima, dal punto di vista funzionale, appare assai prossima all’attività tipica dello Stato-amministrazione. Inoltre, vi sono organi che, seppur senz’altro estranei all’apparato giurisdizionale, sono per legge strutturati in modo considerevolmente autonomo rispetto all’esecutivo e ad essi sono attribuite funzioni tipiche della giurisdizione, quali la composizione di conflitti e l’irrogazione di sanzioni (es. Autorità di garanzia nelle comunicazioni e Autorità garante della concorrenza e del mercato). Per tali ragioni, nessuna delle diverse definizioni dottrinali di “giurisdizione” appare soddisfacente; sembra preferibile privilegiare, dunque, l’aspetto soggettivo, rinunciando ad una definizione ontologica e riconoscendo come giurisdizione, semplicemente quell’attività che promana dal giudice (ufficio giudiziario) e si estrinseca in forme tipiche ed è assistita da determinate garanzie procedimentali. Il criterio soggettivo trova puntuale fondamento nella stessa Costituzione, precisamente all’art. 102, ai sensi del quale : la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Da ciò si evince che la giurisdizione non potrà essere esercitata da organi non appartenenti alla magistratura ma, per contro, non è detto che ogni atto o provvedimento ascrivibile ad un ufficio giudiziario abbia necessariamente natura giurisdizionale, dal momento che è possibile e frequente che determinati organi cumulino in sé funzioni giurisdizionali e funzioni amministrative, come nel caso del presidente del tribunale, il quale è senz’altro investito di compiti squisitamente giurisdizionali, ma nella direzione e nell’organizzazione del suo ufficio esercita attività di amministrazione pura. In conclusione, dunque, il criterio soggettivo non può non integrarsi con quello obiettivo e la linea di demarcazione potrà desumersi in VIRTÙ dell’interesse tutelato. 2. La giurisdizione contenziosa Obiettivo tipico ed essenziale della giurisdizione è quello di assicurare l’attuazione del diritto sostanziale, nell’eventualità in cui sorga un conflitto intersoggettivo. Il diritto sostanziale attribuisce in astratto posizioni di vantaggio (situazioni giuridiche attive: diritti, poteri, facoltà,…) e le corrispondenti posizioni di svantaggio (situazioni giuridiche passive: doveri, obblighi, soggezioni e oneri) in presenza di determinati presupposti e tale regolamentazione statica è di per sé idonea a governare la realtà giuridica ed a risolvere ogni possibile conflitto d’interessi, dato che il titolare del diritto riesce a realizzare il vantaggio assicuratogli dal diritto sostanziale attraverso il comportamento del soggetto obbligato. In certi casi, tuttavia, ciò non avviene; vuoi perché sorge un contrasto fra le parti circa l’applicazione della norma sostanziale, vuoi perché si verifica la c.d. crisi di cooperazione da parte del soggetto obbligato, il quale omette di tenere quel determinato comportamento necessario per la realizzazione dell’interesse del titolare del diritto. Qualora si verifichi una crisi di cooperazione, il conflitto diviene effettivo, ma ciò non esclude ancora che le parti riescano a comporlo autonomamente, utilizzando uno degli strumenti previsti dallo stesso diritto sostanziale (es. transazione) e non è nemmeno escluso che il titolare del diritto ometta, a sua volta, di reagire, rimanendo quindi inerte di fronte al seppur illegittimo comportamento dell’altra parte. In questi casi l’ordinamento rimane indifferente soprattutto perché si tratta di interessi di natura privatistica, sicché sono le parti, in linea di principio, a poterne invocare la tutela. La giurisdizione interviene, invece, qualora a seguito di un conflitto, il titolare del diritto ne lamenti la lesione e chieda all’ordinamento di assicurargli la soddisfazione del proprio interesse, facendo a meno della cooperazione del soggetto obbligato. In tal caso si rende necessario il ricorso al processo, nel quale il giudice dovrà, in primo luogo accertare l’esistenza del diritto e, successivamente, assicurarsi che il diritto in questione possa essere attuato anche contro la volontà del soggetto che l’ha leso. Tale tipo di giurisdizione è definita contenziosa, poiché presuppone l’esistenza di un conflitto intersoggettivo e mira alla composizione e alla risoluzione, in via autoritativa, del conflitto stesso. Tuttavia, ciò non vuol dire che il processo fallisca nel caso in cui lo stesso • quando il legislatore, con lo Statuto dei lavoratori, volle codificare il principio della libertà sindacale, si rese conto che non sarebbe stato possibile assicurarne la pratica attuazione attraverso il processo a cognizione piena, dato che quest’ultimo sortisce effetti con troppo ritardo e, dunque, garantirebbe tutt’al PIÙ un risultato meramente risarcitorio. Di qui la scelta di prevedere, con l’art. 28 dello stesso Statuto, uno speciale ed autonomo procedimento per la repressione della condotta antisindacale o lesiva del diritto di sciopero, caratterizzato da una cognizione sommaria e destinato a concludersi in tempi brevissimi, con la pronuncia di un decreto di cessazione del comportamento illegittimo, che dà luogo all’applicazione di sanzioni penali nei confronti del datore di lavoro che non vi ottemperi. • Un altro procedimento del tutto analogo fu previsto contro le discriminazioni in materia di lavoro fondate sul sesso, il legislatore introdusse un regime probatorio stabilendo che quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, Desunti anche da dati di carattere statistico, Idonei a fondare in termini precisi e concordanti, La presunzione dell'esistenza di atti discriminatori, spetta al convenuto l'onere della prova Sulla insussistenza della discriminazione. • PIÙ recentemente, quando sono stati introdotti nel nostro ordinamento gli ordini di protezione contro gli abusi familiari È stata creata una disciplina processuale ad hoc, che delinea un procedimento semplificato. La diversificazione degli strumenti processuali è dunque di per sé legittima, pur dovendo fare i conti per un verso con il principio di eguaglianza consacrato nell’art. 3, 2°comma, Cost. che impone di valutare la ragionevolezza del trattamento processuale differenziato e, per altro verso, col principio c.d. della parità delle armi tra le parti, recepito nel 2° comma, del riformato art. 111 Cost. tuttavia, negli ultimi decenni si è assistito ad una proliferazione eccessiva dei modelli processuali e, pertanto, il legislatore, col d.lgs. 150/2011, ha stabilito che molti dei riti speciali preesistenti siano ricondotti a tre modelli-base, costituiti dal: 1. processo ordinario, 2. rito del lavoro, 3. rito sommario di cognizione 5. La giurisdizione c.d. volontaria In passato tale forma di giurisdizione si esercitava esclusivamente in assenza di qualsivoglia contrasto tra le parti. Oggi ciò che caratterizza la giurisdizione volontaria è la sua peculiare funzione : essa, infatti, non mira a risolvere o comporre un conflitto tra diritti, bensì a tutelare o gestire interessi di determinati soggetti privati, siano essi persone fisiche o entità diverse. Il campo della giurisdizione volontaria abbraccia settori piuttosto eterogenei, poiché riguarda tutte le ipotesi in cui il processo non ha ad oggetto un diritto o uno status; es. la nomina del curatore dello scomparso o i procedimenti nell’interesse dei minori, iterdetti ed inabilitati. In questi casi il giudice è chiamato a valutare le misure e le soluzioni PIÙ idonee a tutelare gli interessi di un determinato soggetto ed il suo provvedimento può in vario modo condizionare e/o integrare la capacità di agire di quest’ultimo, con immediati riflessi anche nei confronti dei terzi che intreccino con lui rapporti giuridici. Tali funzioni giurisdizionali, dunque, non sono necessarie dal punto di vista costituzionale, infatti, potrebbero essere attribuite dalla legge a soggetti privati (es. notaio) o ad una P.A. ed è solo per le maggiori garanzie di terzietà ed imparzialità che il legislatore le riserva al giudice, prevedendo che esse vengano svolte secondo forme procedimentali proprie della giurisdizione. La differenza tra giurisdizione volontaria e giurisdizione contenziosa è particolarmente evidente quando il procedimento ha una struttura unilaterale, non essendo individuabile una parte controinteressata. Il PIÙ delle volte, peraltro, anche il procedimento di giurisdizione volontaria ha struttura bilaterale o plurilaterale e, in tali casi, la linea di demarcazione risulta senz’altro PIÙ incerta, soprattutto quando il provvedimento richiesto al giudice potrebbe incidere negativamente su veri e propri diritti soggettivi o status. Altro fattore di possibile confusione deriva dalla circostanza che, sebbene la giurisdizione volontaria sia legata, tradizionalmente, al “procedimento in camera di consiglio”, disciplinato dagli artt. 737 ss., a volte il legislatore prescrive l’adozione di questo rito (semplificato) per la trattazione di controversie che appartengono al settore della giurisdizione contenziosa; ad es. per la dichiarazione di ammissibilità dell’azione contro lo Stato per il risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Il problema della distinzione tra le due forme di giurisdizione può assumere concreto rilievo, allorché il legislatore non abbia dettato disposizioni ad hoc, soprattutto in relazione all’individuazione dei rimedi consentiti nei confronti del provvedimento conclusivo del procedimento. 6. L’arbitrato L’attività giurisdizionale è monopolio dello Stato ed è esercitata dalla magistratura ed ha come obiettivo quello di comporre in via autoritativa i conflitti intersoggettivi. In ciò si individua l’elemento di distinzione rispetto alla c.d. giurisdizione arbitrale, il cui fondamento risiede invece nella volontà delle parti le quali, attraverso un mandato, attribuiscono agli arbitri l’incarico di decidere una controversia già insorta o le controversie che potranno in futuro nascere da un determinato loro rapporto giuridico, prevalentemente di natura contrattuale. L’arbitrato si distingue in rituale (artt. 806 ss.) e irrituale o libero (art. 808-ter). a. L’arbitrato rituale prevede che l’attività demandata all’arbitro sia qualitativamente identica a quella affidata al giudice con la differenza che l’efficacia vincolante della decisione (detta lodo) si ricollega al mandato ricevuto dalle parti e, conseguentemente, risente degli eventuali vizi di quest’ultimo. La pronuncia arbitrale, tuttavia, è di per sé priva dell’imperatività tipica del provvedimento giurisdizionale, indispensabile per l’attuazione coattiva , ma può acquisirla attraverso il c.d. procedimento di exequatur, con il quale il tribunale che accerta la sua regolarità formale, la dichiara esecutiva. b. Nell’arbitrato irrituale, invece, le parti incaricano gli arbitri di definire la controversia mediante una determinazione contrattuale, destinata ad operare sul piano meramente sostanziale, senza mai poter ambire all’efficacia tipica della sentenza. A volte, in passato, era lo stesso legislatore ad imporre il ricorso all’arbitrato per alcune categorie di controversie, a la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità delle relative norme, per contrasto con gli artt. 24 e 102 Cost. sottolineando che le deroghe alla statualità della giurisdizione sono consentite solo a fronte della concorde e specifica volontà delle parti. Capitolo II - La giurisdizione contenziosa Sezione I - Le forme di tutela 7. Generalità: tutela cognitiva, esecutiva e cautelare. Nell' ambito della giurisdizione contenziosa occorre distinguere dal punto di vista funzionale tre diverse forme di tutela ciascuna caratterizzata da una propria finalità: 1. Tutela cognitiva: mira a conseguire certezza in ordine all'esistenza O inesistenza di un diritto o di un'altra situazione giuridica attiva che l'attore vanti nei confronti del convenuto, E determinare l'obbligo che ne scaturisce in capo allo stesso convenuto oppure le modificazioni giuridiche chieste dall'attore E destinate a prodursi nella sera giuridica del convenuto 2. Tutela esecutiva: È diretta a conseguire l'attuazione forzata e dunque l'effettiva soddisfazione del diritto, Accertato attraverso l'esercizio della tutela cognitiva oppure risultante da un titolo esecutivo formatosi al di fuori del processo, Nell'ipotesi in cui manchi la collaborazione del soggetto obbligato. 3. Tutela cautelare: È strumentale alle prime due, nel senso che serve ad assicurare l'utile e proficuo esercizio, Nel contempo è tendenzialmente provvisoria perché è destinata a durare per il tempo strettamente necessario a portare a compimento il processo di cognizione ed eventualmente ad avviare il processo esecutivo. 8. La tutela cognitiva e il suo rapporto con il giudicato La tutela cognitiva mira essenzialmente a conseguire certezza circa l’esistenza o comunque relativamente al modo di essere del diritto o del rapporto giuridico controverso. semplificazione del procedimento, che il legislatore ha disciplinato in modo assai scarno. Tale processo, sebbene sia definito in primo grado con ordinanza, sia pur sempre un procedimento (speciale) a cognizione piena ed esauriente, che dovrebbe rimpiazzare quello ordinario nelle controversie PIÙ SEMPLICI. Le forme di tutela sommaria vera e propria implicano per definizione, una deviazione rispetto alle garanzie offerte dalla cognizione piena e, conseguentemente, vanno attentamente valutate quanto alla loro compatibilità con gli artt. 24 e 3, Cost. soprattutto dal punto di vista della tollerabilità della compressione che ne deriva al diritto di difesa del convenuto; compressione che, in ogni caso, non potrà mai escludere l’accesso al processo a cognizione piena. In conclusione, anche quando mancano precisi indizi normativi circa la sommarietà di un determinato procedimento, tale caratteristica può agevolmente dedursi ogni qual volta il legislatore abbia per l’appunto espressamente previsto la successiva instaurazione o prosecuzione del processo ordinario. 10. La funzione della tutela sommaria, cautelare o non cautelare, ed il suo rapporto con la tutela ordinaria Le relazioni tra la tutela sommaria e la tutela cognitiva ordinaria possono essere piuttosto varie. Innanzitutto, distinzione che si fonda innanzitutto sulla diversa funzione : A. La tutela sommaria cautelare costituisce un genus a se stante rispetto alla tutela cognitiva e a quella esecutiva ed è estremamente strumentale rispetto al processo a cognizione piena e/o a quello ad esecuzione forzata , dei quali dovrebbe assicurare la proficuità. I provvedimenti cautelari, infatti, servono ad impedire che, nel tempo necessario per portare a compimento il processo di cognizione, il diritto azionato subisca un pregiudizio irrimediabile : ad esempio si può ricorrere al sequestro conservativo per evitare che il debitore svuoti il proprio patrimonio. B. La tutela sommaria non cautelare, invece, mira ad offrire una sorta di scorciatoia rispetto alla cognizione ordinaria, ogni qual volta ricorrano particolari situazioni che potrebbero rendere eccessivo, o semplicemente superfluo, un provvedimento a cognizione piena ed esauriente : per esempio quando il comportamento processuale del convenuto lascia presupporre la fondatezza della domanda dell’attore o quando quest’ultimo dispone di una prova scritta del proprio credito. Accanto a questa differenza funzionale ve ne sono altre due, meramente eventuali : 1. La prima riguarda il contenuto : il provvedimento sommario non cautelare, dato che deve surrogare quello a cognizione piena, non può che avere un contenuto del tutto simile a quest’ultimo, cioè implica un’anticipazione degli effetti che deriverebbero dalla sentenza di accoglimento della domanda; il provvedimento sommario cautelare, invece, ha un contenuto PIÙ Vario che non coincide, necessariamente, con quello del provvedimento a cognizione piena. 2. La seconda differenza riguarda il regime di stabilità del provvedimento : la tutela sommaria non cautelare nasce sempre come tutela provvisoria, destinata ad essere rimpiazzata dal successivo provvedimento a cognizione piena, tuttavia, se le parti rinunciano ad instaurare o a coltivare il processo a cognizione piena, la tutela sommaria non cautelare può ambire a diventare definitiva, talvolta addirittura nella stessa misura in cui è definitiva una sentenza passata in giudicato; quanto alla tutela sommaria cautelare, tenuto conto della funzione strumentale che la contraddistingue, essa dovrebbe essere intrinsecamente provvisoria e produrre effetti per il solo periodo necessario ad instaurare o portare a compimento il processo a cognizione piena o, eventualmente, quello esecutivo. Il provvedimento cautelare non dovrebbe mai fornire una tutela definitiva, equivalente a quella ordinaria ma, dopo la riforma del 2005, questo principio vale solo per i provvedimenti cautelari c.d. conservativi e non anche per quelli anticipatori. In conclusione, prescindendo dalle ipotesi in cui la natura cautelare può desumersi dal contenuto (non anticipatorio) del provvedimento, la distinzione tra le due forme di tutela sommaria si evince essenzialmente dall’elemento funzionale, ossia dalla strumentalità che caratterizza la tutela cautelare ed è, invece, estranea alla tutela non cautelare. 11. La tutela esecutiva La tutela esecutiva serve a garantire al titolare del diritto la concreta realizzazione del suo interesse, in via coattiva e, dunque, facendo a meno della cooperazione del soggetto obbligato; ciò avviene attraverso una serie di attività che possono essere meramente materiali ed implicare l’uso della forza, o possono produrre delle modificazioni giuridiche nella sfera del soggetto esecutato. La tutela esecutiva è caratterizzata da una notevole astrattezza, dovuta al fatto che essa presuppone, quale condizione necessaria e sufficiente, il possesso di un titolo esecutivo da parte del creditore procedente. La nozione di titolo esecutivo comprende tutti e soltanto i documenti che il legislatore considera esplicitamente tali e la norma fondamentale è l’art. 474 c.p.c. che enumera tre diverse categorie di titoli giudiziali e stragiudiziali (sentenze; scritture private autenticate; atti ricevuti da notaio o altro pubblico ufficiale), ma non contiene un’elencazione esaustiva, dato che rinvia genericamente a “i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva ”. Art. 474. (Titolo esecutivo). L'esecuzione forzata non puo' avere luogo che in virtu' di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile. Sono titoli esecutivi: >1) le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva; >((2) le scritture private autenticate, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute, le cambiali, nonche' gli altri titoli di credito ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia)); >3) gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli, ((...)). L'esecuzione forzata per consegna o rilascio non puo' aver luogo che in virtu' dei titoli esecutivi di cui ai numeri 1) e 3) del secondo comma. ((Il precetto deve contenere trascrizione integrale, ai sensi dell'articolo 480, secondo comma, delle scritture private autenticate di cui al numero 2) del secondo comma)). Risulta impossibile ricostruire una categoria unitaria di titolo esecutivo, dal punto di vista dei requisiti di sostanza. Ad esempio, nell’ambito dei titoli giudiziali è chiaro che le sentenze passate in giudicato forniscono il massimo grado di affidabilità circa l’esistenza del diritto, pur non trattandosi di una certezza assoluta; ma la qualità di titolo esecutivo può competere anche a sentenze non ancora passate in giudicato, oppure a provvedimenti diversi dalla sentenza che si basino su una cognizione meramente sommaria circa l’esistenza del diritto. Per quanto attiene ai titoli stragiudiziali, invece, deve senz’altro escludersi che essi si fondino su un vero e proprio accertamento del diritto; anzi, in alcuni casi il favor per talune categorie di creditori (amministrazioni statali o altri enti pubblici), fa sì che venga attribuita la qualità di titolo esecutivo a documenti formati dallo stesso ente creditore, tipico esempio è l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate che già costituisce di per sé titolo esecutivo. In quest’ambito la discrezionalità del legislatore è notevole, essendo limitata soltanto da un’esigenza di complessiva coerenza del sistema e, soprattutto, dalla necessità di assicurare al debitore adeguati mezzi di tutela preventiva. La tutela esecutiva si esercita attraverso una pluralità di procedimenti, ordinari o speciali, collocati questi ultimi al di fuori del codice. Nell’ambito della disciplina codicistica, l’esecuzione generica (forzata) serve a realizzare un diritto avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro; mentre l’esecuzione in forma specifica consente l’attuazione coattiva di un obbligo di rilasciare un immobile, di consegnare un mene mobile, o di fare/disfare qualcosa. L’esecuzione forzata vera e propria implica un’attività di tipo sostitutivo e surrogatorio rispetto a quella del debitore e, dunque, il suo limite è rappresentato dagli obblighi c.d. infungibili, per i quali è irrinunciabile ed essenziale la cooperazione dell’obbligato. In queste ipotesi, a meno che non si voglia restringere la soddisfazione del creditore ad una mera tutela risarcitoria, il legislatore potrà utilizzare mezzi di coazione indiretta, ossia le c.d. misure coercitive, che mirano ad incentivare l’adempimento spontaneo dell’obbligo infungibile da parte del debitore. 12. La tutela cautelare La tutela cautelare si differenzia sia dalla tutela cognitiva, sia dalla tutela esecutiva, infatti, non mira né all’accertamento, né alla soddisfazione coatta del diritto, bensì ad approntare una tutela essenzialmente provvisoria, finalizzata ad evitare che il diritto subisca, nel tempo relativa sottoscrizione, e la querela di falso nei confronti di un atto pubblico o di una scrittura privata. La deroga è giustificata dal fatto che l’accertamento della genuinità o della falsità del documento ha immediate ripercussioni sui rapporti giuridici che in esso trovano la propria base sostanziale o probatoria. Oltre a tale limite, l’azione di mero accertamento è subordinata alla condizione dell’interesse ad agire, il quale può costituire un filtro considerevole dell’efficacia di tali azioni. 14. L’azione e la sentenza di condanna. Gli effetti della condanna È comunque senz’altro PIÙ frequente che l’attore non si limiti a domandare l’accertamento del diritto dedotto in giudizio, ma chieda altresì al giudice di verificarne l’intervenuta lesione, a causa dell’inadempimento del debitore e, conseguentemente, di condannare quest’ultimo alla prestazione necessaria per realizzare il proprio interesse (azione di condanna). Tale pronuncia costituisce il presupposto per la successiva attuazione coattiva del diritto, vuoi attraverso l’esecuzione forzata, vuoi attraverso altri strumenti di c.d. esecuzione indiretta ed è proprio nell’idoneità a dar vita all’esecuzione coattiva che risiede l’effetto tipico e primario della sentenza di condanna. Accanto a tale effetto vi sono altri effetti secondari della condanna : - Art. 2818 : prevede che ogni sentenza che porta condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione, nonché al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente sia titolo per l’iscrizione d’ipoteca giudiziale sui beni del debitore; ciò chiaramente al fine di consentire all’attore di procurarsi una garanzia specifica per l’ipotesi in cui il debitore non adempia spontaneamente all’obbligo impostogli dal provvedimento. - Art. 2953 : stabilisce che qualora il diritto dedotto in giudizio sia soggetto ad una prescrizione PIÙ breve di quella ordinaria decennale, la pronuncia di una sentenza di condanna passata in giudicato converte la prescrizione breve in prescrizione ordinaria, con la conseguenza che l’azione esecutiva sarà eseguibile nel termine di dieci anni. 15. Condanna ed esecuzione forzata Dato che l’effetto tipico della sentenza di condanna è quello di costituire titolo esecutivo, la dottrina ha ravvisato una forte correlazione tre l’azione di condanna e l’esecuzione forzata. Peraltro, il processo esecutivo incontra un limite invalicabile nell’eventuale infungibilità dell’obbligo di fare gravante sul debitore e, in tali situazioni, il diritto potrà trovare attuazione solo con la cooperazione del debitore stesso, non essendo evidentemente indifferente, dal punto di vista dell’interesse del titolare, che la prestazione venga resa da un terzo. Accanto a tali ipotesi, va considerato il caso degli obblighi di natura negativa, di non fare, che implicano il dovere di astenersi da comportamenti che possano turbare il godimento della res; spesso è lo stesso legislatore a prevedere che il giudice pronunci condanne a contenuto inibitorio, consistenti nell’ordine di cessare o di non reiterare un determinato comportamento illecito, eventualmente accompagnato dalla condanna alla rimessione in pristino. In queste situazioni, l’esecuzione forzata non è idonea ad assicurare l’attuazione del diritto, attraverso la realizzazione diretta dell’interesse del suo titolare, poiché non è in grado di impedire il compimento dell’attività che ne costituisce violazione, ma può servire, ex post, ad attuare coattivamente le misure riparatorie che a tale violazione conseguono. 16. L’esecuzione indiretta attraverso le c.d. misure coercitive Per assicurare l’effettiva realizzazione dell’interesse del titolare del diritto leso, qualora la sentenza di condanna non trovi attuazione attraverso l’esecuzione forzata, la strada obbligatoria è rappresentata dal ricorso alle misure coercitive, quali strumenti preordinati a disincentivare l’inadempimento dell’obbligo imposto dalla sentenza di condanna. Tali misure coercitive possono consistere in vere e proprie sanzioni penali o sanzioni civili che rendono PIÙ gravose le conseguenze dell’inadempimento. La sentenza del 2009, in particolare, ha introdotto una misura civile di carattere tendenzialmente generale, applicabile alle sole condanne aventi ad oggetto obblighi di fare infungibile o di non fare, stabilendo che il giudice (art. 614 bis), con il provvedimento di condanna fissi, su istanza di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, o per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Quanto alle misure di natura penale, l’unica disposizione idonea ad assicurare l’attuazione di qualunque provvedimento di condanna è rappresentata (art. 388 c.1 c.p.) dalla norma che sanziona (con la reclusione o con la multa) chi, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, compie sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti. Tuttavia, gli elementi soggettivi ed oggettivi in essa richiesti ne circoscrivono drasticamente il rilievo pratico. Ben PIÙ numerose sono le misure coercitive (penali e civili) previste a garanzia di determinate condanne, che solitamente attribuiscono rilievo alla mera inosservanza volontaria del provvedimento del giudice. In realtà nulla esclude che il legislatore possa impiegare le misure coercitive anche solo per rafforzare la tutela già offerta dall’esecuzione forzata, anzi, il ricorso a tale tecnica è l’unica soluzione quando ci si trovi in presenza di obblighi di fare in tutto o in parte infungibili, oppure di obblighi di non fare, rispetto ai quali l’esecuzione forzata non sarebbe utilizzabile. 17. Ipotesi particolari di condanna: la condanna generica L’art. 278, 1°comma, prevede che, qualora sia già accertata la sussistenza di un diritto, ma sia ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il giudice, su istanza di parte, possa limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione. Tale pronuncia, nella sostanza, è assai PIÙ prossima ad una sentenza di mero accertamento e, comunque, non può avere l’effetto caratteristico della sentenza di condanna, cioè aprire la strada all’esecuzione forzata. Ciononostante, essa può essere comunque utile all’attore, dato che pone un punto fermo ed incontrovertibile sull’astratta sussistenza del diritto. La concreta utilità dell’istituto è assicurata dall’art. 2818, ai sensi del quale anche la sentenza di condanna al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente è titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale sui beni del debitore. Tuttavia, la pronuncia della condanna generica, non esclude che la successiva sentenza sul quantum accerti come eguale a zero la prestazione realmente dovuta, vanificando così ogni concreto effetto della prima sentenza. Per quanto riguarda l’altro effetto tipico della condanna, ossia la conversione della prescrizione breve in prescrizione decennale art.2953 c.c., parte della dottrina ritiene che quest’ultima disposizione presupponga una sentenza di condanna idonea a costituire titolo esecutivo ma, di fronte alla formulazione letterale dell’art. 2953, non sembrano esservi ragioni per negarne l’applicazione alla condanna generica. L’opinione prevalente, inoltre, ritiene che la condanna generica possa chiedersi non soltanto come prima frazione della condanna vera e propria, ma anche fin dal principio in via autonoma, ossia come esclusivo oggetto del processo, che in tale ipotesi verrebbe limitato dall’attore all’accertamento della sussistenza del diritto, senza una sua quantificazione. In tal caso, tuttavia, è riconosciuta la possibilità al convenuto – interessato a non subire un doppio processo – di chiedere l’estensione del diritto alla quantificazione della prestazione da lui eventualmente dovuta. Art. 278. (( (Condanna generica - Provvisionale). )) ((Quando e' gia' accertata la sussistenza di un diritto, ma e' ancora controversa la quantita' della prestazione dovuta, il collegio, su istanza di parte, puo' limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione. In tal caso il collegio, con la stessa sentenza e sempre su istanza di parte, puo' altresi' condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantita' per cui ritiene gia' raggiunta la prova)). Ipotesi affine, in qualche misura, alla condanna in futuro è rappresentata dalla condanna condizionale, in cui il comando contenuto nella sentenza è subordinato ad un evento futuro. 21. L’azione e la sentenza costitutiva L’ art. 2908 prevede che il giudice, nei casi previsti dalla legge, possa costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. In generale, quindi, l’azione costitutiva è quella che può condurre alla nascita di un diritto o di uno status, oppure alla modificazione o all’estinzione di rapporti giuridici preesistenti. L’ esempio tipico di azione costitutiva è offerto dall’art. 2932 che consente, in caso di inadempimento dell’obbligo di concludere un contratto, la pronuncia di una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso. Si definiscono azioni costitutive non necessarie quelle in cui l’effetto costitutivo-modificativo-estintivo perseguito dall’attore potrebbe ottenersi al di fuori del processo, attraverso la collaborazione del debitore. Le azioni costitutive necessarie, invece, sono quelle che mirano ad una modificazione (concernente un diritto indisponibile) che le parti non avrebbero alcuna possibilità di conseguire per altra strada, attraverso la propria autonomia negoziale, neppure volendolo entrambe, es : le impugnazioni del matrimonio o l’azione di disconoscimento di paternità. Probabilmente tali azioni meriterebbero una collocazione autonoma sia rispetto alla giurisdizione contenziosa, sia rispetto a quella volontaria, infatti, parte della dottrina utilizza a riguardo il concetto di giurisdizione (o processi) a contenuto oggettivo, per sottolineare come tali processi non vertano su un diritto o uno status, bensì semplicemente sul dovere per il giudice di provvedere. Non sempre, però, la linea di confine tra l’azione costitutiva e l’azione di mero accertamento è netta, poiché vi sono casi, riguardanti rapporti giuridici sottratti alla disponibilità delle parti, in cui il legislatore richiede, per un’esigenza di certezza, che l’esistenza o l’inesistenza del rapporto venga accertata dal giudice, ma nel contempo lascia intendere che l’accertamento riguarda, per l’appunto, una situazione determinatasi prima e fuori del processo, rispetto alla quale la sentenza mantiene una funzione meramente dichiarativa. 22. Le sentenze c.d. determinative Oltre alle sentenze di mero accertamento, di condanna e quelle costitutive, parte della dottrina utilizza l’ulteriore categoria delle sentenze determinative, che costituirebbero una figura trasversale rispetto alle altre, nel senso che potrebbero aversi sentenze “meramente determinative”, “determinative di condanna”, o “determinative costitutive”, mentre, secondo una differente opinione, rappresenterebbero una species all’interno del genus delle sentenze costitutive. La nozione di sentenza dichiarativa allude alle ipotesi in cui il giudice è chiamato ad integrare o a specificare il contenuto di un diritto o, correlativamente, di un obbligo, che virtualmente preesiste rispetto al suo intervento, ma non è compiutamente determinato. A tal fine il giudice esercita una discrezionalità che potrebbe definirsi tecnica, dovendosi pur sempre ispirare a parametri e criteri oggettivi; si pensi al caso in cui il giudice debba stabilire la misura degli alimenti, in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizione economiche di chi deve somministrarli. L’autonomia e la concreta utilità di tale categoria di sentenze appaiono, tuttavia, assai dubbie, dato che la necessaria integrazione della norma sostanziale, ad opera del giudice, deve considerarsi un fenomeno assolutamente normale, discendendo dall’inevitabile elasticità e genericità delle nozioni e dei concetti di cui il legislatore è costretto ad avvalersi nella definizione delle fattispecie sostanziali. Sezione III - Il diritto e l’azione 23. La relatività del concetto di azione Quello dell’azione è un concetto essenzialmente relativo, infatti esso non può non risentire della profonda diversità di obiettivi che contraddistingue le azioni di cognizione rispetto a quelle esecutive e cautelari. Lo stesso legislatore, del resto, parla di “azione” in modo tutt’altro che univoco e, non di rado, come mero sinonimo di diritto soggettivo. Oggi, riconosciuta la reciproca autonomia del diritto soggettivo e dell’azione, quest’ultima si sostanzia, almeno per quel che concerne l’azione di cognizione, nel diritto ad ottenere dall’autorità giudiziaria un provvedimento su una determinata domanda. Tuttavia, al fine di definire l’oggetto ed i fatti costitutivi del diritto d’azione, ossia le circostanze cui è subordinata la sua sussistenza, è indispensabile stabilire quale sia il provvedimento giudiziario che soddisfa, per l’appunto, il diritto d’azione. Secondo la concezione PIÙ astratta, dato che l’azione si ricollegherebbe al dovere del giudice di rispondere comunque alla domanda, essa tenderebbe ad ottenere un provvedimento indipendentemente dal contenuto della decisione e finanche quando quest’ultima fosse di inammissibilità o di rigetto. Tesi opposta è quella dell’azione in senso concreto, che identifica la stessa col diritto ad ottenere da giudice una decisione di accoglimento della domanda. In quest’ultima prospettiva appare chiaro che tra gli elementi costitutivi del diritto d’azione viene ricompresa anche l’esistenza di una volontà di legge favorevole all’attore, cioè la sussistenza di tutte le condizioni cui è subordinata la fondatezza della domanda e, dunque, l’esistenza stessa del diritto dedotto in giudizio. La concezione PIÙ diffusa è però una via di mezzo fra le due, giacché definisce l’azione come il diritto ad ottenere un provvedimento di merito, ossia una pronuncia che decida sulla fondatezza della domanda, anche se in modo sfavorevole per l’attore. Accogliendo tale definizione, l’esistenza del diritto d’azione viene svincolata dalla concreta esistenza del diritto dedotto in giudizio e dipende, invece, da due elementi : 1. la legittimazione; 2. l’interesse ad agire. 24. Le c.d. condizioni dell’azione di cognizione e i presupposti processuali La legittimazione ad agire e l’interesse ad agire, rappresentano gli elementi costitutivi del diritto d’azione e, dunque, del diritto ad ottenere una pronuncia sul merito della causa, ossia sulla fondatezza della domanda. Pertanto, la decisione che neghi una di queste condizioni dell’azione non sia una decisione di merito, ma rientri nel novero delle pronunce meramente processuali. Tuttavia è comunque da ritenere che un provvedimento di questo tipo partecipi dell’efficacia decisoria propria delle sentenze di merito, sebbene non possa fare stato sul rapporto giuridico che era stato dedotto in giudizio e sul quale il giudice ha rifiutato di giudicare proprio a causa del ritenuto difetto di legittimazione o dell’interesse ad agire. È possibile, dunque, distinguere le condizioni dell’azione dai c.d. presupposti processuali, che condizionano anch’essi la possibilità che il giudice pervenga aduna pronuncia sul merito della causa. La categoria dei presupposti processuali abbraccia una quantità di requisiti piuttosto eterogenei, che possono riguardare l’instaurazione stessa del processo, oppure la possibilità che esso prosegua verso la propria meta naturale, costituita dalla decisione sul rapporto giuridico controverso. Talora si afferma che le condizioni dell’azione, a differenza dei presupposti processuali, potrebbero anche sopravvenire nel corso del giudizio, dovendo sussistere solo al momento della decisione. D’altro canto, non è sempre vero che, per i presupposti processuali, valga la regola opposta, ossia che essi debbano necessariamente preesistere all’instaurazione del processo. 25. La legittimazione ad agire e le ipotesi di sostituzione processuale Primo elemento costitutivo del diritto d’azione (o condizione dell’azione) è la legittimazione ad agire, che serve ad individuare a chi l’azione spetti. Si tratta, in realtà, di un principio di modesto rilievo pratico, anche perché opera solo nei rapporti tra diversi uffici giudiziari e non impedisce, invece, all’interno di ciascun ufficio, di attribuire al capo dello stesso quei poteri indispensabili in relazione all’organizzazione e alla funzionalità dell’organo giudiziario, che inevitabilmente incidono sulla concreta individuazione del magistrato chiamato ad occuparsi di una determinata controversia. 29. Il diritto d’azione e di difesa ed il principio del contraddittorio Prima e PIÙ importante garanzia relativa al processo è quella contenuta nell’art. 24, 1° comma, Cost. Tale disposizione ha consacrato, a libello costituzionale, il principio del contraddittorio, che aveva già trovato un parziale riconoscimento nell’originario art. 101 c.p.c. e che è stato ulteriormente ribadito nell’art. 111, 2° comma, Cost. Art. 111 Cost. La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. A rt. 101. c.p.c . (Pri ncipi o del cont radd ittor io). Il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale e' proposta non e' stata regolarmente citata e non e' comparsa. ((Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione)). Art. 24 Cost. Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari. La portata degli artt. 24 e 111 copre non soltanto il momento iniziale del processo, bensì ogni sua fase, assicurando che ciascuna delle parti abbia la concreta possibilità di replicare sia di fonte ad eventuali nuove allegazioni o richieste dell’avversario, sia di fronte alle stesse iniziative del giudice da cui possa derivare un qualche pregiudizio o possa addirittura scaturire un ampliamento del dibattito processuale. Non a caso la riforma del 2009 ha aggiunto un 2° comma all’art. 101 del c.p.c. prevedendo che il giudice, allorché ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, debba assegnare alle parti, a pena di nullità, un termine per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione medesima. La costituzionalizzazione del principio del contraddittorio suscita non lievi dubbi circa la legittimità dei non pochi procedimenti speciali nei quali il codice prevede o comunque consente che il contraddittorio tra le parti si instauri dopo la pronuncia del provvedimento (ad es. nel caso del procedimento per ingiunzione o dei procedimenti cautelari). Sicuramente, in talune situazione, finanche il principio del contraddittorio deve poter subire una temporanea compressione in nome di altri primari valori di rango costituzionale, tuttavia, è pur vero che tali deroghe dovrebbero essere sempre ben circoscritte, a livello normativo, e nel contempo dovrebbero operare per il tempo strettamente indispensabile alla successiva instaurazione del contraddittorio; condizioni, queste, cui il legislatore non sempre si attiene. Si ritiene, inoltre, che l’art. 24, 2° comma, Cost. sancisca anche il diritto alla c.d. difesa tecnica, ossia il diritto di avvalersi di un avvocato per sostenere le proprie ragioni dinanzi agli organi giudiziari; e lo stesso art. 24 si preoccupa di aggiungere che sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. 30. La c.d. parità delle armi Oltre al principio del contraddittorio, l’art. 111, 2°comma, Cost. enuncia anche il principio per cui il processo deve svolgersi in condizioni di parità fra le parti. In realtà, parrebbe trattarsi di una specificazione tutt’altro che indispensabile, del medesimo principio di eguaglianza sostanziale già desumibile, in termini PIÙ generali, dall’art. 3, 2° comma, Cost. Pertanto, si ritiene che il principio di parità non escluda in assoluto la legittimità di un trattamento processuale per taluni versi differenziato fra le parti, purché tale differenziazione sia ragionevole, cioè giustificata da un’oggettiva disparità fra le parti medesime, e non si traduca in un’indebita compressione del diritto d’azione o di difesa. 31. La ragionevole durata del processo Ancora l’art. 111, 2°comma, Cost. prevede che la legge assicuri la ragionevole durata del processo. Tale principio è di primaria importanza, dato che in molti casi una decisione, pur favorevole, se interviene troppo tardi rispetto al momento in cui la parte ha adito il giudice, può risultare concretamente inutile e rischia di risolversi in un sostanziale diniego di tutela. Ad ogni modo, quella dell’art. 111 è una disposizione di mero indirizzo, priva di ricadute immediate sul processo, infatti, ogni causa ha i propri tempi fisiologici. Quel che è certo è che se il legislatore volesse dare effettiva attuazione al principio in questione, dovrebbe operare per un verso sugli aspetti organizzativi e strutturali, assicurando un rapporto adeguato tra il numero complessivo delle controversie ed il numero dei magistrati e, per altro verso, sul piano strettamente processuale, dovrebbe prevedere strumenti atti ad evitare che una delle parti o lo stesso giudice possano ritardare ad libitum il momento della decisione. Fino ad oggi, invece, alle varie riforme che hanno inciso sul processo, non hanno corrisposto efficaci innovazioni idonee ad incrementare la produttività degli uffici giudiziari. Il legislatore è stato dunque costretto ad intervenire con una legge ad hoc per disciplinare, attraverso una specifica normativa processuale, il diritto ad una equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole. 32. Il principio del giusto processo regolato dalla legge Il riformato art. 111, Cost. afferma che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Enunciazione questa cui non è affatto facile attribuire una portata concreta ed autonoma, specialmente per quel che riguarda il concetto di “giusto”. Tale concetto va interpretato nel senso di individuare, nel riferimento al giusto processo, una sorta di sintesi delle garanzie che il legislatore ha poi consacrato nei commi successivi dello stesso art. 111. È certamente corretto ritenere che il processo giusto sia quello che riesce a dare concreta e fedele attuazione a quell’assetto di interessi astrattamente delineato dal diritto sostanziale. È dunque necessario, al fine di considerare il processo come “giusto”, che esso sia congegnato in modo tale da rendere l’accertamento del giudice il PIÙ possibile 2. Fatti impeditivi : caratterizzati dal fatto di paralizzare l’efficacia dei fatti costitutivi, impedendo loro di determinare la nascita del diritto; 3. Fatti estintivi : sono quelli idonei a determinare l’estinzione di un diritto anteriormente nato; 4. Fatti modificativi : sono quei fatti che producono la modificazione di un diritto già sorto. Il PIÙ delle volte, in realtà, la modificazione implica l’estinzione totale o parziale del diritto originario e la nascita di un diritto diverso. Il ruolo dei vari fatti principali, nella cognizione del giudice, può essere considerevolmente diverso a seconda che la domanda sia accolta o rigettata. Infatti, per poter accogliere la domanda, il giudice – salvo che non si tratti di una domanda di mero accertamento negativo – dovrà verificare tanto la sussistenza di tutti i fatti costitutivi, quanto l’insussistenza di tutti i fatti impeditivi, estintivi o modificativi eventualmente allegati dal convenuto o rilevabili d’ufficio dal giudice. Al contrario, al fine di rigettare la domanda, è sufficiente accertare l’inesistenza di alcuno soltanto dei fatti costitutivi richiesti, oppure l’esistenza di alcuno soltanto dei molteplici fatti impeditivi, estintivi o modificativi. Il giudice, pertanto, gode di ampia discrezionalità nella scelta del motivo sul quale fondare il rigetto, nel senso che egli, in presenza di una pluralità di questioni concernenti l’inesistenza di taluno dei fatti costitutivi oppure l’esistenza di fatti impeditivi, estintivi o modificativi, non soltanto non è tenuto a risolvere tutte le questioni, ma neppure è vincolato al rispetto di alcun ordine logico predeterminato nell’esame delle stesse; infatti egli potrà privilegiare, in presenza di una pluralità di questioni egualmente idonee a condurre al rigetto della domanda, l’esame di quelle di PIÙ pronta ed agevole soluzione (c.d. principio della ragione PIÙ liquida) 35. I fatti secondari I fatti secondari sono quelli rilevanti solo in via indiretta per l’esistenza o l’inesistenza del diritto dedotto in giudizio, essendo del tutto estranei alla fattispecie legale invocata dall’attore, ed operano sul terreno meramente probatorio, consentendo al giudice di affermare, attraverso un procedimento logico-deduttivo, l’esistenza o l’inesistenza o comunque un modo di essere di un fatto principale. Ad es. nel giudizio in cui viene chiesto l’annullamento di un contratto, in quanto stipulato da persona incapace di intendere e di volere, gli episodi a dimostrare il vizio di mente del contraente costituiscono fatti secondari. In concreto, per la verità, la distinzione tra fatti principali e fatti secondari non sempre è netta, poiché il fatto principale ha inevitabilmente una propria dimensione storica, dato che risulta da un insieme di circostanze ed elementi concreti, in mancanza dei quali il fatto stesso non potrebbe dirsi compiutamente individuato. Ad es. l’attore che promuove un’azione risarcitoria per danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione di un veicolo, non può fare a meno di specificare le circostanze, il tempo ed il luogo in cui si è verificato il sinistro da cui deriva il danno, le quali concorrono tutte, in egual misura, ad integrare e a rendere concreto il fatto astrattamente idoneo sul piano normativo. Ma nel caso in cui il convenuto, indicato come il conducente che ha provocato il sinistro, si difende sostenendo di essersi trovato , in quel momento, in un altro luogo, deve ritenersi che la sua allegazione riguardi un fatto secondario o, invece, l’inesistenza di un fatto principale? In ogni caso, parte della dottrina attribuisce alla distinzione tra fatti principali e fatti secondari un diverso significato, facendo riferimento al differente ruolo che i fatti svolgono nella individuazione della domanda e dell’eccezione, e designando come fatti secondari quelli che sono estranei alla fattispecie dedotta in giudizio e non concorrono, per la loro marginalità, ad identificare rispettivamente, la domanda o l’eccezione, ma rappresentano meri elementi di contorno. 36. L’introduzione dei fatti nel processo Per quanto riguarda l’introduzione dei fatti nel processo, l’interprete non può contare su alcuna indicazione positiva e ciò spiega le incertezze palesate dalla dottrina. Uno dei pochi punti sui quali vi è concordia riguarda il divieto, per il giudice, di utilizzare la c.d. scienza privata, cioè far uso dell’eventuale propria diretta conoscenza dei fatti rilevanti per la causa, sia quando tali fatti sono già stati allegati nel processo e debbano essere oggetto di prova, sia a fortiori quando non vi sono stati ancora introdotti. Per il resto si distingue tra fatti principali e fatti secondari. Quanto a questi ultimi, il giudice ha senz’altro facoltà di utilizzare, d’ufficio, tutto ciò che sia stato comunque acquisito al processo, non solo tramite le allegazioni delle parti ma anche attraverso dichiarazioni di terzi (testimoni) e che risulti quindi dagli atti della causa. Per quanto riguarda, invece, i fatti principali, si ritiene che essi in linea di principio, possano essere introdotti nel processo solo dalle parti, le quali vi provvedono tramite la domanda, allorché si tratti di fatti costitutivi, o tramite l’eccezione, qualora si tratti di fatti impeditivi, estintivi o modificativi. Questo principio, tuttavia, subisce un importante ridimensionamento in relazione ai fatti impeditivi, estintivi o modificativi rilevabili d’ufficio, per i quali vale la possibilità per il giudice (come avviene per i fatti secondari) di tener conto di tutto ciò che comunque risulti dagli atti della causa. Si profila, dunque, una netta contrapposizione tra i fatti costitutivi, la cui allegazione è riservata all’attore, e gli altri fatti principali che, invece, sarebbero rilevabili d’ufficio. Questa contrapposizione è stata contestata da parte della dottrina, la quale ha obiettato che non sempre l’allegazione dei fatti costitutivi concorre all’identificazione della domanda, sicché, quando ciò non avvenga, non vi sarebbe motivi per negare che possano essere rilevati d’ufficio dal giudice, tutti i fatti comunque risultanti dagli atti, ancorché non allegati dall’attore. L’obiezione non sembra, tuttavia, persuasiva, dato che si potrebbe replicare che, se è vero che non sempre la specificazione dei fatti costitutivi è essenziale per individuare il diritto dedotto in giudizio, è pur vero, però, che la variazione di tali fatti implica immancabilmente una modificazione, o quanto meno una specificazione, della domanda medesima, esattamente come, allorché si tratti di fatti impeditivi, estintivi o modificativi che la legge subordina al rilievo della parte interessata, anche la loro variazione deve intendersi riservata alla parte medesima. 37. La domanda giudiziale: i rilievi introduttivi Art. 2907. (Attività giurisdizionale). Alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l'autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d'ufficio. La tutela giurisdizionale dei diritti, nell'interesse delle categorie professionali, e' attuata su domanda delle associazioni legalmente riconosciute, nei casi determinati dalla legge e con le forme da questa stabilite. Art. 99. (Principio della domanda). Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente. Dagli artt. 2907 c.c. e 99 c.p.c. si evince che la domanda giudiziale è l’atto di parte con cui si fa valere un diritto, cioè quell’atto con cui si chiede al giudice un provvedimento a tutela di una determinata situazione soggettiva. La prima essenziale funzione della domanda è quella di determinare l’oggetto stesso del processo e conseguentemente quello del futuro giudicato. Art. 112. (Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato). Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non puo' pronunciare d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti. Infatti essa, in base al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, consacrato nell’art. 112, individua i confini della decisione, poiché il giudice è vincolato a pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa. Ciò significa che costituiscono vizi della sentenza sia l’omessa pronuncia, sia l’ultrapetizione (provvedimento che va oltre la domanda), nonché l’extrapetizione (quando il giudice pronuncia una sentenza in assenza della domanda, o comunque su un oggetto diverso da quello della stessa). Il medesimo principio induce a ritenere, tra l’altro, che qualora nel giudizio siano state prospettate una pluralità di domande, la parte possa vincolare il giudice a seguire un determinato ordine nel loro esame. Estremamente rilevante è, pertanto, l’identificazione della domanda, ossia l’individuazione degli elementi che concorrono a contraddistinguere in maniera univoca una determinata domanda. L’identificazione della domanda serve a verificare la giurisdizione e la competenza del giudice adito; può evidenziare nessi o collegamenti PIÙ o meno intensi con altre cause, in È opportuno, dunque, definire in concreto, i confini tra la mutatio e la emendatio, nonché quelli tra modificazione (emendatio) e precisazione; a tal fine converrà distinguere a seconda che le variazioni riguardino i soggetti, l’oggetto (petitum) o il titolo (causa petendi). - Quanto ai soggetti, è difficile ipotizzare delle variazioni, dal lato attivo o passivo, che non incidano sull’identità della domanda; tutt’al PIÙ può capitare che l’attore o il convenuto siano stati indicati in modo inesatto o incompleto, ma in tal caso la conseguenza sarà la nullità, peraltro sanabile, della domanda medesima. - Per quel che riguarda l’oggetto, la giurisprudenza e maggiormente rigida in relazione all’identità del bene giuridico perseguito dall’attore, ossia il petitum mediato; mentre appare PIÙ flessibile rispetto al tipo di provvedimento richiesto al giudice, ossia il petitum immediato, le cui variazioni vengono talora ricondotte nell’ambito della mera emendatio libelli. La stessa giurisprudenza, con riguardo alle azioni aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, ammette poi, che il quantum della domanda venga specificato o modificato nel corso del giudizio; ma tali variazioni sarebbe preferibile qualificarle come mere “precisazioni”. - Le variazioni concernenti la causa petendi sono quelle che danno luogo ai maggiori problemi; la giurisprudenza suole affermare che si ha mutamento della causa petendi e, conseguentemente, un’inammissibile mutatio libelli, ogniqualvolta vengano dedotti in corso di causa fatti costitutivi nuovi e diversi da quelli originariamente allegati, in modo tale da ampliare in misura sostanziale il tema dell’indagine; la giurisprudenza ammette quindi, implicitamente, che possa aversi una mera emendatio allorché i fatti costitutivi vengano modificati in misura marginale. Sembra tuttavia preferibile ascrivere al concetto di “precisazione” le modificazioni quantitativamente irrilevanti dei fatti costitutivi e limitare l’emendatio libelli alle sole variazioni dei fatti costitutivi autodeterminati, le quali non influiscono sull’identità del diritto dedotto in giudizio e dunque lasciano immutato l’oggetto del processo. 41. La precisazione della domanda La precisazione della domanda, espressamente menzionata nell’art. 183, 5°comma, invece, deve ritenersi soggetta ad un diverso e PIÙ liberale regime processuale, essendo consentita per tutto il corso del processo e non soltanto – come la modificazione – nella fase iniziale dello stesso. Anche in questo caso, però, non è affatto chiaro dove si collochi la linea di confine tra le due ipotesi, che risente, ovviamente, dell’ampiezza concretamente attribuita alla emendatio libelli. Dovrebbe, in ogni caso, rimanere del tutto estranea alla precisazione della domanda la variazione o l’allegazione di nuovi fatti secondari, laddove tali fatti vengano intesi come qualitativamente diversi dai fatti principali ed operanti, a differenza di questi ultimi, sul terreno meramente probatorio. 42. Le eccezioni e le difese del convenuto Di fronte alla domanda, il convenuto può difendersi in vario modo, può avere diverse “reazioni” : 1. Eccezioni processuali. Sono quelle con cui si contesta la possibilità di decidere attualmente il merito della causa (pronunciare sulla fondatezza o infondatezza della domanda) in conseguenza del difetto di un presupposto processuale, sia esso di giurisdizione, di competenza, ecc., o di una condizione dell’azione, oppure dell’invalidità di uno o PIÙ atti processuali. A seconda dei casi, l’accoglimento dell’eccezione può condurre ad una sentenza di rigetto in rito, ossia per ragioni meramente processuali, oppure, quando il vizio sia rimediabile, può condurre ad un provvedimento diretto alla regolamentazione del processo. In materia di eccezioni processuali, non esistono regole generali, ma il legislatore non manca di fornire indicazioni specifiche. Ad es. in alcuni casi il rilievo dell’impedimento o del vizio processuale è riservato a taluna delle parti ed è ammesso entro termini assai brevi; mentre in altre ipotesi è consentito in ogni stato e grado del giudizio, anche ad opera del giudice e, in altre ancora, viene previsto un regime intermedio; 2. Mere difese. Possono consistere in argomentazioni puramente giuridiche, diretta a confutare le conclusioni dell’avversario, oppure nella contestazione dei fatti (solitamente costitutivi, a meno che non si tratti di un’azione di mero accertamento negativo) che l’avversario stesso ha allegato a fondamento della domanda; ciò avviene o attraverso la negazione diretta di tali fatti (eccezioni improprie) o attraverso l’allegazioni di altri fatti incompatibili rispetto a quelli dell’avversario. In linea di principio per la formulazione di tali difese, non è prevista alcuna specifica limitazione temporale; 3. Eccezioni di merito. Consistono nell’allegazione di un fatto impeditivo, estintivo o modificativo, diretta a conseguire il rigetto della domanda, di regola attraverso l’accertamento negativo del diritto posto a fondamento di quest’ultima. L’eccezione, dunque, non estende in alcun caso l’oggetto del processo, così come determinato dalla domanda, poiché mira a far accertare l’inesistenza del diritto già dedotto in giudizio. Nell’ambito delle eccezioni di merito bisogna distinguere le eccezioni in senso lato dalle eccezioni in senso stretto; distinzione che si fonda essenzialmente sul regime di rilevabilità del fatto (impeditivo, estintivo o modificativo) che ne costituisce l’oggetto. • Le eccezioni in senso stretto riguardano i fatti (imp.-est.-mod.) che sono riservati alle parti non solo per quel che concerne l’introduzione nel processo, ma anche quanto alla possibilità per il giudice di porli a base della decisione. • Le eccezioni in senso lato, invece, hanno ad oggetto fatti il cui effetto impeditivo, estintivo o modificativo, una volta che essi siano stati acquisiti al processo, dev’essere senz’altro rilevato dal giudice d’ufficio, al fine di pervenire al rigetto della domanda. Le eccezioni in senso stretto sono ammesse nella sola fase iniziale del processo di primo grado, mentre le eccezioni in senso lato sono consentite pure in appello. Non è affatto pacifico quale sia il criterio discretivo tra le due categorie e quale sia la regola da utilizzare in assenza di disposizioni ad hoc. In dottrina e in giurisprudenza si è fatta strada la convinzione che il principio sia rappresentato dalla rilevabilità d’ufficio di tutti i fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto azionato; conclusione che viene fatta discendere dalla formulazione dell’art. 112, ai sensi del quale il giudice non può pronunciare d’ufficio sue eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti. Tale principio subisce deroga nei solo casi in cui la stessa legge dispone diversamente, nonché quando l’effetto estintivo, impeditivo o modificativo si ricollega all’esercizio di un diritto potestativo oppure di un contro diritto che potrebbe essere fatto valere con un’autonoma azione costitutiva; o PIÙ in generale, ogniqualvolta sia possibile ritenere che la parte interessata è libera di disporre di quell’effetto estintivo, impeditivo o modificativo, eventualmente rinunciando a farlo valere. 4. Eccezioni e domande riconvenzionali. Le eccezioni riconvenzionali non rappresentano delle eccezioni proprie, ma si contraddistinguono solamente per avere ad oggetto un fatto-diritto (e non un fatto semplice); PIÙ esattamente, un controdiritto che il destinatario della domanda potrebbe far valere in un autonomo giudizio, ma che invece utilizza al solo fine di ottenere il rigetto della domanda medesima. Il convenuto, anziché limitarsi ad una eccezione riconvenzionale, può far valere il controdiritto attraverso una vera e propria domanda, anche’essa definita riconvenzionale, chiedendo conseguentemente al giudice di decidere con efficacia di giudicato anche su tale controdiritto. In ogni caso, fino a quando si rimane nell’ambito della mera eccezione riconvenzionale, l’oggetto del processo non subisce alcuna estensione ed il giudice è chiamato a conoscere del controdiritto de convenuto al solo fine di decidere sulla fondatezza della domanda dell’attore. Capitolo V - Il giudice e gli uffici giudiziari Sezione I - Nozioni basilari di ordinamento giudiziario 43. Giudici ordinari, giudici speciali e sezioni specializzate L’art. 102 Cost. stabilisce che “la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario” e, nel contempo, vieta l’istituzione di giudici straordinari o giudici speciali, consentendo invece di istituire presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura. La differenza sostanziale tra giudice ordinario e giudice speciale dovrebbe consistere nel fatto che il giudice speciale viene fin dall’origine destinato a specifiche materie, mentre il giudice ordinario ha una competenza generica e teoricamente illimitata. Quel che risulta decisivo è il criterio soggettivo formale, derivante dalla circostanza che un determinato organo giurisdizionale sia incluso nel novero degli organi giudiziari considerati ordinari dalle norme sull’ordinamento giudiziario e sia altresì composto da magistrati appartenenti, in base a quelle stesse norme, all’ordine giudiziario. Le norme in questione sono ancora quelle contenute nel r.d. 12/1941, intitolato Ordinamento giudiziario. In quelle il cui valore non eccede i 1100€, inoltre, è previsto che la decisione sia pronunciata secondo equità, anziché secondo diritto. 45. Il tribunale In seguito alla soppressione delle preture, il tribunale è rimasto l’unico giudice togato competente in primo grado; esso inoltre conosce, quale giudice di secondo grado, delle impugnazioni portate contro le sentenze del giudice di pace. Tradizionalmente il tribunale era sempre stato un giudice collegiale; le riforme del ‘90 e del ’98 l’hanno trasformato in un organo monocratico, che giudica in composizione collegiale (con tre magistrati) nei soli casi previsti espressamente dalla legge. Ai sensi dell’art. 42 ord. giud. il tribunale ha sede in ogni capoluogo determinato da un’apposita tabella ed il suo ambito territoriale coincide con il circondario. La riforma istitutiva del giudice unico in primo grado (d.lgs. 51/1998) aveva inoltre previsto l’istituzione di un notevole numero di sezioni distaccate in comuni che, in seguito alla soppressione delle preture, erano rimaste prive di un giudice togato. Tuttavia, la recente revisione delle circoscrizioni giudiziarie, attuata col d.lgs. 155/2012 ha soppresso tutte le sezioni distaccate ed un certo numero di tribunali PIÙ piccoli : i tribunali residui sono 140. Per quanto concerne l’articolazione interna, il tribunale è diretto dal presidente e può essere costituito in PIÙ SEZIONI, ciascuna delle quali è designata a trattare – promiscuamente o separatamente – affari civili, affari penali, giudizi in grado di appello e controversie in materia di lavoro, previdenza e assistenza obbligatorie. Ad ogni sezione è assegnato un certo numero variabile di magistrati, comunque non inferiore a 5 e, qualora la pianta organica lo preveda, un presidente di sezione. La distribuzione del lavoro tra le varie sezioni e, all’interno delle stesse, tra i vari magistrati, compete, rispettivamente, al presidente del tribunale e al presidente della singola sezione. Oggi, siffatti poteri risultano opportunamente limitati dalle c.d. tabelle, che per ciascun ufficio giudiziario predeterminano la ripartizione del tribunale in sezioni, la destinazione ad esse dei singoli magistrati ed i criteri obiettivi da utilizzare, da parte del dirigente dell’ufficio o del presidente di sezione, nell’assegnazione degli affari alle singole sezioni, nonché ai singoli collegi e magistrati. 46. La corte d'appello La corte d’appello ha sede nei comuni capoluogo dei distretti indicati in altra apposita tabella (art. 52 ord. giud.) e costituisce un giudice sempre collegiale, composto da tre magistrati, col titolo di consiglieri. Ad essa compete, di regola, la giurisdizione nelle cause di appello avverso le sentenze del tribunale, fatte salve alcune ipotesi eccezionali in cui è investita di competenza in unico grado, ad es. nelle controversie relative ai provvedimenti d’iscrizione nelle liste elettorali. La corte d’appello, diretta dal primo presidente, può essere costituita in PIÙ SEZIONI, una delle quali incaricata esclusivamente della trattazione delle controversie in materia di lavoro e materia previdenziale ed un’altra designata a giudicare sulle impugnazioni proposte contro i provvedimenti del tribunale per i minorenni. Attualmente le corti d’appello sono 26, cui vanno aggiunte tre sezioni distaccate. 47. La corte di cassazione La Corte suprema di cassazione ha sede a Roma ed ha giurisdizione sull’intero territorio nazionale; essa è collocata al vertice dell’organizzazione giudiziaria ed ha il compito di assicurare, quale organo supremo della giustizia, l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni (art. 65 ord. giud.). Anche la Cassazione è costituita in PIÙ SEZIONI, attualmente 5 per la sezione civile, una delle quali si occupa esclusivamente delle cause di lavoro e previdenziali, ed un'altra del solo contenzioso tributario. Un ulteriore sezione, istituita nel 2009, ha la funzione di esaminare preliminarmente tutti i ricorsi, per individuare quelli che si prestano ad una decisione in camera di consiglio; essa non possiede un proprio organico e, quindi, si avvale di magistrati appartenenti a tutte le altre sezioni. La Cassazione decide sempre collegialmente, col numero invariabile di 5 votanti o, qualora giudichi nella sua composizione PIÙ autorevole – a sezioni unite – con l’intervento di 9 magistrati, appartenenti alle singole sezioni civili. Ad essa sono addetti un primo presidente (affiancato da un primo presidente “aggiunto”), i presidenti di sezione ed un certo numero di consiglieri. La funzione essenziale della Cassazione sarebbe quella c.d. di nomofilachia, consistente nell’assicurare l’osservanza e la corretta applicazione del diritto oggettivo da parte dei giudici di merito; ma di fatto la funzione di gran lunga PIÙ importante che essa svolge è quella di garantire l’uniformità dell’interpretazione del diritto, anche e soprattutto attraverso la risoluzione dei contrasti giurisprudenziali che spesso si manifestano tra i giudici di merito. Infatti, sebbene il nostro ordinamento non considera il “precedente giurisprudenziale” come una fonte di diritto, le decisioni della Corte di cassazione, finiscono con l’avere una notevole efficacia conformativa sulla giurisprudenza di merito, specialmente quando danno luogo ad orientamenti consolidati. Qualora la medesima questione sia risolta in modo difforme da sezioni diverse e, conseguentemente, si abbia un contrasto interno alla stessa Cassazione, è previsto che il primo presidente possa investire della questione le sezioni unite, per ottenere una decisione particolarmente autorevole che, nella maggior parte dei casi, riesce a porre fine al contrasto. Per favorire l’effettiva conoscibilità degli orientamenti della Corte, l’art. 68 ord. giud. prevede che presso di essa sia costituito un apposito ufficio “del massimario e del ruolo”, al quale sono assegnati magistrati della stessa Corte e a cui compete la “massimazione” delle sentenze, ossia la formulazione dei principi di diritto in esse affermati. In realtà, vi sono molte decisioni che non si prestano ad una massimazione, essendo motivate esclusivamente in fatto . 48. Le garanzie costituzionali dell'ordinamento giudiziario Per quanto attiene alle garanzie che la Costituzione appresta alla magistratura, meritano una particolare menzione : - L’art. 101, 2°comma, ai sensi del quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge, il ché per un verso esclude l’esistenza di veri e propri rapporti gerarchici e, per altro verso, impedisce che nel nostro ordinamento abbia efficacia vincolante il precedente giurisprudenziale; - Gli artt. 104 e 105, che definiscono la magistratura come un ordinamento autonomo ed indipendente da ogni altro potere, attribuendone le funzioni di (auto)governo ad un apposito organo costituzionale, ossia il Consiglio superiore della magistratura, esso stesso autonomo ed indipendente sia dall’esecutivo che dal legislativo, cui sono riservati in via esclusiva le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati; - L’art. 106, secondo cui le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso. La stessa norma prevede che l’ordinamento giudiziario possa ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli. Il 3° comma dell’art. 106 consente, inoltre, di designare all’ufficio di consiglieri di Cassazione – per meriti insigni – professori universitari in materie giuridiche e avvocati, iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori, che abbiano almeno 15 anni di servizio nella professione forense; - L’art. 107, 1°comma, garantisce l’inamovibilità dei magistrati, riservando al Consiglio superiore della magistratura ogni decisione relativa alla sospensione, dispensa o destinazione ad altra sede o funzione; - L’art. 108, 1° comma, pone una riserva di legge per le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura. 49. Il cancelliere L’ordinamento giudiziario prevede che ogni corte, tribunale ordinario ed ufficio del giudice di pace ha una cancelleria ed ogni ufficio del pubblico ministero ha una segreteria, precisando che il personale delle cancellerie e delle segreterie fa parte dell’ordinamento giudiziario. Le molteplici attribuzioni del cancelliere comprendono, accanto ad attività di supporto, in senso lato, al giudice, funzioni del tutto autonome; in primo luogo il cancelliere rappresenta il necessario collegamento fra i litiganti e l’ordinamento giurisdizionale, infatti, tutte le istanze che le parti rivolgono al giudice vanno depositate in cancelleria (salvo quelle formulate direttamente in udienza), al pari dei documenti prodotti in giudizio; inoltre, i provvedimenti resi dal giudice vengono resi noti alle parti per il medesimo tramite, dopo essere stati depositati in cancelleria; rilevanti sono le funzioni di documentazione spettanti al cancelliere, il quale documenta a tutti gli effetti, nei casi e nei modi previsti dalla legge (di regola attraverso un apposito processo verbale) le attività 2. Ai rapporti tra giudice ordinario e pubblica amministrazione; 3. All’estensione della giurisdizione italiana nel suo complesso. 53. Il rapporto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, secondo l'orientamento tradizionale Nell’ambito dei rapporti tra il giudice ordinario e i giudici speciali, particolarmente critico è quello tra il giudice ordinario ed il giudice amministrativo, che trova la propria base normativa nella remotissima l. 2248/1865 All. E. Tale legge si era ripromessa di realizzare l’unità della giurisdizione, abolendo i giudici speciali che, fino a quel momento, erano stati investiti della giurisdizione (anche penale) in materia di rapporti tra cittadino e P.A., ma che non davano garanzie di autonomia ed indipendenza rispetto all’amministrazione stessa. Pertanto, l’art.2 della legge, previde che fossero attribuite alla giurisdizione ordinaria tutte le materie nelle quali si faccia questione d’un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la P.A. e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa; il successivo art.4 stabilì che quando la contestazione riguarda un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali devono limitarsi a conoscere degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in giudizio. L’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non a seguito di ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso. Da questa disciplina potrebbe desumersi che: - la giurisdizione del giudice ordinario, allorché fosse stato dedotto in giudizio un diritto, non avrebbe risentito dell’eventuale intervento di un giudice amministrativo, che avesse inciso sul diritto medesimo; - fermo restando che il giudice, senza poter annullare o revocare o modificare l’atto in questione, avrebbe potuto e dovuto, però, disapplicarlo se illegittimo. Nella realtà applicativa, tuttavia, le cose andarono diversamente a causa dell’interpretazione, cui giunse la giurisprudenza, favorita dal fatto che l’organo deputato a risolvere gli eventuali conflitti tra giudice ordinario e P.A. era, a quell’epoca, il Consiglio di Stato che, peraltro, era privo di funzioni giurisdizionali e costituiva un organo consultivo assai prossimo al potere esecutivo. In tal modo, tradendo lo spirito della riforma, si finì con l’affermare che, tenuto conto della normale esecutorietà dell’atto amministrativo, non era possibile continuare a reputare sussistente un diritto allorquando su di esso avesse inciso negativamente un provvedimento amministrativo, ancorché illegittimo : in questi casi il diritto viene comunque meno e quel che residua è solo l’interesse legittimo ad ottenere la rimozione dell’atto viziato (si parla, a riguardo, di affievolimento dei diritti). Il punto era, però, che tale interesse, una volta esclusa la giurisdizione del giudice ordinario, poteva trovare riconoscimento ed attuazione solo attraverso i rimedi interni alla P.A., il che si traduceva in un grave vuoto di tutela giurisdizionale. Conseguentemente, il legislatore, correndo ai ripari, ripristinò una giurisdizione amministrativa attribuendo al Consiglio di Stato funzioni schiettamente giurisdizionali, relative, appunto, al controllo di legittimità degli atti amministrativi. L’apparato della giustizia amministrativa ha poi trovato un importante completamento nell’istituzione dei tribunali amministrativi regionali, ad opera della l. 1034/1971. Prescindendo dalle ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, il riparto di giurisdizione tra quest’ultimo e il giudice ordinario ha continuato ad essere governato, fino quasi ai giorni nostri, dai principi basati sulla disciplina del 1865, ossia, dalla distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo. Stando a questi principi, dunque, il criterio di ripartizione era rappresentato non dal provvedimento richiesto al giudice (petitum), bensì dalla causa petendi, cioè dalla situazione soggettiva effettivamente prospettata e, di regola, quando era lamentata la lesione di un diritto ad opera di un provvedimento amministrativo, la posizione soggettiva dedotta in giudizio doveva qualificarsi sempre come interesse legittimo. Le uniche eccezioni erano ammesse quando erano coinvolti diritti sui quali la P.A. non aveva alcun potere di incidere negativamente, vuoi perche si trattava di diritti assolutamente intangibili (es. diritto alla libertà personale), vuoi perché l’amministrazione si trovava ad operare in posizione del tutto paritaria rispetto al privato, ossia senza supremazia su quest’ultimo; in queste ipotesi, dunque, il provvedimento amministrativo, pronunciato in una situazione di carenza di potere, non sarebbe stato idoneo a degradare il diritto soggettivo né ad escludere il ricorso al giudice ordinario. Prescindendo da tali eccezioni, però, importante corollario dell’impostazione vigente era che la tutela giurisdizionale dei diritti violati dalla P.A. passasse necessariamente attraverso la preventiva rimozione dell’atto illegittimo ad opera del giudice amministrativo : solo tale rimozione avrebbe ripristinato il diritto leso ed avrebbe aperto la strada ad ulteriori forme di tutela, ivi compresa quella finalizzata al risarcimento del danno : in sintesi, l’orientamento tradizionale postulava una necessaria pregiudizialità del giudizio amministrativo di annullamento rispetto a quello risarcitorio, il quale era sempre riservato al giudice ordinario. 54. La PIù recente evoluzione Negli ultimi 15 anni, tuttavia, sono intervenute molte novità che hanno notevolmente ridisegnato i confini tra le due giurisdizioni : - Innanzi tutto, con la sentenza n.500/1999, la Cassazione a sezioni unite, ammise la risarcibilità del danno per lesione di interessi legittimi (pretensivi) in passato costantemente esclusa. Decisione che negò, tra l’altro, che il danno provocato da un atto amministrativo illegittimo, fosse risarcibile solo se preventivamente fosse stato annullato l’atto medesimo, e riconobbe la titolare del diritto leso, la possibilità di optare liberamente tra la domanda di annullamento (dinanzi al g.a.) e l’azione diretta al risarcimento (dinanzi al g.o.). tale principio è stato però ridimensionato dai successivi interventi del legislatore, il quale temeva in una moltiplicazione delle azioni di danno nei confronti delle pubbliche amministrazioni, con conseguenze economiche insostenibili per l’erario. Nel nuovo codice del processo amministrativo (2010), infatti, la materia del risarcimento del danno provocato da un’attività amministrativa illegittima è così disciplinata : • le controversie relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, pure se introdotte in via autonoma, sono comunque attribuite in via esclusiva alla giurisdizione del g.a.; • la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi dev’essere proposta, a pena di decadenza, entro 120 giorni dal giorno in cui il fatto si è verificato o dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo; se però è stata proposta l’azione di annullamento, la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio (di primo grado), o in via autonoma siano a 120 giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza.Risulta confermata, pertanto, la tendenziale autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento ma, nel contempo, essa è sottratta al g.o. ed è circoscritta entro limiti temporali non molto meno angusti rispetto a quelli cui è tradizionalmente soggetta l’impugnazione dell’atto amministrativo. È chiaro, peraltro, che tale disciplina non può trovare applicazione se il risarcimento si ricolleghi ad un mero comportamento della P.A. che non sia riconducibile all’esercizio di un potere amministrativo : in tale ipotesi la giurisdizione apparterrebbe al g.o. e la domanda sarebbe proponibile nell’ordinario termine di prescrizione. - Un’altra opzione del legislatore è stata quella di semplificare il tradizionale problema del riparto di giurisdizione ricorrendo, in alcuni settori particolarmente importanti per la P.A., alla tecnica della giurisdizione esclusiva, che si fonda sulla materia della causa e prescinde totalmente, invece, dalla natura della posizione soggettiva prospettata (diritto soggettivo o interesse legittimo). Le materie devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a. sono numerose ed elencate dall’art. 133 del codice del processo amministrativo. Siffatta tecnica, se da un lato ha il pregio di semplificare il riparto di giurisdizione, dall’altro – attribuendo al g.a. una fetta considerevole della giurisdizione sui diritti – fa venir meno quella fondamentale garanzia costituzionale rappresentata dal ricorso per cassazione per violazione di legge. Anche in considerazione di ciò, la Corte costituzionale ha escluso che il legislatore ordinario sia libero di creare a propria discrezione nuove ipotesi di giurisdizione amministrativa esclusiva ed ha affermato che quest’ultima può riguardare solo particolari materie in cui la P.A. agisce come autorità, in posizione di supremazia rispetto al cittadino. - Ancora, nella specifica materia della giurisdizione volontaria, la giurisdizione sussiste : • quando i criteri di competenza per territorio attribuirebbero l’affare al giudice italiano; • quando il provvedimento richiesto concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia, o riguara situazioni o rapporti cui è applicabile la legge italiana; - Nella materia cautelare, infine, vi è giurisdizione italiana quando il giudice nazionale ha giurisdizione di merito, nonché quando il provvedimento dev’essere eseguito in Italia; il legislatore ha omesso di disciplinare i limiti della giurisdizione in materia esecutiva, ma deve ritenersi applicabile il principio di territorialità. Altra innovazione della l. 218/1995 ha riguardato la derogabilità della giurisdizione italiana. L’art. 4, infatti, consente che quest’ultima sia derogata a favore di un giudice straniero o di un arbitrato estero, alla duplice condizione che : 1. la deroga sia provata per iscritto; 2. la causa verta su diritti disponibili. La deroga è inefficace, tuttavia, se il giudice straniero declini la giurisdizione o comunque non possa conoscere la causa. 57. Il regime del difetto di giurisdizione Il regime del difetto di giurisdizione si desume dall’art. 37 c.p.c. nel caso in cui riguardi i rapporti tra il giudice ordinario e il giudice speciale o la P.A.; nel caso in cui siano i gioco i limiti della giurisdizione italiana, invece, il regime del difetto di giurisdizione si desume dall’art. 11 l. 218/1995. In base all’art. 37 c.p.c., l’eventuale difetto di giurisdizione del giudice ordinario rispetto ad un giudice speciale o alla pubblica amministrazione è rilevabile anche d’ufficio, senza particolari limiti temporali, in qualunque stato e grado del processo. Ciò significa che la relativa questione può essere sollevata per la prima volta anche dinanzi alla Corte di cassazione, a meno che non vi sia di ostacolo un anteriore giudicato derivante dalla mancata impugnazione di una sentenza con cui il giudice di primo o di secondo grado aveva espressamente o implicitamente affermato la sussistenza della propria giurisdizione. Siffatto principio è stato, tuttavia, sconfessato dalla PIÙ recente giurisprudenza delle Sezioni unite, le quali, muovendo dall’idea che ogni sentenza di merito contenga un’affermazione implicita della sussistenza della giurisdizione del giudice adito, hanno adottato una soluzione drasticamente restrittiva dell’art. 37 sostenendo che, qualora la parte interessata (convenuto) nell’impugnare la sentenza di merito, non censuri espressamente anche la decisione dichiarativa implicita sulla giurisdizione, il giudice dell’impugnazione non può sollevare d’ufficio la relativa questione, che resta definitivamente coperta dal giudicato c.d. implicito. Tale soluzione appare tuttavia inconciliabile con la lettera dell’art. 37, dato che finisce col circoscrivere la rilevabilità ufficiosa del difetto di giurisdizione al solo giudizio di primo grado. Per quanto attiene, invece, all’ipotesi in cui la causa esorbiti dai limiti della giurisdizione italiana, in base all’art. 11 l. 218/1995, il vizio è egualmente rilevabile d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo : - Quando il convenuto è rimasto contumace; - Quando la controversia verte su azioni reali aventi ad oggetto immobili situati all’estero; - Quando la giurisdizione italiana è esclusa per effetto di una norma internazionale. Se, invece, il convenuto si costituisce è lui soltanto a poter eccepire il difetto di giurisdizione, a condizione che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana. Sussiste accettazione tacita allorché il convenuto compaia senza eccepire il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo [ovviamente non è escluso che il convenuto, col suo primo atto difensivo, opponga difetto di giurisdizione]. Inoltre, poiché la regola rimane quella della rilevabilità del vizio in ogni stato e grado del processo, nulla esclude che l’eccezione venga proposta dal convenuto, rimasto inizialmente contumace, nel corso del processo, purché egli vi provveda nel suo primo atto difensivo. La sentenza declinatoria della giurisdizione, con cui quindi si nega la giurisdizione del giudice, implica l’esclusione di un presupposto processuale e, pertanto, pone (di regola) fine al processo. 58. L’eventuale traslatio iudicii tra giudice ordinario e giudice speciale Secondo il disegno originario del codice, le varie giurisdizioni – ordinaria e speciali – costituivano sistemi autonomi, tra loro non comunicanti e, l’unico elemento di raccordo, era rappresentato dalla possibilità di impugnare dinanzi alla Cassazione, per motivi attinenti alla giurisdizione, tutte le decisioni rese da un giudice speciale e finanche quelle del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Mancava, invece, una disposizione che consentisse, qualora fosse stato erroneamente adito un giudice privo di giurisdizione, di porre rimedio al vizio, facendo trasmigrare la causa dinanzi al giudice cui spettava la giurisdizione. La c.d. traslatio iudicii. Pertanto, se ne deduceva che l’accertamento del difetto di giurisdizione implicasse la pura e semplice definizione del processo in rito, salva la possibilità di riproporre ex novo la domanda davanti al diverso giudice fornito di giurisdizione. La lacuna è stata colmata dalla l. 69/2009, il cui art. 59 ha sancito il principio della continuazione del processo dopo una sentenza declinatoria della giurisdizione, sempreché la giurisdizione appartenga ad una diversa giurisdizione italiana, e vengano pertanto in rilievo i rapporti tra il giudice ordinario e quello speciale, oppure tra diversi giudici speciali. L’art. 59, dunque, prevede che qualunque giudice che in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o in caso di altri giudici speciali, dichiari il proprio difetto di giurisdizione, sia obbligato ad indicare contestualmente, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. A questo punto, se la domanda è riproposta a tale giudice entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza declinatoria, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice in questione fosse stato adito fin dall’inizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. La tempestiva riproposizione della domanda fa sì che il processo si consideri iniziato fin dal momento in cui era stato erroneamente adito il giudice privo della giurisdizione, con la conseguenza che è lo stesso processo, pertanto, a continuare dinanzi al nuovo giudice. Tale nuovo giudice, a differenza delle parti, non è vincolato (di regola) dall’indicazione contenuta nella sentenza del giudice originariamente adito, salvo l’ipotesi in cui la sentenza provenga dalla Cassazione a sezioni unite; tuttavia, nel caso in cui non condivida quell’indicazione, egli non è libero di declinare puramente e semplicemente, a propria volontà, la giurisdizione, potendo solo sollevare d’ufficio (con ordinanza) la questione davanti alle Sezioni unite, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito, affinché siano queste a stabilire, una volta per tutte, a quale giudice spetti la giurisdizione. Se invece, il termine perentorio per la riproposizione della domanda non viene rispettato, il processo si estingue e gli effetti della domanda restano definitivamente travolti; ferma restando, ovviamente, la possibilità di riproporre la medesima azione in un giudizio del tutto nuovo ed autonomo. Questa appare essere l’interpretazione PIÙ ragionevole dell’art. 59, il quale ultimo denota, comunque, una considerevole confusione concettuale. In particolare: - nei commi 2 e 5 si parla di riproposizione della domanda al giudice indicato nella sentenza declinatoria, e ciò farebbe pensare ad un giudizio ex novo instaurato dinanzi a tale giudice, quando invece è evidente che il legislatore allude alla ripresa del medesimo processo iniziato dinanzi al giudice privo di giurisdizione; infatti, nei commi 3 e 4 si parla, PIÙ esattamente, di riassunzione e di prosecuzione del giudizio. - Altro punto incomprensibile attiene alla sorte degli atti compiuti dinanzi al giudice originariamente adito; il 2°comma dell’art. 59 afferma che restano ferme le preclusioni e le decadenze intervenute; il che parrebbe sottintendere alla traslatio ed alla riassunzione, di tutte le attività poste in essere nel processo svoltosi dinanzi al giudice privo di giurisdizione. Tale soluzione è di per sé incongrua, poiché è difficile comprendere come gli atti e le preclusioni tipiche di un certo rito e di una determinata giurisdizione possano essere esportati in un processo che si svolge addirittura dinanzi ad un’altra giurisdizione e, inoltre, (tale soluzione) è contraddetta dal successivo comma 5, ai sensi del quale “in ogni caso di riproposizione della domanda le prove raccolte nel processo dinanzi al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come meri argomenti di prova”. Per risolvere tale antinomia è inevitabile forzare la lettera della norma, prevedendo la salvezza delle preclusioni e delle decadenze intervenute, risultante dal 2°comma. È lecito ritenere che, con tale locuzione, il legislatore intendesse riferirsi alle sole decadenze già eventualmente verificatesi prima dell’instaurazione del processo dinanzi al giudice privo di giurisdizione, nonché a quelle che riguardano la proposizione stessa della domanda; per precisare processo solo quando non ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione manifestamente infondata. 60. Il regolamento su questione di giurisdizione sollevata dal prefetto L’art. 41, 2°comma, consente alla sola P.A. che non sia parte in causa, di chiedere in ogni stato e grado del processo, fino a quando non si sia formato un giudicato positivo sulla giurisdizione, che le Sezioni unite dichiarino il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, a causa dei poteri attribuiti dalla legge all’amministrazione stessa. PIÙ precisamente, è previsto che il prefetto possa provocare, attraverso proprio decreto, la necessaria sospensione del giudizio di merito, escludendo qualunque preventiva valutazione del giudice adito circa la fondatezza e/o l’ammissibilità della richiesta di regolamento.; tanto PIÙ che il dovere- potere di sospendere il giudizio compete non già al giudice della causa, bensì al capo del relativo ufficio giudiziario, il quale provvede senza neppure essere tenuto a sentire le parti. In concreto poi, le Sezioni unite vengono investite della questione di giurisdizione solo a condizione che una delle parti proponga ricorso nel termine perentorio di 30 giorni dalla notificazione del decreto di sospensione; termine la cui scadenza dovrebbe determinare l’estinzione o comunque l’improcedibilità del giudizio di merito. Se zio ne III - la co m pe te nz a 61. Ge ne ral ità Le norme sulla competenza servono a ripartire il complesso degli affari civili fra i vari uffici giudiziari, tenendo conto a tal fine, tanto di esigenze obiettive di economicità ed efficienza dei processi, quanto degli interessi e delle comodità delle parti. I criteri adoperati a questo scopo sono tre : - Il criterio della materia fa riferimento al tipo di rapporto controverso (diritti reali immobiliari, locazioni, successioni...) e, se utilizzato accortamente, non crea troppi problemi all’interprete; - Il criterio del valore allude, invece, al rilievo economico della causa ed è spesso fonte di dubbi per la difficoltà di determinare in modo preciso il valore della controversia; Entrambi i criteri, talvolta combinati fra loro, servono a stabilire, in senso verticale e in modo univoco, quale fra i giudici ordinari possa conoscere di una determinata causa. - Il criterio del territorio, invece, opera in senso orizzontale, dato che mira a ripartire il contenzioso tra i vari uffici giudiziari diffusi sul territorio nazionale e, non di rado, può condurre all’individuazione di una pluralità di fori concorrenti; nel qual caso è l’attore a poter scegliere. I criteri di competenza operano prescindendo dalla volontà delle parti, che pertanto non possono apporvi delle deroghe, salvo che nei casi stabiliti dalla legge. Fa eccezione, peraltro, la competenza per territorio, che può essere di solito, convenzionalmente derogata, purché l’accordo risulti da atto scritto e si riferisca ad uno o PIÙ affari determinati. La deroga, però, attribuisce al giudice designato una competenza meramente concorrenti, a meno che l’accordo non stabilisca espressamente la sua competenza esclusiva. Art. 28 (Foro stabilito per accordo delle parti). La competenza per territorio puo' essere derogata per accordo delle parti, salvo che per le cause previste nei numeri 1, 2, 3 e 5 dell'articolo 70, per i casi di esecuzione forzata, di opposizione alla stessa, di procedimenti cautelari e possessori, di procedimenti in camera di consiglio e per ogni altro caso in cui l'inderogabilita' sia disposta espressamente dalla legge. L’art. 28 prevede poi che la competenza per territorio sia inderogabile: - nelle cause in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero; - nei processi di esecuzione forzata e di opposizione alla stessa; - nei procedimenti cautelari e possessori; - nei procedimenti in camera di consiglio; - in tutti gli altri casi in cui l’inderogabilità sia disposta espressamente dalla legge. In relazione a tali ipotesi si parla anche di competenza funzionale, concetto in realtà PIÙ ampio, dato che abbraccia anche i casi in cui la competenza viene stabilità con riguardo ad elementi che non hanno a che fare con la materia, il valore o il territorio, ma riguardano un determinato rapporto tra il giudice e la causa. Quando si parla di competenza, in senso proprio, si fa riferimento, di regola, ai rapporti tra diversi uffici giudiziari; i rapporti tra le varie sezioni ed i vari magistrati, all’interno di ciascun ufficio giudiziario sono, invece, estranei – sempre in linea di principio – al regime della competenza, e sono governati da altre disposizioni; talora rigidamente, PIÙ SPESSO in modo da lasciare una considerevole discrezionalità al capo dell’ufficio o al presidente della sezione. 62. La competenza per materia e per valore A rt. 7. (Comp etenza del giudic e di pace). Il giudice di pace e' competente per le cause relative a beni mobili di valore non superiore a ((cinquemila euro)), quando dalla legge non sono attribuite alla competenza di altro giudice. Il giudice di pace e' altresi' competente per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti, purche' il valore della controversia non superi ((ventimila euro)). COMMA ABROGATO E' competente qualunque ne sia il valore: 1) per le cause relative ad apposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi; 4. Cause relative a prestazioni alimentari e a rendite (art.13). Qualora il titolo sia controverso, il valore è pari : all’ammontare delle somme dovute per due anni, se si tratta di causa avente ad oggetto prestazioni alimentari periodiche; a venti annualità se la controversia è relativa a rendite perpetue o al canone nell’enfiteusi perpetua. Se, infine, la causa verte su rendite temporanee o vitalizie, o sul diritto al canone nell’enfiteusi a tempo, il valore si ottiene cumulando le annualità richieste, sino ad un massimo di dieci; 5. Cause relative a beni immobili (art.15). Per la determinazione del valore di tali cause sono previsti, a seconda del diritto controverso, diversi coefficienti di moltiplicazione del reddito dominicale (nel caso di terreni) o della rendita catastale (in caso di fabbricati). Tali disposizioni sono oggi del tutto inutili, dato che il giudice di pace non ha alcuna competenza in materia di immobili; 6. Cause relative all’esecuzione forzata (art.17). Il valore delle cause di opposizione all’esecuzione è dato dal credito per cui si procede, allorché si tratti di opposizione del debitore ai sensi dell’art.615, oppure dal valore dei beni controversi, se l’opposizione sia proposta da terzi a norma dell’art.619. 64. La competenza per territorio Nell’ambito dei criteri di competenza territoriale (artt.18 ss.) bisogna distinguere quelli concernenti: - i fori generali, applicabili in linea di principio a qualunque causa ed individuati in base ad elementi soggettivi, da quelli che prevedono, - fori speciali, utilizzabili solo per cause aventi un determinato oggetto o riguardanti determinati soggetti, si dividono in: • i fori esclusivi, che prevalgono su quelli generali, • fori facoltativi e concorrenti, che invece offrono solo un’opzione in PIÙ all’attore, senza escludere il ricorso ai fori generali. Importante sottolineare che il foro esclusivo è derogabile per accordo delle parti (art.28), in assenza di una diversa previsione di legge. I fori generali sono disciplinati dagli artt. 18 o 19, a seconda che sia convenuta in giudizio una persona fisica o un diverso soggetto: a. Nel primo caso la competenza spetta – salvo diversa disposizione – al giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio, o al giudice del luogo in cui il convenuto abbia la propria dimora, qualora domicilio e residenza siano sconosciuti. Se poi è sconosciuta anche la dimora o si tratti di convenuto avente residenza, domicilio o dimora all’estero, è competente il giudice del luogo di residenza dell’attore. b. Nel caso in cui il convenuto sia una persona giuridica o un ente diverso da persona fisica, si ha riguardo al luogo in cui essa ha sede o ha uno stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l’oggetto della domanda. Per quanto attiene ai fori speciali, numerosi sono quelli menzionati dal codice. I criteri di maggior rilievo pratico e di PIÙ frequente applicazione sono : a. Cause in materia di obbligazione. A riguardo l’art. 20 prevede che sia anche competente il giudice del luogo in cui sia sorta o deve estinguersi l’obbligazione dedotta in giudizio; si tratta dunque di fori facoltativi concorrenti con quelli generali, da individuare mediante un’indagine sostanziale diretta a stabilire dove si è concluso il contratto o si è verificato l’illecito da cui discende l’obbligazione extracontrattuale , oppure il luogo dove deve avvenire l’adempimento; b. Cause relative a diritti reali su beni immobili; locazione a comodato di immobili urbani; affitto di aziende; apposizione di termini; osservanza delle distanza legali stabilite per il piantamento di alberi o siepi. La competenza qui viene determinata con riguardo al luogo ove è posto l’immobile o l’azienda; c. Azioni possessorie e denunce di nuova opera e di danno temuto. In questo caso è competente il giudice del luogo dove è avvenuto il fatto denunciato; d. Cause in cui è parte un’amministrazione dello Stato. L’art. 25, chiaramente ispirato ad un trattamento di favore della P.A., consta in realtà di due disposizioni : in una si stabiliscono i criteri di competenza per territorio da utilizzare per le cause in cui sia convenuta un’amministrazione dello Stato; nell’altra, invece, si fa riferimento a tutte le cause nelle quali sia parte un’amministrazione dello stato, precisando che per esse è competente, a norma delle leggi speciali sulla rappresentanza e difesa dello Stato e nei casi ivi previsti, il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie. Inoltre è previsto che l’incompetenza per territorio sia rilevabile, in tal caso, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo; il che consente di ricomprendere tale ipotesi tra quelle in cui la competenza per territorio non è derogabile dalle parti. 65. Il regime dell’incompetenza Art. 38. (( (Incompetenza). )) ((L'incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio sono eccepite, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata. L'eccezione di incompetenza per territorio si ha per non proposta se non contiene l'indicazione del giudice che la parte ritiene competente. Fuori dei casi previsti dall'articolo 28, quando le parti costituite aderiscono all'indicazione del giudice competente per territorio, la competenza del giudice indicato rimane ferma se la causa e' riassunta entro tre mesi dalla cancellazione della stessa dal ruolo. L'incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio nei casi previsti dall'articolo 28 sono rilevate d'ufficio non oltre l'udienza di cui all'articolo 183. Le questioni di cui ai commi precedenti sono decise, ai soli fini della competenza, in base a quello che risulta dagli atti e, quando sia reso necessario dall'eccezione del convenuto o dal rilievo del giudice, assunte sommarie informazioni)). AGGIORNAMENTO (67) La L. 26 novembre 1990, n. 353, come modificata dalla L. 4 dicembre 1992, n. 477, ha disposto: - (con l'art. 92, comma 1) che "Fatta eccezione per la disposizione di cui all'articolo 1, la presente legge entra in vigore il 1 gennaio 1993. Ai giudizi pendenti a tale data si applicano, fino al 2 gennaio 1994, le disposizioni anteriormente vigenti."; - (con l'art. 92, comma 2) che "Le disposizioni di cui agli articoli 3; 4; da 7 a 15; da 17 a 19; da 22 a 32; da 36 a 47; da 50 a 58; 70; 73; da 78 a 83 e 88 hanno efficacia a partire dal 2 gennaio 1994." AGGIORNAMENTO (72) La L. 26 novembre 1990, n. 353, come modificata dal D.L. 7 ottobre 1994, n. 571, convertito con modificazioni dalla L. 6 dicembre 1994, n. 673, ha disposto: - (con l'art. 92, comma 1) che "Fatta eccezione per la disposizione di cui all'articolo 1, la presente legge entra in vigore il 1 gennaio 1993. Ai giudizi pendenti a tale data si applicano, fino al 30 aprile 1995, le disposizioni anteriormente vigenti."; - (con l'art. 92, comma 2) che "Le disposizioni di cui agli articoli 3; 4; da 7 a 15; da 17 a 19; da 22 a 32; da 36 a 47; da 50 a 58; 70; 73; da 78 a 83 e 88 hanno efficacia a partire dal 30 aprile 1995." AGGIORNAMENTO (118) La Corte Costituzionale con sentenza 25 gennaio - 8 febbraio 2006 n. 41 (in G.U. 1a s.s. 15/02/2006 n. 7) ha dichiarato "l'illegittimita' costituzionale del combinato disposto degli articoli 38 e 102 del codice di procedura civile, nella parte in cui, in ipotesi di litisconsorzio necessario, consente di ritenere improduttiva di effetti l'eccezione di incompetenza territoriale derogabile proposta non da tutti i litisconsorti convenuti.". La disciplina relativa al caso in cui venga adito un giudice incompetente è racchiusa nell’art.38, che distingue tra il rilievo dell’incompetenza ad opera del convenuto e quella d’ufficio. A. Per quanto attiene al convenuto, l’eccezione d’incompetenza dev’essere sempre sollevata, a pena di decadenza, qualunque sia il criterio che si assume violato (materia, valore, territorio), nel suo primo atto difensivo e rispettando il termine di costituzione in giudizio. Qualora si tratti di incompetenza per territorio, il convenuto non può limitarsi ad eccepire l’incompetenza, ma deve indicare l’ufficio giudiziario che ritiene competente, altrimenti l’eccezione si ha come non formulata. Quest’ultima indicazione riveste specifica rilevanza in caso in cui l’incompetenza derivi dalla violazione di criteri territoriali derogabili, posti nell’interesse esclusivo del convenuto e, pertanto, solo da lui invocabili; in tale ipotesi l’individuazione del diverso giudice competente mira a consentire che le altre parti costituite vi aderiscano, rendendo senz’altro superflua una decisione sulla questione. Ove ciò avvenga, dunque, il giudice si limiterà a disporre la cancellazione della causa dal ruolo e, se la stessa verrà riassunta entro i successivi tre mesi, la competenza dell’ufficio giudiziario così individuato non potrà PIÙ essere messa in discussione. B. Per quel che concerne, invece, il rilevo d’ufficio dell’incompetenza, esso è consentito non oltre l’udienza di cui all’art. 183, ossia entro la prima udienza di trattazione; il che significa che dopo questo momento il vizio resta praticamente sanato ed irrilevante. Tale sistema non esclude che il convenuto, pur non avendo tempestivamente eccepito l’incompetenza nella propria comparsa di risposta, sollevi la questione alla prima udienza, sollecitando il giudice a rilevare l’incompetenza d’ufficio. Tuttavia, in questo caso, se il giudice non raccoglie tale sollecitazione o ritiene di essere competente, il convenuto non potrà far valere l’incompetenza attraverso le impugnazioni. Prescindendo dall’ipotesi in cui il convenuto deduca la violazione di un criterio di competenza per territorio derogabile e le altre parti concordino, la questione di competenza dev’essere sempre decisa con il medesimo iter prescritto per la risoluzione di tutte le questioni che possono implicare la definizione del processo. 67. Il momento determinante ai fini della giurisdizione e della competenza Art. 5. (Momento determinante della giurisdizione e della competenza). La giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo. L’attribuzione della giurisdizione e della competenza dipende dai criteri fissati dal legislatore, i quali prendono in considerazione elementi del tutto estrinsechi alla domanda e sono suscettibili di mutare nel tempo. Per quanto attiene alle conseguenze della variazione di tali elementi o della modificazione stessa delle disposizioni di legge regolatrici della giurisdizione o della competenza, allorché il legislatore non abbia provveduto a dettare un’opportuna disciplina transitoria, l’art.5 c.p.c. prevede il principio della perpetuatio iurisdictionis, stabilendo che la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, rimanendo irrilevanti invece i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo. Ciò risponde per un verso all’esigenza di evitare che la durata del processo si risolva in danno dell’attore che ha ragione, e per altro verso al principio costituzionale secondo cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Infatti, se mancasse tale disposizione sarebbe facile per il convenuto rendere incompetente nel corso del giudizio, il giudice che era stato correttamente individuato dall’attore. Le sole ipotesi di modificazioni normative cui si ritiene inapplicabile l’art.5 sono quelle che si traducano: - nell’immediata soppressione dell’ufficio giudiziario presso il quale pende la causa, - che derivino dalla dichiarazione di incostituzionalità di una delle norme distributive della giurisdizione o della competenza. - Esulano dall’ambito applicativo dell’art.5, inoltre, le variazioni che riguardano la domanda stessa, infatti, il mutamento della domanda originaria, al pari della proposizione di domande nuove in corso di causa, ben può implicare il sopravvenire del difetto di giurisdizione o dell’incompetenza, spogliando conseguentemente della causa il giudice adito. Infine, prevale l’opinione che la norma in questione operi solamente per i mutamenti che implicherebbero l’incompetenza o il difetto di giurisdizione del giudice dinanzi al quale la causa era stata correttamente incardinata, e non anche nel caso in cui, invece, il mutamento dello stato di diritto o di fatto comporti l’attribuzione della giurisdizione o della competenza al giudice adito, che ne era privo al momento della proposizione della domanda. Questa interpretazione restrittiva risponde a ragioni di economia processuale, dato che sarebbe incongruo imporre al giudice di declinare la giurisdizione o la competenza rispetto ad una causa che poi potrebbe e dovrebbe essere riproposta proprio dinanzi a lui. Sezione V - l'astensione, la ricusazione E la responsabilità del giudice 68. Il rapporto tra l'astensione e la ricusazione del giudice. In particolare, Le ipotesi di astensione, obbligatoria e facoltativa Art. 51. (Astensione del giudice). Il giudice ha l'obbligo di astenersi: 1) se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto; 2) se egli stesso o la moglie e' parente fino al quarto grado o legato da vincoli di affiliazione, o e' convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori; 3) se egli stesso o la moglie ha causa p e n d e n t e o g r a v e i n i m i c i z i a o r a p p o r t i d i c r e d i t o o d e b i t o c o n u n a d e l l e p a r t i o a l c u n o d e i s u o i d i f Scaduto questo termine, le parti non possono PIÙ far valere il motivo di ricusazione, neppure in via d’impugnazione della sentenza successivamente pronunciata; a meno che non sussista un interesse diretto del giudice nella causa. Stando all’art.52, 3°comma (la ricusazione sospende il processo), la proposizione dell’istanza di ricusazione dovrebbe implicare l’automatica sottrazione della causa al giudice ricusato e la contestuale investitura del giudice competente a decidere sull’istanza medesima. La giurisprudenza, però, ha riconosciuto allo stesso giudice ricusato il potere di valutare, seppur sommariamente, l’ammissibilità e la fondatezza dell’istanza, per escludere la sospensione allorché essa sia stata palesemente avanzata al di fuori dei casi e dei termini previsti dalla legge. La vera e propria decisione sulla richiesta di ricusazione compete al presidente del tribunale, se è ricusato un giudice di pace; o al collegio, quando sia ricusato un magistrato del tribunale o della corte. Per il relativo procedimento è previsto solo che debba essere sentito il giudice ricusato e debbano assumersi, ove occorra, le prove offerte. La decisione è presa nella forma dell’ordinanza non impugnabile, che potrà dichiarare inammissibile o infondata la ricusazione e, in tal caso, la parte ricusante potrà essere condannata ad una pena pecuniaria non superiore a 250€; qualora, invece, con ordinanza viene accolto il ricorso, verrà designato il magistrato che dovrà sostituire quello ricusato. In entrambi i casi l’ordinanza dev’essere comunicata dal cancelliere alle parti, affinché queste possano provvedere alla riassunzione della causa nel termine perentorio di sei mesi. 70. La responsabilità civile dei magistrati Nel testo originario del codice la materia della responsabilità civile del giudice era disciplinata dagli artt. 55 e 56, che prendevano in considerazione solo le ipotesi di dolo, frode o concussione e quella del c.d. diniego di giustizia, in cui il giudice avesse omesso di provvedere nel termine fissato dalla legge, nonostante un’espressa diffida della parte. L’art.56, inoltre, subordinava la possibilità dell’azione risarcitoria ad un’autorizzazione discrezionale da parte del Ministro della giustizia, con la conseguenza che il danneggiato non aveva alcuna garanzia di un effettivo ristoro. In seguito al referendum popolare del 1987, la l.117/1998 ha esteso la responsabilità alle ipotesi di colpa grave, pur tipizzandole in modo molto restrittivo; inoltre ha escluso che l’azione risarcitoria possa essere prospettata direttamente nei confronti del magistrato, cui fa da “scudo”, invece, lo Stato. A. Le fattispecie che possono dar luogo a risarcimento del danno – solo patrimoniale per quanto concerne l’attività del giudice civile – sono, ai sensi degli art. 2 e 3 : - Un comportamento, un atto o un provvedimento posto in essere dal magistrato con dolo; - Un comportamento, un atto o un provvedimento posto in essere dal magistrato con colpa grave. La colpa grave può derivare solo da : • una grave violazione di legge determinata da negligenza inscusabile; • da un’affermazione, determinata da negligenza inscusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; • dalla negazione, determinata da negligenza inscusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; - Il c.d. diniego di giustizia, che ricorre quando il magistrato rifiuti, ometta o ritardi il compimento di atti del suo ufficio, a condizione che sia trascorso il termine previsto dalla legge e siano altresì trascorsi inutilmente e senza giustificato motivo, trenta giorni dal momento in cui la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento; Non può, invece, mai essere fonte di responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove. B. Se sussiste un’ipotesi di responsabilità, l’azione risarcitoria va proposta non già direttamente nei confronti del magistrato, bensì nei confronti dello Stato, che ne risponde civilmente; PIÙ precisamente nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Se invece il danno deriva da un fatto costituente reato, lo Stato sarebbe corresponsabile civile e l’azione è proponibile direttamente nei confronti del magistrato. L’azione contro lo Stato non è consentita prima che siano stati esperiti i mezzi d’impugnazione e gli altri rimedi predisposti dall’ordinamento per eliminare l’atto o il provvedimento da cui deriva il danno; inoltre è soggetta ad un termine di decadenza di due anni, decorrenti dal momento in cui è divenuta esperi bile. C. In una prima fase, che si svolge con la forma del procedimento in camera di consiglio e culmina in un decreto motivato, il tribunale si limita a valutare l’ammissibilità della domanda di risarcimento, che può essere esclusa allorché non siano stati rispettati i termini e i presupposti richiesti dalla legge, nonché in caso di manifesta infondatezza della domanda. Solo dopo la pronuncia di ammissibilità il processo prosegue per la trattazione del merito; in tal caso il tribunale dovrà trasmettere copia degli atti ai titolari dell’azione disciplinare, affinché quest’ultima possa essere parallelamente avviata. D. Il magistrato della cui responsabilità si discute, resta del tutto estraneo al giudizio promosso nei confronti dello Stato; egli può, tutt’al PIÙ, spiegarvi intervento volontario, ai sensi dell’art.105, 2° comma, c.p.c. Qualora non intervenga, l’eventuale sentenza di condanna non fa stato, contro il magistrato, nel successivo giudizio di rivalsa; né fa mai stato, perfino in caso di suo intervento, nell’eventuale procedimento disciplinare. E. Se la responsabilità viene accertata e lo Stato viene condannato, o se il risarcimento viene effettuato in base ad un accordo stragiudiziale, lo Stato, nella persona del Presidente del Consiglio dei Ministri, è tenuto ad esercitare l’azione di rivalsa contro il magistrato entro un anno. Rivalsa limitata nel massimo, giacché, salvo che non si tratti di responsabilità da fatto doloso, non può superare un terzo dello stipendio annuale netto del magistrato al momento della proposizione dell’azione risarcitoria. F. Infine, entro due mesi dalla comunicazione della dichiarazione di ammissibilità della domanda di risarcimento, è previsto che il procuratore generale presso la Corte di cassazione eserciti l’azione disciplinare per i fatti che hanno dato luogo alla domanda medesima. Tale azione procede autonomamente, sulla base dei principi ad essa propri; è tuttavia previsto che i relativi atti possano essere acquisiti, su istanza di parte o d’ufficio, nel giudizio di rivalsa. Capitolo VI - Il pubblico ministero 71. I compiti del pubblico ministero nel processo civile Art. 69. (Azione del pubblico ministero). Il pubblico ministero esercita l'azione civile nei casi stabiliti dalla legge. Art. 70. (Intervento in causa del pubblico ministero). Il pubblico ministero deve intervenire, a pena di nullita' rilevabile d'ufficio: 1) nelle cause che egli stesso potrebbe proporre; 2) nelle cause matrimoniali, comprese quelle d i s e p a r a z i o n e p e r s o n a l e d e i c o n i u g i ; 3 ) n e l l e c Ed in questi casi, correlativamente, è solo va facoltativo per il giudice disporre che gli atti siano a lui trasmetti. 72. I poteri del pubblico ministero nelle cause cui partecipa Ciò che materialmente il p.m. può fare nei giudizi ai quali prende parte, dipende dalla circostanza che si tratti o meno di cause in cui egli è titolare del potere d’azione. - Se ricorre una delle ipotesi in cui egli stesso potrebbe agire, avrà una posizione in tutto e per tutto analoga a quella delle parti private e potrà esercitare tutti i poteri processuali che ad esse competono, ivi compreso quello di impugnare autonomamente la sentenza. - Negli altri casi invece., ad eccezione dei processi dinanzi alla Corte di cassazione, egli ha poteri subordinati, in qualche misura, a quelli delle parti e finalizzati alla ricerca della verità materiale; sicché può produrre documenti, dedurre prove e prendere conclusioni nei soli limiti tracciati dalle domande che le parti hanno proposto. Di regola, in queste cause non ha neppure il potere d’impugnare la sentenza, quando non l’abbia fatto una delle parti, se non avvalendosi della revocazione straordinaria, rimedio che l’art.397 gli accorda quando, trattandosi di un’ipotesi di intervento obbligatorio, egli non sia stato sentito oppure la sentenza sia l’effetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge. Un’eccezione è però prevista per le sentenze relative alle cause matrimoniali (ad eccezione di quelle di separazione personale dei coniugi), nonché per quelle dichiarative dell’efficacia o inefficacia di sentenze straniere concernenti cause matrimoniali : qui, infatti, il p.m., pur mancando di potere d’azione, può usufruire delle medesime impugnazioni che competono alle parti; impugnazione che possono essere proposte sia dal p.m. presso il giudice a quo, sia da quello presso il giudice competente per l’impugnazione, entro il termine ordinario. Questa eccezione, introdotta nel 1950, era finalizzata ad evitare che potessero trovare ingresso nel nostro ordinamento decisioni contrastanti con l’allora indiscusso principio di indissolubilità del matrimonio; oggi, pertanto, tale eccezione appare irragionevole ed anacronistica. Infine, la peculiare posizione del p.m. rispetto a quella delle parti private, trova riscontro per un verso nel potere di astensione accordatogli dall’art.73 e, per altro verso, in due privilegi che gli si riconosce, entrambi ricollegabili alla sua eventuale soccombenza nelle cause ch’egli stesso abbia proposto : quello di essere comunque esente al pagamento delle spese processuali e quello di poter impugnare indipendentemente dalle conclusioni che aveva formulato, quindi anche quando le sue richieste siano state interamente accolte dalla sentenza. Capitolo VII - Nessi tra azioni e processi Sezione I - La litispendenza e la continenza 73. La litispendenza interna Il termine litispendenza può avere diversi significati. 1. Anzitutto può indicare la pendenza della causa; il cui momento iniziale – in base all’art.39 – va individuato, per tutti i processi che iniziano con atto di citazione, nel giorno in cui quest’ultimo viene notificato. Per i processi che iniziano con ricorso da depositare, invece, rilevante è la data in cui l’atto introduttivo viene depositato nella cancelleria del giudice adito. In ogni caso, la litispendenza così intesa, cessa col passare in giudicato della sentenza che definisce il processo, qualunque sia il contenuto. 2. La litispendenza può indicare, in secondo luogo, anche l’anomala situazione in cui una stessa causa – o due cause identiche dal punto di vista oggettivo e soggettivo – pende contemporaneamente dinanzi a uffici giudiziari diversi. Tale situazione è considerata inaccettabile, vuoi perché implica uno spreco di attività processuale, vuoi perché può dar luogo a due giudicati tra loro contrastanti; la soluzione consiste nell’imporre al giudice successivamente adito, in qualunque stato e grado del processo, di troncare il processo dinanzi a sé, dichiarando con ordinanza la litispendenza e disponendo nel contempo la cancellazione della causa dal ruolo. A tale provvedimento il giudice in questione deve pervenire in base al mero rilievo dell’attuale pendenza dell’altro processo, senza poter in alcun modo sindacare, in particolare, se il giudice preventivamente adito sia o no competente; la questione relativa alla competenza potrà essere sollevata e risolta, eventualmente, solo nell’ambito del primo processo e, qualora il primo giudice dovesse declinare la propria competenza in favore di quello che ha già dichiarato la litispendenza, la causa potrebbe essere riassunta dinanzi a quest’ultimo. Diverso è il regime dell’ipotesi in cui le due cause identiche pendano contemporaneamente davanti allo stesso ufficio giudiziario. Art. 273. (Riunione di procedimenti relativi alla stessa causa). Se piu' procedimenti relativi alla stessa causa pendono davanti allo stesso giudice, questi, anche d'ufficio, ne ordina la riunione. Se il giudice istruttore o il presidente della sezione ha notizia che per la stessa causa pende procedimento davanti ad altro giudice o ad altra sezione dello stesso tribunale, ne riferisce al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto la riunione, determinando la sezione o designando il giudice davanti al quale il procedimento deve proseguire. In tale ipotesi l’art.273 prevede che la duplicazione dei procedimenti si risolva attraverso la riunione degli stessi, che avviene in modo assai semplice se essi pendono dinanzi allo stesso magistrato; altrimenti tale riunione avviene facendo intervenire il presidente del tribunale, il quale, sentite le parti, provvede con decreto determinando la sezione e/o il giudice davanti al quale deve proseguire l’ormai unico procedimento. La prassi PIÙ garantista è quella di realizzare la riunione dinanzi al giudice previamente adito. Tale meccanismo, tuttavia, può dar luogo a vari dubbi : ad es. sussiste la possibilità che esso sia utilizzato per eludere, attraverso la riproposizione della stessa domanda, le eventuali preclusioni maturate nel primo processo. Deve ritenersi, pertanto, che la riunione non implichi una vera e totale fusione dei procedimenti e che il giudice, in linea di principio, debba trattare soltanto quello anteriormente iniziato, decidendo esclusivamente sulla scorta dei fatti in esso allegati e del materiale istruttorio ivi raccolto; a meno che, non potendo tale procedimento condurre ad una decisione sulla domanda, venga meno l’impedimento alla trattazione e alla decisione di quello successivamente instaurato. 74. La continenza di cause Art. 39. (Litispendenza e continenza di cause). ((Se una stessa causa e' proposta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito, in qualunque stato e grado del processo, anche d'ufficio, dichiara con ordinanza la litispendenza e dispone la cancellazione della causa dal ruolo)). Nel caso di continenza di cause, se il giudice preventivamente adito e' competente anche per la causa proposta successivamente, il giudice di questa dichiara con ((ordinanza)) la continenza e fissa un termine perentorio entro il quale le parti debbono riassumere la causa davanti al primo giudice. Se questi non e' competente anche per la causa successivamente proposta, la dichiarazione della continenza e la fissazione del termine sono da lui pronunciate. La prevenzione e' determinata dalla notificazione della citazione ((ovvero dal deposito del ricorso)). La nozione di continenza di cause non è definita nel 2°comma dell’art.39, ma solo presupposta, non è quindi chiaro in cosa essa differisca dalla litispendenza e dalla connessione. Quel che è certo è che, in questo caso, si tratta di cause in qualche misura diverse, pur essendo legate da nessi particolarmente intensi. L’obiettivo del legislatore è dunque quello ne di cause 76. La connessio ne in generale Quando due o PIÙ cause hanno in comune uno o PIÙ elementi identificativi, pur non essendo identiche, si parla di connessione. In presenza di tale nesso, il legislatore consente, seppur a determinate condizioni, il cumulo e la trattazione congiunta delle cause in un unico giudizio (simultaneus processus), vuoi per ragioni di economia processuale, vuoi, soprattutto, per evitare decisioni disarmoniche o addirittura contrastanti. Per favorire la realizzazione del cumulo di cause connesse, il legislatore prevede delle deroghe agli ordinari criteri di competenza, dirette a consentire che un unico giudice possa conoscere di tutte le cause pur quando esse, separatamente considerate, andrebbero proposte dinanzi a diversi uffici giudiziari. Il codice, infatti, affronta il tema della connessione non in modo unitario, bensì muovendo dalle modificazioni della competenza che essa può determinare. Possono distinguersi diverse forme di connessione : 77. La connessione meramente soggettiva Art. 104. (( (Pluralita' di domande contro la stessa parte). )) ((Contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo piu' domande anche non altrimenti connesse, purche' sia osservata la norma dell'art. 10 secondo comma. E' applicabile la disposizione del secondo comma dell'articolo precedente)). Riguarda i soli soggetti, attivi e passivi, delle domande, le quali differiscono, invece, per ogni aspetto oggettivo; tale situazione è contemplata dall’art.104, 1°comma, che consente di proporre contro la stessa parte, nel medesimo processo, PIÙ domande anche non altrimenti connesse, purché sia osservata la norma dell’art.10, 2°comma. In tal caso, si parla di cumulo oggettivo per definire il cumulo delle PIÙ domande in un unico processo. Vengono in rilievo, a tal proposito, solo ragioni di economia processuale e conseguentemente non è prevista alcuna deroga ai criteri ordinari di competenza, diretta a favorire il simultaneus processus. Quest’ultimo sarà concretamente attuabile solo quando uno stesso ufficio giudiziario risulti competente – per materia o territorio – per tutte le cause. Quanto alla competenza per valore, invece, il problema non si pone poiché l’art.10, 2°comma, prevede che il valore complessivo della causa si determini sommando le PIÙ domande proposte contro la stessa parte; il che vuol dire che potrebbe essere investito della pluralità di domande, un giudice diverso da quello che sarebbe stato competente a conoscerle separatamente. Infine, bisogna aggiungere che un cumulo oggettivo può attuarsi anche per domande contrapposte delle parti, cioè quando taluna di esse sia formulata dal soggetto contro cui erano state proposte altre domande; situazione, questa, che però esula dalla previsione dell’art.104. 78. La connessione oggettiva impropria Art. 103. (( (Litisconsorzio facoltativo). )) ((Piu' parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni. Il giudice puo' disporre, nel corso della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi e' istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe piu' gravoso il processo, e puo' rimettere al giudice inferiore le cause di sua competenza)). Consiste nel rapporto tra due o PIÙ cause la cui decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni (art. 103, 1°comma). Alla base di tale tipologia di connessione vi è sicuramente l’obiettivo di assicurare che le questioni comuni trovino una soluzione uniforme per le varie cause, anche se, trattandosi di domande del tutto diverse quanto al petitum e alla causa petendi, la loro trattazione separata non presenta alcun rischio di un vero e proprio contrasto di giudicati. Ragion per cui non è prevista alcuna deroga agli ordinari criteri di competenza e la realizzabilità del simultaneus processus è subordinata all’eventualità che sia individuabile uno stesso ufficio giudiziario competente per tutte le cause. Le “identiche questioni” possono essere questioni di fatto o questioni di diritto; nel primo caso, tuttavia, dato che l’identità dei fatti costitutivi può anche dar luogo ad una parziale identità della causa petendi, potrebbe risultare incerta la linea di demarcazione tra la connessione impropria e quella oggettiva propria. 79. La connessione oggettiva propria semplice Art. 33. (Cumulo soggettivo). Le cause contro piu' persone che a norma degli articoli 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono connesse per l'oggetto o per il titolo possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse, per essere decise nello stesso processo. E’ quella che deriva dalla comunanza dell’oggetto o del titolo dal quale dipendono le PIÙ domande (art.103, 1°comma). Il legislatore la prende in considerazione solo in relazione all’ipotesi in cui le PIÙ cause riguardino parti diverse e ne fa discendere la possibilità che le cause in tal modo connesse vengano cumulativamente proposte in un unico processo – si parla, in tal caso, di cumulo soggettivo. La realizzazione del simultaneus processus viene favorita anche attraverso una deroga ai criteri ordinari della sola competenza territoriale, infatti, l’art.33, stabilisce che le cause contro PIÙ persone che a norma degli artt. 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono connesse per l’oggetto o per il titolo possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse. La norma fa riferimento ai soli fori generali e lascia intendere che la deroga è ammessa solo in danno del foro di un convenuto ed in favore del foro generale di un altro convenuto; non anche quando, ad es., per taluna delle cause dovrebbe aversi riguardo ad un foro speciale esclusivo, oppure per attuare il cumulo dinanzi al foro speciale applicabile a taluna soltanto di esse. Tuttavia, buona parte della dottrina sostiene un’applicazione estensiva dell’art.33, la quale parrebbe preferibile ogniqualvolta il cumulo possa realizzarsi dinanzi al giudice competente per una delle cause, derogando esclusivamente per le altre ai fori generali. Generalmente si ammette, inoltre, che la connessione oggettiva possa derogare anche alla competenza per valore, nel senso che se si tratta di domande proposte contro parti diverse, essa ne consente il cumulo dinanzi al giudice competente per quella di maggior valore. Infine, si è soliti escludere l’applicazione dell’art.33 allorché la domanda proposta nei confronti di taluno dei convenuti appaia apparentemente artificiosa e finalizzata ad eludere i criteri ordinari di competenza. È certo che, spesso, la connessione oggettiva può interessare domande tra le stesse parti e, in tale ipotesi, sarebbe assurdo escludere che il simultaneus processus possa instaurarsi anche La giurisprudenza, inoltre, suole parlare di pregiudizialità meramente logica con riguardo alle ipotesi in cui non vengono propriamente in rilievo dei rapporti giuridici diversi, bensì la relazione tra un singolo diritto ed il rapporto giuridico complesso da cui esso trae origine; ad es. la domanda concernente il pagamento di una rata dipende da quella avente ad oggetto l’esistenza del credito nella sua interezza. In questi casi, il rapporto dedotto in giudizio nelle diverse cause è pur sempre lo stesso, pur non essendovi concordia circa i limiti oggettivi del giudicato formatosi sul singolo diritto derivante da un rapporto complesso. In ogni caso, laddove le cause non vengano trattate congiuntamente, la pregiudizialità-dipendenza può determinare un rischio notevole di giudicati contraddittorii, legato all’eventualità che l’esistenza del medesimo rapporto pregiudiziale venga affermata in un processo e negata nell’atro. Il simultaneus processus è favorito attraverso deroghe agli ordinari criteri di competenza; in linea di principio prevale l’opinione che la connessione non possa mai derogare ai criteri della competenza per materia o per territorio c.d. funzionale, tuttavia, dopo l’istituzione del giudice unico in primo grado e la conseguente soppressione delle preture, gli ostacoli alla trattazione congiunta, in presenza di una connessione qualificata, sono divenuti meno frequenti, specialmente per quel che concerne la competenza verticale, dato che, se i criteri ordinari della materia e/o del valore dovessero attribuire una causa al giudice di pace e l’altra al tribunale, l’art.40, 6°comma, farebbe prevalere senz’altro la competenza del giudice togato; pertanto, fatta eccezione per le ipotesi in cui è prevista la competenza della Corte d’appello in primo ed unico grado, l’impedimento alla realizzazione del simultaneus processus potrebbe derivare solo dalla competenza per territorio inderogabile. 81. A) Accessorietà Art. 31. (Cause accessorie). La domanda accessoria puo' essere proposta al giudice territorialmente competente per la domanda principale affinche' sia decisa nello stesso processo, osservata, quanto alla competenza per valore, la disposizione dell'art. 10 secondo comma. L’art.31 stabilisce che la domanda accessoria può cumularsi a quella principale, dinanzi al giudice territorialmente competente per quest’ultima; fermo restando che se le domande sono proposte contro la medesima parte, il loro valore si somma. Accessoria è dunque la domanda che, dal punto di vista del risultato perseguito dall’attore, ha un rilievo secondario rispetto alla domanda principale ed il cui accoglimento è subordinato all’accoglimento di quest’ultima, da cui discende in modo pressoché automatico. 82. B) Garanzia Art. 32. (Cause di garanzia). La domanda di garanzia puo' essere proposta al giudice competente per la causa principale affinche' sia decisa nello stesso processo. Qualora essa ecceda la competenza per valore del giudice adito, questi rimette entrambe le cause al giudice superiore assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione. L’art.32 fa riferimento alle ipotesi in cui un soggetto – garante – è obbligato a tenere indenne un altro soggetto – garantito - dalle conseguenze economiche negative che possono a quest’ultimo derivare dall’eventuale soccombenza in una causa promossa nei suoi confronti da un terzo. Ad es. si pensi all’obbligo di garanzia gravante sul venditore per l’evizione che il compratore subisca per effetto di diritti fatti valere da un terzo sul bene. In questi casi, nei quali è evidente che il diritto alla garanzia dipenda anche dall’esistenza del diritto vantato dal terzo nei confronti del garantito, nulla esclude che la domanda di garanzia venga proposta autonomamente, dopo che il giudizio principale (cioè quello promosso dal terzo) si è già concluso con la soccombenza del garantito; vi è il rischio, però, che il garante – rimasto escluso dal primo processo e dunque non vincolato alla relativa decisione – possa rimettere in discussione, nel secondo processo, anche il diritto del terzo. Tale eventualità è esplicitamente contemplata, quanto all’ipotesi dell’evizione, dall’art.1485 c.c., secondo cui il compratore, convenuto in giudizio da un terzo che pretende di avere diritti sulla cosa venduta, ha l’onere di chiamare in causa il venditore, affinché lo stesso possa contrastare la pretesa del terzo. Qualora non assolva a quest’onere, e venga poi condannato, egli perde il diritto alla garanzia se il venditore, nel nuovo processo promosso dal compratore evitto, prova che esistevano ragioni sufficienti per far respingere la domanda. La chiamata in garanzia consente al garantito di chiedere la condanna del garante, prima ancora che si sia verificato il presupposto sostanziale della garanzia, cioè la soccombenza dello stesso garantito; cosicché, laddove sia la domanda principale, sia quella di garanzia, risultino fondate, la condanna del garantito e del garante possano essere contestuali. Per favorire la realizzazione del simultaneus processus l’art.32 stabilisce che la domanda di garanzia può proporsi al giudice territorialmente competente per la domanda principale. Se poi il valore della causa di garanzia eccede la competenza del giudice della causa principale, quest’ultimo è tenuto a rimettere entrambe le cause al giudice superiore, assegnando un termine per la loro riassunzione. Tale disciplina, nel suo complesso, secondo la giurisprudenza prevalente, troverebbe applicazione nei soli casi di garanzia propria, ossia quando l’obbligo di garanzia discende dalla legge o dal medesimo rapporto giuridico sul quale si fonda la domanda principale; non anche nel caso di garanzia impropria, che si ha quando l’obbligo di garanzia deriva da un diverso rapporto. In quest’ultima ipotesi il cumulo di cause, come pure la chiamata del garante nel giudizio, sarebbero pur sempre ammesso, ma senza alcuna deroga agli ordinari criteri di competenza. Tale distinzione non appare, in realtà persuasiva, sia perché l’art.32 non la prevede, sia perché la connessione tra la domanda principale e quella contro il garante, nel caso di garanzia impropria, non appare qualitativamente dissimile da quella che caratterizza la garanzia propria, essendo comunque definibile in termini di pregiudizialità-dipendenza. 83. C) Accertamento incidentale Art. 34. (Accertamenti incidentali). Il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti e' necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest'ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui. L’art.34 contempla l’ipotesi in cui, per legge o per esplicita domanda di una delle parti, debba decidersi con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale appartenente per materia o valore alla competenza di un giudice superiore. Il giudice adito, in tal caso, deve rimettere tutta la causa al giudice superiore, assegnando un termine perentorio per la riassunzione della stessa. Le questioni pregiudiziali cui allude la norma sono quelle di merito, ossia quelle concernenti l’esistenza o l’inesistenza di un rapporto giuridico diverso da quello oggetto del processo, che però condiziona – in quanto elemento costitutivo o, al contrario, elemento estintivo, impeditivo o modificativo – l’esistenza o l’inesistenza dell’oggetto del processo stesso. In altre parole, l’art.34 ipotizza anzitutto che : - Tra i fatti principali rilevanti per la domanda originaria vi siano uno o PIÙ fatti-diritti, che riguardano un altro e distinto diritto o status, che ben potrebbe essere oggetto di accertamento in un diverso ed autonomo giudizio; - Che sulla esistenza di uno di tali fatti-diritti sorga contrasto fra le parti; - Che infine, per la legge o in conseguenza di un’esplicita domanda di una delle parti, sia necessario decidere con autorità di giudicato sull’esistenza del rapporto pregiudiziale. In VIRTÙ di tali presupposti, dunque, il giudice adito dovrà verificare se la decisione sul rapporto pregiudiziale rientri o meno nella sua competenza per materia e/o valore. È opinione diffusa che l’art.34 offra importanti indicazioni per la ricostruzione dell’oggetto del processo nonché, correlativamente, dei limiti del giudicato. Si desume, infatti, che anche quando in una causa sorge una questione pregiudiziale, quest’ultima, almeno di regola, non viene decisa con efficacia di giudicato, bensì risolta dal volta nei confronti di quest’ultimo, facendo valere un diritto diverso da quello oggetto della domanda principale, pur essendo ad esso collegato. Si tratterebbe, dunque, di domande soggettivamente coincidenti, seppur a parti contrapposte. Tuttavia, deve ritenersi che il concetto di riconvenzionale abbracci anche la domanda che lo stesso attore proponga successivamente contro il convenuto (c.d. riconventio riconventionis); abbracci quella proposta da taluno dei convenuti nei confronti di un altro convenuto; ed infine, abbracci , in generale, tutte le domande – comprese quelle di accertamento incidentale – provenienti da chi è già parte nel processo e dirette contro un altro soggetto che parimenti ha in precedenza acquisito la qualità di parte. La relazione tra domanda principale e domanda riconvenzionale, inoltre, può essere di vario tipo : di incompatibilità, di piena compatibilità, e talora, anzi, la riconvenzionale potrebbe finanche presupporre l’accoglimento della domanda principale. Fermo restando che la deroga alla competenza è applicabile nei soli casi di vera e propria connessione oggettiva, la prevalente giurisprudenza, contrastata dalla dottrina, ritiene che, ai soli fini dell’ammissibilità del cumulo, sia sufficiente un qualunque collegamento obiettivo tra la domanda principale e quella riconvenzionale; collegamento che potrebbe intendersi come connessione impropria per mera comunanza di questioni. 86. Le modalità di realizzazione delle simultaneus processus: A) cause separatamente proposte davanti ad uffici giudiziari diversi Art. 40. (Connessione). Se sono proposte davanti a giudici diversi piu' cause le quali, per ragione di connessione, possono essere decise in un solo processo , il giudice fissa con ((ordinanza)) alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice della causa principale, e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito. La connessione non puo' essere eccepita dalle parti ne' rilevata d'ufficio dopo la prima udienza, e la rimessione non puo' essere ordinata quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente l'esauriente trattazione e decisione delle cause connesse. Nei casi previsti negli articoli 31, 32, 34, 35 e 36, le cause, cumulativamente proposte o successivamente riunite, debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva l'applicazione del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli articoli 409 e 442. Qualora le cause connesse siano assoggettate a differenti riti speciali debbono essere trattate e decise col rito previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la competenza o, in subordine, col rito previsto per la causa di maggior valore. Se la causa e' stata trattata con un rito diverso da quello divenuto applicabile ai sensi del terzo comma, il giudice provvede a norma degli articoli 426, 427 e 439. Se una causa di competenza del giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli articoli 31, 32, 34, 35 e 36 con altra causa di competenza del tribunale, le relative domande possono essere proposte innanzi al tribunale affinche' siano decise nello stesso processo. Se le cause connesse ai sensi del sesto comma sono proposte davanti al giudice di pace e al tribunale, il giudice di pace deve pronunziare anche d'ufficio la connessione a favore del tribunale. Qualora, attraverso le deroghe ai criteri ordinari di competenza previste dagli artt.31-36 sia possibile individuare un unico giudice competente per tutte le cause connesse, il loro cumulo può realizzarsi in momenti e con modalità differenti. Può attuarsi fin dall’inizio per scelta dell’attore, o nel corso del giudizio, vuoi in conseguenza del sorgere di una nuova causa tra le stesse parti, vuoi in seguito all’allargamento soggettivo del giudizio, che derivi dalla chiamata o dall’intervento volontario di un terzo, protagonista o destinatario di una nuova domanda connessa a quella originaria. In secondo luogo può avvenire che le cause connesse siano state promosse autonomamente, in separati processi; e in tal caso la disciplina è diversa a seconda che esse pendano o meno davanti allo stesso ufficio giudiziario. Se le cause connesse vengono instaurate separatamente dinanzi ad uffici giudiziari diversi, l’art.40 consente, a talune condizioni, che la loro trattazione congiunta possa ancora attuarsi attraverso la fusione dei PIÙ processi dinanzi ad uno di tali uffici. È previsto, in tal caso, che il giudice dichiari la connessione con ordinanza, fissando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice della causa principale, e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito; a spogliarsi della causa, dunque, dev’essere il giudice della causa accessoria, nell’ipotesi di cui all’art.31, e quello adito successivamente in tutti gli altri casi. Davanti a tale giudice la connessione può essere eccepita, da ciascuna delle parti, oppure rilevata d’ufficio solamente entro la prima udienza; in ogni caso, lo stesso giudice deve rifiutare la dichiarazione di connessione quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consentirebbe l’esauriente trattazione e decisione delle cause connesse. La lacuna di tale disciplina deriva dal fatto che non è chiaro se il simultaneus processus possa o no realizzarsi anche quando l’ufficio giudiziario così individuato non risulti competente rispetto a tutte le cause connesse; in particolare : - quando, trattandosi di una causa accessoria tra le stesse parti, il suo valore, sommato a quello della causa principale, esorbiti la competenza del giudice adito per quest’ultima; - quando, negli altri casi di connessione, il giudice preventivamente adito non sia quello superiore, competente per materia o per valore, dinanzi al quale si sarebbe potuto instaurare dall’inizio il cumulo delle cause connesse. Anche per questo aspetto, tuttavia, il problema viene ridimensionato dall’art.40, che al 6°comma prevede che, in caso di connessione qualificata tra cause spettanti al giudice di pace e cause di competenza del tribunale, le relative domande possono essere proposte innanzi al tribunale affinché siano decise nello stesso processo. Prevale dunque la competenza del giudice togato pur quando la competenza del giudice di pace sia determinata ratione materie o si tratti di competenza c.d. funzionale. Qualora, invece, le cause venissero proposte separatamente, il giudice di pace dovrebbe pronunziare anche d’ufficio la connessione a favore del tribunale, il che vuole dire che in tale ipotesi il rilievo della connessione non è soggetto alle limitazioni temporali di cui all’art.40, 2°comma, ma resta consentito per tutta la durata del processo dinanzi al giudice onorario. 87. B) cause separatamente proposte davanti allo stesso ufficio giudiziario Art. 274. (Riunione di procedimenti relativi a cause connesse). Se piu' procedimenti relativi a cause connesse pendono davanti allo stesso giudice, questi, anche d'ufficio, puo' disporne la riunione. Se il giudice istruttore o il presidente della sezione ha notizia che per una causa connessa pende procedimento davanti ad altro giudice o davanti ad altra sezione dello stesso tribunale, ne riferisce al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto che le cause siano chiamate alla medesima udienza davanti allo stesso giudice o alla stessa sezione per i provvedimenti opportuni. PIÙ SEMPLICE è la disciplina applicabile nel caso in cui le cause connesse siano proposte separatamente dinanzi allo stesso ufficio giudiziario; in tal caso, infatti, la fusione delle cause si realizza semplicemente attraverso la loro riunione, peraltro meramente facoltativa, sicché il giudice che rileva la connessione ha pur sempre la possibilità di valutare se il simultaneus processus sia o meno conveniente, anche in base al rispettivo stato di avanzamento delle cause. In concreto, l’art.274 prevede che, quando le cause connesse pendono dinanzi allo stesso giudice (inteso, questa volta, come magistrato-persona fisica o collegio giudicante), questi possa – anche d’ufficio – disporne direttamente la riunione. Se invece le cause pendono davanti ad altro giudice o ad altra sezione dello stesso tribunale, il giudice istruttore o il presidente della sezione che ne abbiano notizia devono riferire al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto che le cause siano chiamate alla medesima udienza davanti allo stesso giudice o alla stessa sezione per l’eventuale loro riunione. Una disciplina speciale riguarda le materie del lavoro e della previdenza ed assistenza obbligatorie, nonché in generale le controversie dinanzi al giudice di pace, per le quali viene dato maggior rilievo alle esigenze di economia processuale perseguite attraverso la trattazione congiunta delle cause connesse. Per esse, infatti, è prevista una duplice deroga all’art.274 : in primo luogo stabilendo che la riunione sia obbligatoria ogniqualvolta le cause si trovino nella stessa fase processuale; in secondo luogo estendendo tale riunione anche alle cause connesse soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende la loro decisione (cioè alla connessione c.d. impropria). 88. La connessione di cause soggette a riti diversi La capacità di essere parte coincide con la capacità giuridica e spetta, dunque, a tutti i soggetti o enti cui è riconosciuta quest’ultima. Quanto alla capacità processuale, il nesso con la capacità d’agire emerge chiaramente dall’art.75, 1°comma, per cui “sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere”. Il legislatore subordina alla capacità processuale la possibilità di stare in giudizio, e dunque il potere di porre in essere gli atti del processo : si parla, in tal senso, di legittimazione processuale. La capacità processuale , per tanto, si acquista (di regola) con la maggiore età, al pari della capacità di agire; salvi i casi in cui la lege richieda un’età diversa, come avviene in materia di “diritto di autore” (16 anni). Parallelamente, sulla capacità processuale possono incidere gli stessi eventi giuridici suscettibili di escludere, limitare o condizionare la capacità di agire. Infatti, il 2°comma dell’art.75 stabilisce che le persone che non hanno il libero esercizio dei diritti possono stare in giudizio solo a patto di essere rappresentate, assistite o autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità. Il riferimento, dunque, è anzitutto alla minore età, all’interdizione, all’inabilitazione e alle altre situazioni da cui può derivare la perdita o la limitazione della capacità di agire. Il soggetto capace o limitatamente capace potrà stare in giudizio, a seconda dei casi, tramite un soggetto che lo rappresenti legalmente (genitore, tutore, curatore) al quale competerà in via esclusiva la legittimazione processuale; oppure insieme ad una altro soggetto che lo assiste, configurandosi in tale ultima situazione una fattispecie di legittimazione processuale congiunta. Vi sono, inoltre, ipotesi contemplate dall’art.75, 2°comma, in cui la proposizione di un’azione o la mera costituzione in un giudizio da altri instaurato sono subordinate al rilascio di un’autorizzazione da parte di un determinato organo; tale autorizzazione è richiesta per integrare la capacità processuale del rappresentante di una persona fisica incapace, ma si è soliti estenderne la portata anche alle ipotesi in cui l’autorizzazione sia prescritta, invece, da disposizioni che disciplinano il procedimento di formazione della volontà di un ente, pubblico o privato. 92. La rappresentanza processuale Art. 77. (Rappresentanza del procuratore e dell’institore). Il procuratore generale e quello preposto a determinati affari non possono stare in giudizio per il preponente, quando questo potere non e' stato loro conferito espressamente per iscritto, tranne che per gli atti urgenti e per le misure cautelari. Tale potere si presume conferito al procuratore generale di chi non ha residenza o domicilio nella Repubblica e all'institore. La rappresentanza, anche in ambito processuale, è caratterizzata dalla circostanza che il rappresentante agisce in nome e per conto del soggetto rappresentato. Alla rappresentanza legale fa riferimento l’art.75, 2°comma, richiamando le ipotesi in cui determinati soggetti, incapaci o limitatamente capaci, possono stare in giudizio solo nella persona del soggetto cui la stessa legge attribuisce tale potere di agire in nome altrui. I commi successivi dell’art.75, invece, si riferiscono a quella peculiare forma di rappresentanza nella quale vi è una sorta di immedesimazione tra rappresentante e rappresentato e che suole definirsi organica; essa serve a descrivere il modo in cui si manifesta all’esterno la volontà delle persone giuridiche e degli altri enti diversi dalla persona fisica. Infatti, si precisa che le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto; mentre le associazioni e i comitati, privi di personalità giuridica, stanno in giudizio per mezzo delle persone cui compete, in base ad accordi degli associati, le presidenza o la direzione degli stessi. Una situazione analoga ricorre ogniqualvolta il legislatore riconosca una qualche soggettività giuridica, seppur imperfetta, ad entità diverse dalla persona fisica; tipico è il caso dell’amministratore di condominio a cui è attribuito un limitato potere di rappresentanza, sostanziale e processuale, dei singoli condomini. Particolarmente rilevante è, poi, la rappresentanza volontaria, la quale si fonda su una libera scelta del rappresentato, estrinsecata attraverso il conferimento di un’apposita procura. Il codice, al riguardo, si limita a prendere in considerazione la sola rappresentanza processuale del procuratore generale e di quello preposto a determinati affari, ossia di soggetti cui compete anche il potere di rappresentanza sostanziale. Essi, in base all’art.77, non possono stare in giudizio per il preponente, quando questo potere non è stato loro conferito espressamente per iscritto; se ne deduce, dunque, che il mero conferimento della rappresentanza sostanziale non implica, di per sé, il potere di agire o di essere convenuto in nome del rappresentato, nei giudizi in cui si controverta dei rapporti cui fa riferimento la procura sostanziale, essendo a tal fine richiesta l’esplicita attribuzione (scritta) della rappresentanza processuale. Le sole deroghe riguardano : - il compimento di atti urgenti e la richiesta di misure cautelari, attività che non tollererebbero un differimento e che, conseguentemente, rientrano sempre nei poteri del rappresentante sostanziale; - il procuratore generale di chi abbia la residenza ed il domicilio all’estero e l’institore, ai quali il potere di rappresentanza processuale si presume senz’altro conferito e, pertanto, non necessita di apposita menzione. L’opinione prevalente, basandosi sulla circostanza che l’art.77 prende in considerazione la sola situazione dei soggetti muniti di poteri di rappresentanza sul piano sostanziale, ritiene di poter dedurre che la rappresentanza processuale volontaria non possa mai andar disgiunta da quella sostanziale, pena l’invalidità della procura ed il conseguente difetto di legittimazione processuale del rappresentante. In realtà si tratta di una deduzione opinabile, ove si consideri unicamente l’art.77; semmai, l’unico elemento che potrebbe addursi in favore di tale tesi è offerto dall’art.317, che espressamente prevede, dinanzi al solo giudice di pace, la possibilità che le parti si facciano rappresentare da persona munita di mandato scritto in calce alla citazione o in atto separato. Nella pratica, poi, l’inscindibilità della rappresentanza processuale da quella sostanziale, viene “aggirata” mediante l’espediente di attribuire al delegato anche poteri di rappresentanza sostanziale. Ad ogni modo, nei casi di rappresentanza processuale, ci si trova in presenza di una parte complessa costituita sia dal rappresentante che dal rappresentato : quest’ultimo è parte in senso processuale, cioè destinatario degli effetti del processo e degli atti che in esso vengono compiuti; il rappresentante, invece, è parte in senso formale, e ad esso compete la legittimazione processuale (in via esclusiva : rapp.legale. – in via concorrente : rapp.volontaria). Infine, lo stesso rappresentante può subire gli effetti del processo, allorché sussistano le condizioni per una sua condanna al pagamento delle spese del giudizio. 93. Il curatore speciale Art. 78. (Curatore speciale). Se manca la persona a cui spetta la rappresentanza o l'assistenza, e vi sono ragioni di urgenza, puo' essere nominato all'incapace, alla persona giuridica o all'associazione non riconosciuta un curatore speciale che li rappresenti o assista finche' subentri colui al quale spetta la rappresentanza o l'assistenza. Si procede altresi' alla nomina di un curatore speciale al rappresentato, quando vi e' conflitto d'interessi col rappresentante. L’art.78 prevede la nomina di un curatore speciale in due situazione : 1. Quando manca la persona cui spetta la rappresentanza o l’assistenza dell’incapace, della persona giuridica o dell’associazione non riconosciuta, e vi sono ragioni di urgenza, tali da non poter attendere che si provveda nei modi ordinari; 2. Quando vi sia un conflitto di interessi – anche meramente potenziale – tra rappresentante e rappresentato. In queste ipotesi, al curatore speciale spetta, dunque, la legittimazione processuale, in luogo della parte (quando debba assumerne la rappresentanza), o accanto ad essa (quando debba solo assisterla).
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