Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Gian Luca Potestà; Giovanni Vian, Storia del cristianesimo, Sintesi del corso di Storia della Chiesa

Premessa Il cristianesimo vive in primo luogo nelle chiese. La nozione di storia del cristianesimo tuttavia non coincide pienamente con quella di storia della Chiesa, in quanto si estende a comprendere anche le esperienze fuori dai perimetri strettamente ecclesiastici: produzioni dottrinali, artistiche e letterarie di non cristiani sensibili al messaggio evangelico; forme religiose modellate o rimodellate a seguito di incontri con esso; vicende dei singoli e dei gruppi convinti di essere buoni cristiani, ma rifiutati o estromessi dalle chiese. Capitolo 1 – Gesù e le origini del cristianesimo 1. Gesù di Nazareth Il Vangelo e altri testi dei primi cristiani costituiscono le principali fonti per la conoscenza di Gesù, nato durante il Regno giudaico di Erode (morto nella 4 a.C.) e scomparso sotto Ponzio Pilato intorno al 30. Le fonti cristiane delle origini non appartengono al genere delle cronache o delle storie, ma prodotte sul fondamento della fede nella resurrezione di Gesù, e si propo

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 16/05/2023

icaro-novanta
icaro-novanta 🇮🇹

4.4

(37)

658 documenti

1 / 109

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Gian Luca Potestà; Giovanni Vian, Storia del cristianesimo e più Sintesi del corso in PDF di Storia della Chiesa solo su Docsity! Gian Luca Potestà; Giovanni Vian, Storia del cristianesimo Premessa Il cristianesimo vive in primo luogo nelle chiese. La nozione di storia del cristianesimo tuttavia non coincide pienamente con quella di storia della Chiesa, in quanto si estende a comprendere anche le esperienze fuori dai perimetri strettamente ecclesiastici: produzioni dottrinali, artistiche e letterarie di non cristiani sensibili al messaggio evangelico; forme religiose modellate o rimodellate a seguito di incontri con esso; vicende dei singoli e dei gruppi convinti di essere buoni cristiani, ma rifiutati o estromessi dalle chiese. Capitolo 1 – Gesù e le origini del cristianesimo 1. Gesù di Nazareth Il Vangelo e altri testi dei primi cristiani costituiscono le principali fonti per la conoscenza di Gesù, nato durante il Regno giudaico di Erode (morto nella 4 a.C.) e scomparso sotto Ponzio Pilato intorno al 30. Le fonti cristiane delle origini non appartengono al genere delle cronache o delle storie, ma prodotte sul fondamento della fede nella resurrezione di Gesù, e si proponevano di suscitare fede in lui e nel suo messaggio salvifico. Le testimonianze si concentrarono su alcuni passaggi decisivi della sua vita e furono trasmesse da dapprima oralmente, poi messe per iscritto. La selezione di alcuni testi a partire dal II secolo portò alla formazione di un canone biblico cristiano, cioè un elenco di testi cui si riconobbe lo statuto di depositari della rivelazione divina, che rappresenta un ulteriore passaggio di selezione della memoria. Dalla fine del Settecento si è cercato di distinguere il Gesù della storia dal Cristo nella dogmatica; talvolta si è affermata la convinzione che il Gesù della storia fosse come tali irrecuperabile, ma in altre fasi, come l’attuale, è prevalso l’ottimismo. Sino al recente passato, nella ricerca su Gesù le linee erano dettate dalla teologia che condizionava l’esegesi delle fonti; progressivamente la ricerca storica si è svincolata da precomprensioni dogmatiche e dalla seconda metà del Novecento si sono affermate prospettive legate alla antropologia culturale e religiosa con specifica attenzione allo studio delle istituzioni, nella mentalità e delle forme rituali degli ambienti giudaici in cui vissero Gesù e i suoi compagni. Mentre in passato si insisteva sulla diversità del messaggio di Gesù rispetto a quello della società religiosa giudaica imperniata sul rispetto della Torah (la Legge divina rivelata da Dio a Mosé secondo la tradizione ebraica), negli ultimi decenni sono emerse convinzioni opposte tendenti a ridurre l’originalità dell’insegnamento del maestro di Nazareth rispetto alla pluralità di esperienze e dottrine giudaiche diffuse allora nell’area del Mediterraneo. La questione è importante: dal rilievo attribuito alla novità e specificità dell’esperienza di Gesù dipende in ultima analisi l’effettivo inizio del cristianesimo. Alcuni lo pongono all’indomani della resurrezione, quindi intorno al 30; altri nel II secolo, in quanto solo allora esso avrebbe assunto un profilo chiaramente distinto e contrapposto rispetto alle altre manifestazioni di giudaismo comune. autorevole risalente al I secolo, a Roma fu infine messo a morte, come Pietro, e vi furono entrambi sepolti. Paolo fu, oltre che un instancabile missionario e organizzatore, un teologo di eccezionale acutezza e densità, tra i più autorevoli della storia del cristianesimo. Entrambi questi aspetti sono documentati dalle lettere, scritte a distanza di anni per destinatari diversi e per ragioni contingenti. Delle 14 attribuitegli anticamente, 7 sono attualmente ritenute di sicuro autentiche: La Prima Lettera ai Tessalonicesi, La Prima e La Seconda Lettera ai Corinzi, La Lettera a Filemone, ai Filippesi e ai Romani. 6. Parusìa: memoria e presenza di Gesù nella cena del Signore Per comprenderne i contenuti si deve tener conto delle sue strategie missionarie, delle questioni che gli venivano poste e a cui voleva rispondere, dei destinatari cui si rivolgeva. La più antica della raccolta, La prima Lettera ai Tessalonicesi, degli inizi degli anni 50, tratta della parusìa, cioè della 3 presenza di Gesù che, crocifisso e Risorto, si manifesterà di nuovo nella pienezza della gloria in un tempo assolutamente imminente, tanto prossimo da coinvolgere noi che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore. Il senso quasi febbrile della sua imminenza improntò le attese dei cristiani dei primi secoli. Per Paolo, la memoria di Gesù e l’attesa della parusìa vanno celebrati innanzitutto nella cena del Signore. La più antica e circostanziata testimonianza al riguardo si trova nella Prima Lettera ai Corinzi. Gli atti compiuti da Gesù durante il pasto serale consumato con i discepoli il giorno prima di essere crocifisso vanno considerati come istituti di un rituale, come tale da osservarsi rigorosamente. Esso prevede la presentazione del pane e del vino; la recita di una preghiera di ringraziamento e di lode a Dio; la frazione del pane; l’invito a mangiarlo e a bere vino al calice del Signore, cioè a nutrirsi della carne e del sangue di Gesù Risorto. Dalle istruzioni di Paolo si intuisce che la memoria liturgica dell’ultima cena veniva celebrata a Corinto in una casa privata. 7. Carismi e autorità secondo Paolo Le forme di vita della comunità di Gerusalemme e delle comunità cui sono indirizzate le Lettere di Paolo erano diverse da quella praticata da Gesù e dai suoi compagni: mentre questi avevano condotto vita comune itinerante, le prime ecclesia sono stanziali, formate da uomini e donne generalmente residenti in un luogo determinato, ciascuno a casa propria. La Prima Lettera ai Corinzi presenta una ecclesia percorsa da tensioni e conflitti, poiché alcuni, convinti di aver ricevuto un proprio carisma profetico, tendono a prevaricare sugli altri. Paolo afferma che di per sé tutti i carismi vanno valorizzati, in quanto si tratta di doni dello spirito divino, seguiti al compimento del battesimo: il linguaggio di sapienza e quello di conoscenza; la fede e il dono delle guarigioni; il potere dei miracoli; la profezia, il discernimento degli spiriti, la glossolalia, cioè il saper parlare diverse lingue e la capacità di interpretarle. La lettera regola modalità di preghiera e di comunicazione tra i membri della comunità di svolgimento delle adunanze; il regime è assembleare. 8. La salvezza per mezzo della fede e la scelta divina in virtù della sua grazia Paolo affronta in diverse lettere la questione della novità che la fede nel Risorto comporta rispetto alla fede nel di Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e alla Legge consegnata a Mosè Con quest’ultima ha un rapporto ambivalente. Un passo della prima Lettera ai Corinzi distingue due tipi di Legge: quella mosaica, rispetto a cui Paolo afferma di essere sotto la Legge, e quella messianica, per cui pur non essendo senza la Legge di Dio, è nella Legge di Cristo. La questione ritorna in termini differenti nella Lettera ai Romani, la cui enfasi sulla giustizia e sulla grazia divine va compresa nel quadro d’una polemica contro l’osservanza della Legge come sistema formale e chiuso di precetti, che da solo pretenderebbe di garantire la salvezza a chi li applica. La questione per lui fondamentale è come sia possibile uscire dal peccato e avere da Dio salva la vita. Ciò non può dipendere dalle opere richieste dalla Legge, che non bastano a rendere giusti. È la giustizia divina a giustificare gli uomini per mezzo della fede in Gesù. Solo tale giustificazione divina comporta la salvezza, cioè la redenzione dal peccato e dalla morte. 9. Direttrici dell’evangelizzazione e assetti della comunità 4 Accanto alle ecclesia ricordate, altre erano nate o stavano nascendo, prevalentemente nel grembo del giudaismo. Per quanto si sia cercato di fissare le principali direttrici missionarie della Giudea e della Galilea, molti elementi restano sconosciuti. Testimonianze archeologiche letterarie mostrano che sino al II secolo il cristianesimo prese il piede soprattutto in Siria, Asia minore e Grecia. Le differenze tre teoriche e pratiche tra un ecclesia e un’altra potevano essere rilevanti, anche perché lungo il I secolo e almeno fino a metà del II mancarono forme di governo dottrinale e organizzativo sovraordinate alle singole comunità. Nelle comunità più legate alla memoria di Paolo circolavano già allora sue lettere cui veniva riconosciuto valore autoritativo. La lettera di Clemente, vescovo di Roma intorno 95, rivela l’esistenza a Corinto di figure di spicco nella comunità: presbiteri (anziani) e i vescovi. I termini paiono utilizzati qui come sinonimi: sono le figure incaricate di garantire la retta trasmissione del messaggio ricevuto dagli apostoli. Di fatto, ruoli e antiche funzioni non risultano prefissati, e ciò fa pensare che alla fine del I secolo l’ordinamento comunitario non fosse ancora chiaramente gerarchizzato. 10. Genesi dei Vangeli sinottici: dalla tradizione orale alla scrittura Le comunità volevano conoscere Gesù e apprenderne gli insegnamenti, innanzitutto per farne memoria nelle assemblee di preghiera. Il Vangelo di Marco, generalmente ritenuto il più antico, è stato scritto al più presto verso il 70, a quarant’anni dagli avvenimenti narrati. La distanza temporale non attenua la freschezza della testimonianza, né il suo valore di fonte per la storia di Gesù. Nell’antichità era abituale che il ricordo di parole e gesti di un maestro fosse accuratamente memorizzato dai discepoli poi, per essere conservato e tramandato da una generazione all’altra. Anche i Vangeli dovettero essere prodotti in tale modo, a partire da raccolte di detti e parabole di Gesù, inquadrati dentro cornici narrative variamente modulate, in relazione alla cultura letteraria dei redattori e alle assemblee cui i testi erano specificatamente rivolti gli usi liturgici. I rapporti fra i tre Vangeli comunemente detti sinottici (perché li si può Leggere in sinottiche, cioè su colonne parallele, tanti sono i punti comuni), sono tra i temi più discussi della storia della moderna esegesi biblica. Nel 1838 alcuni studiosi tedeschi indipendentemente l’uno dall’altro avanzarono per la prima volta la teoria delle due fonti, secondo cui il Vangelo di Matteo e il Vangelo di Luca dipendono dal Vangelo di Marco e da un’altra fonte sconosciuta andata perduta detta allora fonte dei loghia (poi fonte Q). Questa ipotesi è grosso modo mantenuta fino a oggi. I Vangeli sinottici attribuiscono a Gesù una profezia apocalittica riguardante gli eventi finali, il cui inizio coincide con la caduta di Gerusalemme, effettivamente avvenuta nel 70. Mettendo a confronto i testi cristiani più antichi e storicamente autorevoli, si nota in filigrana un ricorrente interrogativo, cui essi forniscono risposte differenti: chi era Gesù, chi è il Risorto? Paolo presenta Gesù come il Signore. I sinottici lo indicano ora come il Messia, la figura di liberatore e il redentore atteso dal popolo, sul modello del patriarca Giuseppe e del re Davide, ora come figlio dell’uomo o figlio di Dio: termini che mostrano differenti consapevolezze e comprensioni del mistero della sua identità. Dal punto di vista storico, la pluralità delle formule si spiega tenendo conto dei loro significati nella cultura giudaica nel tempo. Riportati entro un orizzonte dogmatico, divennero motivo di laceranti controversie dottrinali, che dal II secolo contrassegnarono i profili delle chiese. 11. Il Vangelo di Giovanni 5 Il Vangelo di Giovanni si distacca dai precedenti dal punto di vista della genesi e della dottrina. Il prologo rappresenta un passaggio fondamentale per il ripensamento della figura di Gesù. Giovanni lo presenta come il nuovo corso, il Verbo, cioè la parola divina, che era in principio presso Dio e per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza il quale nulla è stato fatto di ciò che esiste. Il prologo segna l’abbandono dell’orizzonte dottrinale ebraico in un punto decisivo. In special modo i libri biblici della Sapienza e dei Proverbi avevano celebrato la sapienza divina come artefice di tutte le cose, in quanto creata da Dio, come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. In tale prospettiva gli ebrei ritenevano che la funzione mediatrice tra Dio e il creato svolta dalla sapienza divina avesse assunto forma storicamente visibile nella Legge. Da parte sua, Giovanni afferma invece che la Sapienza creatrice è il verbo che, pur non perdendo le prerogative divine, si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, rivelando la sua gloria in Gesù Cristo. Come manifestazione terrena della sapienza di Dio, Gesù ha dunque rimpiazzato la Legge. Per Giovanni il 7 Giustino mostra notevole familiarità con la Bibbia. Come quasi tutti i cristiani del secondo secolo, la conosceva nella versione greca detta dei Settanta. Fin dagli inizi questa rappresentò per i cristiani l’occasione primaria di conoscenza e di apprendimento della Bibbia ebraica. Il nome deriva dal numero dei suoi leggendari autori. Secondo la Lettera di Aristea a Filocrate, l’impresa pur realizzata nel III secolo a.C. per impulso diretto del re dell’Egitto Tolomeo II Filadelfo, che si era rivolto al sommo sacerdote di Gerusalemme chiedendogli di inviare ad Alessandria 72 sapienti (6 per ogni tribù d’Israele) per tradurre la fede in greco. Voleva infatti che un’opera di tale importanza non mancasse nella biblioteca di Alessandria. L’opera fu denominata Settanta con implicita allusione ai 70 anziani che accompagnarono Mosè al Sinai di perché vi ricevesse la Torah. Non si sa se la Settanta sia davvero stata avviata per impulso egiziano o piuttosto per volere della florida ed estesa comunità giudaica residente allora in Egitto. L’impresa potrebbe essere nata dalla preoccupazione di mantenere viva la conoscenza delle scritture di fronte al rischio che gli emigrati non comprendessero più l’ebraico; oppure per motivi liturgici o pedagogici; o ancora per esaltare la religione e la cultura ebraiche nei confronti di un ambiente in cui dominavano quelli egizia e greca. Il lavoro fu terminato prima del 116 a.C. Probabilmente si svolse lungo un arco di tempo abbastanza lungo e in ogni caso segnò un coraggioso e decisivo passaggio per l’inculturazione della Bibbia ebraica in un’altra lingua e in altri orizzonti, diversamente da quanto era avvenuto per altri testi sacri, a cominciare da quelli egiziani. Nel corso del secolo scorso si è molto parlato di ellenizzazione del cristianesimo, deprecandola: quasi che il cristianesimo avesse un suo nucleo purissimo presto contaminato che per l’incontro con il mondo greco e la sua cultura filosofica. L’impresa della Settanta mette in luce un fenomeno opposto, non altrettanto considerato: prima della controversa ellenizzazione del cristianesimo vi era dunque già stata un’ellenizzazione dell’ebraismo. Essa consentì di dotare i testi rivelati di registri espressivi più raffinati e complessi, contribuendo a farli riconoscere fuori da ristretti confini etnici; inoltre permise a quanti parlavano greco - lingua dominante fra i ceti alfabetizzati del bacino del Mediterraneo ancora all’epoca dell’affermazione dell’impero romano - di familiarizzarsi con una tradizione religiosa ricca e originale. Di fatto la realizzazione della Settanta rappresentò un fattore di modernizzazione della tradizione ebraica. Concepita e prodotta ad Alessandria, la metropoli mediterranea per eccellenza, punto di incontro di lingue, culture, filosofie, conobbe l’ostilità delle gerarchie sacerdotali di Gerusalemme. Nella Settanta furono infatti inclusi i libri non compresi nella Bibbia ebraica custodita e utilizzata a Gerusalemme. L’ostilità aumentò quando essa fu adottata dai cristiani come testo biblico di riferimento. Per contrastarne l’affermazione, l’autorità rabbiniche ne condizionarono diversi rifacimenti a partire dal testo ebraico. I più celebri furono tra i primi II secolo d.C. ad opera di Teodozione, di Aquila e di Simmaco. Capitolo 3 – mistero divino ed esegesi gnostica 1. Misteri di salvezza Intorno all’anno 200 nei territori dell’Impero dovevano vivere cir4ca 200 mila cristiani, su un totale di circa 60 milioni di abitanti. Un secolo più tardi, i cristiani rappresentavano una cifre compresa tra 8 il 5 e il 10% della popolazione dell’Impero. Le Chiese, modularono l’annuncio di salvezza, imperniato su Gesù, fornendo risposte e orientamenti sulla genesi dell’universo, sulle ragioni del male e della sofferenza, sul comportamento morale e sul destino finale degli uomini. Rispetto ad altri culti il cristianesimo si qualificava per caratteristiche inedite: pur essendo legato alla memoria di una figura umana storicamente di vissuta, promette salvezza eterna; pur mantenendo un profilo a suo modo iniziatico e misterico, per l’assenza di sacrificio visibile, è rivolto senza preclusioni a etnie e ceti diversi. Quest’ultimo aspetto è riconoscibile nella liturgia eucaristica, sul cui svolgimento intorno alla metà del II secolo Giustino opera una testimonianza precisa. I cristiani si radunano dalla città e dalla campagna e leggono «le memorie degli apostoli». Sono quindi portati pane, vino e acqua. Pane e bevande consacrati sono poi distribuiti ai presenti e inviati agli assenti attraverso diaconi; «lo chiamiamo eucaristia (66, 1-2)». La prima parte del rito (liturgia della parola) è aperta a tutti, mentre dalla preghiera eucaristica in poi esso è riservato a quanti sono stati «lavati» nel battesimo. La partecipazione al mistero del pane e del vino presi come Gesù Cristo presuppone quindi l’altro sacramento, nel senso originario di mistero, attraverso cui si entra in una comunità piena con quanti sono già stati liberati dal potere di Satana. Secondo i racconti evangelici, Gesù era stato annunciato alla madre da un angelo di una schiera molto elevata, l’arcangelo Gabriele. L’opera di guarigione dal peccato e dal male presupponeva la liberazione di uomini e donne dagli spiriti cattivi emissari di Satana, l’angelo della luce scacciato dal cielo per aver preteso di rivoltarsi contro l’Altissimo. Nel rito battesimale le invocazioni miranti esorcizzare dal potere di Satana risultano di primaria importanza. Il sacramento ha somministrato a quanti, lungamente istruiti come catecumeni, autorizzati come tali a partecipare solo la prima parte della liturgia eucaristica, erano infine ritenuti idonei a riceverlo. Il rito era celebrato per l’immersione entro una vasca con acqua corrente, in memoria del battesimo ricevuto da Gesù nel fiume Giordano. 3. La sostituzione dei giudei nell’Alleanza: dalla «Lettera di Barnaba» a Marcione Alla metà del II secolo la Chiesa di Roma rappresentava già una delle comunità di maggior rilievo. La tradizione secondo cui a Roma erano stati uccisi gli apostoli Paolo e Pietro rivendicata dal vescovo Clemente nella sua Lettera ai Corinzi, sosteneva il prestigio della Chiesa di Roma, dove in effetti convergevano alcuni dei cristiani intellettualmente più significativi dell’epoca. Intono al 140 Valentino si propone come vescovo di Roma ma non riesce ad affermarsi. Giustino, che a Roma tiene scuola accenna la presenza in città della setta di Marcione, tradizionalmente considerato uno gnostico. In effetti, per quanto si sa, le due posizioni erano in parte simili a quelle dei valentiniani, dai quali si distingue per la pretesa di staccare completamente il cristianesimo dal tronco ebraico da cui era cresciuto. Il confronto sulla Bibbia fra giudei e cristiani del II secolo non si riduce solo alle divergenze in materia di escatologia, apocalittica e messianismo. Nel solco della tradizione paolina prendono forma a quell’epoca orientamenti anti giudaici ben più radicali. Per darsi ragione dell’antigiudaismo va tenuto presente che gli ebrei osservanti marcavano la propria identità etnica trovandone la ragione in Dio stesso. Scelta una via risolutamente monoteistica si erano definiti il popolo scelto, eletto, sancito dalla rivelazione della Legge a Mosè. La loro pretesa di essere un popolo a parte li aveva trasformati in un bersaglio dei pregiudizi: tra questi, l’accusa di essere stati cacciati dall’Egitto perché lebbrosi. 9 Per quanto riguarda il profilarsi di un antigiudaismo propriamente cristiano, occorre partire dalla Lettera di Barnaba. L’attribuzione del testo al compagno di Paolo mirava a conferirgli autorevolezza. Si trattava in verità di un’opera pseudoepigrafica (presentata cioè come opera di un certo autore, mentre in realtà non lo è), prodotta tra il 130 e 132 da un cristiano di Antiochia o Alessandria. Al riparo dell’autorità di Barnaba, polemizza aspramente contro i giudei, accusandoli di non aver mai compreso la volontà di Dio. Quanto all’alleanza tra Dio e il popolo eletto, fu infranta per sempre quando Mosè, sceso dal monte, vide che il popolo si era messo ad adorare un vitello d’oro. Ruppe le varie tavole di legno su cui Dio gli aveva fissato i precetti, e quella rottura segnò la conclusione immediata e definitiva di una alleanza appena iniziata. L’unica alleanza in vigore è dunque quella stabilita da Gesù, il cui sacrificio toglie di mezzo la religione fondata su sacrifici, olocausti, offerte, di cui Dio non ha bisogno. Diversamente da quanto aveva affermato Paolo nella Lettera ai Romani, il sedicente Barnaba esclude i giudei dal piano divino e non apre loro alcuna strada possibile il rientro. La sua è stata perciò definita teologia della sostituzione, in quanto un nuovo popolo ha preso definitivamente il posto del vecchio. Tale linea fu assunta e sviluppata da Marcione sino alle estreme conseguenze. Per lui l’opposizione tra cristiani e giudei era insanabile, in quanto si fonda su teologie antitetiche: il dio degli ebrei non è il Dio dei cristiani. Si tratta di due divinità diverse, che agiscono secondo principi e finalità opposti. I primi adorano il Dio della Bibbia ebraica, il Dio giusto che, dopo aver creato il mondo, ha caricato il popolo del peso della legge. I secondi credono a Dio padre buono, che ha inviato sulla terra Gesù per liberare l’uomo dalla schiavitù della legge. Marcione dunque radicalizza Paolo: mentre questi aveva tenuto un atteggiamento ambivalente nei confronti della legge, che annoverava tra le benedizioni di Israele, Marcione la rigetta, e con essa liquida ogni legge umana come coercizione imposta dal Dio giusto, sostituendola con la libertà del Vangelo. Tale concezione imponeva una ridefinizione del perimetro delle scritture. Fino a quel momento le uniche ritenute dai cristiani sacre, coincidevano con quelle ebraiche. La Bibbia di Alessandria, cioè la Settanta era la Bibbia dei giudei della diaspora e dei cristiani. Con una rottura inaudita, intorno al 140 Marcione propose di abbandonare la Bibbia ebraica, in quanto Scrittura del Dio giusto, e di sostituire ad essa come testo sacro dei cristiani, una raccolta di scritti che di fatto rappresentava un Nuovo Testamento, comprendente per lui il Vangelo di Luca epurato e 10 lettere di Paolo. Ponendo la questione di un canone biblico proprio dei cristiani, Marcione apre una fase nuova nella progressiva acquisizione da parte del anche per contrastare l’autorità di profeti e teologi (gnostici), che pretendevano che solo i propri carismi e le proprie visioni aprissero ai discepoli percorsi di salvezza. Di fatto, dalla metà del III secolo in poi e per diversi secoli i maggiori esegeti e teologi saranno vescovi. Prima che si realizzi questa svolta e si profilano all’orizzonte vescovi che saranno anche grandi teologi, si registrano incertezze e tensioni. La chiesa di Roma rappresenta un osservatorio significativo anche per scorgere tali processi. Nella prima metà del III secolo ne divennero vescovi non teologi di spicco, ma uomini pratici, cui fu riconosciuto prestigio intellettuale solo in seguito e in forza della nomina episcopale: nel 217 Calisto si affermò rispetto al teologo Ippolito, nel 251 Cornelio prevalse sul teologo Novaziano. Capitolo 4 – la condizione dei cristiani nell’Impero: da Nerone a Costantino 1. Nerone, prototipo dell’imperatore persecutore Roma, anno 64. Nerone addossa la responsabilità dell’incendio cittadino all’ecclesia locale e ne fa bruciare alcuni membri. Composta alla fine del primo secolo, l’Apocalisse di Giovanni lascia intravedere quanto terrificante potesse essere allora la percezione di Roma in ambienti cristiani dell’Asia minore: tra gli interpreti del testo si diffuse l’opinione che nella cifra 666 della bestia mostruosa si potesse scorgere il crittogramma di Nerone. Ancora nel III secolo, in concomitanza con le persecuzioni, il ricordo di Nerone come prototipo negativo dell’imperatore anticristiano riaffiora insieme al preannuncio del suo ritorno imminente. In effetti, tra I e II secolo l’atteggiamento dell’impero nei confronti dei cristiani fu più sfumato di quanto potrebbe far pensare la leggenda romana. Nell’impero era presente un’innumerevole varietà di culti, consentiti purché 1 2 non disturbassero l’ordine stabilito dell’autorità imperiale. Il giudaismo avrebbe potuto costituire un problema: il suo culto irriducibilmente monoteistico (non avrai altro Dio al di fuori di me), non era compatibile con il culto semidivino dell’imperatore. Il conflitto era stato evitato grazie all’attribuzione alla religione ebraica della qualifica di religio licita (religione permessa). Per tale riconoscimento è risultato decisivo l’appoggio dei giudei a Cesare nella campagna d’Egitto (48-47 a.C.), in quanto aveva mostrato che il monoteismo ebraico non era di per sé in contrasto con la fedeltà alla causa di Roma. 2. Gli «Atti dei martiri». Chiese, società, donne Il distacco dei cristiani del giudaismo impediva loro di fruire del medesimo trattamento. Si trovarono così esposti al rischio di essere considerati negatori del culto imperiale e come tali sovvertitori dell’ordine stabilito. Nel corso del II secolo i procedimenti giudiziari sono sporadici, dovuti a denunce a volte anonime, non sempre gradite dai funzionari locali, in quanto rinfocolavano conflitti civili. Si ha notizia di processi contro cristiani attraverso resoconti stilati in genere nelle loro stesse comunità. Prodotti a scopi di edificazione spirituale e di propaganda, i testi descrivono storie a volte di violenze, sofferenze e resistenze inflessibili. Nelle società antiche i meccanismi di sostegno sociale erano pressoché inesistenti; poteva bastare una crisi economica con un improvviso rovescio di fortuna per far precipitare i ceti medi fra i diseredati. L’appartenenza alle chiese, ambiti socialmente differenziati, i cui membri più potenti erano impegnati a sostegno dei più deboli, poteva offrire motivi di fiducia. Ricerche su peso e ruolo delle donne nelle chiese nei primi secoli ne hanno messo in luce il protagonismo sia per Paolo sia entro ambienti gnostico- marcioniti e montanisti. Le chiese organizzate monarchicamente attribuirono invece le donne le mansioni e le responsabilità assegnate loro nella società imperiale, compreso il regime giuridico del matrimonio romano. Come dichiara La Prima lettera a Timoteo, dovevano restare sottomessa ai mariti e ancorate alla casa e alla procreazione. Nell’ambito delle comunità le donne svolgevano funzioni diaconali a loro riservate: assistenza al battesimo con l’unzione dei corpi, visite pastorali e istruzioni religiose, accoglienza e coordinamento delle assemblee, viaggi e visite al vescovo. 3. Resistere fuggire? Fin dal II secolo ragioni e limiti della scelta di testimoniare la fede (martirio) fino alla morte furono oggetto di valutazioni diverse. Per gli gnostici la morte del martire è una scelta insensata e da rifiutare, poiché ciò che conta è il destino dell’anima e non del corpo. Viceversa, nell’ambito di movimenti profetico apocalittici qual è quello dei montani, il martirio era esaltato. Per Clemente e Origene il vero martirio è quello affrontato nella lotta interiore con il peccato, il martirio privato costituito o segreto noto solo a Dio. Il dibattito divenne attuale quando l’imperatore Decio (250), e i successori imposero a tutti i sudditi l’obbligo di sacrificare agli dei di Roma. Le imposizioni provocarono reazioni e comportamenti diversi, dalla resistenza estrema a forme di compromesso o cedimento. Il dilemma era se resistere o fuggire. Da parte loro, le autorità miravano non a eliminare tutti i cristiani, ma a indebolire le chiese, togliendo autorità morale ai capi. Esaurite le ondate di persecuzione, le chiese dovevano fare i conti da un lato con quanti erano 1 3 usciti vivi dalla prigionia e dalle torture, dall’altro con i caduti, piegati a sacrificare agli dei. L’ultima grande persecuzione imperiale - dopo il trentennio di tranquillità assicurato dal decreto di tolleranza dell’imperatore Gallieno del 261: che permise il rafforzamento delle strutture ecclesiastiche e altre esperienze religiose si accentuarono, come il manicheismo il cui messaggio ruota intorno al problema del male. Poiché non può provenire da Dio, deve venire dal regno delle tenebre, continuamente in lotta con il regno della luce, che ne subisce violenza. L’ultima grande persecuzione imperiale fu avviata da Diocleziano prima contro i manichei e dal 303 contro i cristiani, e dalle 303 contro i cristiani. Furono uccisi soprattutto vescovi e soldati. 4. Conversione di Costantino. Il cristianesimo, religione permessa L’ostilità al cristianesimo da parte degli imperatori si legava alla loro preoccupazione di fare leva sulle tradizioni religiose di Roma, in vista di una maggiore coesione e stabilità dell’impero. La vicenda attraverso cui Costantino approdò al cristianesimo presenta aspetti non chiariti e margini di ambiguità. Anzitutto se la sua conversione sia stata autentica o meno, ma il problema principale è capire come e perché Costantino si è aggiunto alla svolta, e che cosa abbia significato per lui e per i destini dell’impero e del cristianesimo. Doveva competere con il potente Massenzio, che occupando Roma si era assicurato anche il sostegno degli dei, mentre Costantino, devoto al culto orientale di Elio, aveva bisogno del sostegno di un Dio più potente e universale. Lo incontrò nel Dio dei cristiani. La conversione avvenne prima della battaglia presso Pone Milvio a Roma nel 312. Sconfitto Massenzio, Costantino passò a Milano ed emise un editto nel 313 che ristabiliva libertà di culto e restituiva alle Chiese i beni tolti. Dichiarando l’impero aperto a tutte le forme religiose e scegliendo per sé il cristianesimo Costantino rovesciava la prospettiva di Diocleziano. Si trattava di una scelta lungimirante ma non priva di rischi. Da allora in avanti sarebbe stato il cristianesimo a fornire all’impero il nucleo d’identità che le tradizioni di Roma non erano più in grado di garantire. Costantino si presentò come supremo rappresentante terreno dell’unico Dio, ultimo responsabile dei destini della fede e massima istanza di riferimento per gli apparati ecclesiastici. 5. Il concilio di Nicea Nel 325 Costantino riunì un grande concilio ecclesiastico a Nicea; fino a quel momento nell’impero si erano tenute adunanze dette sinodi dei rappresentanti ecclesiastici dei territori limitati, prevalentemente in oriente. A Nicea si tenne il primo concilio ecumenico (universale), cui parteciparono 300 vescovi provenienti dalle regioni centro orientale dell’impero. Costantino si arrogava la funzione di delegato terreno dell’unico Dio e come tale assunse la presidenza del concilio. La convocazione del concilio puntava al rafforzamento del profilo unitario nelle chiese sul piano dottrinale e liturgico, anche in funzione di un solo utilizzo efficace entro la cornice dell’impero. Il concilio si proponeva come suprema istanza regolatrice e tendenzialmente unificatrice. L’occasione diretta fu offerta dalla controversia dottrinale apertasi ad Alessandria intorno alle concezioni di Ario, prete e teologo, riguardanti la trinità e in particolare i rapporti tra padre e figlio. La questione toccava un aspetto centrale della dottrina della fede. Ario sosteneva che il figlio è simile al padre, ma lo concepiva in quanto sapienza generata dal padre, come gerarchicamente inferiore a lui. Il suo principale avversario in sede di concilio fu il teologo e poi patriarca di Alessandria Atanasio, secondo cui il figlio per quanto generato, è della stessa sostanza oltre ad avere in comune eventuali attività produttive. In esso si strutturano forme specifiche di relazione e di subordinazione tra gli uomini e nuovi modi di accostare la Bibbia, vista in primo luogo come fonte di prescrizioni comportamentali. Per disciplinare strutture del genere occorrono regole scritte condivise, per coordinare l’esistenza fin nei minimi dettagli, riducendo i rischi di comportamenti anomali e contraddittori rispetto alle finalità enunciate condivise. Quando le regole non riescono più a disciplinare i comportamenti, se si cambia. Così Shenute, abate e vescovo nella seconda metà del IV e nella prima metà del V secolo riformò il modello pacomiano fornendo una regola più severa al proprio monastero di Atripe nell’alto Egitto. La forma di vita cenobitica esige che lo sforzo di conseguire la purezza personale estenda dall’individuale al collettivo. La direzione spirituale, cioè l’assunzione della guida di una persona da parte di un altro, viene ad assumere in questo contesto una tonalità diversa rispetto alle origini cristiane. Gesù era stato per i discepoli un maestro di verità e di vita. Nel cenobio tale funzione viene assunta dall’abate; il termine deriva dall’ebraico padre, e come tale l’abate sovrintende alla vita dei monaci, ai loro atti esteriori, così 1 6 come a pensieri e sentimenti. Tale controllo è tendenzialmente integrale, ma non arbitrario, in quanto calcolato alle disposizioni della regola e in vista della perfezione. 6. Conflitti sulla vita ascetica e in Occidente Mentre Atanasio in Egitto e Basilio in Cappadocia promuovevano forme di vita monastiche e ascetiche, in Occidente si registravano lacerazioni e rotture tra gli stessi vescovi. A partire dal IV secolo si profilano in Occidente scelte di vita ascetica da parte di donne, generalmente benestanti, assunte di fatto come modelli di vita cristiana; l’impulso dato da Ambrogio vescovo di Milano alla forma di vita ascetica femminile indirettamente fu utile a sollecitare anche il clero alla continenza sessuale, esaltata come tale proprio da Ambrogio. Fino all’inizio del IV secolo, nessuna disposizione canonica, né in Occidente e in oriente, obbligava a vescovi e preti sposati, che erano numerosi, a rinunciare ai rapporti sessuali. A partire da quest’epoca si vietò a diaconi e preti di non sposarsi dopo l’ordinazione. In Occidente, per impulso specialmente di Ambrogio a Milano, si richiese inoltre ai preti sposati di astenersi dai rapporti con le proprie mogli, vivendo appunto da continenti, come fratello e sorella. Lungo questa via, per i membri del clero e in particolar modo per i vescovi si introduceva un ideale che rimarrà invece sostanzialmente estraneo al clero d’Oriente, dove il concilio di Costantinopoli del 691 stabilì disposizioni (tuttora in vigore) vincolanti al celibato i soli vescovi, mentre ai preti fu lasciata la possibilità di sposarsi prima dell’ordinazione e di avere rapporti con le proprie mogli. 9. Girolamo e la Vulgata Quanto alla Bibbia latina, le versioni prodotte in Occidente a partire dal testo greco della Settanta sono indicati con il nome collettivo di Vetus latina. Verso la fine del IV secolo Girolamo si impegnò a emendare e in parte a rifare alcune versioni allora circolanti a Roma. Egli dedicò alla vita ascetica e a un rinnovato studio intensivo della Bibbia. La sua impresa viene genericamente indicata come la Vulgata. Il termine fa pensare ad un’impresa realizzata interamente da lui secondo un piano organico unitario di produzioni sistematiche dall’ebraico in latino. Al contrario, la Vulgata comprende materiali eterogenei. La versione dei Vangeli risale al periodo romano, 382-85, e consiste nella revisione di un testo della vetus latina su manoscritti greci. Successivamente passò a tradurre dall’ebraico, partendo dal libro dei salmi e dai libri dei profeti, ma non arrivò a tradurre tutto l’antico testamento ebraico. L’importanza della sua impresa è anzitutto nel metodo filologico, mirante a stabilire la hebraica veritas, a comprendere il testo biblico per quello che è, nei suoi effettivi significati letterale e storico. In tal modo aprì una pista importante per il progresso delle conoscenze e degli studi biblici in Occidente, evitando che la comprensione delle Scritture precipitasse in un allegorismo arbitrario. 10. Varietà di forme e tradizioni liturgiche Risale al tempo di Damaso anche l’uso del latino invece del greco nelle celebrazioni liturgiche. In questo caso non si tratta di semplici traduzioni. Tra IV e V secolo le principali chiese dettero vita a specifiche tradizioni liturgiche divergenti su aspetti nient’affatto secondari come l’ordinamento della celebrazione eucaristica e il calendario annuale. In oriente si profilarono due tradizioni liturgiche principali, riconducibili rispettivamente ad Alessandria e ad Antiochia. Le chiese allestirono anche propri testi liturgici: lezionari (codici comprendenti testi biblici selezionati e 1 7 ordinati secondo le letture previste dal calendario dell’anno liturgico), sacramentali (messaggi contenenti solo la parte destinata al prete officiante), e graduali (per i canti). Le trasformazioni liturgiche riguardarono la stessa pratica dei sacramenti; gli unici affermatisi fin dagli inizi sono il battesimo e l’eucarestia. Per evitare la condizione di catecumeni degli adulti, preparati solo dopo un lungo percorso al battesimo, le Chiese introdussero nel IV secolo la pratica del battesimo dei bambini, pienamente affermatasi nel V. Quanto alla celebrazione eucaristica, dal V secolo si delinearono in essa tre fasi fondamentali: la processione di ingresso, l’offerta del pane e del vino con gli altri doni, la comunione. Vi fu inoltre inserito il Padre Nostro, che comportò una profonda trasformazione nella comprensione e nella recezione della preghiera di Gesù. Capitolo 6 – il cristianesimo religione dell’Impero romano 1. L’editto di Tessalonica – Cunctos Populos Il successore di Teodosio assunse due decisioni importanti. Innanzitutto ribadì il rinforzò il legame tra le sorti dell’impero e quelle della Chiesa, proclamando il cristianesimo religione dell’impero e vietando ogni altra credenza religiosa (editto di Tessalonica, 380) Quindi convocò un nuovo concilio ecumenico a Costantinopoli per venire definitivamente a capo della questione ariana. Ne uscì una nuova confessione di fede trinitaria: il credo niceno-costantinopolitano del 381. L’editto di Tessalonica inaugurava una nuova fase della politica di religione dell’impero, di piena intesa con le chiese, sancita dalla decisione di Teodosio di proclamare la domenica giorno festivo. Vescovi e membri del clero si vedono riconosciuta una condizione speciale negli ambiti fiscali, agli edifici ecclesiastici o riconosciuta extraterritorialità giudiziaria e viene garantito il diritto di asilo a chi vi si rifugiava. 2. Carità imperiale e carità episcopale Nella nuova situazione i vescovi furono legittimati e sollecitati per conto dell’impero a sommare alle funzioni propriamente pastorali compiti amministrativi giudiziari, anche relativi alla giustizia penale. I vescovi furono delegati a risolvere tutte le pendenze giudiziarie, dando pubbliche udienze in un apposito edificio e in giorni stabiliti: l’audentia episcopalis. Con il passare del tempo, nei territori imperiali assunsero profili e funzioni di intermediari tra potere centrale e cittadinanze locali. Ai vescovi spettarono compiti di costruzione di edifici, monumenti, prigioni cittadine, come riparazione delle mura, approvazioni di pesi e misure utilizzati nei mercati, nelle benedizioni delle armi nei combattimenti. Veniva così avviato un regime che resterà sostanzialmente inalterato fino all’età moderna: due gerarchie, che si richiamavano rispettivamente al duplice ambito del regnum e del sacerdotium, si trovarono a collaborare insieme e a competere per la determinazione dei rispettivi confini e responsabilità entro uno spazio comune, pubblico e sacrale, secondo forme differenti tra Occidente e oriente. Un aspetto in cui è possibile riconoscere immediatamente punti di convergenza e di potenziale contrasto tra i due ambiti è rappresentato dall’esercizio della carità. Imperatori e vescovi incarnarono le figure del benefattore dei tempi nuovi. Aldilà delle emergenze il dono imperiale si rendeva visibile nel finanziamento di grandi opere pubbliche, occasioni di lavoro e di salario per una manodopera poco specializzata. Il programma costantiniano di costruzioni ecclesiastiche si spiega anche sullo sfondo di tale preoccupazione, mirante a far 1 8 circolare ricchezza. Più ci si allontanava dalla capitale e dai progetti di grandi opere, più la tenuta complessiva delle società cittadine è affidata ai vescovi, impegnati in misura crescente nell’assistenza quotidiana di poveri, anche con nuove e apposite istituzioni, come ospizi per pellegrini e viandanti, case di prima accoglienza, ospedali. 3. Ambrogio e Agostino: due percorsi emblematici Dalla fine del IV secolo le chiese dei territori imperiali assunsero forza crescente, entrando in conflitto con tradizioni religiose romane ed ebraiche e con cristiani dissidenti. La produzione letteraria di Ambrogio vescovo di Milano e Agostino vescovo di Ippona testimonia la circolazione delle dottrine e l’intensità dei conflitti tra intellettuali da un capo all’altro dell’impero. Il cristianesimo si sviluppa grazie anche alla funzione propulsiva via via assunta da determinati centri. Nel IV secolo Costantinopoli si affiancò a Gerusalemme Antiochia e Roma come centro propulsivo nella Chiesa imperiale. Sempre nel IV secolo il centro di irradiazione delle nuove forme bendata, in contrapposizione alla chiesa vedente. Nel 429 Teodosio II incaricò una commissione di codificare il materiale giuridico esistente. Il codice teodosiano contenente le leggi emesse a partire da Costantino, entrò in vigore il 1 gennaio 439. Le leggi in materia religiosa vi sono raccolte nel libro 16. Il codice garantisce l’esistenza della setta dei giudei, ma ne osteggia la presenza nella società. Sono loro consentite le assemblee di culto, sono rispettate le festività e il riposo del sabato. Come per il clero cristiano, anche per i loro sacerdoti e funzionari sono previste forme di esenzione. I cristiani sono diffidati dal convertirsi alla religione ebraica e dal frequentarne le assemblee. I provvedimenti più restrittivi risalgono proprio a Teodosio II. Fra l’altro, stabiliscono che si possano riparare vecchie sinagoghe, ma non costruirne di nuove: una traduzione sul piano normativo della convinzione per cui il culto ebraico apparteneva ad un passato ormai fossilizzato. 7. Grande chiesa contro ariani, donatisti e nestoriani Tra IV e V secolo il consolidamento del profilo comunitario della Chiesa avvenne a prezzo di gravi conflitti, che produssero scismi ed energie. L’episcopato di Ambrogio fu importante anche per il prevalere della linea cattolico nicena su quella ariana. Agostino da parte sua si impegnò contro o scisma donatista. I seguaci del vescovo Donato rappresentavano una componente della Chiesa d’Africa profilatasi dopo la persecuzione di Diocleziano (303-304). Si caratterizzavano per l’atteggiamento intransigente nei confronti dei laps (caduti), cioè dei vescovi che nella persecuzione avevano consegnato i testi sacri e dei cristiani che avevano fatto sacrifici di incenso agli dei. Ritornato in Africa, Agostino assunse la guida dei vescovi contrari ai donatisti più cui rimproverò di pretendere, nella loro aspirazione settaria alla perfezione e alla purezza, dalla realtà presente ciò che gli darà solo nel regno futuro. Se giunse infine a un confronto pubblico nel concilio riunito a Cartagine nel 411. Agostino riuscì a prevalere sui vescovi donatisti grazie al decisivo sostegno del potere imperiale, i donatisti furono condannati e le loro chiese confiscate. Le rotture consumatesi in oriente ebbero portata più ampia e duratura. Nei primi decenni del quinto secolo tra le sedi patriarcali di Alessandria e Antiochia esplode il conflitto per l’egemonia sulla sede di Costantinopoli. Nel 428 fu eletto patriarca di Costantinopoli Nestorio, monaco di Siria legato alla scuola teologica di Antiochia. Cirillo, patriarca di Alessandria, mosse contro di lui pesanti critiche dogmatiche, che prendevano di mira il rifiuto di Nestorio di riconoscere a Maria il tradizionale titolo di theotokos (madre di Dio). Cirillo coniò la formula dell’unione ipostatica, cioè sostanziale, di natura umana e divina in Gesù Cristo, accusandone Nestorio di accentuare troppo in Gesù la componente umana a scapito di quella divina. La lotta dottrinale fu accompagnata e sostenuta da una campagna di propaganda senza esclusione di colpi, per cui Cirillo, che si proponeva come erede e continuatore di Atanasio, non esitò a corrompere pur di prevalere sull’avversario. Così, senza neppure attendere la delegazione in arrivo da Antiochia, il concilio ecumenico di Efeso decretò la condanna di Nestorio e la sua 2 1 deposizione nel 431. La decisione comportò una rottura mai più ricucita con vasti settori del cristianesimo orientale. 8. Il primato del Papa Nei primi secoli, il primato d’onore del patriarca di Roma non comportò l’esercizio di un potere effettivo da parte sua. Dalla fine del IV secolo i patriarchi di Costantinopoli cominciarono a porre in discussione tale primato, ma non riuscirono a piegare la sede romana, il cui vescovo da tale epoca cominciò ad essere designato come papa: dal greco papà titolo inizialmente riferito al patriarchi di Alessandria. Quanto ai rapporti con l’imperatore, Roma faceva parte dei territori imperiali soggetti a Costantinopoli, e tale rimase fino all’VIII secolo. Il Papa era quindi sottoposto alla giurisdizione imperiale attraverso un esarca, governatore, di Italia residente dal 402 a Ravenna. Di fatto era un suddito dell’imperatore. Pur in tale condizione di dipendenza, la sede romana cercò di difendere e consolidare il proprio prestigio e la propria autorità rispetto alle sedi regionali e all’impero. In tal senso risultò determinante il ruolo di mediatore che papa Leone I (444 461), assunse nella confusa fase di tensioni seguita al concilio di Efeso. Leone ebbe un’alta consapevolezza di sé in quanto successore di Pietro ed esaltò il proprio ruolo facendo leva sull’affermazione di Gesù: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa. A partire da Leone I la rivendicazione del primato pietrino contrassegnò il patrimonio genetico della chiesa, sostenuta e celebrata ricorrendo a dottrine esegetiche e teologiche, immagini, simboli e rituali accuratamente conservati e tramandati come parte integrante di una plurisecolare memoria fondativa e legittimante. 9. Il concilio di Calcedonia e i suoi esiti Il dogma cristologico fu definitivamente fissato dal concilio di Calcedonia (451). Gli oltre 500 vescovi riuniti condannarono la dottrina del monofisismo - secondo cui la natura di Gesù è unicamente divina - contro di essa fu eretta a dogma la dottrina «duofisita», termine greco indicante che Gesù, essendo pienamente uomo e pienamente Dio, è dotato di due nature. Alla definizione seguirono ulteriori persecuzioni, rotture e conflitti intraecclesiastici, con esiti gravi per l’unità della chiesa e la tenuta dell’impero. In Egitto e nella Siria romana, la Chiesa mantenne il suo profilo non calcedonese (criticato dalla Chiesa imperiale come monofisismo, cioè attribuzione a Gesù della sola natura divina), con una gerarchia episcopale autonoma e contrapposta a quella riconosciuta dal patriarca di Costantinopoli. Dalla Siria missionari monofisiti passarono in Etiopia. A Calcedonia furono inoltre emessi i primi canoni riguardanti i monaci. Il concilio favorì una forma di vita monastica stabilmente legata ad un luogo, e pese istituzioni e attività dei monaci sotto il diretto controllo economico e materiale dei rispettivi vescovi. Capitolo 7 – l’eredità di Costantino. Vescovi, monaci e sovrani dal V al VII secolo 1. Vescovi e monaci nel dissolversi dell’impero d’occidente Nel dissolversi dell’Impero d’Occidente tradizioni e culti pagani ripresero forza. La situazione ecclesiastica fu subito precaria in Bretagna, dove il cristianesimo era giunto nel III secolo. Dal IV secolo i rapporti tra chiese e società si arricchirono nell’Occidente dell’apporto dei monaci. A volte il termine monastico è considerato sinonimo di benedettino. In verità in occidente e nella stessa 2 2 Italia il monachesimo nacque prima di Benedetto e l’affermazione del modello benedettino avvenne gradualmente non senza contrasti. Il legame con il luogo è consolidato dalla lettura del comune testo sacro, dall’osservanza di regole e consuetudini scritte, dai percorsi di formazione nella medesima scuola claustrale. 2. Benedetto e la sua Regola Negli ultimi decenni la figura e l’opera di Benedetto, secondo la tradizione è nato a Norcia nel 480, sono state al centro di vivaci discussioni storiografiche. Nei Dialoghi (593-594), le tappe principali del suo percorso ascetico sono il ritiro di 3 anni nel fondo di una grotta nei pressi di Subiaco; la creazione di piccole comunità di monaci nella stessa zona; il viaggio verso il monte Cassino. Lasciata la sorella Scolastica, Benedetto fonda sulla cima di esso un vasto complesso cenobitico, sui resti di antichi templi pagani. L’importanza della Regola di Benedetto (ripresa e riscritta in modo più conciso dalla Regola del Maestro), sta nel suo porsi come quella un’equilibrata sintesi, imperniata sulla stabilitas teorizzata da Cassiano e sul rapporto tra maestro e discepolo caratterizzato dal precetto dell’amore reciproche e delle relazioni fraterne, più che dall’obbedienza e dalla sottomissione. Entrambe le regole impongono ai cenobiti di dividersi tra preghiera, attività lavorativa e lettura della Bibbia. L’avvicendarsi di tali attività è rigorosamente scandito dalle sette fasi – ore - della preghiera e dall’obbligo di recitare regolarmente i 150 Salmi nell’arco di ciascuna settimana. Entrambe le Regole danno un valore speciale all’ospitalità, in quanto il povero che bussa alla porta rappresenta Cristo. La Regola di Benedetto ebbe nel Medioevo una diffusione straordinaria (oltre 300 codici). 3. I vescovi patroni delle città Nella Romania invasa dai barbari i vescovi, più che i monaci, ebbero funzione di tutela delle popolazioni locali, assicurando per quanto possibile la sopravvivenza materiale e orale delle città colpite da carestie e assedi. Ciò valse soprattutto per le Gallie, ma non solo: papa Leone I, che nel 452 cerca di convincere gli unni a risparmiare Roma, rientra a pieno titolo nella tipologia del vescovo difensore della cittadinanza. Costantinopoli la propria professione di fede, e solo dopo aver ottenuto l’approvazione imperiale poteva essere consacrato. Nella loro condizione precaria, i papi si adoperarono per accrescere il proprio prestigio internazionale dell’esercizio effettivo del governo pastorale nella penisola. Dopo il breve per dominio ostrogoto, nel 540, Ravenna ritornò in mani bizantini. Da quel momento iniziò la competizione con Roma, che nel VII secolo culminò nella dichiarazione ravennate di autocefalia (autonomia da Roma), e nel 12º secolo si riaccese. Va compresa in questa cornice la composizione dei rispettivi libri pontificali, in cui vennero registrati nomi, date le principali gesta dei pontefici delle due chiese, che anche grazie agli strumenti si riproponevano di sostenere la celebrazione della propria memoria e del proprio prestigio. Tra i due, maggiore notorietà è il liber pontificalis della chiesa di Roma. A partire da un testo dei primi decenni del VI secolo, chierici della cancelleria del Vaticano registrarono via via la successione dei papi, aggiungendovi biografie più o meno dense. Tra i compiti della cancelleria della curia romana vi era la stesura di lettere. Il più antico registro di lettere papali conservatosi, e forse il primo che sia stato allestito, fu quello di Gregorio I, papa da 590 a 604. Uno dei motivi della fortuna della sua produzione letteraria sta nella varietà dei registri che Gregorio padroneggia, a partire da quello di interprete della scrittura, cui si accosta nella convinzione che la comprensione di essa cresca via via nel corso della storia, a mano a mano che ci si approssima alla fine. Da uomo di governo, Gregorio puntò innanzitutto al rafforzamento patrimoniale della Chiesa di Roma. La questione delle origini di uno Stato della Chiesa in Italia, cioè di un territorio sottomesso al governo papale, è storiograficamente discussa. Se oggi si tende a escludere che si possa parlare già per questa fase di un patrimonio di San Pietro, al tempo di Gregorio la Chiesa romana possedeva un vasto patrimonio terriero, in Africa, nei Balcani, in Gallia e principalmente in Italia per un totale di oltre 400 tenute agricole. Il patrimonio terriero era seguito da personale di fiducia dipendente da Roma. Gli amministratori erano tenuti a un rendiconto finanziario annuale e ad aggiornare lo stato delle proprietà in un estratto del polittico (termine comunemente usato per indicare gli inventari dei beni e dei redditi di enti ecclesiastici monastici). Le somme ricevute erano utilizzate per i salari del clero e dell’apparato amministrativo, per pagamenti a cimiteri locali, per la costruzione, monasteri, ospizi, attività caritative. Gregorio fu 2 5 abile ad annotare i legami, appianare i conflitti per via diplomatica, estendere il prestigio della Chiesa romana al di qua e al di là delle Alpi. Fondamentale risultò in questo senso il legame stretto con i longobardi facendo leva su Teodolinda, figlia cattolica del duca dei barbari e sposa del re longobardo Autari e successivamente dell’ariano Agilulfo. Il nuovo re consentì che il figlio di questi ultimi fosse battezzato secondo il rito cattolico. A partire da quest’ultimo si dette un alternarsi di re cattolici e ariani. A quanto afferma lo storico longobardo Paolo Diacono, al tempo del re Rotari in ognuna delle principali città del regno c’erano un vescovo ariano e uno cattolico, ciascuno con la propria cura pastorale dei rispettivi popoli. L’adesione dei longobardi al cattolicesimo romano completata alla fine del VII secolo. 10. Monaci e monasteri doppi in Inghilterra, Irlanda e sul continente Sul piano dell’evangelizzazione Gregorio ottiene risultati soprattutto in Inghilterra, dove inviò nel 596 il monaco Agostino. L’inizio della gerarchia episcopale in Inghilterra è dunque legato all’arrivo di monaci da Roma. Diversamente da quanto era avvenuto sul continente, il profilo della chiesa inglese rimane a lungo contrassegnato dalla sua matrice monastica, che papa Gregorio intendeva aperta al mantenimento di strutture materiali e tradizioni locali compatibili con il cristianesimo. La principale fonte di notizie sul cristianesimo agli inizi dell’VIII secolo è La storia ecclesiastica degli Angli, scritta nel III decennio dell’VIII secolo dal monaco Beda. Come i Dialoghi di Gregorio, anch’essa è ricca di fatti soprannaturali, miracoli e visioni dell’aldilà. La Chiesa di Roma, si preoccupa innanzitutto di trascrivere nella Storia lettere dei papi, specialmente di Gregorio I. Il titolo dell’opera non risponde perfettamente al suo contenuto. L’autore vuole in realtà narrare non tanto la storia degli angli, quanto le vicende della nuova evangelizzazione seguita dal monaco Agostino. Da buon monaco, dedica speciale attenzione alla liturgia. a partire dal VI secolo il monachesimo irlandese è suddiviso nella contrapposizione tra il culto di San Patrizio è quello di Santa Brigida. Una caratteristica comune alle istituzioni monarchiche del VII secolo in Inghilterra, Irlanda e territori della Italia settentrionale sotto il dominio Merovingio è una padronanza di un modello misto, per cui si parla in genere di monasteri doppi: uomini e donne vivevano in prossimità, a volte in edifici distinti, a volte sotto lo stesso tetto, generalmente sotto la guida di un unico superiore, non di rado una badessa. 11. Forme monastiche di penitenza L’arrivo dei monaci irlandesi sul continente comportò una maggiore attenzione alla disciplina dei peccati e alla prassi liturgica, innanzitutto tra monaci, monache e chierici. Fu introdotta la pratica della penitenza frequente e la prescrizione di una pena penitenziale per ogni peccato, anche il più piccolo. 12. La conversazione dei visigoti al cattolicesimo e l’alleanza con i vescovi ibericoromani Anche nella penisola iberica il passaggio dei barbari invasori dalla confessione ariana a quella cattolica ebbe implicazioni sul piano sociopolitico. I primi occupanti, gli svevi, lasciarono l’arianesimo verso la metà del VI secolo. Dopo averli sconfitti (585), i visigoti aderirono a loro volta al cattolicesimo (III concilio di Toledo, 589), con re Recaredo, che mirò alla riconciliazione nazionale nel segno della comune confessione di fede e iniziò la riorganizzazione unitaria del regno intorno alla capitale Toledo. I sovrani visigoti guardavano nella direzione di Costantinopoli, 2 6 tentando di imitare l’imperatore e rivaleggiare con lui. Il progetto di cattolicizzazione dovette misurarmi con la presenza nella penisola iberica di comunità giudaiche ben radicate. Re e vescovi si mossero in una prospettiva unitaria, ma con significative divergenze e oscillazioni. Il trattato isidoriano La fede cattolica contro i giudei inasprì la linea tracciata da Agostino. Isidoro considera infatti la loro disperazione e la loro perdita della libertà a opera di altri popoli come un risultato altamente desiderabile di per sé, almeno fin quando non accetteranno di convertirsi. Dopo la pubblicazione del trattato, il re emise di un ordine di conversione forzata di tutti gli dei del regno. Il quarto concilio di Toledo è solo un parziale passo indietro, ponendo fine alle conversioni forzate gli adulti. 13. Le rotture tra le chiese d’oriente e le ambizioni di Eraclio La Persia si era consolidata nel V secolo una chiesa avversata da Costantinopoli in quanto nestoriana e guardata con ostilità dai persiani, in quanto la religione cristiana era quella del nemico. Sporadiche persecuzioni avvennero durante il regno di Cosroe I, al tempo della guerra con Giustiniano (540-545). Nei primi decenni del VII secolo alcuni cristiani raggiunsero posizioni di rilievo alla corte di Cosroe II (lui stesso vicino al cristianesimo, secondo tradizioni non verificabili). In tale fase, testi cristiani furono tradotti dal siriaco e missionari cristiani siro-orientali persiani intrapresero in concorrenza con missionari manichei spedizioni. Eraclio volle celebrare il proprio trionfo sui persiani nel segno di Costantino. Dal IV secolo il simbolo della croce era stato assunto come motivo fondamentale della propaganda imperiale: era il segno miracolosamente comparso a Costantino prima della vittoria su Massenzio e rinviava alla vera croce ritrovata poi in circostanze straordinarie da sua madre Elena e da allora custodita nella basilica costantiniana di Gerusalemme. Occupando Gerusalemme, i persiani si erano impadroniti della croce (614). Eraclio ne pretese la restituzione e la riportò prima a Costantinopoli e poi a Gerusalemme (629-630). Veniva così ribadito il legame costitutivo tra l’impero e la croce, fondamento e legittimazione del potere imperiale e insieme simbolo della duplice natura di Gesù Cristo (che su di essa aveva patito ed era morto, mostrandovi la propria natura pienamente umana, e non solo divina, come invece asserivano gli eretici monofisisti). Capitolo 8 – l’espansione islamica e la condizione dei cristiani nei territori conquistati 1. Gli arabi, il «Corano» e il cristianesimo Il Corano attribuisce ad Abramo un ruolo di eccezionale rilievo e lo presenta non come un ebreo né come un Nazareno, bensì come un semplice uomo giunto alla fese nel Dio unico; considera Maometto come il più grande e l’ultimo dei profeti, chiamato a proclamare la decadenza del popolo di Isacco dell’imminente sua sostituzione da parte del popolo di Ismaele. Per l’lslam il conflitto per l’eredità si poneva dunque fondamentalmente con l’ebraismo e solo di riflesso con il cristianesimo. Di fatto la religione musulmana riprese numerose usanze ebraiche come il digiuno puntuale, alcune osservanze alimentari, la circoncisione e il riposo settimanale. I musulmani elevarono Gerusalemme al rango di città santa insieme alla Mecca, in memoria del duplice rapimento estatico di Maometto, l’ascensione notturna con cui l’angelo lo aveva portato in volo sul sito del tempio giudaico distrutto, e di lì al cospetto della memoria inaccessibile di Dio. Per comprendere i rapporti costitutivi e conflittuali intercorrenti tra musulmani, ebrei e cristiani occorre tenere presente sia la comune Con il venir meno del ruolo economicamente propulsivo delle città anche la cultura scritta delle antiche élite cittadine si era eclissata, e lo scrivere era diventato pratica quasi esclusiva di cerchie limitate di monaci e di chierici. Nell’Occidente alto medievale la comunicazione orale e la cultura visiva avevano un ruolo di rilievo eccezionale. Il predominio dell’oralità e l’estendersi dei processi di ritualizzazione andavano di pari passo: occorreva che la sacralizzazione del potere avvenisse in forme visibili e teatrali, il cui significato doveva essere efficacemente comunicabile e memorizzabile. La preoccupazione fondamentale comune alle gerarchie era mantenere l’ordo, il rigoroso ordinamento gerarchico che si pretendeva voluto e fissato dal Dio biblico. I riferimenti biblici al re Davide e Giosia attestano il prevalere, presso Carlo Magno e i suoi discendenti, di modelli veterotestamentari. Nella consueta dialettica cristiana tra antico e nuovo testamento, i sovrani carolingi e gli intellettuali cristiani dell’epoca intendevano riportare il nuovo testamento all’ombra dell’antico. Ciò non significava un puro ripiegamento verso modelli ebraici, in quanto la lettura della Bibbia e le liturgie del potere erano comunque passate attraverso il filtro degli autori cristiani dei primi secoli. L’adozione del modello ebraico di popolo e di sovrano enfatizzava l’interconnessione tra ordinamento pubblico e coordinamento ecclesiastico. Come osservò Giovanni Tabacco non ne derivava un’unica gerarchia di poteri, né il costituirsi di due apparati distintamente operanti, bensì un complesso gioco di interferenze reciproche, regolato dal vertice regio, a sua volta condizionato, nell’elaborazione dei suoi modelli e schemi di azione, da tradizioni e influenze 2 9 monastiche e chiericali: un sistema di reciprocità, per cui l’ordinamento ecclesiastico agiva in vista degli interessi de re, venendo però a sua volta potenziato dalla monarchia. 3. Il Papa tra longobardi e franchi L’unzione papale di Pipino segnò l’instaurarsi di un legame di mutuo sostegno tra il nuovo re desideroso di riconoscimento e il Papa che mirava a sottrarsi al potere amico dei longobardi, proprio mentre questi, impadronendosi di Ravenna, lo liberavano dalla dipendenza dai bizantini. In effetti, il papa temeva il completamento dell’espansione dei longobardi nella penisola, che minacciava di ridurlo a semplice metropolitana di una loro chiesa nazionale. Si spiega così la duplice richiesta di intervento dei franchi, che in tre campagne militari dal 754 a 774 annientarono il potere longobardo in alta Italia. L’iniziativa del Papa rientrava nel quadro di una visione ampia e ambiziosa delle proprie prerogative. Di fatto avviò una strategia, da allora coerentemente seguita dalla chiesa romana fino all’età moderna, mirante a contrastare ogni pretesa di unificazione territoriale della penisola italiana e a instaurare rapporti privilegiati con potenze il cui baricentro fosse saldamente al di là delle Alpi. Nell’immediato avviò la costruzione di una propria signoria territoriale nell’Italia centrale, impossessandosi di territori già bizantini. Le 22 città dell’Italia centrale donate da Pipino a Stefano II costituirono l’embrione del patrimonio di San Pietro. L’intesa con la nuova dinastia franca si traduce infine nell’incoronazione di Carlo Magno imperatore per mano di Leone III, avvenuto a Roma nella notte di Natale dell’800. L’atto comportava il rifiuto delle pretese universali dell’imperatore d’oriente. Per giustificare la novità inaudita, Carlo e il Papa fecero leva su di un argomento polemico: l’impossibilità di riconoscere come legittimo il potere di una donna, la allora imperatrice Irene. 4. Missione di guerra per pipinidi e carolingi Un primo effetto della stretta alleanza fra pipinidi e carolingi fu rappresentato da comune impegno evangelizzatore verso territori fuori dai domini dei franchi. Se in passato ci si è limitati a considerare l’evangelizzazione dell’Occidente come frutto della sola azione di figure isolate di monaci, vescovi e santi votati al martirio, la storiografia più recente ha invece messo in luce la cifra missionaria delle stesse imprese militari dei franchi. In particolare il Carlo Magno con tutte le sue campagne annuali in nome della fede cristiana, come rivelano sia le intenzioni dichiarate dal re del muovere guerra, sia le pratiche liturgiche che preparavano e accompagnavano i combattenti alla battaglia (preghiere collettive, processioni rituali, benedizioni delle armi). Ciò valse in special modo per le guerre contro gli avari e le ripetute spedizioni contro i sassoni: concluse da sterminio deportazioni di massa, furono condotte in nome della fede cristiana e con dichiarati intenti evangelizzatori 5. Rinascita come correzione: sovrani, vescovi, chierici e canonici Per indicare la cifra politica, culturale e religiosa della dinastia carolingia si è fatto uso in passato di termini quali rinascita o riforma carolingia, intesa come spinta al rinnovamento istituzionale e culturale. Oggi si tende piuttosto a mettere in primo piano l’intento di disciplinamento e di correzione dei comportamenti e costumi, documentato in primo luogo dalle disposizioni pastorali dei capitolari dei re franchi, emesse in occasioni delle solenni adunanze annuali nelle alte gerarchie del convegno. A tale scopo i sovrani potevano contare sul sostegno di un episcopato, la cui orza 3 0 crebbe notevolmente grazie a loro tra VIII e IX secolo. L’intesa tra Pipino e il Papa, rappresentato presso i franchi da Bonifacio, missionario in Germania e ordinato vescovo nel 722 da papa Gregorio II, comportò la convocazione regolare di concili, volti a disciplinare ed elevare la moralità del clero e renderlo consapevole dei sacramenti che amministrava. Pochi decenni più tardi l’episcopato era talmente potente dada imporre a Ludovico, colpevole di essere venuto meno a propri doveri di sovrano, due umilianti rituali di pubblica penitenza che ne indebolirono fortemente l’immagine e il potere. 6. Le istituzioni monarchiche da Benedetto di Aniane alla fondazione di Cluny Nello stesso periodo il monaco di origine visigota, noto come Benedetto di Aniane dal nome del monastero da lui avviato in Francia meridionale verso il 780, concepiva un disegno di omologazione e centralizzazione delle istituzioni monastiche. Insediato da Ludovico alla guida di tutti i monasteri del regno di Aquitania, benedetto presiedette nell’817 il concilio monastico di Aquisgrana, da cui uscì un capitolare, approvato da Ludovico che stabiliva che tutti i monaci e le monache dell’impero imparassero a memoria la regola di Benedetto. Il progetto di adottare ovunque la forma di vita benedettina non fu immediatamente realizzato, ma la disposizione avviò un percorso di un’informazione in senso benedettino dei numerosi centri ancora sottoposti a regole miste e consuetudini locali. Rispetto a precedenti esperienze monastiche, Cluny si caratterizzò sul piano spirituale per il rigore dell’osservanza della regola di Benedetto e il rilievo dato alla preghiera comunitaria e alla memoria dei morti; sul piano istituzionale per l’adozione di un modello organizzativo nuovo. Il percorso di autonomia di Cluny, nata come una delle tante fondazioni create da privati, e allora in contrasto con i deliberati ancora in vigore del concilio di Calcedonia, secondo cui i monasteri erano sottoposti all’autorità del vescovo locale; ottenne l’esenzione nel 998 che impediva qualsiasi intromissione del vescovo della vita dell’abazia, posta sotto la diretta protezione spirituale del Papa. Le pretese del Papa di esercitare su Cluny autorità e giurisdizione effettive furono limitate sicché l’abbazia poté svilupparsi con il suo peculiare modello. Mentre fino ad allora ogni abbazia era stata una unità a sé stante, legata ad altre dal solo vincolo della comune regola di vita secondo modalità fluide, nella comunità monastica di Cluny l’autorità rimane concentrata nelle mani dell’abate. I monasteri via via fondati facevano capo direttamente a lui oppure erano eletti a priorati e come tali affidati a un priore da lui nominato e deposto. 7. I compiti del sovrano cristiano e la cultura religiosa dei laici I sovrani pipinidi e carolingi si consideravano personalmente investiti, oltre che delle funzioni di comando militare e politica, di responsabilità religiose, disciplinari e culturali nei confronti dei sudditi, secondo un modello di regalità cristiana di cui Agostino, Gregori Magno Isidoro avevano fissato i fondamenti teorici. Abati e vescovi produssero in questo periodo manuali sulle prerogative e responsabilità del sovrano cristiano e sui comportamenti prescrittegli nella sfera pubblica e privata, contenenti anche specifiche indicazioni sui rapporti fra il suo potere e quello dei vescovi. A loro volta i sovrani, d’intesa con i loro consiglieri ecclesiastici, fecero grande affidamento sulla scrittura per l’opera di disciplinamento e correzione. Fino al IX secolo, nei territori già facenti parte della Romania, la lingua latina parlata era normalmente compresa. Dalla fine dell’VIII secolo l’uso della lingua volgare cominciò ad essere raccomandato nella catechesi e nella predicazione. Dal VII secolo la cultura scritta aveva cominciato a perdere diffusione e incidenza tra i laici. La cultura era 3 1 divenuta prevalentemente orale: la conservazione delle antiche tradizioni era affidata innanzitutto giullari, mimi, attori, cantori semplici, che nelle feste e ricorrenze con le loro performance ricordavano fatti personaggi delle saghe romano barbariche. 8. Scuole e apprendimento. Trascrizione e revisione dei testi biblici Per comprendere le scritture e le Scrittura occorrevano scuole. In età carolingia furono fondamentalmente di due tipi: scuole cattedrali (collegate alla chiesa cattedrale sotto la guida del vescovo), scuole monastiche (entro le abbazie, sotto la guida dell’abate). Le prime erano per i chierici, le seconde per i monaci, o meglio per i bambini destinati dai genitori alla vita monastica. Si suppone che gli aristocratici destinati a rimanere laici abbiano potuto frequentare scuole esterne 3 3 fazioni. Pur considerandosi centro della Chiesa universale, la curia romana non rappresentava in verità neppure il centro effettivo di governo delle chiese l’Occidente. L’elezione del papa a opera di clero e il popolo romano comportava che la scelta rispondesse a logiche e schieramenti cittadini. Gli interessi e i rapporti decisivi erano con l’Urbe e con l’area circostante, la curia rimaneva una struttura locale, priva di stranieri. I contatti con i vescovi stranieri erano limitati a rapporti epistolari e viaggi occasionali compiuti a Roma da metropoliti e per ricevere il pallium. Debolezza istituzionale e localismo sono confermati dalla mancata convocazione di concili generali nel periodo tra la fine dell’VIII secolo e gli inizi del 12º. Ottone I e i successori promossero propri candidati, senza riuscire però riuscire a incidere in termini continuativi e profondi. Nessuno dei nove papi succeduti durante il quarantennio, che va dagli inizi del regno di Ottone I alla fine di quello di Ottone III, riuscì a condurre il pontificato tranquillamente: vi fu chi dovette affrontare l’esilio e chi fuggire. L’ultimo della serie fu un Silvestro II insediato da Ottone III. I due coltivarono in accordo il progetto di un rilancio del ruolo universale di Roma. La loro fuga segnò la fine del sogno e la morte di Ottone III la conclusione della dinastia sassone, cui subentrò quella degli Salii Le campagne militari condotte da Ottone I in Europa centrale, coronate dalla vittoria sugli ungari, avevano posto le condizioni per nuove iniziative missionarie ed ecclesiastiche d’intesa con Roma. Per la diffusione del cristianesimo in Europa centrale risultò decisiva la conversione di re locali. Tra 10º e 11º secolo il cristianesimo giunse in Ungheria grazie al matrimonio della principessa bavarese Gisela con Wajik, principe battezzato come Stefano, ha assunto il titolo di re. Nei territori di recente cristianizzazione, Boemia, Ungheria, Danimarca, Norvegia e Svezia, i confini tra cristianesimo e paganesimo rimasero a lungo fluidi e incerti, con frequenti ricadute del paganesimo da parte delle popolazioni appena convertite. Fra i motivi indicati dalle fonti, va considerato il riemergere del timore per gli antichi greci. Così gli antichi culti sopravvivevano spesso accanto alla nuova fede cristiana in forme sincretiche, la cui prolungata permanenza è attestata in Svezia, tra gli slavi occidentali e in Irlanda. La trasmissione della fede avveniva in forme primitive, che puntavano innanzitutto sul battesimo. Anche per le difficoltà linguistiche l’insegnamento catechistico ebbe un ruolo secondario. 2. La chiesa sul territorio: vescovi e campagne di pacificazione Sul piano territoriale da secoli la chiesa era ripartita in province. I metropoliti, dal 10º secolo generalmente indicati come arcivescovi, esercitavano nei confronti dei vescovi della loro provincia funzioni di controllo e di mediazione, in caso di conflitti. Grandezza e il numero delle province variavano dal regno a regno. Il centro del governo ecclesiastico era la diocesi, comprendente cattedrale ed edifici collegati. L’organizzazione non era territorialmente omogenea. La dissoluzione del potere centrale dei franchi occidentali aveva aperto la strada al proliferare di violenze contro enti ecclesiastici e strati indifesi della popolazione. Dalla metà del X secolo vescovi dell’Aquitania occidentale promossero accordi di pacificazione. Il movimento per la pace mirava a tutelare beni mobili e immobili della diocesi e soggetti indifesi come monaci, commercianti, contadini, attraverso la creazione di appositi milizie della pace, composte su base diocesana prevalentemente da cavalieri e popolo, ma anche da chierici. 3. I monaci tra paradiso terrestre è gelosa Gerusalemme celeste 3 4 I monaci l’Occidente si dedicarono allo studio della Bibbia per trovare risposta innanzitutto alle proprie esigenze spirituali e ai propri bisogni terreni religiosi. Dagli inizi del cristianesimo era affermata la pratica di interpretare passi biblici secondo differenti chiavi di lettura e analisi: fondamentali erano il senso storico-letterale, preoccupato di comprendere il significato proprio dei testi e delle vicende narrate; e il senso spirituale, interessato ad attingere significati più profondi, sviscerando i misteri dello spiritus nascosti entro la corteccia della littera. Puntare al significato spirituale di un passo implicava che lo si considerasse dal punto di vista allegorico, morale e anagogico. Tendenzialmente simbolica, mistica e contemplativa, la lettura monastica della Bibbia consolidava prospettive esegetiche fondate su di un rigoroso ascetismo e sul distacco dal mondo, spesso arbitrarie e infondate, ma funzionali alle esigenze di meditazione, edificazione e celebrazione di idealità monastiche. I monaci ebbero pure un ruolo decisivo nella storiografia e prima ancora della trasmissione della memoria del tempo cristiano. Avevano iniziato dell’alto medioevo a scrivere necrologi, trascritti sui calendari dei rispettivi monasteri della ricorrenza annuale dei defunti, per ricordarle nella preghiera del giorno. Negli spazi dei calendari lasciati liberi avevano poi registrato i principali avvenimenti del monastero del territorio. Erano nati così gli annali monastici. Il prodotto letteralmente più alto di questo genere furono le storie dei monasteri, quali per esempio la Cronaca di Monte Cassino dalle origini fino al 1075, anno in cui Leone, monaco archivista bibliotecario, che ne avviò alla stesura: una storia della dell’abbazia e dei longobardi nel mezzogiorno, di cui il monastero fu l’istituzione più importante. Fino al medioevo centrale, i monaci si ritennero assolutamente privilegiati rispetto agli altri cristiani in vista del conseguimento della salvezza. La stessa ripartizione degli spazi del monastero poteva manifestare tale convinzione. L’efficacia della rappresentazione del monastero come riproduzione del paradiso terrestre e come porta di accesso al paradiso celeste è indirettamente comprovata da numerose testimonianze riguardanti laici che, in particolar modo tra XI e XII secolo, scelsero di vivere in prossimità di monasteri, praticando l’eremitismo e vivendo di elemosine. Godevano così del vantaggio spirituale della vicinanza in monaci, che con le loro preghiere e lacrime, considerate come n carisma di Dio, partecipavano dell’esperienza terrena alla beatitudine celeste. Capitolo 11 – la Chiesa romana dell’XI secolo e i suoi nemici 1. Il consolidamento del papato, le campagne di Leone IX che la definitiva rottura con la Chiesa greca Scendendo a Roma per esservi incoronato imperatore, Enrico III, re di Germania, Italia e Borgogna, trovò tre papi tra loro in conflitto. Li fece dimettere o li depose (sinodi di Sutri e di Roma, 1043), e al loro posto nominò papa Clemente II. Rivendicato a sé il diritto di elezione già preteso da Ottone I, Enrico mirava a liberare la sede papale da condizionamenti o intromissioni locali. Dopo Clemente scelse altre due papi, Leone IX e Nicolò II. Leone IX, (1048-1054), si circondò di ecclesiastici, che nel successivo quarantennio assunsero posizioni di comando della Chiesa romana; con lui la Chiesa romana cominciò a realizzare in forme nuove, attraverso le istituzioni di sinodi pasquali annuali nella basilica Laterano e la stabilizzazione dell’Istituto dei legati papali. Dalla metà del secolo crebbe il suo peso sulle altre chiese, che sempre più di frequente si rivolsero al papa sollecitando interventi in situazioni specifiche. A sua volta il Papa si adoperò per introdurre e affermare ovunque l’ordinamento liturgico romano. La linea riformatrice di Leone si espresse soprattutto nella 3 5 campagna contro simoniaci e preti concubinari. Il termine simonia indica sia la pratica di comperare e vendere i sacramenti che, in quanto doni spirituali, non possono essere commerciati, sia la compravendita degli uffici ecclesiastici che abilitano ad amministrarli. Il riferimento originario è a Simone il mago, che aveva cercato di comperare dagli apostoli il potere di imporre le mani, da cui dipendeva il dono dello spirito. Poiché i sacramenti sono strumenti della salvezza divina, la simonia era bollata non solo un peccato di corruzione, ma anche come sacrilegio. La questione che riguardava tutti i grandi chiericali e monastici, in particolare le nomine episcopali per l’ampia dotazione di benefici generalmente connessi a un vescovado. Leone IX cercò inoltre di contrastare i preti concubinari, introducendo il divieto previsto dagli romani di frequentarli. La campagna per la purificazione del clero da contaminazioni mondane raggiunse risultati effettivi e consistenti solo in Italia, Francia e Germania, ma contribuì in modo decisivo a mutare il volto della Chiesa romana e poi nelle chiese d’Occidente. Gli ambienti riformatori romani puntarono a istituire una netta separazione tra clero e monaci da una parte e laici dall’altra. Per loro, la chiesa era innanzitutto e fondamentalmente il suo clero, cui si volevano imporre purezza e disciplina monastiche. Non è da escludere che il diffondersi della celebrazione quotidiana della mensa da parte dei preti abbia contribuito a dare peso a tali richieste, né la diffusa convinzione che traffico di denaro e relazioni sessuali fossero di per sé motivo di grave impunità, incompatibile con la liturgia eucaristica. Il movimento di riforma dunque non solo comportò l’avvio di un processo di laicizzazione della chiesa, bensì piuttosto di monacizzazione del clero e di maggior distanziamento dei chierici e i monaci dai laici, con la conseguente formazione di fusione di orientamenti antiromani e/o anticlericali nei settori della cristianità colpiti dalla nuova linea. Leone IX cercò altresì di consolidare la potenza della chiesa romana sul territorio, contrastando l’insediamento dei normanni nel mezzogiorno. Morto Leone IX, mentre il successore non era stato ancora eletto, a Costantinopoli tre legati si affrettarono a scomunicare il patriarca Michele Cerulario che rispose scomunicandoli a sua volta nel 1054. L’effettiva portata della rottura consumatasi allora e lo spostamento degli equilibri di potere tra chiese d’oriente chiede d’Occidente sono riconoscibili dal confronto tra i concili di cui la chiesa cattolica attribuisce il titolo di ecumenici, universali, in totale 31. I primi otto, da quello di Nicea del 325 a quello Costantinopolitano IV dell’869-870, siano svolti tutti in lingua greca a poi, significa in senso proprio atto di vestizione; in senso lato significa l’atto con cui viene attribuito a qualcuno il potere di disporre di una cosa: di un ufficio o una funzione, un bene oppure un potere su di una collettività. Il trasferimento dell’investitura avveniva in un atto cerimoniale durante il quale il laico, sovrano o Signore che aveva il potere di concederla, consegnava al ricevente doni simbolici. In ambito ecclesiastico il sovrano investiva un vescovo o un abate con anello e pastorale, il signore investiva il parroco della chiesa del villaggio con oggetti come la tovaglia dell’altare, la corda della campana o un libro ecclesiastico. Il diritto del re o del signore di compiere l’investitura poggiava sul fondamento per cui ad essa era unita la concessione di un bene di proprietà del concedente nel caso di chiese o abbazie, oppure di un ufficio svolto per utilità e il nome del sovrano - servizio del re. 4. Il papato del conflitto con Enrico IV In contrasto con la procedura prevista dal decreto del 1059, il cardinale Ildebrando fu acclamato Papa direttamente dal popolo romano. Già principale consigliere di Niccolò II e Alessandro II, ne prosegue la lotta contro la simonia. Al nome di Gregorio VII è tradizionalmente associato il concetto di riforma gregoriana, ma per sintetizzare la sua linea di governo sarebbe più appropriato parlare di centralizzazione romana, da lui promossa e rivendicata in nome del primato del trono di Pietro. Il registro delle lettere papali conservatosi mostra mezzi e modi con cui Gregorio VII perseguì i suoi progetti: ricorso sistematico a legati papali come strumento per affermare e trasmettere decisioni ai vescovi, ristrutturazione delle chiese in senso piramidale, incremento per i chierici delle possibilità di appellarsi al Papa per controversi locali. Il registro delle lettere rileva anche la cura delle relazioni con re e principi cristiani. Il rapporto decisivo fu con Enrico IV, re di Germania, Italia e Borgogna. Esso attraversò periodi di tregua e fasi burrascose: Enrico dovette 3 8 arginare la minacciosa e sempre rinnovata ostilità di principi tedeschi; Gregorio le opposizioni episcopali in Italia e in Germania. La loro lotta fu amplificata dalla produzione della vasta opera di propaganda, di scritti e pamphlet miranti a creare disinformazione e sbandamenti nel campo avverso e a tenere unito e a consolidare il proprio. La prima rottura avvenne a seguito della nomina da parte di Enrico del nuovo arcivescovo di Milano, e da Tedaldo del 1075, sollecitata dai nemici dei patarini ed effettuata senza tener conto della presenza papale che l’investitura regia seguisse la consacrazione episcopale. La richiesta papale metteva in discussione un punto nevralgico dell’ordinamento cristiano della società: nel solco di Umberto di Silva Candida rivendicava l’autonomia e la superiorità del sacerdotium - l’ambito spirituale sotto il potere dei chierici, con alla testa il Papa - rispetto al regnum, l’ambito temporale affidato ai laici. La presenza era inaccettabile per Enrico IV. In una grande assemblea riunita Worms nel 1076 il re accusò il Papa di averlo privato del privilegio paterno di intervento dell’elezione papale, di aver cercato di strappargli il regno d’Italia e di avergli messo contro i vescovi e lo depose; la decisione fu condivisa dai due arcivescovi e 24 vescovi tedeschi presenti. A sua volta Gregorio scomunicò Enrico, lo depose e sciolse i sudditi dal giuramento di fedeltà nei suoi confronti. Una decisione inaudita. a quel punto Enrico, minacciato militarmente dai principi sassoni e abbandonato dall’episcopato tedesco, per non perdere il regno cercò alla riconciliazione con il Papa. La ottenne la Canossa nel 1077 dove fu infine ricevuto dal Papa. La tregua fu di breve durata. Alla seconda scomunica papale del 1080 Enrico replicò dichiarando nuovamente deposto il pontificie e contrapponendogli come proprio Papa l’arcivescovo Umberto, Clemente III. Liberatosi militarmente negli oppositori in Germania, il re allestì qui di una spedizione militare che scese in Italia per regolare definitivamente i conti con Gregorio, entrando trionfalmente a Roma nel 1084. Clemente III, intronizzato a San Pietro la domenica delle palme, procedette immediatamente all’incoronazione imperiale. Gregorio VII, asserragliato in catastali Sant’Angelo, fu liberato dai normanni; trasferito a Salerno vi morì meno d’un anno dopo. Nell’immediato, gli esiti della sua azione di governo furono negativi per il papato e per la stessa Roma. Considerato sulla lunga distanza, il bilancio del suo pontificato va visto in una luce diversa. Secondo uno schema interpretativo avanzato ai primi del novecento che è sopravvissuto fino ad oggi, c’è chi ha voluto vedere Gregorio VII come precursore della moderna laicità occidentale, in virtù della netta distinzione che perseguì tra spirituale e temporale. In verità, la sua preoccupazione di distinguere nitidamente entro l’unica chiesa la funzione del sacerdotium da quella del regnum evitando per quanto possibile interferenza del secondo sul primo, mirava piuttosto a spostare equilibri e a modificare processi decisionali a favore del clero e in special modo del papato. 5. Le iniziative militari contro i musulmani in Sicilia, Spagna e oriente e l’appello papale alla crociata In occidente nella seconda metà dell’XI secolo il dominio islamico nell’area mediterranea subì la perdita della Sicilia e di parte della penisola iberica. Dopo oltre due secoli di dominazione musulmana, il cristianesimo non era scomparso in Sicilia, in Sicilia vivevano soggetti etnici, culturali e linguistici disparati: nuovi dominatori di lingua franco normanna e di liturgia latina, popolazione musulmana di lingua araba e di religione islamica, popolazione cristiana inizialmente di lingua e liturgia greche. 3 9 I normanni si comportarono con prudenza, cercando di tenere in vita antichi insediamenti monastici greci, promuovendo nuovi centri latini e rinunciando a massicci tentativi i cristianizzazione forzata dei musulmani. Nel frattempo in Spagna Alfonso VI di Castiglia entrava militarmente da trionfatore a Toledo (1085): una vittoria emblematica nl quadro della propaganda della reconquista, in quanto Toledo, antica capitale del regno visigotico, rappresentava uno dei centri più vivaci dell’area mediterranea. Vi fu immediatamente ripristinata la sede metropolitana della chiesa visigotica, 1088 affidata al cluniacense Bernardo; i cluniacensi nei decenni successivi ebbero un ruolo decisivo nella riorganizzazione ecclesiastica del regno di Castiglia. Anche in medio oriente la situazione in movimento, ma qui lo scontro in atto pareva volgere a favore dei musulmani. Nei territori sotto dominazione islamica si era affermata la nuova etnia dei selgiuchidi, che sotto l’esercito bizantino avevano occupato buona parte dell’Anatolia, togliendo nel contempo ai califfi del Cairo la Siria e Gerusalemme. A seguito delle richieste di aiuto giunte da Costantinopoli, Gregorio VII aveva vagheggiato agli inizi del pontificato una spedizione n oriente e si era immaginato alla guida di un servito diretto a Costantinopoli e in Terra Santa. La predicazione effettiva della crociata fu proclamata dal successore Urbano II in occasione dl concilio di Clermonrt. Il suo appello ci è giunto solo nella redazione di Roberto Monaco. Si ritiene che le finalità originarie del papa fossero più ampie, puntando nella linea fi Gregorio VII alla liberazione dell’Intero Oriente cristiano dal dominio dei musulmani. 6. La Guerra Santa contro gli infedeli: le spedizioni contro gli ebrei alla conquista di Gerusalemme È interessante notare che Urbano II fece leva sul richiamo alla pace tra i cristiani per tradurlo immediatamente in un appello alla guerra contro gli infedeli. Anche per questo aspetto proseguiva la linea di Gregorio VII, che nel 1080 aveva chiesto a Roberto il Guiscardo di dedicare a una guerra per Dio in giorni normalmente dedicati dai normanni al digiuno e alla pace di Dio. Si è molto discusso ancora di recente rispetto alla crociata. La qualifica di guerra santa esprime bene le motivazioni fondamentalmente religiose di chi vi prende parte ma soprattutto la convinzione che l’impresa sia rispondete al comando divino e rappresentasse una tappa decisiva in vista della parusia. In questo senso il concetto di guerra santa si pone al culmine di uno sviluppo teorico e pratico, comportando la massima sacralizzazione dell’idea di guerra giusta già teorizzata da Sant’Agostino. Di per sé l’appello papale alla crociata non era il primo passo compiuto in ambito cristiano per la sacralizzazione della guerra: basti pensare ai precedenti di Eraclio contro i persiani e di Carlo Magno contro gli avari e i sassoni. La novità sta quindi nel soggetto principale che conferisce alla guerra il suo carattere sacrale: non l’imperatore, ma il Papa, il cui appello si rivolgeva non ai sovrani che in effetti si tennero lontani dalla prima crociata, bensì a popolo e cavalieri. Nella mobilitazione ebbero notevole peso la predicazione della penitenza e la richiesta della disponibilità al martirio. Una propaganda irredentista presentava la terra Santa come il territorio cristiano occupato da infedeli ma destinato ad essere restituito da Dio ai suoi legittimi possessori. A ben vedere il concetto di crociata è di per sé talmente generico e polisemico da poter essere riferito ai nemici più disparati. Dal 13º secolo la concezione del prendere la croce sarà estesa a comprendere oltre che le spedizioni in medio oriente, quelle dei cavalieri teutonici dell’Europa centro-settentrionale, come pure le iniziative ostili assunte da cristiani d’Occidente contro cristiani d’oriente, o dalla gerarchia ecclesiastica contro cristiani disobbedienti ed eretici, a cui venerano 4 0 annoverati gli stessi ebrei. Passati da Costantinopoli, 1097, i quattro contingenti che formavano l’esercito dei crociati discesero la costa siriaca, presero Antiochia e Gerusalemme ed insediarono patriarca latino mentre Goffredo di Buglione assumeva il titolo di primo difensore e custode del Santo sepolcro. Un iniziale tentativo di assunzione dei poteri da parte del patriarca fu sventato e il regno resta nelle mani di principi laici. La conquista di Gerusalemme favorì l’intensificarsi dei pellegrinaggi, mai interrotti prima. 4 2 società del Midi, estendendo la scomunica a tutti coloro che proteggevano e ospitavano gli eretici e invocando l’intervento delle autorità contro di loro. 9. Il potere del papa nei confronti del comune di Roma, dell’impero e degli Stati I papi del XII secolo dovettero misurarsi col numero dei soggetti impegnati a contrastarne il potere a partire dalla stessa Roma, dove l’istituzione del Comune assunse un immediato orientamento antipapale. Nel frattempo si era riaperto il conflitto tra papi romani e sovrano tedesco. Federico Barbarossa intendeva riaffermare le antiche prerogative imperiali sul papato. Alessandro III dovette così affrontare tre antipapi imperiali succedutesi in 17 anni dal 1159 al 1177. Solo inseguito della battuta d’arresto subita nella guerra contro i comuni lombardi alleati del Papa, Federico si rese disponibile a trattative di pace. Sei accendevano intanto i primi gravi conflitti giurisdizionali tra chiesa romana e nascenti Stati nazionali. In Inghilterra Tommaso Beckett era divenuto arcivescovo di Canterbury grazie al sostegno del re, 1162. Dopo aver approvato oralmente le costituzioni regie si rifiutò però di sottoscriverle. In seguito a un incontro con Alessandro III, pretese dai vescovi inglesi un giuramento di fedeltà al Papa. Il suo assassinio nella cattedrale durante la celebrazione dei Vespri per mano di quattro cavalieri della cerchia di Enrico II indusse il Papa a proclamare l’intervento sull’Inghilterra, cioè il divieto per i chierici di partecipare a qualsiasi forma di culto e di liturgia pubblica. Anche questa vicenda drammatica testimonia il crescente processo di centralizzazione romana: rivendicando a sé la santificazione di Tommaso il Papa estendeva il suo potere sulle procedure di colonizzazione, mentre Canterbury ridiventava meta di pellegrinaggio sulla tomba del vescovo-martire. 10. I laici tra opere di carità e predicazione nuova vita L’estendersi nel 12º secolo di nuove forme di vita religiosa ispirati ai modelli apostolici ed evangelici fu notevole. Ovunque in Occidente si registra un coinvolgimento crescente dei laici nella vita religiosa, n primo luogo delle fondazioni assistenziali, patrocinati da soggetti famiglie benestanti. Tali strutture erano perlopiù sotto il controllo del vescovo o delle alte autorità religiose cittadine ma con forme di coinvolgimento nell’amministrazione e nel controllo da parte delle magistrature civili. Mentre nell’alto medioevo i laici impegnati a sostegno della Chiesa erano stati prevalentemente nobili e sovrani, nel rianimarsi delle società cittadine del 12º secolo nuovi profili laicali si delinearono entro ambiti rivendicati come propri da chierici e monaci e questo comportò conflitti di competenza. Gruppi di laici cominciarono a leggere la Bibbia in volgare e a predicarne il messaggio. La questione della parola ai laici insorta nell’ultimo quarto del 12º secolo colse la chiesa romana impreparata. Tra i numerosi gruppi che la rivendicavano spiccavano dei poveri di Lione, movimento di laici legato alla figura di Valdesio mercante che fece tradurre la Bibbia in volgare per meglio comprenderla e divulgarla, volendo vivere secondo il Vangelo. Il III concilio lateranense del 1179 assunse decisioni innovative: stabilì una nuova procedura di elezione del papa, a maggioranza dei due terzi dei cardinali; eliminò il diritto per i laici di possedere delle chiese private; proclama il diritto degli studenti poveri ad essere esentati dal pagamento delle tasse scolastiche; introdusse il divieto di traffico d’armi con i musulmani; creò le condizioni per sradicare i catari dal Midi. 11. La caduta di Gerusalemme e le prospettive della Chiesa secondo Gioacchino da fiore 4 3 Nell’ottobre del 1187 i crociati dovettero abbandonare Gerusalemme, militarmente occupata dai turchi selgiuchidi. Appresa la notizia, il Papa fece immediatamente predicare una nuova crociata, la terza (1189-1192). Il suo peso venne assunto principalmente da Federico Barbarossa, che vi partecipò direttamente trovandovi la morte. L’imperatore era sostenuto da una concezione messianica della figura imperiale, attestata tra l’altro dalla canonizzazione di Carlo Magno. Questa autoconsapevolezza costituì lo sfondo per un’impresa e nel contempo mirava a ristabilire rapporti privilegiati con l’impero di Costantinopoli da una posizione di superiorità e a ribadire l’autorità imperiale sulle emergenti monarchie nazionali e gli altri soggetti impegnati nell’impresa: il re d’Inghilterra, Francia e Danimarca, le città marinare italiane, le Fiandre Brema e Lubecca. La pace infine stipulata tra Riccardo I d’Inghilterra e il Saladino, nel 1192 assicurò al pellegrini la possibilità di accesso ai luoghi santi, ma il risultato raggiunto fu ritenuto insoddisfacente negli ambienti impegnati a tenere vivo il confronto militare con l’Islam. Tensioni, incertezze e speranze di quella fase drammatica sono riconoscibili in controluce nell’opera teologica di Gioacchino da fiore, abate cistercense calabrese legato alla Chiesa romana ma fautore di linee parzialmente divergenti da quelle sostenute da confratello cardinale Enrico di Marcy. Egli concepì una complessa visione della storia, suddivisa in tre stadi successivi parzialmente sovrapposti (del padre del figlio e dello spirito), ciascuno dei quali caratterizzato dal predominio della differente forma di vita cristiana (rispettivamente: laici coniugati e chierici e monaci), e da un differente riferimento alla Scrittura: nel primo caso l’antico testamento, nel secondo il nuovo, nel III iniziato al tempo di San Benedetto e ormai alla vigilia di dare frutti, la comprensione spirituale del duplice testamento. Trasformando la concezione agostiniana della storia, abbandonò l’idea che il mondo fosse in cammino verso la senescenza e preconizzò il suo ringiovanimento. Protagonisti dei tempi finali saranno due nuovi ordini dei monaci destinate da affrontare l’anticristo. Gioacchino esalta il Papa e gli assegna un ruolo messianico. Per questo sollecita la chiesa romana ad avviare un percorso mirante a riguadagnare le chiese orientali della grazia divina e all’unione con Roma e a convertire pacificatamene gli ebrei. Capitolo 13 – il secolo dei frati 1. «Vicario di Cristo» Formatosi a Roma, Parigi e Bologna, eletto papa nel 1198, Innocenzo III operò con determinazione per imprimere nuova forza al primato papale. Diversamente dai predecessori che si definivano vicari di Pietro, assunse infatti il titolo inedito di vicario di Cristo. Egli sottolinea che solamente al papa spetta quella pienezza del potere che Bernardo aveva riconosciuto alla chiesa nel suo complesso. In quanto vicario del Signore, il Papa esercita il suo primato su tutti gli altri vescovi, le cui prerogative sotto il suo pontificato vengono ridimensionate a favore di una maggiore centralizzazione romana: in virtù della plenitudo potestatis limita la dispensa episcopale di concedere le indulgenze, e nella scia di Alessandro III, sottrae ai vescovi o ai legati il controllo della canonizzazione dei santi, che pone sotto la propria esclusiva competenza. Modalità e procedure sono strettamente codificate ed è accentuato il carattere inquisitorio. 2. La strategia della crociata e i suoi esiti 4 4 Nel suo disegno di proteggere la chiesa da ogni sorta di nemici, politici e religiosi, rientrano anche le numerose iniziative militari cui Innocenzo chiama i fedeli. Le più importanti furono le crociate indette contro musulmani ed eretici. Fatta predicare e inizialmente sostenuta dal Papa, allo scopo e nella speranza di recuperare Gerusalemme, la IV crociata (1201-1204) avrebbe dovuto puntare sull’Egitto. Imbarcati su navi veneziane, i crociati furono invece condotti alla conquista della Dalmazia, da poco occupata dagli ungheresi e poi di Costantinopoli. L’occupazione della capitale e dei territori circostanti fu giustificata come necessaria per risolvere una controversia dinastica, al fondo stava il secolare interesse di Venezia a insediarsi, nonostante l’ostilità bizantina, nei principali porti orientali, in concorrenza con Genova e Pisa. Il terreno era stato preparato da tempo: nelle precedenti crociate i normanni e poi Barbarossa avevano già assunto iniziative militari contro Costantinopoli. La conquista di Costantinopoli, con l’instaurazione dell’impero latino d’oriente della capitale e delle regioni circostanti, fu un’impresa strategicamente discutibile poiché indebolì di un pilastro fondamentale dell’assetto del Mediterraneo e dell’oriente europeo. Nell’immediato, il venir meno del potere bizantino in Europa parve aprire prospettive missionarie per la Chiesa di Roma nei Balcani, ma solo i bosniaci passarono al cattolicesimo, mentre rimasero vani i tentativi di romanizzare i serbi e dei bulgari. Il dominio bizantino non era stato d’altronde annientato: in Asia minore sopravvissero piccoli imperi come Nicea che nel 1262 recuperò Costantinopoli e l’impero latino ebbe fine. Dopo aver indetto la crociata, nel corso del tempo il Papa tenne riguardo ad essa un atteggiamento differenziato. La sua prima reazione alla presa di Costantinopoli fu entusiasta, poiché gli parve finalmente a portata di mano la sperata unione con la chiesa greca. Venuto a conoscenza delle circostanze della conquista (il saccheggio della capitale aveva comportato violenze, distruzioni e profanazioni di chiese santuari), ne prende però le distanze, cercando invano di stimolare i crociati a riprendere la via verso la terra Santa. Durante il suo pontificato gli unici risultati militarmente significativi contro i musulmani furono raggiunti nella penisola iberica, i cui re cristiani si coalizzarono e vinsero, inviando degli stendardi a Innocenzo III. caratteristico e assimilabile a questo furono le bizzocche dell’Italia centrale, diffuse a partire dal XIII secolo: donne, ma in misura minore anche uomini, al monastero preferivano forme di eremitismo cittadino, di temporanea o moderata reclusione, unita a pratiche come la questua porta a porta, la visita ai malati, il pellegrinaggio. Va riportata a questi ambienti la genesi della festa del corpus domini, le cui lontane origini risalgono alla visione che la beghina ebbe nel 1208 a Liegi: una lunga ferita, un’ostia e il messaggio celeste del dispiacere di Dio per la mancanza di una festività liturgica dedicata propriamente all’ostia divina. Mezzo secolo più tardi, su spinta dei domenicani, fu creata la festività del corpus domini, promossa da Urbano IV, 1274, a festività universale. Risalgono a tale periodo le narrazioni di miracoli la cui divulgazione contribuì ad alimentare la devozione eucaristica. Il più celebre fu il miracolo di Bolsena, (1263): un prete tedesco dirigendosi in pellegrinaggio a Roma avrebbe celebrato messa dubitando della presenza di Cristo nell’ostia consacrata; subito dopo aver pronunciato la formula della consacrazione, dall’ostia cominciò a scorrere il sangue che cola sulle sue dita sul corporale e sulla tovaglia dell’altare. 7. Dalla prima fraternità di Francesco d’Assisi all’ordine dei frati minori Anche il profilo di Francesco d’Assisi può essere meglio compreso sullo sfondo penitenziale ed eucaristico della stagione del concilio. Figlio di un mercante, trascorse una giovinezza insolente, come la definì il suo primo biografo, Tommaso da Celano. Con un piccolo gruppo di compagni, nella maggior parte originari di Assisi, passò quindi, come altri penitenti dell’Italia centrale, a pregare e frequentare chiese, vivendo poveramente, lavorando, presentandosi con un augurio di pace. Francesco e i compagni, recatisi presso la curia papale, ricevettero da Innocenzo III, presente il vescovo di Assisi, il permesso di verificare la penitenza. Si realizzava così il primo riconoscimento, inizialmente orale, da parte dell’autorità romana di una fraternità improntata da alcune delle istanze di riforma avanzate fin dall’11º secolo: sequela di Cristo nella povertà volontaria, abbandono di ogni ricchezza, 4 7 predicazioni laicali, vita penitenziale imperniata sul lavoro manuale, preghiera e devozione eucaristica. I rapporti di Francesco con la gerarchia non furono in realtà facili, come rivelano diverse testimonianze biografiche. In particolare quelle sedimentatesi entro la cerchia di frate Leone e di altri compagni della prima ora documentano le tensioni con Ugolino, cardinale d’Ostia, divenuto poi papa Gregorio IX (1227-1241), il quale, fungendo da protettore della fraternitas, si impegnò energicamente a superare le resistenze di Francesco e a incanalare la fraternità entro il solco della disciplina e della normativa romane. Nonostante passaggi conflittuali, non si giunse mai alla rottura. Alla sua scelta di vita penitenziale, legò presto Chiara di Assisi (1212) e la comunità delle sue compagne, che nei pressi di Assisi perseguivano gli stessi ideali evangelici. Nel 1219 Francesco partì per l’Egitto, dove i partecipanti alla V crociata avevano iniziato l’invasione progettata in occasione della IV crociata e fu ricevuto dal sultano Malik al Kamil. Tornato in Italia rinunciò alla guida effettiva della fraternità continuando ad essere considerate punto di riferimento esemplare e carismatico. La fraternità aveva assunto nel frattempo il profilo giuridico e istituzionale di ordine dei frati minori, sottoposto come tale a una regolamentazione tendenzialmente analoga a quella degli ordini monastici esistenti, a partire dall’introduzione di un periodo di noviziato per chiunque volesse accedervi. La regola definitivamente approvata da Roma con la bolla pendente, resta evidente l’impronta della sua scelta radicalmente evangelica, ma risente anche del compromesso che dovette raggiungere con le istanze romane di inquadramento dell’ordine. In seguito ad esso Francesco si sentì infine chiamato a ribadire nel Testamento la fonte divina della propria vocazione gli elementi fondamentali del suo modo di intendere la sequela di Cristo. A meno di due anni dalla morte, Gregorio IX lo proclama santo, con una procedura eccezionalmente rapida. Era un riconoscimento altissimo per lui e una dichiarazione di fiducia verso un ordine. I frati minori, comunemente indicati oggi come Francescani, si insediarono lungo le grandi vie di comunicazione e nelle città, inizialmente fuori le mura e poi all’interno di esse. Dedicandosi alla predicazione e alla confessione, non rispondeva a richieste da tempo circolanti e cui erano state fornite risposte inadeguate. L’inserimento nelle società cittadine fu facilitato dallo stile di itineranti e di povertà e dall’annuncio di pace evangelica e di pacificazione civile. Superata la fase iniziale, caratterizzata dai ricoveri in chiese abbandonate, ospizi, abitazioni messe a disposizione da sostenitori, si passò a conventi stabili, con annesse chiese. Il complesso più grandioso fu eletto ad Assisi sulla tomba del santo. La strutturazione territoriale avvenne per province; il governo fu affidato a una gerarchia piramidale culminante nel ministro generale, in diretto contatto con il papato. Lo stringersi e il consolidarsi dei legami con i ceti cittadini emergenti furono facilitati dalla stessa composizione sociale dell’ordine, ampia e differenziata. Nella seconda metà degli anni 30 del secolo i frati minori si affacciarono infine al mondo delle università, dove già erano arrivati i domenicani. Ne derivò una trasformazione della cultura dei vertici: si affermarono teologi, giuristi e letterati, mentre i frati un umbri delle origini rimasero appartati e sullo sfondo. 8. Nuovi ordini religiosi tra predicazione e politica Nel frattempo la Chiesa romana aveva costituito in ordini altre esperienze comunitarie sorte nei primi decenni del secolo: insieme al frati minori e ai domenicani, agostiniani, carmelitani e servi di Santa Maria costituirono nel complesso gli ordini mendicanti, detti così perché la scelta della povertà volontaria e quindi della mendicità ne rappresentava il contrassegno. Nelle città il dominio della parola, assicurato dalla retorica, aveva assunto un rilievo pubblico precedentemente 4 8 sconosciuto. Le élite cittadini e le loro magistrature, (retori, consoli, potestà), legavano la loro funzione all’esercizio pubblico di essa. I frati entrarono in competizione con loro, da una parte cercando e divulgando nuove forme di retorica e di predicazione religiosa, dall’altro sottoponendo i discorsi e il linguaggio degli altri al proprio controllo, attraverso la disciplina morale dei peccati della lingua. In particolare i frati minori svolsero una vasta opera di propaganda e di mobilitazione del papato contro l’imperatore Federico II, inizialmente affermatosi con il sostegno di Innocenzo III e incoronato a Roma nel 1220 da un Onori III. Le prime tensioni si ebbero con il successone Gregorio IX. Decisosi infine a partire per la crociata in cui il Papa lo voleva impegnato, Federico ritornò immediatamente, adducendo un’epidemia che aveva colpito la spedizione; il Papa quindi lo scomunicò nel 1227. Il ritorno di Federico in Italia comportò nuovi conflitti, come la seconda scomunica papale del 1239 e la convocazione di un concilio anti imperiale a Roma, fallito per la cattura da parte della flotta imperiale di uno siculo pisana di numerosi prelati durante la traversata da Genova a Civitavecchia nel 1241. Il cronista francescano Salimbene da Parma offre nella sua Cronaca un quadro dettagliato ed incisivo delle iniziative antifedericiane dei frati. Federico praticò una strategia di rottura del mondo ecclesiastico, facendo leva su privilegi e donazioni a favore di abbazie e conventi. Negli anni 40 del secolo parte della dirigenza domenicana gli era ancora favorevole; il suo legame più duraturo operato con i cistercensi. La potenza imperiale cominciò a incrinarsi dopo la convocazione a Lione, sotto la protezione del re di Francia, di un concilio ecumenico da parte del nuovo papa Innocenzo IV, che depose Federico nel 1245. Nel quadro del conflitto, Innocenzo IV, giurista di formazione, giunse a teorizzare l’illegittimità di qualsiasi potere che non si fondi su Cristo passando attraverso il riconoscimento previsto papale. In questa prospettiva il potere dei sovrani non cristiani è in quanto tale illegittimo. In tal modo Innocenzo IV ampliava oltre i confini della cristianità le prerogative rivendicati dal Papa in quanto vicario di Cristo, teorizzando che in linea di diritto ogni creatura dotata di ragione gli è sottoposta. 9. I conflitti tra clero secolare e nuovi ordini religiosi I rapporti tra gli ordini fecero registrare nei primi decenni anche reciproche rivalità. Come si legge nella cronaca di Salimbeni, motivi di autocelebrazione da parte degli uni venivano non di rado fatti propri dagli altri, in apparente concorrenzialità. Famosa in questo senso l’appropriazione del motivo del sogno papale del Laterano cadente: l’edificio sorretto da Domenico nella rappresentazione scolpita sul monumento sepolcrale di San Domenico a Bologna, è sorretto invece da Francesco nel successivo è ben più celebre affresco giottesco della basilica superiore di Assisi. Li univa invece la lotta contro un comune avversario: il clero diocesano, la cui rilevanza pastorale, la potenza sul territorio e la stessa raccolta di offerte ed elemosine era minacciata dalla crescente presenza dei frati, abili nella predicazione ed estranei alle istituzioni diocesane. Il terreno più aperto di lotta divenne l’università, dove i mendicanti continuano sforzi notevoli per affermarsi. La resistenza dei maestri secolari fu particolarmente tenace a Parigi, dove proseguì anche nel trecento. Nella controversia due diverse ecclesiologie venivano alla luce, contrapponendosi: per i secolari la chiesa è un corpo gerarchicamente ordinato, in cui ciascun membro nell’esercizio delle sue funzioni deve far capo al membro che lo precede; per i mendicanti è un corpo completamente subordinato al Papa, suo capo. I secolari tenevano fermo il ruolo dei vescovi in quanto successori degli apostoli, i mendicanti esaltavano con vigore l’assoluto primato del Papa in quanto successore di Pietro. 4 9 10. Gli eretici nella stretta di impero, Chiesa romana e nuovi ordini. A pochi anni dagli inizi, gli ordini dei frati predicatori, dei frati minori e successivamente dei carmelitani ricevettero dal papato la missione di inquisire gli eretici, ancora ben radicati soprattutto in Francia e in Italia centro-settentrionale. Contro di loro si intensificò innanzitutto l’azione La richiesta di intervento contro i discendenti di Federico I, che il Papa rivolse alla monarchia francese, ebbe conseguenze di lunga portata per la penisola e per la stessa chiesa romana. Carlo d’Anjou, fratello di Luigi IX, sconfisse gli svevi in Italia e trasformò il Mezzogiorno in dominio angioino. Quasi subito però la Sicilia fu occupata dagli aragonesi e il papato fu quindi coinvolto nel conflitto tra Angioini e aragonesi. Tuttavia la continuità del legame con la monarchia francese, nonostante aperture tattiche agli aragonesi, è testimoniata dalla scelta tra il 1275 e il 1281 di tre papi 5 1 francesi Clemente IV, Innocenzo V e Martino IV; vi fu invece una temporanea rottura con Bonifacio VIII (1294-1203), il cui conflitto con il re Filippo IV il bello si risolse in un ulteriore rafforzamento della pressione francese sul papato. Tolto il titolo cardinalizio a Giacomo Colonna e al nipote Pietro, Bonifacio indisse contro di loro la crociata, ne distrusse le fortezze e ne ottenne la sottomissione (1298). Successivamente entrò in conflitto con i re di Francia e d’Inghilterra, che avevano bloccato i trasferimenti a Roma della decima papali, cioè della quota calcolata sul valore del capitale fondiario, raccolta presso i chierici dei loro paesi e inviata alla curia romana per le sue necessità. A tale conflitto di natura finanziaria si sommarono contrasti su importanti nomine episcopali. Nella unam sanctam (1302) il Papa ribadì infine la plenitudo potestatis universale di cui si riteneva depositario. La sua indizione del primo giubileo va compresa anche sul fondo di questa altissima coscienza di sé. Proclamando l’anno santo per il 1300, Bonifacio estese dell’indulgenza plenaria dai peccati commessi a chiunque, purché confessato e pentito, si fosse recato a Roma entro l’anno per visitare le basiliche di San Pietro in Vaticano e San Paolo. Santificando in questo modo la chiusura del secolo, si recuperarono diversi elementi della religiosità popolare come il pellegrinaggio, il culto dei santi, dell’indulgenza legata a un santuario. Il nesso tra giubileo e indulgenza fu poi definitivamente fissato da Clemente VI che, dimezzando la cadenza secolare originariamente prevista, anticipò il secondo giubileo al 1350. Nella bolla di indizione del 1349 ribadì quanto già precedentemente fissato dalla unigenitus dei filius del 1343, primo documento papale che illustra in modo sistematico la dottrina delle indulgenze affermando che la Chiesa può offrire indulgenze a favore dei vivi e dei morti, in quanto attinge al sovrabbondante tesoro dei meriti accumulati da Gesù Cristo e dalla vergine. Il giubileo, come peraltro la crociata, garantiva l’indulgenza plenaria, cioè l’eliminazione di ogni debito nei confronti di Dio. Tale remissione dei peccati poteva essere acquisita solamente a sconto anticipato delle proprie pene che il penitente avrebbe dovuto affrontare dopo la morte. Solo dal 1473 in poi si stabilì che le indulgenze potessero essere acquisite anche se vivi a vantaggio dei defunti in modo da ridurre la permanenza delle loro anime in purgatorio. La plenitudo potestatis di Bonifacio VIII non resse alle circostanze: nel 1303 un gruppo di armati capeggiati dal cancelliere di Filippo il bello irruppe nel palazzo papale di Anagni e tenne per breve tempo in ostaggio il Papa che morì poco dopo l’oltraggiosa aggressione. Dopo il breve pontificato di Benedetto XI e al termine di un conclave controverso, fu eletto l’arcivescovo di Bordeaux, Clemente V (1305-1314) che trasferì la sede papale ad Avignone, dove rimase stabilmente per settant’anni dal 1307 al 1377. Il papato era ormai entrato pienamente nell’orbita del sovrano francese. Il passaggio della sede papale ad Avignone è stato a lungo inteso come fattore di rottura e segnale di crisi nel percorso storico della Chiesa romana. Dalla fine del 13º secolo la curia papale aveva incominciato a intervenire su nomine ecclesiastiche di ogni grado, avocandosi alla morte dei titolari benefici ecclesiastici legati a chiese e enti anche minori da ridistribuire dietro compenso. Il meccanismo beneficiale esigeva un sistema di controllo capillare ed esteso, con forme codificate di scrittura, archiviazione e contabilizzazione dei dati. Nel secolo precedente le carriere ecclesiastiche erano avvenute lungo percorsi principalmente familiari e parentali. 2. La predicazione in volgare Nel XIII secolo fortemente innovative erano state le università, in primo luogo le sedi di Parigi e di Oxford, e gli studia generalia (centri di studi superiori riservati ai membri degli ordini mendicanti, 5 2 spesso collegati alle università); nel XIV secolo nuovi centri di vita intellettuale e religiosa fiorirono in Italia settentrionale, Provenza, fino a Strasburgo e Colonia. Questa dislocazione fu connessa al rilievo assunto dalle lingue volgari anche negli ambiti tradizionalmente riservati al latino. L’uso delle lingue volgari comportò semplificazioni concettuali, ma conferì maggiore intensità comunicativa ai testi, strumenti religiosi di crescente partecipazione al sapere religioso. Le prime tracce del passaggio dall’omelia (genere di tradizione patristica e monastica) al sermo modernus risalgono già al XIII secolo. Mentre l’omelia ha per oggetto un passo della Scrittura, il sermone moderno si concentra su di un singolo versetto, il “tema”. Il nuovo impianto vede la sua rigidezza strutturale alleggerita dall’inserimento di exempla, ingredienti letterari diffusi sin dal XII secolo, inizialmente per opera dei cistercensi: racconti istruttivi. Accanto ai repertori di exempla, le biblioteche dei predicatori comprendevano raccolte di distinctiones, cioè di parole chiave tratte dalla Scrittura e interpretate secondo i tradizionali quattro sensi: concordanze bibliche, strumenti esegetici, artes predicandi – cioè manuali di istruzioni su tecniche e gestualità della predicazione –, raccolte agiografiche. Ciascun predicatore disponeva di raccolte di sermoni già pronti per le ricorrenze dell’anno liturgico. Il peso assunto dalla predicazione nella cultura religiosa divenne tale, che la stessa trattatistica teologica assunse come modello i sermoni, ponendo a tema però non singoli versetti biblici, ma singoli articoli del clero, oppure virtù teologali (fede, speranza, carità) o vizi capitali (ira, superbia, invidia, lussuria, accidia, gola, avarizia). La redazione finale dei sermoni del XIII secolo e di una buona parte di quelli del XIV ci è pervenuta in latino; ma non pochi dovettero essere predicati in volgare. Il predicatore disponeva a volte di reportationes, trascrizioni delle prediche. In linea di principio, il predicatore parlava in chiesa. Dal Duecento le chiese sia cattedrali sia conventuali si erano arricchite del pulpito: un balcone costruito in genere nella zona centrale della navata, a ridosso di un pilastro, da cui era arringata la folla, ripartita in uomini e donne grazie ad un divisorio (poteva essere anche un panno di stoffa). Se la chiesa non bastava per il sermone, ci si spostava nella piazza antistante. 3. Teologia in lingua volgare: Margherita Porete e la condanna delle beghine Dall’ultimo scorcio del Duecento di moltiplicarono in Occidente i percorsi di vita e di perfezione cristiani lontani dalle mediazioni pastorali consuete. Il concilio di Vienne condannò nel 1312 «certe donne, dette volgarmente beghine, che non promettono obbedienza a nessuno, non rinunciano alle cose proprie, non vivono affatto da religiose, sebbene portino un loro abito (detto delle beghine) e siano strettamente unite ad alcuni religiosi». La loro condizione fu, dal concilio, «proibita per sempre e completamente abolita sotto pena di scomunica». Quanto ai religiosi – prevalentemente domenicani e francescani – direttori spirituali delle beghine, furono a loro volta minacciati di scomunica se avessero continuato a frequentarle. Le esperienze non regolate delle beghine cominciarono quindi a ridursi. 4. Eretici e inquisitori Da tempo gli spirituali minoriti avevano chiesto di essere riconosciuti come congregazione sottoposta alla stessa Regola dei frati minori, ma sottratta alla gerarchia dell’ordine. Il Concilio di Vienne si limitò a sollecitare l’ordine ad una più rigorosa osservanza della Regola; tuttavia le 5 3 lacerazioni erano divenute insanabili, e in Toscana si giunse addirittura a temporanee occupazioni di conventi da parte di spirituali, che cacciarono i membri della parte avversa, la cosiddetta “Comunità” (1313). Giovanni XXII impose a tutti i dissidenti di area spirituale (genericamente detti “fraticelli”) di rientrare sotto la disciplina dell’ordine, ma incontrò forti resistenze. Focolai di resistenza covarono a lungo in Provenza, in Catalogna e in Italia centrale: si trattava di comunità di frati e di laici fautori di una Chiesa povera e fortemente polemici contro le decisioni papali. Le puntigliose registrazioni delle attività compiute dagli inquisitori rivelano che anche le eresie di più antica data erano ben lungi dall’essere state annientate: giunti verso il 1300 alle sponde del Baltico, predicatori itineranti catari percorrevano l’Europa centrale. Ricerche degli ultimi decenni hanno mostrato che tra XIV e XV secolo i valdesi furono non meno attivi in Italia, Francia e Borgogna, subendo massicci processi miranti al loro completo sradicamento. Ormai il quadro della lotta contro gli eretici era stato fissato sul piano giuridico e organizzativo. Dal XII secolo il termine eresia era riferito ad un’ampia gamma di posizioni di diversa consistenza teorica e organizzativa. In quanto disobbedienti alla Chiesa romana, gli eretici erano quasi sempre considerati membri di una secta e ciascuno di loro era ritenuto un servitore del Diavolo. In sostanza, a partire dalla normativa di Federico II, l’eretico andava colpito indipendentemente da suoi comportamenti criminosi, effettivi o presunti. Il Libro delle Sentenze dell’inquisitore Bernardo Gui, intellettuale domenicano, mette in luce le fasi e gli esiti del lavoro inquisitoriale, sottoposto ad una normativa rigorosa ma a suo modo garantita, che prevedeva un’attenta verifica di denunce e accuse, colpiva gli eretici solo in caso di “ricaduta” e non escludeva margini discrezionali di clemenza nei loro confronti. La procedura culminava nella proclamazione della sentenza, seguita da un “sermone generale” tenuto dall’inquisitore stesso: una rappresentazione pubblica che segnava il passaggio dalla fase del processo a quella della penitenza. Alle condanne seguivano infatti le abiure e le pene: fra le più comuni, l’obbligo di cucire sulle vesti una duplice croce gialla (una davanti e una dietro), da portare ovunque, anche a casa, fino al compimento della pena. Quest’ultima manifestava nel modo più visibile l’esclusione dalla comunità civile e religiosa. Il carcere poteva essere largo (con l’ora d’aria) o stretto (in ceppi, a pane e acqua). Nella sua funzione di inquisitore di Tolosa per un quindicennio, Bernardo Gui condannò in tutto 636 inquisiti tra catari, valdesi, spirituali e beghini. Nei confronti degli inquisitori si registrarono numerosi tentativi di resistenza organizzata. ai modelli di organizzazione corporativa e di collegialità affermatisi nelle università. In mancanza di una iniziativa dei contendenti, occorreva stabilire chi avesse l’autorità di convocare il concilio. Non si fecero passi avanti per circa vent’anni. Finalmente i cardinali romani, riuniti in conclave per eleggere il loro nuovo Papa alla morte di Innocenzo VII, assunsero il reciproco impegno che, chiunque fosse stato eletto, avrebbe convocato il concilio. Poiché il nuovo papa Gregorio 12º (1406) non si attiene ai fatti, cardinali delle due parti convocarono autonomamente un concilio a Pisa. A loro volta, Gregorio 12º e il rivale avignonese Benedetto XIII convocarono propri concili rispettivamente a Cividale e Perpignan. Il concilio di Pisa (1409), si propone come supremo organismo giudicante del papato, per attestare pubblicamente la condizione di due sedicenti pontefici, che con i loro comportamenti si erano palesemente macchiati di eresia: se ne stava così entro la tradizione ecclesiologica e canonistica romana e medievale, che prevedeva la possibilità per il concilio di deporre un Papa eretico. Dichiarati decaduti i due contendenti, elesse Alessandro V, che di fatto fu solo un terzo attore affiancatosi sulla scena ali due precedenti, per nulla disposti a ritrarsi. Alla sua scomparsa, la linea pisana fu proseguita da Giovanni XXIII (1410-1417), che indisse contro gli avversari la crociata, raccogliendo fondi e assicurando indulgenze e si decise infine a convocare un nuovo concilio a Costanza nel 1414 che avrebbe dovuto rispondere alle esigenze generali di riforma della Chiesa. La questione di fondo, che progressivamente si impone, era la reformatio ecclesiae in capite et membris, cioè la riforma complessiva e strutturale della Chiesa intera, a partire da i suoi vertici. Il concilio delineò un progetto di governo ecclesiastico più partecipato e condiviso, da sottoporre a periodiche verifiche collegiali. È su questo sfondo occorreva affrontare due situazioni fortemente conflittuali: da una parte il movimento ecclesiastico di riforma boemo, capeggiato da Jan Hus, percepito come eversivo; dall’altra lo scisma dei tre papi e la questione del papa legittimo. 2. Il movimento riformatore tra Inghilterra e Boemia La genesi dell’hussitismo va compresa in relazione ai precedenti predicatori popolari, sia all’aprirsi degli ambienti universitari a nuove dottrine ecclesiologiche e politiche provenienti dalla Francia e soprattutto dall’Inghilterra, sullo sfondo della Praga imperiale che Carlo IV aveva concepito come una nuova Roma, sede arcivescovile dal 1344, e universitaria dal 1348, affollata di docenti e studenti stranieri. Dalla metà del 14º secolo si erano profilati in Boemia predicatori il cui 5 6 messaggio, incentrato sulla denuncia della simonia di chierici e frati e su appelli alla penitenza e alla devozione. Il movimento riformatore boemo, partito dall’università, mostrò una specifica attenzione per le condizioni del teologo ed esegeta di Oxford John Wyclif, fondate sulla contrapposizione tra Chiesa visibile e Chiesa invisibile: la prima è rappresentata dalla gerarchia, corrotta con l’ausilio della sua stessa legge non evangelica, il diritto canonico; è sede del papa, definito nei suoi trattati e nei suoi sermoni come anticristo in quanto supremo negatore della verità evangelica. La seconda è fondata sulla sola Scrittura e costituita dagli eletti predestinati da Dio alla salvezza. La sua concezione della chiesa invisibile funse da elemento di rottura della compagine della cristianità; il suo messaggio fu accolto che radicalizzato. Quando Giovanni XXIII pretese di coinvolgere la Boemia nella crociata contro il re di Napoli, principale sostenitore del papa romano Gregorio 12º, Hus l’indisse una disputa pubblica: denunciò le indulgenze dubbie e fallaci di un Papa moderno e mise in dubbio che la legge divina permettesse di aderire al mandato papale di predicazione della crociata e che esso giovasse all’onore di Dio, alla salvezza del popolo e all’utilità del regno (1412). Compose in seguito il suo trattato più celebre, il De ecclesia. Invitato a comparire al concilio di Costanza, Hus fu incarcerato e condannato al rogo come seguace di Wyclif disobbediente alle autorità ecclesiastiche (1415). Hus assunse il profilo di un martire della vera fede; nel suo nome il movimento riformatore uscì dalle ristrette cerchie accademiche e intellettuali, divenendo in Boemia soggetto di una lotta nazionale e religiosa contro il concilio, vertici ecclesiastici e potere imperiale. 3. Programmi e tentativi di governo collegiale della Chiesa, al centro e in periferia Il concilio prese progressivamente le distanze da Giovanni XXIII, e cercò di salvarsi con la fuga da Costanza nel marzo del 1415. Poco dopo Giovanni XXIII fu arrestato e processato per mancanza di fede, simonia, eresia, omicidio, sodomia e adulterio e fu deposto. Si chiudeva così il lungo scisma, su cui i protagonisti lo stesso papato romano mostrò a distanza di tempo giudizi oscillanti: nel 1412 il cardinale Rodrigo Borgia assumendo il nome di Alessandro VI, riconobbe implicitamente la legittimità del Papa pisano Alessandro V; nel 1958 invece il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, assumendo il nome di Giovanni XXIII, mostrò di non considerare Papa il suo omonimo pisano deposto proprio a Costanza. Il concilio concluse i propri lavori con due decisioni di grande portata: emise il decreto Frequnes nell’ottobre del 1417 in cui ribadì la propria funzione di suprema istanza di governo ecclesiastico e stabilì (in perpetuo) di riconvocarsi una volta ogni 10 anni; inoltre elesse il nuovo papa, Oddone Colonna (Martino V), con una procedura eccezionale in quanto sottrasse la nomina papale al collegio cardinalizio. 4. Esiti l’dell’hussitismo: dai «wyclyfiti» alla chiesa nazionale utraquista Dopo il rogo di Hus tutto il movimento riformatore boemo trovò un motivo unificatore nell’utraquismo cioè nell’affermazione dottrinale e pratica della comunione sotto le due specie (sub utraque specie) a tutti i fedeli. A seguito della decisione di Costanza di ribadire che il divieto di ammissione dei laici al vino consacrato, invalso dal 12º secolo, il calice divenne il vessillo in senso proprio, delle milizie utraquiste. Il movimento riformatore fu costituito da soggetti diversi in conflitto con l’imperatore, la grande novità cattolica e la chiesa cattolica, ma profondamente divisi tra quanti rigettavano la dottrina dei sacramenti e quanti non volevano del tutto abbandonare liturgia e riti cattolici; tra forze radicali che puntavano a sovvertire l’ordine sociale e politico vigente e forze 5 7 utraquiste socialmente conservatrici o moderate. L’ala più radicale, i cosiddetti wyclyfiti, parve prendere inizialmente il sopravvento con il riuscito attacco al municipio della Città nuova di Praga nel 1419. Di fatto in Boemia si realizzava la prima forma medievale di biconfssionalità cristiana, con sudditi i cristiani di confessione utraquista e di confessione cattolica sotto un unico re. 5. Osservanze mendicanti, movimenti penitenziali e rinnovamenti monastici in Occidente Appelli all’osservanza, cioè al rispetto rigoroso delle regole e delle discipline della propria congregazione religiosa risuonarono entro gli ordini sia monarchici sia mendicanti, ovunque fosse evidente uno scarto tra lo stile di vita effettivamente praticato e la condizione ideale delle origini. In ambienti minoriti fu avviato un controllato recupero della tradizione letteraria degli spirituali e dei fraticelli. 6. Dalle pretese di governo conciliare al sovrano pontefice Divenuto papa con il nome di Eugenio IV (1431-1447), dovette subito affrontare l’impegno assunto da Martino V di convocare il concilio a Basilea nel 1431. Il conflitto procedurale tra legato papale e padri conciliari, in disaccordo sulla presidenza dell’assemblea, segnalò immediatamente la questione su cui rimase impossibile trovare un punto d’intesa: nel ribadire il dato acquisito a Costanza della superiorità del concilio sul Papa, i consiglieri si attribuivano al concilio la promessa di infallibilità divina e pretendevano quindi che il Papa vi si sottomettesse. Anche oggetto e finalità dei lavori conciliari erano concepiti diversamente. Il Papa era interessato alla questione mediterranea: offensiva turca da contenere e processo di unione con la Chiesa greca da riattivare. Invece la maggioranza dei prelati convenuti metteva al centro la questione hussita e la situazione dell’Europa centro orientale. Tra i partecipanti spiccava il teologo e giurista tedesco Niccolò Cusano, inizialmente sostenitore del concilio, ma passato nel 1437 dalla parte del Papa. L’opera principale della sua prima fase fu la Concordantia catholica. Cusano vi afferma una concezione della Chiesa come unione dei fedeli e non come congregazione dei fedeli: l’unione di quanti credono in Cristo e in unione con lui partecipano alla vita nella trinità. Poneva così le basi per una nuova visione neoplatonico cristiana, per cui la vita dell’universo e della stessa chiesa è animata dalla dialettica tra uno e molteplice. Il conflitto tra il concilio ed Eugenio IV si radicalizzò quando a Basilea si pretese, nel 1439, di attribuire valore dogmatico alla Hec Sancta. I sostenitori a oltranza delle prerogative conciliari scomunicarono e deposero Eugenio IV ed elessero nuovo papa Amedeo VIII di Savoia con il nome di Felice V. L’indebolito fronte conciliarista doveva subire l’abdicazione di Felice V e la sua sottomissione a papa Niccolò V, che lo nominò cardinale. La crisi del movimento conciliarista segnò una svolta di lunga durata del governo centrale della Chiesa. Iniziava una nuova fase nuova per il potere del Papa, con caratteristiche differenti da quelli rivendicati dai grandi pontefici del Medio Evo centrale. La curia, nuovamente occupata da italiani, organizzò i propri apparati in modo da renderli più adatti a governare sia la Chiesa universale sia il territorio pontificio. Fu peraltro messe a punto un sistema di ambasciate analogo a quello in via di formazione presso altri Stati. Il collegio cardinalizio era stato via via svuotato delle antiche funzioni, rinnovate e trasferite ai nuovi dicasteri, ora dipendenti direttamente dal Papa, mentre i cardinali fungevano sempre più da collegio di aristocratici di corte nell’orbita del sovrano. Le nuove pratiche nepotistiche puntarono a includere i familiari del Papa nei gangli effettivi del governo curiale, ovvero trasformarli in principi dei territori più o meno vasti entro la cornice dello Stato Pontificio. 5 8 6 0 agli ebrei di impoverire le comunità cittadine cristiane a vantaggio dei propri circuiti. Il Monte di pietà si fonda invece sul principio che il prestito è per così dire garantito dalla comunità cittadina nel suo complesso, i cui rappresentanti sono chiamati a farne parte. Potendo contare su tale sostegno diffuso, il monte poteva concedere prestiti su pegno a interessi inferiori a quelli richiesti dal prestatori ebrei e in caso di mancata restituzione del prestito entro la scadenza prevista, è autorizzato a mettere all’asta il pegno nella città dove era stato conferito. Pregiudizi antigiudaici attecchirono con maggiore forza nelle società iberiche e si manifestarono in ricorrenti ondate di violenza, la più grave delle quali si propagò nel 1391 in numerose città della Castiglia, Andalusia, Galizia e Aragona. La comunità ebraica di Burgos fu allora completamente cancellata. Migliaia di ebrei e musulmani furono costretti a convertirsi al cristianesimo e le conversioni forzate proseguirono nei decenni successivi. 10. Bibbia, spiritualità, preghiera Gutenberg comprende meglio di altri le potenzialità della stampa a caratteri mobili in uso già da qualche anno. Dai primi del secolo circolavano xilografie al fine di istruzione, devozione e propaganda religiosa e politica. Nel complesso, la stampa degli incunaboli comportò una profonda trasformazione della letteratura religiosa. Con la riduzione del costo dei libri e la moltiplicazione delle scuole, crebbe il numero dei laici alfabetizzati e in grado di accedere direttamente a testi biblici e spirituali. Tra questi ultimi, ebbe importanza l’Imitatio Christi, la cui attribuzione e datazione sono state lungamente discusse; attualmente si ritiene che la composizione sia avvenuta attraverso fasi e che la redazione finale, opera del canonico Tommaso da Kempis risalga alla metà del 15º secolo. Il testo si caratterizza come un invito al combattimento spirituale, in cui l’anima si impegna, partendo dal disprezzo del mondo e dalla vana scienza, alla sequela di Gesù attraverso la pratica delle virtù ed esercizi spirituali. Si tratta dunque di amare Gesù disprezzando se stessi fino a trovare la consolazione interiore in Dio. Il testo ebbe una notevole diffusione in ambienti monastici maschili e in comunità religiose femminili. Il ambito familiare, le pratiche religiose variavano profondamente a seconda dei luoghi, della cultura, della condizione sociale ed economica dei fedeli. Nella vita di casa, i momenti forti dal punto di vista cristiano erano rappresentati dalle tappe fondamentali dell’esistenza: il battesimo, il matrimonio, la morte. Le immagini come veicolo di istruzione religiosa tramite di mediazione e di preghiera erano particolarmente importanti per quanti non sapevano leggere e scrivere. Costoro apprendevano l’imitazione di Cristo e dei santi dai dipinti, dai politici degli altari allestiti in modo da formare una storia di spesa, nello spazio e nel tempo. Comune a tutti i ceti era la preghiera. Derivata da quella ebraica la preghiera cristiana è fondamentalmente di due tipi: di invocazione e di rendimento delle grazie. In Italia dal 15º secolo che afferma l’uso della preghiera personale extra liturgica, recitata in dialetto in vari momenti della giornata è sempre prima di coricarsi. Capitolo 16 – Verso le Americhe: la nascita di un nuovo cristianesimo 1. Nell’orizzonte della «reconquista» Dalla seconda metà del XV secolo Portogallo e Spagna promossero viaggi di esplorazione e campagne di conquista miranti da un lato all’insediamento di scali commerciali lungo le coste 6 1 dell’Africa, dell’India e della Cina, dall’altro l’assoggettamento dei popoli e delle civiltà dell’America e al saccheggio e allo sfruttamento delle ricchezze della terra e del sottosuolo. Non si comprende l’impresa della conquista dell’America Latina, se si prescinde dall’ideologia della reconquista della penisola iberica; né si comprende la prolungata avversione all’idea di promuovere i nativi al sacerdozio, se si prescinde dall’ossessione per la limpieza de sangre. Il primo aspetto risulta già dalla vicenda di Cristoforo Colombo. Non gli mancava un’elevata considerazione della propria vocazione divina: il suo convincimento di essere chiamato ad una nuova forma di crociata doveva, per Colombo, culminare nella riconquista di Gerusalemme. Almeno nella fase iniziale, il Papato cercò di promuovere e sostenere l’espansione coloniale spagnola, prima con la lettera bollata Inter caetera (1493) di papa Alessandro VI Borgia e poi con la Universalis Ecclesiae (1508) di Giulio II, che riconosceva al re Ferdinando ampi poteri sulle chiese delle Indie occidentali. Di fatto, quest’ultima legittimava il sistema del «patronato», che lasciava al re organizzazione e direzione della Chiesa nel nuovo mondo. Divenendo patroni ecclesiastici, i sovrani si vedevano riconosciuto il potere di creare vescovi, scegliere missionari, istituire diocesi e parrocchie, stabilire la dotazione economica dei vescovi. Il sistema favoriva la Chiesa, sottoponendola nel contempo a notevoli vincoli e limitandone la libertà di iniziativa. Nella fase iniziale i sovrani spagnoli preferirono valersi principalmente dei tre grandi ordini religiosi dei francescani, domenicani e agostiniani, dalle cui file vennero dunque i primi evangelizzatori dell’America Latina. La conquista religiosa della Mesoamerica fu di fatto avviata solo a seguito della spedizione con cui Hernán Cortés sottomise l’Impero messicano degli aztechi (1519-1521). Fra tutti gli ordini religiosi, i minori osservanti erano allora i più numerosi: nel 1517 contavano circa 30 mila membri, la maggior parte dei quali nella penisola iberica. Il loro ministro generale Francisco de Quinõnes, impossibilitato a partire lui stesso, mandò prima tre e poi dodici frati. Partirono sorretti dalla convinzione di trovarsi nell’epoca finale della storia del mondo e di essere chiamati, quasi nuovi apostoli, a preparare nel nuovo mondo l’instaurazione del regno messianico millenario previsto dall’Apocalisse. 2. Organizzazione degli spazi e modalità di evangelizzazione L’atteggiamento dei frati nei confronti dei connazionali impegnati nel consolidamento della conquista fu complesso e non privo di contraddizioni. Ardenti fautori dell’impresa, a volte denunciarono il prevalere del desiderio di conquista e di ricchezza sulla necessità di proclamare invece il messaggio evangelico ai nativi ancora privi della luce della fede. Sostenuti dalle loro convinzioni escatologiche, entrarono spesso in conflitto con la stessa cultura religiosa dei dominatori. Rivelatrice in questo senso era la diversa concezione degli spazi. Cortés mirava a sostituire la cultura iberica a quella locale, senza smembrarne l’organizzazione amministrativa e tributaria. Cercò quindi di sovrapporre la città spagnola a quella indigena, le chiese ai templi, i capi spagnoli ai capi aztechi. I frati minori cercarono invece di installarsi su terreni vergini, per realizzarvi più liberamente i propri ideali. A questo scopo concepirono un modello urbanistico mirante alla costruzione di piccole città, con gli isolati disposti a scacchiera intorno alla piazza centrale, dominata dalla chiesa disposta in posizione preminente. Diversamente dall’Europa, dove la piazza era nata come centro civile della città, si affermava così un modello per cui la piazza era esclusivamente centro religioso, strutturante come tale l’intero insieme urbano. 6 2 I frati minori introdussero la pratica dei battesimi collettivi, abbreviando al massimo la preparazione catechista e la cerimonia stabilita dal Rituale romano. Potevano essere così amministrati in una sola chiesa migliaia di battesimi al giorno. La prassi dei battesimi di massa sollevò critiche da parte di domenicani e agostiniani, che esigevano il rispetto delle pratiche culturali vigenti in Europa. Dopo che Paolo III ebbe fissato le condizioni minime per il rituale battesimale (1537), il primo concilio provinciale di México proibì di battezzare adulti non sufficientemente istruiti e che non avessero definitivamente rinunciato all’idolatria. 3. Lotta all’idolatria La lotta all’idolatria fu la preoccupazione principale dei primi frati giunti in Messico, come documentano i Coloquios, testo venuto alla luce solo nel secolo scorso. Tramandati sia in castigliano sia in nahuatl (la lingua degli aztechi), si presentano come un resoconto dei dialoghi intercorsi tra i “dodici” e i supremi sacerdoti aztechi, che avrebbero pubblicamente riconosciuto nella sconfitta e sottomissione del loro popolo il segno dell’abbandono da parte dei propri dèi e della morte di questi ultimi. Colpisce che l’opera sia stata stesa solo nel 1564 da Bernardino di Sahagún (frate minore giunto in Messico nel 1529), a oltre quarant’anni di distanza dalla vicenda narrata. Il testo rivela un’attitudine evangelizzatrice che puntava alla disintegrazione dei culti indigeni, considerati forme idolatriche e inganni diabolici, e alla loro integrale sostituzione con i dogmi della religione cristiana. L’intera produzione letteraria di Bernardino poggia su tale intimo convincimento. Nella sua missione di sradicamento, il frate sentiva su di sé il peso di una responsabilità non inferiore a quella divinamente attribuita agli apostoli. Tale consapevolezza dà ragione delle due imprese a prima vista disparate cui si dedicò e cui resta legato il suo nome: l’affrancamento delle élite indigene dalla loro condizione di minorità culturale e spirituale, la raccolta e la descrizione scrupolose delle credenze e pratiche religiose degli autoctoni. Il problema della riforma della chiesa, nei termini di un ritorno al modello della comunità apostolica delle origini, era stato posto già dai primi del quattrocento, nel corso dello scisma d’Occidente. Un secolo più tardi l’Europa centro occidentale e la Chiesa latina erano attraversate da varie istanze di riforma che costituirono le premesse della Riforma che di lì a poco lacerò il cristianesimo. Sul piano religioso gran parte dell’Europa risultava profondamente segnata dall’affermazione visibile del cristianesimo, dei suoi riti, dei modelli sociali e delle pratiche che esso ispirava, soprattutto secondo i tratti della confessione cattolica. Accanto sussisteva tuttavia in ambito rurale e tra i ceti popolari, ma talvolta pure del clero, una religiosità che intrecciava elementi devozionali, sedimentate pratiche idolatriche o superstiziosi, aspetti magici quasi mai l’espressione consapevole di modelli alternativi al cristianesimo. La stessa chiesa era nuovamente agitata da tentativi di ritorno. Il ritorno alle fonti classiche promosso dall’umanesimo rimise ampiamente in discussione metodologie di acquisizione e i contenuti del sapere dell’epoca, innescando una specie di rivoluzione culturale. Le critiche degli umanisti e il loro recupero della Bibbia accelerarono la decadenza della scolastica che da alcuni secoli costituiva l’orizzonte della speculazione teologico filosofico cattolica. Lo studio del nuovo testamento sul piano filologico portò a contestare la corrispondenza tra la Vulgata e gli originali greci. All’interno delle istanze emergenti dalla cultura umanistica un ruolo essenziale fu svolto da Erasmo da Rotterdam. Egli tentò di favorire un rinnovamento religioso che, attraverso una nuova valorizzazione degli scritti del primo cristianesimo, permettesse il ritorno al modello della Chiesa apostolica: ne erano sottolineati il tratto evangelico in contestazione di una chiesa intrisa di poteri temporali, l’aspirazione alla perfezione cristiana senza distinzioni tra clero e laici, la sobrietà dei comportamenti, la tolleranza e la pace. Erasmo vi accostò una convinta sollecitazione ad assicurare una maggiore formazione intellettuale dei cristiani per ovviare alla notevole diffusione della superstizione e aiutare gli uomini a vivere il nucleo spirituale e morale del cristianesimo delle origini. Attraverso le istanze riformatrici si catalizzò in larga parte un movimento di critica nella corruzione nella quale erano caduti la corte e la curia romane. Infatti la sconfitta delle correnti fautrici del primato del concilio aveva favorito una crescita e un rafforzamento del papato italianizzato, soprattutto come principato a capo di un solido Stato moderno, impegnato nella costruzione di alleanze con le monarchie nazionali. Questo sviluppo incise anche sull’altro aspetto della duplice dimensione, politica e religiosa, del sovrano pontefice: in quanto capo della Chiesa, il Papa si trovò al vertice di un processo di accentramento, sopportato sul piano strumentale dallo sviluppo di un apposito apparato burocratico e presto raggiunse dimensioni abnormi. In questo contesto fu ricorrente l’utilizzo della dimensione spirituale del papato al servizio di quella politica. 6 5 Con un chiaro significato ideologico, si era dato avvio a un ampio programma di edificazione e di abbellimento della residenza papale della città capitale, la cui realizzazione comportò un crescente fabbisogno finanziario, in buona parte soddisfatto da una fiscalità che gli interessava un’imposizione connessa con il funzionamento dell’amministrazione dello Stato, la riscossione dai diversi luoghi della cattolicità di tasse connesse con l’esercizio della burocrazia curiale nell’ambito delle questioni penitenziali e della gestione delle controversie giudiziarie tra soggetti interni alla Chiesa, i proventi derivanti dalla vendita delle cariche cardinalizie e da altri uffici conferiti dal Papa. Si ebbe un netto sviluppo di pratiche nepotistiche destinate a prolungarsi nel tempo e che contribuirono a diffondere un’impressione di decadenza profonda della curia romana, resa ancora più emblematica dalla condotta di Alessandro VI, eletto papa, (1492-1503), forse secondo modalità simoniache: padre di numero dei figli, alcuni dei quali avuti durante il suo pontificato, usò il governo pontificio per favorire gli interessi economici e politici di famiglia, come fecero in seguito Leone X medici e Paolo III Farnese. 2. Il «Libellus ad Leonem X» e concilio Lateranense V Il testo che prima dell’avvio della Rifrom espresse in modo più organico le istanze di rinnovamento religioso presenti nel cattolicesimo fu il Libellus ad Leonem X nel 1513 dei camaldolesi Pietro (Vincenzo Querini) e Paolo (Tommaso Giustiniani). Esso propone una restaurazione interna della chiesa come parte della popolazione volta a unificare il mondo sotto l’unica chiesa cristiana. Il Libellus, anche quando mostrava di accogliere alcune istanze degli umanisti, le inseriva all’interno di una prospettiva di rafforzamento delle istituzioni ecclesiastiche. Perciò l’opera dei due costituiva una decisa reazione alle sollecitazioni dell’umanesimo. L’intervento suggerito dal Libellus, che doveva essere esteso a tutta la Chiesa, non esclusa la sede romana chiamata anzi a prendere la guida del processo di cristianizzazione, prevedeva: un intervento di riforma degli ordini religiosi; l’estensione dei rami conventuali degli ordini mendicanti; l’introduzione di studi di teologia per il clero fondati sulla sacra scrittura e la patristica e non sulla scolastica; la traduzione della Bibbia negli idiomi nazionali per consentirne un più largo accesso da parte della popolazione stabilizzata; l’eliminazione degli aspetti magici dalla liturgia; la lotta contro la stregoneria e gli ebrei. L’adozione di sempre più radicali misure discriminatorie nei confronti degli ebrei riproponeva ancora una volta un tipico bersaglio dell’incapacità della cristianità latina di commisurarsi sul piano culturale con i portatori di usanze diverse, la necessità di attribuire a un nemico interno gli insuccessi politici o religiosi. Il Libellus intende contribuire ai lavori del concilio lateranense V (1512-1517), convocato da Giulio II soprattutto contro il conciliabolo di Pisa, voluto da Luigi XII in relazione alla politica antifrancese del papato. Pertanto il concilio fu anche uno strumento al servizio della formazione del potere del Papa sulla chiesa, contro i risorgenti tentativi conciliaristi. Nel 1516 il lateranense V recensì il concordato tra il nuovo papa Leone X e Francesco I, con il quale fu messo fine al contrasto con la Francia. L’atto che portò all’abolizione della prammatica sanzione concesse però al re prerogative che di fatto ne rinforzarono l’importanza sulla Chiesa di Francia, caratterizzata dalla rivendicazione di autonomia nei confronti del papato romano (gallicanesimo). 3. La Riforma: Lutero 6 6 Poco dopo la conclusione del concilio, con scarsi risultati, l’agostiniano Lutero fece circolare 95 tesi per chiarire l’efficacia delle indulgenze, episodio che in seguito fu considerato l’avvio della riforma. Se il ricorso alla confessione sacramentale comportava il perdono del penitente, non lo scioglieva però dalle pene temporali. In età tardo rinascimentale il ricorso alla concessione di indulgenze, sempre più spesso vincolato, oltre che alle consuete penitenze, al versamento di una somma di denaro, così che la pratica era diventata una delle forme di finanziamento della Chiesa, e in particolare del papato, impegnato nella costruzione della nuova fabbrica di San Pietro. Lutero sostenne che le indulgenze non eliminavano le conseguenze del peccato e che soltanto il perdono gratuito di Dio poteva provvedervi. Molti agostiniani nella Sassonia si schierarono a favore delle tesi luterane e anche alcuni umanisti espressero simpatia nei confronti di Lutero: in particolare il suo rapporto con Melantone sarebbe diventato occasione di reciproca influenza. In sintesi la riforma costituì un vasto e articolato movimento di rinnovamento del cristianesimo e della Chiesa, diffusasi in larga parte dell’Europa, che va collocato all’interno di un lungo processo di cambiamento cominciato già nel corso del tardo medioevo, i cui effetti si sarebbero prolungati fino quasi alla metà del seicento. Il rapporto tra processi in germe alla fine del Medio Evo e riforma deve essere declinato nei termini della continuità piuttosto che in quelli della rottura: la riforma ha con sé molti aspetti propri dell’epoca precedente, ma rivisitandoli profondamente. Tutte le confessioni riconducibili alla riforma, a prescindere dalle differenze che hanno tra loro su punti importanti, come la natura della Chiesa, (ecclesiologica) o la concezione dei sacramenti condividono alcune affermazioni in parte sotto il profilo dottrinale, sintetizzabili nella frase: sola Scriptura, solus Christus, sola gratia, sola fide. La rivelazione è interamente contenuta nella Sacra scrittura. La salvezza compiuta da Dio in Gesù è unica e completa, perciò le chiese della riforma rifiutano il culto dei santi, passando dalla loro invocazione come intercessione alla loro memoria ai fini dell’emulazione. Solo la grazia divina opera la salvezza, solo la fede in Dio permette la giustificazione dell’uomo. All’interno della riforma la storiografia individua alcuni composti i filoni. Un primo riguarda quei movimenti che fecero esplicito ricorso al potere politico per raggiungere i propri obiettivi: il luteranesimo, il protestantesimo riformato, che molto dovette all’opera di Zwingli, Bucero e Clavino; in particolare le chiese territoriali e sorsero nell’ambito del luteranesimo tedesco mantennero una stretta collaborazione, se non una dipendenza esplicita, dal potere politico. Un secondo articolato filone è costituito dallo spiritualismo al cui interno si devono menzionare Jean de Valdes e il cenacolo napoletano e poi il circolo di Viterbo. Un altro filone si articolava nell’anabattismo e nell’antitrinitarismo, quest’ultimo su posizioni che irrompevano rispetto al riconoscimento della dogmatica definita dai primi concili ecumenici e accolta dalle chiese della riforma: correnti ed esperienze non sempre facilmente circoscrivibili, ma segnati da un atteggiamento anticostantiniano, cioè dall’istanza di mantenere separati Chiesa e potere civile e prima ancora la dimensione religiosa da quella politica. Un’ ulteriore realtà è rappresentata dall’anglicanesimo che si attribuisce un ruolo decisivo al potere politico nella guida della Chiesa come e forse più del luteranesimo e del protestantesimo riformato, si differenzia però da tutte le altre confessioni riformate per il suo carattere di relativa mediazione tra i protestantesimo e cattolicesimo di cui conserva, sia pure in forma adattata, alcuni aspetti della liturgia e dell’organizzazione ecclesiastica. L’elemento chiave del fenomeno della riforma che metteva in rapporto le nuove correnti teologiche con l’impulso alla trasformazione della società, il concetto di sacerdozio universale, emerso gradualmente a partire dalla mistica renana e poi ulteriormente 6 7 sviluppato da Lutero: una nozione che, pur prevedendo il rapporto diretto tra Dio e di ogni credente, rendeva inutile intermediazione del clero ai fini della salvezza e minava la dimensione gerarchica della Chiesa. Il 15 giugno 1520 con la bolla exurge domine Lutero fu sollecitato da papa Leone X a ritrattare alcune delle sue tesi sotto la minaccia della scomunica. Per Lutero la chiesa era una comunione di tipo spirituale, composta dai cristiani autentici. Ma il centro della sua riflessione religiosa fu costituito dalla teologia della croce: Dio, in modo umanamente comprensibile, ha 6 9 8. Il rifiuto del modello costantiniano: la riforma radicale La volontaria rinuncia agli strumenti del potere della società nella realizzazione del Christum sequi che era stata una delle istanze proprie dei movimenti evangelico paupersitici dell’11º secolo e poi di Valdesio Lione e Francesco d’Assisi, caratterizzò per molti versi anche le esperienze della riforma radicale nel cinquecento. Fu il caso degli anabattisti, fautori del battesimo in età adulta secondo la consuetudine dei primi tempi del cristianesimo, che si opponevano nettamente al mantenimento del nesso tra comunità religiosa e comunità civile caratteristico della cristianità nel medioevo, adottavano un orientamento comunitario di spicco nella gestione dei beni, rifiutavano di assumere cariche civili, di utilizzare le armi come di prestare giuramento. Ma proprio il rifiuto del modello costantiniano, che invece era stato saldamente mantenuto dagli altri riformatori, sia pure in varie forme, fu la causa principale dell’opposizione violenta con la quale i movimenti radicali furono drasticamente combattuti dalle autorità ecclesiastici e da quelle civili. Il rifiuto di ogni forma di sovversione dell’ordine costituito sollecitò anche il convinto, sanguinoso concorso del potere politico nella repressione dei movimenti radicali. Tra gli episodi più drammatici si devono menzionare le numerose esecuzioni di anabattisti, una cui fauzione, per reazione, diede vita a Munster, considerata la nuova Gerusalemme, a un governo di tipo teocratico dominato da una prospettiva di esaltazione millenaristica violenta e fanatica, sradicato nel 1535 dai principi tedeschi, che ne massacrarono gli appartamenti. 9. La riforma della Chiesa d’Inghilterra: l’anglicanesimo Al termine di lunghi sviluppi la riforma della Chiesa d’Inghilterra approdò a un compromesso tra aspetti mutuati dalle teologie riformate e tratti propri del cattolicesimo. Elemento peculiare fu la stretta dipendenza dalla politica ecclesiastica dei monarchi succedutisi sul trono. L’avvio della riforma (1531-1547) comportò soprattutto uno scisma tra la Chiesa d’Inghilterra e la Chiesa di Roma. Esso, occasionato dal rifiuto di Clemente VII di annullare il matrimonio di Enrico VIII, come questi aveva richiesto, trovò solido terreno nel radicato e duraturo autonomismo della popolazione inglese che mal sopportava le ingerenze della Chiesa di Roma. Più che su iniziativa del clero inglese fu quella del Parlamento, guidato da Thomas Cromwll che spinse verso la rottura dei rapporti col Papa. Nel giro di pochi anni Enrico VIII assunse il controllo del clero e la guida delle istituzioni ecclesiastiche come capo supremo in terra della Chiesa d’Inghilterra, superando l’opposizione prevalente tra i monaci e quella di alcune figure prestigiose. Tuttavia Enrico VIII, una volta ottenuto il controllo della Chiesa d’Inghilterra e autorizzata la traduzione della Bibbia inglese, non intende provvedere a modifiche dottrinali che sancissero una rottura con il cattolicesimo sul piano teologico. I Sei articoli del 1539 confermavano la volontà di ortodossia del monarca, anche se dal punto di vista della politica ecclesiastica egli ordinò la distruzione dei monasteri e santuari e nel contesto europeo cercò l’alleanza con la lega di Smalcalda. La situazione cambiò durante il breve regno di Edoardo VI che per la minore età dovette lasciare il governo ha un consiglio di reggenza guidato da fautori del protestantesimo. Contemporaneamente Thomas Cranmer l’arcivescovo di Canterbury promosse un luteranesimo moderato in campo religioso. Con il ricorso di altri ecclesiastici di orientamento più radicale fu realizzata una trasformazione largamente ispirata alla teologia riformata, si provvide all’abolizione dei Sei articoli e soprattutto a una riforma liturgica che culminò nella pubblicazione del Book of common prayer (1549) che dotò la sede inglese di un 7 0 proprio libro liturgico in lingua inglese, segnando un passaggio decisivo verso l’anglicanesimo: esso mantenne diversi aspetti della liturgia cattolica, tra cui il culto dei santi, ma sostituì al concetto di sacrificio rinnovato ogni celebrazione eucaristica quello di commemorazione di un evento che si era compiuto una volta per tutte con la morte di Cristo sulla croce. L’avvento al trono di Maria I Stuart l, sovrana dal 1553 al 1558, comportò una quasi completa restaurazione del cattolicesimo e l’avvio di una violenta repressione dei protestanti, nel corso della quale furono condannati alla pena capitale diverse personalità della riforma inglese. Infine il lungo regno di Elisabetta I Tudor favorì il definitivo assestamento della riforma grazie all’accorta azione del ministro William Cecil. Esso fu raggiunto in modo graduale e attraverso il mantenimento di alcuni elementi del rito cattolico. Capitolo 18 – la reazione cattolica alla Riforma 1. La reazione cattolica alla riforma. L’espansione missionaria L’iniziale, prolungata sottovalutazione e incomprensione della portata del luteranesimo da parte di Roma, impegnata sullo scenario politico internazionale contro Carlo V, e il dilagare della riforma oltre i confini dell’impero resero via via più difficile la lotta per il ristabilimento dell’ortodossia cattolica. Ad alcuni dei fautori di un necessario rinnovamento delle istituzioni o della disciplina ecclesiastica, la nuova situazione sembrò un’occasione per portare a compimento su più larga scala i propri intenti, cercando una via che talvolta parve intermedia tra le posizioni protestanti e quelle dell’ala cattolica più intransigente, talaltra si spinse alla condivisione di una parte delle istanze espresse dai riformatori. Non pochi e sicuramente importanti erano stati i vescovi che nella prima metà del secolo avevano avviato, con presupposti e modalità molto diversi, una riforma della disciplina e un programma di più intensa formazione religiosa del clero e del popolo. La compagnia di Gesù ottenne l’approvazione papale nel 1540, raggiunse ben presto dimensioni considerevoli che diventò un pilastro a servizio della formazione religiosa della popolazione europea, in particolare dei ceti dirigenti e uno straordinario strumento per la diffusione delle concessioni contro riformisti, concorrendo in modo rilevante alla conservazione dello status sociale e politico dei paesi cattolici. 2. L’azione del Sant’Ufficio Nel maggio 1542 fu convocato il concilio di Trento e durante la successiva estate la creazione del santo ufficio. Durante il pontificato di Giulio III (1550-1555), la linea intransigente dell’inquisizione finì per imporsi non solo nella lotta contro l’eresia nella società, ma anche nella repressione del disprezzo ai vertici della Chiesa nonostante le resistenze che lo stesso papa oppone su questo punto. La bolla Licet ab initio emanata da Paolo III nel 1542 aveva fatto dell’inquisizione romana, lontana erede dell’inquisizione medievale, un potente strumento di repressione ideologica di ogni dissenso politico religioso. Infatti con la creazione del santo ufficio Paolo III attribuiti poteri eccezionali a un gruppo di cardinali, in una situazione di emergenza dovuta al dilagare del protestantesimo nell’Europa cristiana, stante l’impossibilità a causa della guerra, di convocare il concilio per porvi rimedio. Di fatto il santo ufficio finì per reagire al di là delle proprie prerogative istituzionali di tribunale delle coscienze, riuscendo via via a proporsi come strumento capace di influire sui rapporti politici tra Roma e gli Stati. In particolare in Italia il papato fu in grado di operare, attraverso la lotta contro il luteranesimo, come potere centrale a livello politico. Soprattutto dal successo di questa strategia dipende il mancato radicamento della riforma nella penisola. 7 1 L’azione del santo ufficio concorse al rafforzamento dell’autorità papale nei confronti dei principi. All’interno della chiesa essa, contribuendo a un ulteriore sviluppo del centralismo romano, da un lato andò a scapito del ruolo dei vescovi, dall’altro favorì l’assunzione di una progressiva autonomia da parte dell’inquisizione ai vertici delle istituzioni ecclesiastiche. Con la bolla Com ex apostolatum officio (1559), Paolo IV giunse a privare i cardinali sospetti di restia del diritto di voto attivo e passivo del conclave, dichiarò invalida l’elezione al papato di un prelato incorso nell’eresia ed estese la possibilità di escludere da un ufficio ecclesiastico chiunque fosse stato circondato dal sospetto di eresia, anche in un periodo precedente all’assunzione della carica. Questo intervento fece del santo ufficio un’istituzione cui nessuno, nemmeno il Papa, poteva sottrarsi. 3. Il concilio di Trento I lavori si svolsero in tre parti: dal 1545 al 1548 a Trento e poi a Bologna dove l’assise fu trasferita da Paolo III per tentare di sottrarla al condizionamenti dell’imperatore; dal 1551 al 1552 durante il pontificato di Giulio III, infine dal 1572 al 1563 sotto il Pio IV. Paolo III aveva fissato gli obiettivi del concilio nell’eliminazione della frattura dottrinale, la riforma del popolo cristiano, il ristabilimento della pace tra i popoli dell’Occidente, il recupero dei luoghi santi da tempo caduti in mano musulmana. Gli obiettivi furono largamente mancati: l’assise finì per formalizzare la divisione interna al cristianesimo in Occidente, aprendo così il tempo delle confessioni. Ne risultò marcata in modo definitivo anche la separazione dalle chiese d’oriente. L’opera di riforma promossa dal concilio risultò caratterizzata dalla prospettiva della salvezza delle anime e conseguentemente della cura pastorale come criterio fondamentale per la vita della Chiesa. Nel 1547 il concilio si espresse sul problema della giustificazione: i padri conciliari stabilirono che la virtù che muoveva poi alle buone opere e rassegnata precedentemente da Cristo agli uomini per grazia, ma che il loro corretto agire doveva essere considerato utile al conseguimento della vita eterna. Senza dubbio il decreto segnò la sconfitta della corrente riformatrice. Reagendo al principio 1. La cristianità in Oriente all’inizio dell’età moderna Un momento chiave nella storia del cristianesimo ortodosso era stata la caduta dell’impero bizantino sotto l’urto delle armate ottomane, il 29 maggio 1453. In seguito il baricentro si spostò in parte verso il mondo slavo orientale, nel quale si sviluppò gradualmente la fede nella metropolitica Mosca grazie al sostegno politico dei principi in contrasto con il patriarcato di Costantinopoli. Tuttavia le chiese slave rifiutarono l’unione e per reazione iniziò un processo di allontanamento da Bisanzio che la caduta della nuova Roma nelle mani turche non fece che accelerare e rendere più drammatica. Nel 1459 un concilio radunatosi su sollecitazione delle autorità moscovite, pose il metropolita di Kiev alle dipendenze del principe, episodio che segnò l’autocefalia, cioè l’autonomia da Costantinopoli, della chiesa ortodossa moscovita e si inserisce in un movimento più ampio di ridefinizione degli equilibri e degli orientamenti del cristianesimo ortodosso. Private del millenario riferimento agli imperatori bizantini, le chiese slave, nell’impossibilità di fare riferimento al potere, di fede islamica individuarono nei principi ortodossi le figure in grado di continuarne la decisiva opera di sostegno politico e culturale alle istituzioni ecclesiastiche. Per Mosca questi movimenti si saldarono con la crescente affermazione politico militare dei suoi principi. Ma un processo di assimilazione di alcuni elementi tipicamente bizantini che interessò l’ideologia, la politica, la cultura, le istituzioni ecclesiastiche e la religiosità, si è concretizzato nella definizione di Mosca come terza Roma, riconoscimento sancito ufficialmente con la formalizzazione del patriarcato di Mosca tra il 1589 e il 1593. La collaborazione tra i due poteri si rafforzò ulteriormente nei decenni successivi segnando la sottomissione della chiesa moscovita allo zar Alessio I. 2. L’affermazione e l’esaurimento della Controriforma Resta aperto oggi, tra gli storici, il problema se la riforma in seno alla Chiesa di Roma sia semplicemente una reazione alla riforma luterana (e dunque da considerarsi Controriforma), oppure se vi sono elementi per dire che, in seno alla Chiesa cattolica, vi erano germi di riforma indipendenti da Lutero (e dunque cronologicamente prima del 1517), e tali da potersi considerare come una vera Riforma cattolica. Al di là del dibattito storico tuttora in corso, si possono rilevare questi elementi: vi è un crescente sviluppo delle associazioni laiche tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento, con l'intento di svolgere azioni di carità verso i poveri e gli ammalati, soprattutto con la fondazione o il restauro di ospedali per malati cronici o incurabili; la più grande associazione italiana è la Compagnia del Divino Amore, nata a Genova alla fine del Quattrocento 7 4 per opera di Ettore Vernazza, che ben presto si diffonde in molte città dell'Italia settentrionale, ma anche a Roma e a Napoli; i vecchi ordini religiosi tendono a riformarsi al loro interno, così che, accanto a monasteri con la vecchia regola, troviamo monasteri che adottano una regola riformata; un classico esempio è la riforma del Carmelo ad opera di Santa Teresa d'Avila e San Giovanni della Croce; assistiamo pure alla nascita di nuovi ordini da altri di vecchia data: è l'esempio dei francescani Cappuccini, fondati da Matteo da Bascio ed approvati nel 1528; soprattutto tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, vediamo la nascita di nuovi ordini religiosi, tra cui i Gesuiti, i Camilliani, i Teatini, nonché di ordini femminili dediti alla vita attiva, come le Orsoline di Sant'Angela Merici; né bisogna dimenticare che, nel malcostume comune, alcuni vescovi si distinguono per le loro capacità e per il loro zelo pastorale, arrivando a convocare sinodi, a promuovere la predicazione, a preoccuparsi della formazione del clero, a visitare regolarmente le loro diocesi; si distinsero soprattutto Nicolò da Cusa (detto Cusano), vescovo di Bressanone, Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona, e il cardinale Francisco Jiménez de Cisneros, arcivescovo di Toledo. Dalla metà del XV secolo fino al XVII i pontefici concessero ai sovrani di Spagna e Portogallo privilegi sempre più notevoli, esigendo allo stesso tempo da essi che si prendessero cura dell'evangelizzazione nelle terre scoperte. Questo sistema è chiamato Patronato regio. I motivi che imposero questa scelta: secondo la mentalità dell'epoca l'appoggio delle autorità civili era vista come la via sicura ed efficace per la cristianizzazione dell'Asia e dell'America; la scoperta e l'occupazione delle nuove terre era considerata come la continuazione della liberazione della penisola iberica dal giogo islamico, cioè un'impresa essenzialmente sacra; più in generale il patronato regio non è che uno degli aspetti di quel fenomeno più vasto, tipico dell'epoca, dell'unione fra le due società, civile e religiosa, con i suoi vantaggi e i suoi gravissimi rischi. Ai sovrani di Spagna e Portogallo vennero attribuiti determinati diritti e doveri che rendevano l'evangelizzazione degli indigeni un compito dello Stato, ma che insieme attribuivano allo Stato piena autorità sulla Chiesa nei territori delle missioni. Allo Stato spettava: la nomina a tutti i benefici; l'ammissione o l'esclusione dei missionari (i missionari avevano perciò bisogno dell'autorizzazione regia per partire in missione); il controllo su tutti gli affari ecclesiastici (i missionari potevano rivolgersi a Roma solo attraverso il Governo). Di contro, lo Stato doveva: scegliere ed inviare i missionari; provvedere a tutte le spese del culto, al sostentamento ed ai viaggi dei missionari; curare l'erezione, il mantenimento, i restauri degli edifici di culto. Il patronato ebbe certamente alcune conseguenze positive: i sovrani divennero più consapevoli del dovere che incombeva loro di promuovere la diffusione della fede; Spagna e Portogallo fornirono alle missioni i mezzi materiali necessari; i missionari godevano della protezione dello Stato. Ma non mancarono gli inconvenienti e i danni che si aggravarono col tempo. Il Portogallo, al culmine della sua potenza coloniale, soddisfece solo in parte ai suoi doveri. Per di più impose alla Chiesa dei gravi pesi quali: un controllo e una burocrazia lenta ed asfissiante (un permesso da Roma poteva giungere a destinazione anni e anni dopo, quando il permesso era ormai già scaduto), il giuramento dei vescovi al patronato (1629) e la promessa di non instaurare rapporti con Roma, imposizione di vescovi eletti ma non canonicamente istituiti, nulla osta statale per l'apostolato nelle missioni portoghesi (che impedì l'arrivo di un numero sufficiente di missionari). Anche quando il Portogallo in Asia perse il predominio a favore di Olanda e Inghilterra, continuò tuttavia ad arrogarsi gli antichi diritti di patronato anche per quei territori passati ormai ad altri padroni, provocando così doloroso conflitti con Propaganda Fide. In questo modo il patronato, nato come mezzo per favorire la religione, divenne strumento di cui il 7 5 Portogallo si serviva per mantenere il suo influsso politico nei domini di altre potenze. Fin dall'inizio delle nuove scoperte la Chiesa non fu però disposta a scaricare completamente su altri la responsabilità dell'evangelizzazione dei popoli. Già papa Pio V aveva istituito nel 1568 una Congregazione cardinalizia per le missioni. Clemente VIII eresse una Congregazione de Propaganda Fide, che non sopravvisse alle resistenze dei patronati. Impulso decisivo alla formazione di un dicastero permanente venne dal carmelitano scalzo Thomas de Jésus con la sua opera De procuranda salute omnium gentium (1613), ove propugnava tra l'altro la fondazione di un centro missionario a Roma. L'idea, appoggiata da altri, venne realizzata il 6 gennaio 1622 da Gregorio XV. Il 22 giugno era emanata la bolla ufficiale d'istituzione. Scopo della Congregazione era di controllare tutta l'attività missionaria, provvedere alla formazione di missionari, ricevere rapporti e dare direttive. Si sforzò di trasformare le missioni da fenomeno coloniale in un movimento ecclesiastico e spirituale, di difendere i missionari dalle interferenze delle autorità politiche, di formare un clero indigeno, di provvedere alla stampa di libri in varie lingue. La nascita di Propaganda sollevò due problemi fondamentali: la coesistenza tra iniziative locali e direttive centrali, e la coesistenza tra i Patronati e l'indipendenza delle attività missionarie. Fu soprattutto questo secondo aspetto a creare i maggiori problemi, specialmente nella nomina dei vescovi. Si cercò di aggirare il Patronato istituendo la figura del vicario apostolico, che giuridicamente non erano un vero vescovo residenziale, ma un rappresentante speciale del papa. L'istituzione rappresentò una svolta nella storia delle missioni. 3. Controversie teologiche, correnti mistiche Dopo il caso di Lutero e dopo il Concilio di Trento, la Chiesa di Roma fu molto attenta a seguire i dibattiti teologici del mondo cattolico per bloccare sul nascere eventuali sviluppi eretici. È senz'altro uno degli aspetti della Chiesa della Controriforma. Nei secoli XVII-XVIII si svilupparono nel mondo cattolico diverse correnti e idee teologiche non sempre nella linea dell'ortodossia. Il Giansenismo è una corrente di pensiero teologico-morale nacque in Belgio nel 1640 con Giansenio (1585-1638) e verteva sui rapporti tra libertà umana e grazia divina: l'uomo, dice Jansen, è decaduto con il peccato ed incapace di amare senza l'aiuto della grazia di Dio che spinge all'amore; questa « spinta » interiore non lede la libertà umana, perché, secondo lo Jansen, vi è assenza di libertà solo quando l'uomo è « costretto » esteriormente. Il Giansenismo, aspramente combattuto dai Gesuiti, ebbe larga diffusione in Francia, ed in qualche misura anche in Italia. I suoi maggiori esponenti e difensori furono: Jean Duvergier de Hauranne(chiamato Saint-Cyran, 1581-1643), Antoine Arnauld (1612-1694), Blaise Pascal, Pasquier Quesnel(1634-1719), e, in Italia, Scipione de Ricci (1741- 1809) che arrivo' a convocare il Sinodo di Pistoia allo scopo di organizzare una chiesa nazionale indipendente da Roma. Il Gallicanesimo è una corrente di pensiero teologico-politico, che si sviluppa in Francia nel XVII secolo ad opera di teologi e canonisti, e sostiene da un lato la libertà sempre maggiore della Chiesa di Francia da ogni influsso e condizionamento esterno (in particolare del Papa), e di conseguenza dall'altro, l'attribuzione allo Stato francese di un sempre maggiore influsso sulle faccende ecclesiastiche interne e la limitazione del potere del Papa in Francia. Il Gallicanesimo si manifesta così come una tendenza centrifuga all'interno della Chiesa cattolica, in contrasto con le tendenze centripete della Santa Sede di Roma. Maggior esponente del Giansenismo fu il Bossuet (m.1704). Nel corso del XIX secolo, nell'Europa orientale, assistiamo alla progressiva disgregazione dell'Impero Turco e, grazie alle idee della Rivoluzione francese e ai movimenti 7 6 nazionalisti, assistiamo alla nascita di stati nazionali seguita dalla fondazione di chiese ortodosse indipendenti, autocefale. In questo modo, il collasso del dominio ottomano è accompagnato dalla rapida diminuzione del potere effettivo esercitato dal patriarca di Costantinopoli. 7 8 sintesi, il drastico ripiegamento della seconda parte del pontificato benedettino mise fine al ciclo riformatore avviato nella seconda metà del Seicento. 5. L’ortodossia protestante Nel Seicento, e più esattamente nei decenni che giungono fino alla Glorious Revolution inglese del 1688, giunse a realizzazione “l’ortodossia protestante”, un processo segnato dalla sistematizzazione delle dottrine delle Chiese riformate dopo la fase di effervescenza che ne aveva caratterizzato la genesi. Dal tardo Cinquecento il luteranesimo e il protestantesimo riformato si aprirono all’influenza del neoaristotelismo, senza però che la riflessione teologica ne risultasse condizionata al punto di abdicare al primato assoluto riservato alla Sacra Scrittura nella conoscenza di Dio. Quanto all’ortodossia riformata, l’elemento peculiare del suo sviluppo fu costituito dalla dottrina della predestinazione: ulteriormente sviluppata e articolata rispetto alle asserzioni di Calvino, all’inizio del XVII secolo essa diede vita ad un duro contrasto tra i fautori di un’interpretazione più intransigente, o gomarista (dal nome del docente di teologia di Leida, Francesco Gomar) e gli arminiani, che, sulla scorta della teologia dell’olandese Arminio, non escludevano la possibilità dell’accettazione della grazia da parte dell’uomo, una corrente alla quale appartenne anche Grozio. Il sinodo di Dordrecht (1618-19), svoltosi alla presenza di un’ampia rappresentanza delle Chiese riformate d’Europa, condannò l’arminianesimo, segnando l’avvio della persecuzione dei suoi sostenitori fino a quando la Repubblica delle Sette Province Unite non proclamò la libertà religiosa. Durante la prima fase della guerra dei Trent’anni si ebbe la cancellazione della nazione boeme e della sua Chiesa evangelica, ma il Seicento conobbe anche le violente persecuzioni cattoliche dei protestanti di Polonia e di Ungheria, e dei valdesi della penisola italiana. E in Francia Luigi XIV varò misure discriminatorie contro gli ugonotti, culminate nell’editto di Fontainebleau (1685), con il quale fu revocato il diritto alla tolleranza sancito quasi un secolo prima con l’editto di Nantes. Nel primo Seicento Giacomo I Stuart impose alla Chiesa d’Inghilterra una linea che ribadiva le distanze da un lato dalla Chiesa di Roma, dall’altro lato dal puritanesimo. Fu nel contesto delle due opposizioni contro la sua politica che nel 1620 iniziò una serie di emigrazioni di pilgrims verso il Nord America, dove avviarono la realizzazione di una Chiesa e un sistema sociale ispirato al puritanesimo. Decenni dopo una religiosità più radicale permeò il movimento quacchero, caratterizzata dalla rinuncia al ministero dei pastori, dalla svalutazione dei sacramenti e del culto esteriore, dal rifiuto del giuramento, dall’egualitarismo, dal pacifismo e dal rigore morale. Nel 1682 William Penn creò la colonia della Pennsylvania. Intanto nel secondo quarto del secolo Carlo I aveva accentuato gli orientamenti filocattolici del padre Giacomo e la repressione antipuritana. Le tensioni degenerarono negli anni Quaranta in una guerra civile tra i sostenitori della monarchia e quelli del Parlamento, orientato su posizioni filopuritane, e si concluse con la vittoria delle armate guidate da Oliver Cromwell, la decapitazione di Carlo I (1649), l’epurazione della maggioranza parlamentare, fautrice dell’instaurazione del puritanesimo come religione dello Stato, la subordinazione dei levellers di orientamento democratico-egualitarista radicale, e quindi, nel 1653, con l’instaurazione della dittatura da parte di Cromwell, proclamato lord protettore. Nel frattempo per cercare un riavvicinamento tra la Chiesa d’Inghilterra, quella scozzese e le altre Chiese riformate, il Parlamento inglese aveva convocato un’assemblea di teologi che elaborò la Confessione di fede di Westminster (1647), il testo di riferimento del presbiterianesimo inglese. La 7 9 restaurazione della monarchia nel 1660, con Carlo II, di sentimenti personali filocattolici, comportò il ristabilimento dell’anglicanesimo come religione di Stato e l’introduzione di misure ostili a puritani, battisti e quaccheri (i non-conformisti), volute dal nuovo Parlamento. Nel 1672 quest’ultimo impose il Test Act, che riservava agli anglicani l’accesso alle cariche pubbliche. Quando Giacomo II, salito al trono nel 1685, tentò di restaurare il cattolicesimo con la forza, la Chiesa d’Inghilterra sottrasse definitivamente il proprio appoggio al monarca. Le maggiori forze politiche del paese si coalizzarono appellandosi a Guglielmo III d’Orange, che con un’armata composita di protestanti dei diversi paesi europei sbarcò in Inghilterra e spinse il re alla fuga. La Glorious Revolution si concluse con il conferimento della corona a Guglielmo e alla moglie Maria, figlia di Giacomo II, e pochi mesi dopo con l’approvazione parlamentare del Toleration Act (1689), con il quali fu ammesso il culto dei non-conformisti, con alcune limitazioni e l’esclusione dagli uffici pubblici. Dai benefici del provvedimento continuarono ad essere esclusi i cattolici romani e i gruppi antitrinitari, mentre l’ateismo venne condannato esplicitamente. 6. La riforma della Riforma, i movimenti di Risveglio In reazione alla lunga fase dell’ortodossia e della confessionalizzazione, nel corso del XVIII secolo si svilupparono movimenti tesi a riportare al centro del protestantesimo l’ispirazione e l’esperienza religiosa dei grandi riformatori del Cinquecento. In particolare la drammatica crisi in cui le popolazioni di religione luterana furono precipitate dalle devastazione della guerra dei Trent’anni favorì un riorientamento del luteranesimo e del protestantesimo riformate alla pietà interiore, all’impegno morale. A partire dall’ultimo terzo del Seicento queste istanze furono raccolte nel pietismo. Questo movimento, sviluppatosi a Francoforte sul Meno dal 1666, fu inizialmente caratterizzato da una rigenerazione morale, dal ritorno alla lettura diretta della Bibbia come nella prima Riforma e a una religiosità interiore. Nel Settecento il pietismo trovò il suo più stabile territorio di radicamento nella Prussia di Federico Guglielmo I. Non privo di connessioni con il pietismo fu l’emergere di un’ampia corrente di “risveglio” del fervore religioso, caratterizzata prevalentemente da una proposta del cristianesimo che doveva essere accolta liberamente a livello di coscienza e tradursi in esperienza vissuta, segnata dalla testimonianza e aperta alle istanze missionarie. Verso la metà del Settecento la Chiesa anglicana, ma anche i movimenti dei battisti e dei quaccheri, denotavano una sostanziale incapacità di offrire risposte efficaci ai problemi materiali, morali e religiosi che affliggevano i nuovi ceti operai sviluppatisi nell’ambito della prima industrializzazione. Un’efficace proposta venne invece da un nuovo movimento “risvegliato”, il metodismo: avviato per iniziati dei fratelli Wesley e di George Whitefield, intraprese da un lato un’intensa opera di predicazione itinerante del Vangelo presso gli strati più umili della popolazione inglese e delle colonie americane, dall’altro lato una sistematica azione formativa, che tennero entrambe in diretta considerazione i problemi socioeconomici tipici della prima società industriale, traducendo il tema della carità in forme di accentuato impegno sociale, e si avvalsero, dal punto di vista pratico, anche del concorso di laici. Alla fine del secolo il movimento metodista si strutturò in una nuova Chiesa, che assunse come base dottrinale un testo di venticinque articoli che erano posti a fondamento dell’anglicanesimo. 8 0 Capitolo 20 – il primo confronto con la modernità. Dall’Illuminismo all’età napoleonica 1. I primi processi di secolarizzazione L’arco di tempo che si sviluppa dalla metà del Settecento al primo quindicennio dell’Ottocento è caratterizzato da un primo significativo indebolimento del processo di confessionalizzazione dell’Europa che era stato avviato nel primo Cinquecento. I processi di secolarizzazione iniziarono ad allargarsi nel mondo della cultura, segnato dal superamento della centralità del religioso già nel corso del secondo Settecento, alla sfera dei comportamenti individuali. Di fatto il, progressivo superamento della confessionalizzazione e dell’affermarsi dei primi articolati processi di secolarizzazione misero in discussione aspetti importanti delle società di antico regime e contribuirono al loro superamento, che però si compì soltanto con la rivoluzione francese. Con la locuzione ancien regime si intende definire la monarchia assoluta francese e la società che esse governavano, e per estensione tutti gli Stati assoluti in età precedente alla rivoluzione del 1789, nella quale la popolazione risultava rigidamente divisa in tre stati, nobiltà, clero popolo, e in ambito religioso vige un sistema formalmente monoconfessionale. La rivoluzione francese segnò l’affermazione nel contesto europeo, di quel modello di società moderna che era in gestazione e che si era via via diffuso nei secoli 16º al 18º. Uno sguardo di sintesi induce a rilevare come le chiese e lo stesso modo di intendere e vivere il cristianesimo abbiano subito profonde modificazioni sotto l’urto della secolarizzazione e del moderno. La chiesa cattolica reagì secondo una linea di rigida chiusura ai cambiamenti in corso, che poi nell’800 avrebbe portato all’affermazione interna del cattolicesimo intransigente. Invece le chiese protestanti alternarono alle critiche di alcuni aspetti della modernità i tentativi di rielaborare il messaggio evangelico e la prassi cristiana a partire dalle nuove istanze. Sul piano istituzionale, in riferimento alla chiesa cattolica si deve cogliere la prosecuzione del lungo movimento di accentramento dei poteri intorno all’ufficio papale, già iniziato nel Medio Evo, e la parallela perdita di autonomia. Invece nell’ambito delle diocesi si assiste a un processo di relativa all’aumento degli scopi, sia pure limitato rispetto alle prerogative stabilite dal concilio di Trento. Infatti la dinamica di accentramento intorno all’ufficio papale gli troncò la progressiva riduzione delle molte peculiarità locali del cattolicesimo a un modello meno Stato dei vescovi, parroci e vicari elezione democratica dei vescovi e dei parroci, da parte delle assemblee dipartimentali (così come per qualsiasi altro funzionario statale) obbligo della residenza sotto pena di perdita della retribuzione. Il 1º agosto Luigi XVI incaricò l'ambasciatore a Roma di ottenere l'assenso di Pio VI circa la Costituzione del Clero. Il papa, non volendo danneggiare oltremodo il re in cui riponeva fiducia, si era limitato a condannare segretamente la Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Sulla Costituzione del Clero istituì una speciale Congregazione la quale preoccupata di perdere Avignone e di suscitare una impennata gallicana della Chiesa francese, andò molto per le lunghe. I vescovi francesi avevano domandato che si attendesse l'approvazione pontificia prima di mettere in vigore la Costituzione del Clero, approvata dal re. Ma l'Assemblea Costituente premeva per una rapida soluzione del problema: così decise che per il 4 gennaio 1791 tutti i vescovi, parroci e vicari dovevano prestare un giuramento di fedeltà come funzionari civili, pena la perdita delle funzioni e dello stipendio. Con sorpresa generale i 2/3 degli ecclesiastici della Costituente e tutti i vescovi (eccetto sette) rifiutarono di prestare il giuramento; pressoché la metà del clero parrocchiale fece altrettanto, senza contare le ritrattazioni, incominciate assai presto, di coloro che avevano giurato. La Costituente destituì i refrattari e li sostituì con i costituzionali. Ma il vero problema erano i vescovi: non c'era nessun metropolita disposto a consacrare vescovi costituzionali. Talleyrand, che aveva giurato, consacrò due vescovi il 24 febbraio 1791 e altri 36 furono consacrati da Gobel più tardi. A questo punto Pio VI fu costretto a prendere posizione. Il 10 marzo 1791, con il breve Quot aliquantum, condannò la Costituzione Civile del Clero perché intaccava la costituzione divina della Chiesa; il 13 aprile, con il breve Charitas, dichiarava sacrilega la consacrazione di nuovi vescovi, sospendeva a divinis vescovi e preti costituzionali ("preti giurati") e condannava il giuramento di fedeltà. L'intervento papale contribuì a dividere profondamente la Chiesa francese: refrattari e costituzionali si fronteggeranno fino al concordato napoleonico, che porterà pace nella Chiesa cattolica francese. 8 3 5. Il cesaropapismo napoleonico Una significativa ripresa della Chiesa cattolica in Francia si verificò soltanto dopo l’avvio, nel 1799, del consolato di Napoleone Bonaparte: l’elezione al Papato di Pio VII (1800-1823) portava sul soglio pontificio un prelato che da vescovo di Imola aveva proclamato la conciliabilità tra democrazia e cristianesimo – una “democrazia cristiana” – purché alla Chiesa fosse riconosciuto il ruolo di esclusiva garante dei fondamenti morali del consorzio civile. Così si poté giungere alla ratifica di un concordato con la Francia, il 15 luglio 1801, con l’unilaterale proclamazione da parte dello Stato di alcune norme volte ad integrare gli accordi raggiunti con Pio VII. Venne disegnato un regime di stretto controllo governativo sulla Chiesa cattolica, dando corpo ad una politica ecclesiastica sempre più caratterizzata da un orientamento cesaropapista (termine con cui si indica un modello di rapporto tra potere politico e potere spirituale, nel quale il primo assume il controllo del secondo, intervenendo anche sugli aspetti religiosi e teologici). La politica ecclesiastica napoleonica comportò in Francia il riassetto della Chiesa e in Italia la riforma delle istituzioni ecclesiastiche e la riorganizzazione dell’attività pastorale intorno alla parrocchia. Negli anni successivi, nonostante l’andata di Pio VII a Parigi per l’incoronazione di Napoleone a imperatore (2 dicembre 1804), le tensioni e i contrasti tra Papa Chiaramonti e Bonaparte crebbero, fino a degenerare in un duplice conflitto di natura politica e religiosa che fece saltare gli accordi concordatari. Sul piano religioso, i contrasti si svilupparono su versanti diversi: Napoleone cercò di associare al culto cattolico quello per la propria persona: il catechismo imposto nell’Impero e, in traduzione, anche nel Regno d’Italia raccomandava l’obbedienza all’imperatore sotto pena della dannazione eterna. Sul piano politico lo scontro si accese a causa dei disegni espansionistici di Napoleone: quando Pio VII si rifiutò di allearsi con la Francia contro l’Inghilterra, Napoleone fece occupare Roma (1808) e poi annettere gli Stati pontifici all’Impero. Quindi reagì all’emanazione della scomunica papale facendo imprigionare Pio VII (1809). La sconfitta di Napoleone a Lipsia, nell’ottobre 1813, mutò l’atteggiamento dell’imperatore, Pio VII poté fare rientro in modo trionfale a Roma, come sovrano restaurato, il 24 maggio 1814. Lo strumento concordatario di lì in avanti fu utilizzato frequentemente dalla Santa Sede come mezzo “difensivo” privilegiato, per assicurare alla Chiesa, attraverso un accordo formale, quante più garanzie possibili nei rapporti con gli Stati. Capitolo 21 – il cristianesimo e il moderno. Tra Restaurazione, liberalismo e socialismo (1814-1914) 1. Le Chiese durante la Restaurazione L’avvio della Restaurazione ebbe il suo momento simbolico nel rientro di Pio VII a Roma come sovrano della ristabilita monarchia pontificia nel 1814. Da un lato lo Stato pontificio era proposto come modello di compiuta restaurazione, cui occorreva guardare nella lotta della Chiesa contro la civiltà moderna, e Pio VII rivendicava per l’ufficio papale il ruolo di supremo governante della cristianità. Dall’altro lato, il segretario di Stato Consalvi attuò una politica di accordi con gli Stati che garantirono alla Chiesa limitati ma concreti spazi di azione e di potere nella società. 8 4 Alla morte di Pio VII i cattolici risultavano ancora divisi sugli orientamenti da assumere, tra fautori del ritorno alle società di antico regime, sostenitori di un intransigente rifiuto della modernità, cattolici liberali; tutti però erano decisi a ristabilire una società cristiana. Il nuovo papa Leone XII (1823-1829) sul piano ideologico denunciò che l’origine dei mali dell’epoca andava individuato nell’ostinato disprezzo dell’autorità della Chiesa romana. Invece il breve pontificato di Pio VIII (1829-1830) ripropose l’indispensabilità dell’ossequio del potere politico alle direttive del papa e ribadì le condanne della massoneria. Tutt’altro fu l’indirizzo del suo successore, Gregorio XVI (1831-1846), di cui netta fu la sua opposizione alle libertà moderne: condannò la libertà di stampa e di pensiero. Anche se la definitiva assunzione dell’ideologia politico-religiosa di cristianità nell’insegnamento papale si sarebbe avuta solamente con Pio IX, già Gregorio XVI si mosse in quell’ottica. L’autodeterminazione dell’uomo nell’organizzazione della società era interpretato come un radicale attacco alla religione e alla Chiesa cattoliche. 2. Pio IX: il cattolicesimo intransigente come risposta alla modernità Il lungo pontificato di Pio IX (1846-1878) fu segnato da una fase iniziale che favorì l’equivoco del mito del “papa liberale” tra i patrioti italiani. In effetti, dopo l’ascesa al pontificato Pio IX assunse alcuni provvedimenti di politica interna, tra cui l’amnistia per i condannati politici, la creazione di un consiglio dei ministri nello Stato pontificio aperto anche ai laici cattolici, l’introduzione di una limitata libertà di stampa; essi furono letti come la disponibilità del nuovo papa a superare l’orientamento antimoderno. Questa immagine di Pio IX si dissolse dopo l’avvio della prima guerra d’Indipendenza italiana tra il Regno di Sardegna e l’Austria, dove ordinò il ritiro delle truppe pontificie e dichiarò di non poter muovere guerra ad una nazione cattolica come quella retta dalla monarchia viennese. Le rivoluzioni del 1848 e l’instaurazione nel febbraio 1849 della Repubblica romana e la sua politica ecclesiastica causarono la definitiva adozione della linea intransigente da parte del pontificato. Pio IX condannò il socialismo e il comunismo; il suo intervento rappresentò la fine di ogni ipotesi di conciliazione tra cattolicesimo e modernità. Pubblicando l’enciclica Quanta cura, Pio IX formulò una condanna complessiva della modernità. Nello stesso tempo promosse il rilancio dei concili provinciali e delle sinodi diocesane. L’adozione di un regime costituzionale da parte di un numero crescente di paesi dell’Europa indusse la Chiesa cattolica ad incoraggiare lo sviluppo di organizzazioni del laicato cattolico. In questo modo il laicato cattolico emergeva nel corso dell’Ottocento come strumento per la ricostruzione di una società cristiana e di opposizione al liberalismo e al socialismo, che ne avrebbe caratterizzato in modo sempre più rilevante la storia successiva. La fioritura di congregazioni religiose maschili e soprattutto di vita attiva, portò all’emergere di un rinnovato protagonismo della donna. Nell’Ottocento il recupero del profetismo, prevalentemente femminile – dalle rivelazioni alle visioni – diventò un elemento funzionale al rafforzamento di una religiosità popolare e offrì un’alternativa speculare alle razionalizzazioni della religione proprie della modernità. 3. Il Concilio Vaticano I. La fine del potere temporale 8 5
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved