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Gian Paolo Romagnani, La società di antico regime(XVI-XVIII secolo). Temi e problemi storiografici, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto fino al capitolo 10 del libro "La società di antico regime(XVI-XVIII secolo)" di Gian Paolo Romagnani

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 02/11/2018

mariaveronicamari
mariaveronicamari 🇮🇹

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Scarica Gian Paolo Romagnani, La società di antico regime(XVI-XVIII secolo). Temi e problemi storiografici e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! LA SOCIETA’ DI ANTICO REGIME(XVI-XVIII SECOLO) [fino al capitolo 10] IL LAVORO DELLO STORICO Il concetto di “storia”, dati i diversi significati assumibili dalla parola, è piuttosto ambiguo: con “storia”, infatti”, possiamo indicare il concreto divenire degli eventi nel corso del tempo(realtà oggettiva), la narrazione e interpretazione data dagli uomini(realtà soggettiva) e un racconto, vero o finto che sia. La storia come realtà oggettiva altro non è che quella comunemente chiamata Res gestae , mentre la storia come narrazione e interpretazione data dagli uomini costituisce la Historia Rerum Gestarum o, ancora più nel dettaglio, la storiografia. Il termine “storia” deriva dal latino historia derivato, a sua volta, dal greco antico historéin e, poiché l’histor è colui che vede e historie è la ricerca, secondo l’idea greca storia e ricerca non possono essere separate e fare storia necessariamente significa fare ricerca. Non è assolutamente causale che Erodoto(484 a.C-425 a.C) e Tucidide(460 a.C-404 a.C), i due più grandi storici greci, abbiamo intitolato le loro opere Historie e Tà Erga, cioè Le ricerche e i fatti. Erodoto e Tucidide sono alla base di due diverse concezioni della storia e della storiografia: uno sostiene la storia come ricerca, mentre l’altro la storia come narrazione di fatti per lo più politici e militari. Alla storia come ricerca si collega la storia sociale multidimensionale nata a partire dalla prima metà del Novecento e collegata alla geografia e all’antropologia; alla storia come narrazione si collega quella che viene chiamata da Bloch storia evenemenziale, ossia concentrata sulle grandi narrazioni di fatti e avvenimenti politici, militari e istituzionali, assai meno attenta all’indagine dei mutamenti lenti, profondi e sotterranei delle società umana. Giunti a questa considerazione è lecito domandarsi che cosa sia, quindi, la storiografia: essa è il nostro modo di avvicinarci alla storia poiché qualsiasi primo approccio alla storia si ha attraverso la storiografia e la conoscenza del passato è storia della storiografia. L’attività storiografia svolge la funzione di ricordare, ammaestrare e spiegare, corrispondenti rispettivamente alla storiografia narrativa, alla storiografia pragmatica e alla storiografia scientifica. Queste tre funzioni corrispondono alla prima ricerca svolta dalla storiografia: la ricerca dell’identità, ciò che definisce i tratti comuni con coloro che riteniamo essere simili a noi, motivo per il quale questa ricerca è confluita all’origine dei nazionalismi, del razzismo e dell’intolleranza nei confronti dell’altro. Oggetto della ricerca storia sono gli uomini e le donne, le società umane nella loro molteplicità e nelle loro trasformazioni nel tempo. Lo storico è prima di tutto colui che risale alla memoria dei testimoni: egli svolge la funzione di fornire una lettura del passato che è, però, sempre soggettiva e suscettibile. Fu con il Rinascimento che lo storico non venne più considerato come un testimone, ma come interprete critico: considerare lo storico come testimone porterebbe, infatti, a un inquinamento delle prove, mentre è importante ricordare che la storia inizia dove finisce la testimonianza. Nel caso di storia contemporanea c’è la possibilità che storia e testimonianza si sovrappongano: in questo frangente, di fronte ai fatti il testimone si espone in maniera soggettiva e lo storico, per quanto testimone, è tenuto a mantenere una visione soggettiva. Quando nel 1975 François Furet nell’articolo Dalla storia-racconto alla storia-problema dichiarò tramontata la storia-racconto , si intraprese la strada della storia-problema che altro non è se non il dominio della struttura, della serialità e della quantità: in questo dominio lo storico è tenuto ad avere un approccio scientifico lavorando sulle strutture e sui quadri socio-economici di lunga durata piuttosto che sui singolo avvenimenti che portassero alla costruzione di modelli interpretativi multidimensionali. Appena quattro anni dopo, nel 1979, Lawrence Stone nell’articolo Il ritorno al racconto: riflessioni su una nuova vecchia storia propose un ritorno alla narrativa dato dalla consapevolezza che la narrazione e l’eleganza stilistica rappresentino componenti essenziali del discorso storico(alle spalle di Stone era presenta una stagione di forte critica nei confronti della storia evenemenziale alla quale gli storici avevano contrapposto un modello espositivo saggistico dove il dato quantitativo e seriale diventava protagonista assoluto). Infatti, la storiografia nasce come racconto e fare storia significa prima di tutto raccontare una storia che, pur essendo vera e non inventata, è comunque storia(la storia si differenzia dalla poesia perché il poeta è più libero dello storico e può raffigurare l’intera gamma delle potenzialità umane, mentre lo storico si limita a descrivere determinati e limitati accadimenti(cfr. Aristotele, Poetica; più precisa è la distinzione fra storie, argomenti e favole definita sia da Isidoro di Siviglia sia da Voltaire: per il primo la differenza fra la storia e la favola è di ordine ontologico, mentre per il secondo è di carattere discorsivo e dipende dall’intenzione del racconto). Il discorso storico si svolge su due piani distinti(per quanto sulla pagina del testo storiografico siano intrecciati, nella mente dello storico devono essere separati), quello della descrizione-narrazione e quello dell’ interpretazione: nel primo caso lo storico espone i fatti e lascia che a parlare siano i documenti relativi, mentre nel secondo caso è lo storico che espone le proprie considerazioni circa l’accadimento. L’autore di un testo storico punta alla veridicità, ossia a far riconoscere il suo testo come vero: per fare questo egli fa sia sapere la verità su avvenimenti passati, sia prova che si tratti di una verità che, però, non potrà mai essere assoluta e indiscutibile. Conoscere, nel nostro caso, la società di antico regime significa prima di tutto conoscere le fonti utilizzate dagli storici(a), la storiografia(b), il significato delle principali categorie storiografiche(c) e i grandi dibattiti che hanno visto scontrarsi gli storici prima di giungere a conclusioni parzialmente condivise(d). a) per quanto riguarda le fonti è utile fare prima di tutto chiarezza sul fatto che “fonte” e “documento”, per quanto vengano utilizzati arbitrariamente, non sono in realtà sinonimi: documento si definisce rispetto al passato e rispetto al mondo di cui è testimonianza, la fonte si definisce rispetto al futuro e rispetto alla conoscenza che lo storico vuole ricavare dal documento. Le fonti possono essere primarie(testimonianze dirette e, quindi, manoscritti e a stampa)e secondarie(testimonianze indirette come, ad esempio, oggetti, tracce presenti sul territorio e norme o istituzioni che rinviano a costumi in disuso); b)la bibliografia è tutto ciò che è stato scritto sul problema di cui lo storico si occupa ed è lo strumento principale della ricerca e, al pari delle fonti, può essere distinta in primaria (libri frutto di un lavoro di ricerca diretta sui documenti, come una monografia originale)e secondaria(libri scritti su altri libri, come un manuale o una sintesi interpretativa). Luogo canonico della ricerca storiografica è l’archivio, memoria organizzata di un’istituzione e, cioè, la fotografia dell’istituzione che lo ha generato. L’archivio non è organizzato per argomento, ma per funzioni e le principali sezioni in cui è diviso richiamo ancor oggi le funzioni amministrative dell’ente che lo ha generato: archivi di Stato, archivi pubblici, archivi privati, archivi ecclesiastici; d)tra il 1800 e il 1900 il dibattito storiografico internazionale è stato caratterizzato da alcuni grandi temi: Rinascimento, autunno del Medioevo o alba della modernità?(a), Riforma, Controriforma e Riforma cattolica (b), La crisi generale dei Seicento(c)e, infine, Il settecento è davvero il secolo dei Lumi?(d). a)Se Jakob Burckhardt nella sua opera del 1860 La civiltà del Rinascimento in Italia definiva la categoria storiografica di Rinascimento come primo motore di un rinnovamento di civiltà che avrebbe portato alla Riforma religiosa, all’illuminismo e all’affermazione della moderna civiltà liberale, lo storico olandese Johan Huizinga in Autunno del Medioevo affermava che il tardomedioevo europeo era pervaso da un senso di malinconia, dalla presenza della violenza e dall’ossessione della morte. Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, nel suo libro La crisi del primo Rinascimento Hans Baron proponeva la categoria di umanesimo civile come antidoto alle barbarie e ai totalitarismo; b)Altra grande controversia riguarda la natura della crisi religiosa del 1500: la storiografia protestante tedesca ritiene che la riforma di Lutero sia il fattore determinante capace di segnare il passaggio dall’Europa alla modernità. Leopold von Ranke propose nella Storia della Germania nell’età della Riforma (1839-1847) un quadro interpretativo basato sulla dicotomia tra Riforma come spinta positiva e Controriforma come spinga negativa. Per la storiografia cattolica, come dimostrato da Giuseppe Alberigo e Paolo Prodi ,la Controriforma fu sia una violenta reazione alla Riforma luterana sia un’autonoma spinta nata all’interno della Chiesa e culminata con il rinnovamento post-tridentinola Riforma cattolica viene interpretata come un movimento autonomo avviato a fine Quattrocento e portato avanti da Erasmo da Rotterdam e proseguito da alcuni ecclesiastici illuminati negli anni della contrapposizione alla Riforma luterana per poi essere uscita dal Concilio di Trento come grande compromesso fra tradizione e novità; c)Interessante è anche il dibattito su quella che viene comunemente chiamata “crisi generale del Seicento” e che ha impegnato gli storici nel secondo dopoguerra, vertente sulla natura della crisi, carattere di crisi generale , ruolo della rivoluzione inglese e ruolo degli spazi italiani nel quadro della crisi. Una prima divisione era tra storici marxisti,come Maurice Dobb, Christopher Hill e Eric Hobsbawn,che ritenevano la crisi del Seicento essere il primo segnale della crisi generale del modo di produzione feudale e dell’emergere dell’economica capitalistica e storici non marxisti, quali Trevor-Roper e Roland Mousnier ,per i quali era necessario far riferimento alla sfera politica guardando al divario e alla frattura che si era venuta a creare fra Stato e società. L’italiano Ruggiero Romano, dal canto suo, riteneva che la stagnazione generalizzata del Seicento fosse la conseguenza di una prova capitalistica fallita che aveva determinato in molti casi una vera e propria rifeudalizzazione. Altra divisione era tra coloro che guardavano al Seicento come un secolo di crisi (Rosario Villari),volgendo lo sguardo della ricerca all’Europa centromeridionale e cattolica,e chi individuava nello stesso secolo significativi elementi di sviluppo e di crescita economica e sociale guardando, invece, da Immanuel Wallerstein è stata definita economia- mondo. La scoperta di nuovi mondi, inoltre, portò gli intellettuali ad interrogarsi sulla validità delle Sacre Scritture e dei suoi personaggi. L’importazione dei nuovi prodotti determinò un profondo mutamento del regime alimentare e la scoperta di giacimenti d’argento e d’oro indusse lo sfruttamento di queste risorse e provocò uno sbalzo economico senza precedenti al quale si aggiunse anche l’aumento vertiginoso dei prezzi dei beni agricoli come diretta conseguenza dell’immissione improvvisa sul mercato europeo di grandi quantità di metalli preziosi che ridussero il valore delle monete Rottura dell’unità cristiana Gli eventi di carattere religioso che si verificarono negli anni 1517-1555 portarono a un pluralismo religioso: accanto al Cattolicesimo iniziarono ad affermarsi diversi modi di vivere e testimoniare il cristianesimo e solo la Chiesa cattolica mantenne un struttura verticistica e piramidale rafforzando il carattere monarchico del papato, mentre nelle Chiese protestanti iniziò ad affermarsi il modello presbiteriano Nascita degli Stati moderni Confini precisi e difesi da eserciti permanenti, amministrati da una rete di burocrati e funzionari permanenti, entrambi mantenuti grazie ad un sistema fiscale di prelievo del denaro sempre più efficace ed omogeneo, governati da sovrani dotati di poteri ampi e tesi ad affermare il proprio potere sopra quello degli organi rappresentativi dei ceti e dei territori che continuano ad esistere e ad operare. Nascita del capitalismo Aumento demografico, aumento dei prezzi, aumento della circolazione di metalli preziosi, urbanizzazione e sviluppo della manifattura Invenzione della stampa Stampa come potente veicolo di comunicazione nonostante il diffuso analfabetismo Rivoluzione militare Invenzione della polvere da sparo, crisi della cavalleria progressivamente sostituita dall’artiglieria (arma borghese per eccellenza), crescita della dimensione degli eserciti, professionalizzazione militare, scomparsa delle mura medievali merlate e comparsa di fortificazioni di tipo nuovo adatte a sopportare i lunghi assedi GLI SPAZI DELLA VITA E IL MONDO RURALE La maggior parte della popolazione europea, cioè quei ceti contadini che pur apparendo raramente erano i veri protagonisti della storia, viveva in campagna. Il paesaggio agrario era un prodotto antropico: le campagne europee tra 1500 e 1700 vedevano l’alternanza di aree incolte e aree coltivate, il bosco occupava ancora 1/3 del territorio europeo, pianure e colline erano abitate e coltivate densamente a differenza delle zone di montagna che invece erano raramente abitate. Strade e vie navigabili erano limitate e i mezzi di trasporto erano così lenti da costringere la popolazione a percorrere a piedi quotidianamente brevi distanze e solo le strade percorse dai cortei reali erano lastricate, motivo per il quale le merci deteriorabili e quelle pesanti viaggiano soprattutto lungo i fiumi. Daniel Roche , in Humeurs vagabondes. De la circulation des hommes et de l’utilité des vojage ha posto in evidenza il carattere mobile della società di antico regime dimostrando come, sebbene si trattasse di spostamenti di corto raggio, questi in realtà coinvolgevano gran parte della popolazione; fra il 1600 e il 1700, oltre il 50% della popolazione rurale cambiava residenza nell’arco di dieci anni e, per quanto il trasloco coprisse piccole distanze, era comunque significativo e contribuiva ad enfatizzare ancora di più il carattere mobile. A riprova della scarsità di manutenzione stradale, basti pensare che le campagne europee erano poco abitate: per raggiungere qualsiasi meta bisognava percorrere molti km a piedi e solo in alcune regioni d’Europa(Fiandre, valle del Reno, regione parigina, parte della pianura padana) era possibile trovare un’alta densità umana e urbana. Per poter entrare meglio in questa dimensione rurale, possiamo affidarci allo studioso Sebastian Munster e, in particolare, alla sua Cosmographia universa: i contadini vivevano raggruppati in villaggi circondati da campi, prati e boschi; i villaggi potevano essere di varie dimensioni e forma e, cioè, un aggregato casuale di abitazioni, un villaggio cresciuto sui due lati di una strada di comunicazione o attorno ad una piazza destinata al mercato, attorno a un palazzo nobiliare o ad una chiesa. La dimensione della casa dipendeva dalla struttura della famiglia e dalle condizioni lavorative: famiglie nucleari vivevano in abitazioni molto piccole, mentre case, casolari e fattorie più ampie accoglievano famiglie numerose. Le abitazioni erano costruite con il legno, terra e paglia, pietra e raramente muratura:i braccianti e i lavoratori a giornata necessitavano di spazi minori rispetto ai mezzadri, ai piccoli proprietari o agli agricoltori-allevatori; le case di montagna e quelle delle regioni più fredde erano più spaziose di quelle di pianure e delle zone calde, mentre le case contadine erano anche un riparo per gli animali ed un luogo di lavoro o deposito per generi alimentari a lunga conservazione. Per quanto riguarda il materiale, invece, troviamo sostanze vegetali o animali lavorate a mano per ottenere sia gli attrezzi da lavoro, sia gli arredi e i suppellettili domestici, così come sostanze animali e vegetali si usano per gli indumenti; l’uso del ferro era abbastanza limitato e i vetri alle finestre fecero la loro comparsa solo nel Settecento in Francia, Inghilterra e Toscana. La casa, inoltre, aveva un unico focolare che rappresentava problemi per chi viveva in abitazioni costruite in legno e paglia: per raggirare il problema, andò a concretizzarsi l’abitudine di dormire nella stalla o accanto ad essa, mentre i caminetti a parete laterale fecero la loro comparsa solo nelle case patrizie e, invece, nelle grandi case rurali delle regioni alpine iniziò a diffondersi la stufa domestica in muratura utilizzata anche come giaciglio notturno(stube). Analizziamo, ora, il fattore umano: poiché gli uomini di antico regime non erano coscienti della realtà demografica del loro tempo, gli unici dati che possiamo tenere in considerazione per le nostre ricerche sono quelli degli archivi parrocchiali, presenti in tutte le parrocchie dell’Europa cattolica dopo il Concilio di Trento: fu, infatti, con il Concilio di Trento che venne imposto a tutti i curati di compilare i registri di battesimi, matrimonio e sepolture. Fattore determinante per addentrarci nello studio dell’andamento demografico è quello della mortalità: questa, pur non dipendendo dalla volontà dell’individuo e non potendo essere considerata un dato puramente biologico, è fortemente condizionata da fattori sociali e ambientali che, in caso di un alto tasso di mortalità, sono indizio di miseria e disagio sociale o, viceversa, di benessere se il tasso è basso. Dopo la morte di un coniuge, spesso, si convolava a seconde nozze: per un uomo risposarsi significava assicurarsi il mantenimento e la cura dei figli piccoli, mentre per una donna era l’unico modo per evitare il disastro e le nuove nozze erano l’unica forma di protezione e di assicurazione sul futuro suo e dei suoi figli. Ma quali erano le principali cause di morte? Tra le cause di morte abbiamo gravi infezioni, malattie polmonari, cardiopatie, malformazioni congenite, febbri malariche(malattia legata all’ambiente malsano delle paludi), peste(malattia egualitaria: colpiva tutti, tanto il povero quanto il ricco), colera e lebbra; ancora, si poteva morire a causa del clima, troppo freddo, troppo caldo o troppo umido: in inverno le vittime erano soprattutto i bambini(malattie polmonari), durante l’estate le malattie intestinali colpivano adulti e bambini e alla fine dell’estate le malattie cardiovascolari colpivano soprattutto gli anziani. Si moriva di fame in seguito a crisi alimentari per gravi carestie e cattivi raccolti, per la guerra subita dalle popolazioni civili e non da soldati(villaggi interi venivano saccheggiati e distrutti al passaggio delle truppe, il bestiame veniva sequestrato e interi frutteti venivano abbattuti per permettere una visuale migliore. Andando avanti, infine, si poteva morire per banali incidenti sul lavoro, sulla strada, per le percosse e i maltrattamenti subiti in famiglia dal marito o dai genitori, per una rissa in osteria e per un’aggressione. Di contro, la natalità è da sempre soggetta alle scelte individuali e quindi condizionata da fattori sociali e culturali: in antico regime si mettevano al mondo molti figli, ma non è affatto vero che la natalità sia stata sempre molto alta, ma, al contrario, subì flussi e riflussi determinati dai cicli economici e, soprattutto, si facevano più figli nelle società più povere ed arretrate: i figli, infatti, erano considerati investimenti sul futuro, venivano “utilizzati” per reagire alla presenza della morte, rispondevano a motivi religiosi precisi e, soprattutto, mancavano efficaci contraccettivi. È stato dimostrato che la natalità è una funzione derivata dal rapporto tra fertilità e fecondità, definendo fertilità la natalità in potenza e la fecondità la natalità in atto: la prima è la capacità femminile di procreare in età tra 15 anni e 45 anni, la seconda la realtà riproduttiva costituita di un numero variabile tra 1 e 15 figli nell’arco di 30 anni. Prima di occuparci di due dati assolutamente importanti(fecondità e illegittimità), sfatiamo due miti: l’età media delle nozze era attestata attorno ai 28 anni per gli uomini e 24 anni per le donne e, inoltre, erano le famiglie aristocratiche a comprendere più nuclei conviventi. Analizziamo, ora, i dati di fecondità(a) e illegittimità(b): a)Louis Henry, Des registres paroissiaux à l’histoire de la population. Manuel de dépouillement et d’exploitation de l’état civil ancien: misurazione del tasso di fecondità della Francia del 1600 partendo dai dati dei registri parrocchialievidente variazione dell’andamento delle curve secondo fluttuazioni cicliche intenzionali, frutto di calcoli elementari da parte dei soggetti stessi: consapevole controllo della natalità esercitato attraverso il controllo della nuzialità, la limitazione delle occasioni di contatto fra giovani, l’allattamento prolungato dei propri figlio o l’allattamento di bambini altrui presi a balia, la contraccezione naturale o meccanica e il ricorso all’aborto. In assenza di questi fattori, la tendenza naturale sarebbe stata comunque all’aumento costante della popolazione: ogni donna tra i 20 anni e i 45 anni avrebbe messo al mondo circa 8 figli con un incremento demografico del 150% per ogni generazione. Fattori di limitazione della fecondità sono, inoltre, la frequente e precoce mortalità del coniuge, l’arrivo tardivo al matrimonio in età fertile come accadeva per le secondogenite/terzogenite della nobiltà e dell’alta borghesia costrette a prendere i voti, delle figlie non maritate di contadini o piccoli artigiani e di molte ragazze mandate a fare le serve; b)il tasso di illegittimità delle nascite era basso e non superava il 5%: in campagna era più basso delle città, dove il minor controllo sociale consentiva maggiore libertà sessuale, mentre l’alta densità abitativa e la maggior mobilità determinavano più occasioni di incontro. Per quanto riguarda i concepimenti prematrimoniali è stata rilevata una differenza fra la Francia cattolica e l’Inghilterra protestante: il fatto che il matrimonio non fosse un sacramento religioso rendeva meno rigoroso il controllo della sessualità dei giovani e l’abitudine di dare un peso maggiore al contratto matrimoniale stipulato fra le due famiglie rispetto alla cerimonia religiosa delle nozze consentiva frequentemente una coabitazione precoce fra i promessi sposi. Ricordiamo,però, che la famiglia di antico regime era basata sulla gerarchia e sulla disuguaglianza dei suoi componenti: gli uomini dominavano sulle donne, i mariti sulle mogli e sui figli, gli anziani sui giovani; anche per quanto riguarda i figli, il primogenito era l’erede del patrimonio famigliare, mentre i figli cadetti erano destinati al celibato per consentire ai fratelli maggiori di godere dell’intero patrimonio, la figlia primogenita era destinata al matrimonio, mentre le altre figlie al nubilato o al convento. Analizzato il fattore umano, possiamo concentrarci sul mondo rurale come luogo di produzione di beni agricoli, destinati per la maggior parte all’autoconsumo e solo in maniera minima allo scambio. La terra lavorata dai contadini apparteneva al sovrano o al principe territoriale, ai nobili che la detengono in beneficio feudale o in proprietà, ai proprietari terrieri liberi, alla Chiesa e agli enti ecclesiastici. In campagna vive più dell’80% della popolazione europea: mendicanti, vagabondi e banditi, servi rurali e servi della gleba, contadini nullatenenti costretti a lavorare a giornata sotto padrone, lavoratori stagionali immigrati da altri territori, manifatturieri, fittavoli, piccoli proprietari agricoli, medi proprietari terrieri, bottegai e artigiani di villaggio, ecclesiastici, amministratori dei beni dei grandi aristocratici assenteisti, proprietari terrieri non nobili, gentiluomini di campagna insediati nelle loro tenute rurali, signori feudali titolari dei diritti giurisdizionali. La comunità rurale era costituita da famiglie che vivevano al centro di una data area coltivata che poteva far parte di una grande proprietà fondiaria feudale o che poteva essere costituita prevalentemente da piccole o piccolissime proprietà o terre comuni distribuite in parti uguali fra gli abitanti. Come abbiamo già notato in precedenza, i componenti delle famiglie diminuiscono in rapporto alla gerarchia sociale: i più ricchi avevano famiglie più numerose anche perché disponevano di un numero piuttosto consistente di servi. All’interno della famiglia contadina vigeva una rigorosa divisione del lavoro, esistente anche all’interno della comunità di villaggio, soggetto principale del mondo rurale: ogni singola comunità era dotata di statuti riconosciuti anche dagli altri soggetti e di organi di governo che regolavano e distribuivano il carico fiscale e organizzavano le corvées; organo decisionale era l’assemblea dei capifamiglia che esprimeva un Consiglio ristretto ed alcune magistrature che amministravano i beni della comunità che spesso concedeva a singoli contadini una parte dei beni comuni in affitto, dietro pagamento di un canone, o in concessione gratuita con la promessa di manutenzione. Fra i compiti amministrativi il più delicato riguardava il riparto del carico fiscale definito con criteri proporzionali ai redditi agricoli: nella Francia meridionale ogni villaggio rafforzamento delle nuove gerarchie urbane e l’appartenenza a una di esse poteva determinare riconoscimenti e privilegi; b)Collegi: rappresentanza di tutte le attività professionali che portava al riconoscimento di un titolo nobiliare e all’ingresso negli ordini privilegiati>la separazione dagli ordini inferiori era netta e rappresentata da regole precise; c)Arti: l’Arte è il mestiere, insieme documentato ed elaborato di saperi e di pratiche che venivano trasmessi da una generazione all’altra; All’interno di ciascuna bottega il lavoro era organizzato secondo una precisa gerarchia fatta di garzoni, adolescenti non salariati e ospitati nella casa del maestro, lavoranti, salariati con dimora propria che raggiungevano questo ruolo dopo tre anni di garzonato, infime i maestri, gli unici ad avere accesso alle cariche corporative e alle magistrature cittadine. All’interno della bottega il lavoro non era quasi mai accompagnato da relazioni amichevoli: i conflitti, spesso celati da futili scuse, erano all’ordine del giorno e l’abbandono di una bottega per mettersi al servizio di un altro maestro era considerato un vero e proprio tradimento. I contratti di apprendistato erano a carico dell’apprendista: la bottega era una scuola e il maestro era sia docente sia educatore; il lavoro dell’apprendista non veniva retribuito perché veniva svolto durante un periodo di formazione e, periodicamente, prevedeva la valutazione dei “capi d’opera” da parte di un collegio che giudicava i progressi. La protesta nei confronti dei maestri si manifestava con l’abbandono collettivo della città da parte di membri della stessa Artediritto esclusivo da parte dei membri di esercitare la stessa arte. Le regole delle Corporazioni erano regole di città e si trattava, da un lato, di regole ad includendum e, dall’altro, di regole ad excludendum: venivano esclusi gli stranieri, gli abitanti del contado, di uno stato, di una città o di un territorio vicino, gli Ebrei o chiunque non fosse di religione cristiana e, soprattutto, le donne le quali, pur potendo subentrare al marito o al padre defunto, non potevano ricoprire incarichi sociali. I CETI BORGHESI E LE ORIGINI DEL CAPITALISMO Gerarchicamente inferiore al patriziato urbano, il ceto borghese era formato dalle famiglie che facevano parte delle Corporazioni di mestiere o delle Arti e dei Collegi che erano, in genere, rappresentati da un consiglio cittadino: distinguendosi dai nobili e dai non borghesi(fascia di piccoli artigiani e commercianti privi di diritti politici), in molti casi la qualifica di borghese rappresentava un titolo onorifico per i cittadini più eminenti. Nel 1700 con “borghese” si indicavano quelli che non erano né ecclesiastici né nobili e che appartenevano, quindi, al terzo stato. Le borghesie di antico regime erano composte essenzialmente da due gruppi di riferimento definibili come i “mestieri del denaro” e i “mestieri del sapere”: del primo gruppo facevano parte i proprietari e gli uomini d’affare, del secondo i professionisti e i funzionari. Occupiamoci, ora, di economia chiedendoci se fosse economia naturale di sussistenza o di mercato:tra gli storici vi era chi proponeva il baratto come forma prevalente dello scambio nell’alto medioevo, chi mostrava il graduale passaggio da un’economia naturale chiusa ad un’economia naturale con elementi di scambio e chi, infine, contrapponeva un’economia di autoconsumo a quella di mercato. Oggi è stato dimostrato che, mentre il ruolo della moneta si faceva sempre più significativo, lo scambio di beni si consolidava e non rappresentava affatto un elemento di arretratezza economica e, come dimostrato da uno studio di Carlo Maria Cipolla, essendo la distribuzione del reddito fortemente sbilanciata, la moneta circolava ampiamente in certi ambiti(pagamento di tributi, ammende, tesaurizzazione)e veniva sostituita in altri dallo scambio in natura (alimentazione dell’esercito). Per buona parte della prima età moderna, la produzione finalizzata al diretto consumo prevalse su quella rivolta al mercato e va ricordato che in antico regime non esisteva un’unità monetaria comune: ogni territorio aveva la propria moneta e tutte avevano libero corso ovunque, nessuna aveva valore facciale poiché il suo valore ufficiale veniva stabilito dall’autorità regia o dal signore, ma il suo valore reale era intrinseco e corrispondeva al valore e al peso del metallo che la componeva e che poteva variare a secondo delle diverse fusioni o a seconda delle diverse operazioni fraudolente messe in atto dai commerciantil’erosione e la limatura delle monete d’oro e d’argento per ricavare polvere preziosa da rifondere diminuivano il valore reale della moneta,mentre la doratura o l’argentatura camuffavano monete di metallo>quella che circolava in Europa era una cattiva moneta che aveva una funzione complementare accanto ai beni in natura: raramente un contadino pagava o veniva pagato interamente in denaro, ma più spesso lo scambio avveniva parte in natura e parte in denaro. Oggi si ritiene che la nascita del capitalismo coincida con l’emergere di un mercato organizzato per il credito a breve termine basato sulle lettere di cambio: il credito era gestito dai grandi mercanti che prestavano o anticipavano denaro ad alti tessi d’interesse, mentre le lettere di cambio permettevano il trasferimento di denaro a distanza(si trattava, infatti, di un atto notarile con il quale il banchiere che aveva ricevuto un versamento da un cliente ordinava a un altro banchiere operante su un’altra piazza di pagare un beneficiarioprima forma rudimentale di cambiale che permetteva il movimento di capitali da una piazza all’altra evitando il più rischioso trasporto del denaro contante). In età moderna le più grandi concentrazioni di lavoratori erano stabilimenti per i poveri chiamati Workhouses e istituiti a partire dalla fine del 1500 in Inghilterra, in Olanda e nel nord Europa. Fino alla metà del 1600, comunque, la tipologia più diffusa in Europa era quella della bottega artigiana o della manifattura diffusa, con ampio ricorso al lavoro a domicilio, ma non identificabile con una precisa struttura fisica dove si svolgeva la maggior parte del lavoro; i primi cambiamenti avvennero, di fanno, solo nel 1700 con lo sviluppo dell’industria tessile e con la rivoluzione industriale. Il termine, introdotto da Arnold J. Toynbee nel 1880 e rielaborato da Paul Mantoux in La rivoluzione industriale. Saggio sulle origini della grande industria moderna in Inghilterra, per poi essere ripreso da Rostow e Bairoch, indica la trasformazione epocale realizzatasi in Europa a partire dalla metà del 1700, prima in Inghilterra e poi in gran parte del mondo occidentale, in seguito all’affermarsi dell’economia di mercato, del macchinismo e del sistema di fabbrica e basata,come sostenuto dallo storico statunitense David Landes, sulle nuove fonti energetiche quali il carbone, il coke e il petrolio. Recentemente gli storici hanno avanzato la tesi per la quale l’affermazione del moderno sistema industriale non ha sempre e necessariamente comportato la rapida concentrazione della manodopera in grandi stabilimenti, il suo disciplinamento e la sua organizzazione secondo modelli razionali basati sulla divisione di compiti e mansioni parcellizzate ed infine l’introduzione di macchine automatichesi parla di protoindustrializzazione: la rivoluzione industriale inglese fu soltanto una delle vie possibili, ma non certo l’unica e la sola. Sotto questo concetto Franklin Mendels comprese tutte le realtà manifatturiere sviluppatesi prima della piena affermazione del sistema di fabbrica nell’Inghilterra settecentesca. Successivamente, con la pubblicazione di L’industrializzazione prima dell’industrializzazione del gruppo di ricercatori dell’Università di Gottinga, si è spostato l’accento sulle diverse vie rispetto a quella britannica anticipando la periodizzazione dal XVIII al XVI e al XVII secolo: l’attenzione era posta sugli aspetti demografici e rilevò una crescita sostanziale e significativa della popolazione nelle aree toccate dalla protoindustrializzazione(tesi sostenuta anche da Giacomo Becattini che ha proposto il concetto di distretto produttivo manifatturiero per indicare unità territoriale in cui si concentravano attività industriali prevalentemente omogenee). Questa nuova prospettiva ha permesse di guardare con un occhio nuovo le realtà periferiche che, soprattutto per quanto riguarda la penisola italiana, comprendeva produzioni manifatturiere basate sul mondo agricolo e su un massiccio impiego del lavoro a domicilio> in Italia nel 1600 la manifattura si era spostata fuori dalle città per aggirare i vincoli corporativi e trovare manodopera a basso costo: la concentrazione dei lavoratori in uno stabilimento apparve la scelta più giusta per consentire un miglior controllo e disciplinamento della manodopera, oltre che un miglioramento di qualità della produzione e una rapida meccanizzazione delle varie fasi di produzione. L’interpretazione classica della rivoluzione industriale poneva al centro dello studio la nascita di un proletariato industriale, l’affermazione del sistema di fabbrica, il nichilismo, l’impiego di nuove fonti di energia, l’internazionalizzazione del mercato; da alcuni anni, però, l’attenzione degli studiosi si è spostata alla produzione di consumo. Fernand Braudel su Civiltà materiale, economia e capitalismo e Daniel Roche con Il linguaggio della moda. Alle origini dell’industria dell’abbigliamento e Storia delle cose banali. La nascita del consumo in Occidente hanno proposto l’ipotesi per la quale la capacità di consumare dipende da una quantità di vincoli che non sono solo riferibili alla disponibilità di beni sul mercato, ma anche ad elementi sociali, culturali e simbolici e, quindi, un bene prodotto può non essere richiesto finchè il contesto sociale in cui si colloca non lo rende fruibile da gruppi precedentemente esclusi dal suo utilizzo. La gerarchia del valore che attribuiamo ai beni è relativa, mentre fu a partire dal 1700 che si affermò un consumo tendenzialmente di massa che rese le differenze sociali meno percepibili imponendo anche nei ceti inferiori la “necessità del superfluo”,ossia l’esigenza di possedere beni non strettamente necessari alla sopravvivenza quotidianamentre il lusso si affermava come il fattore più importante di rinnovamento e trasformazione, il consumo di massa si affermava come il fattore più importante di rinnovamento e trasformazione non solo dell’economia, ma anche dei costumi(>l’acqua potabile si affermò come la principale risorsa energetica in grado di imprimere il movimento alle pale di un mulino o alle ruote di un telaio e di sostituirsi e affiancarsi alle strade per i lunghi trasporti, l’acqua in ebollizione divenne l’elemento dinamico di nuove macchine a vapore, pompe idrauliche, impianti industriali e locomotori per il trasporti; la “rivoluzione dell’igiene” rappresentò un indubbio miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni europee; l’illuminazione delle strade portò maggiore sicurezza e la possibilità di allungare l’orario di lavoro; le stufe si andarono a sostituire ai caminetti; le abitazioni divennero più simili alle nostre con la comparsa di corridoi e la divisione tra “zona giorno” e “zona notte”; anche un nuovo abbigliamento fece la sua comparsa in città dove i borghesi divennero protagonisti del mercato della moda, diversificando e intensificando i costumi). LE NOBILTA’ EUROPEE La società di antico regime era una società dominata dall’aristocrazia che fondava il suo potere sul privilegio: la nobiltà era un ordine (o uno stato), laddove con i due termini indichiamo un gruppo sociale che si distingue per la sua posizione giuridica all’interno di una gerarchia ben definita. Lo storico Dumézil ha dimostrato come la tripartizione sociale sia uno dei tratti comuni a tutta la civiltà indoeuropea antica e medievale e che questa nasca dalle fondamentali funzioni di ogni società, la sovranità, la forza e la fecondità, che sono prerogative rispettivamente di oratores, bellatores e laboratores. Nel 1936 Bloch e Febvre, tramite uno studio che permettesse di guardare anche al mondo asiatico e tribale(Nobiltà. Ricognizione generale del terreno), hanno analizzato la tripartizione sociale secondo un percorso articolato nell’analisi dello status (prescrizioni legali che distinguevano il nobile dal non nobile), della quantità(percentuale di nobili sul totale della popolazione), della stratificazione interna alla nobiltà e dei problemi di contatto e di influenza con altri gruppi, con le altre comunità e lo Stato. Nell’ultimo mezzo secolo si è appurato, comunque, che la nobiltà fosse un ceto privilegiato politicamente e socialmente, presente solo intorno al 2%. Un privilegio rappresentava qualsiasi esenzione o distinzione rispetto ad un insieme di leggi e norme valide per gli altri individui o gruppi sociali:diretta conseguenza del privilegio era, ovviamente, la diseguaglianza. Il principale potere che si affiancava al privilegio non era necessariamente politico, ma sicuramente potere giurisdizionale in sede locale, o direttamente, o indirettamente attraverso giudici da loro nominati. In altri casi i nobili possedevano giurisdizione di polizia con la facoltà di comminare ammende e pene pecuniarie nei loro feudi, quasi ovunque percepivano una quota sulle loro transazioni e gli atti notarili rogate sulle loro terre e avevano diritti esclusivi sui mulini e sui forni, sulla produzione di vino, sulla caccia e sulla pesca. Secondo Almansa y Mendoza in età moderna era il sovrano a creare la nobiltà, a mantenerla e ad integrarne i ranghi come strumento di coesione del potere e le resistenze messe in atto dalla nobiltà feudale contro le politiche accentratrici dei sovrani in genere non rappresentavano un’opposizione o una violazione, ma una forma di pressione con lo scopo di mantenere i privilegi consolidati e a contrattare più ampi spazi di potere. Analizzando in una dimensione locale il fenomeno delle nobiltà, notiamo come il ruolo dei nobili sia stato contenuto e limitato dai sovrani: il ruolo veniva delimitato nell’ambito della corte e separato da quello del governo, affidato a funzionari amministrativi di origine non nobilenella maggior parte delle monarchie europee(b) la nobiltà di antica origine mantenne saldamente il controllo dei comandi militari e degli alti gradi dell’esercito, oltre che degli incarichi diplomatici, ma cedette le cariche amministrative, finanziare, giudiziarie ed esecutive nell’amministrazione locale; nelle città e nelle antiche repubbliche patrizie, i ruoli amministrativi e le magistrature cittadine erano prerogativa dell’aristocrazia urbana(a) che consolidò di fatto il proprio potere oligarchico a scapito dei ceti borghesi,esclusi dal potere politico e relegati o a ruoli amministrativi subalterni o all’esercizio delle sole attività commerciali, mercantili e manifatturiere. [a):i patriziati urbani venivano disprezzati dalla nobiltà feudale che si riteneva più antica, la nobiltà di toga disprezzava la nobiltà di sangue ritenendola parassitaria, la nobiltà di spada rivendicava le proprie glorie militari di fronte a chi aveva solo titoli cartacei, la nobiltà impoverita continuava a distinguersi orgogliosamente dai ceti più ricchi e non nobili]. b)nelle monarchie europee vennero istituiti nel Cinquecento Ordini cavallereschi , strumenti di organizzazione e di autoidentificazione per rispondere alle richieste di ulteriore distinzione degli esponenti della nobiltà più antica; Si è nobili solo se si dimostra di possedere i titoli di nobiltà(duchi:comandanti militari e governatori di territori conquistati; marchesi:governatori delle province di confine;conti:fedeli collaboratori del sovrano, feudatari inviati a governare una contea;visconti:sostituti dei conti; visdomini:feudatari laici ai quali il vescovo delegava la propria autorità temporale mantenendo per sé il governo della diocesi;baroni:detentori dell’alta signoria),per nascita, per diritto ereditario o per servizio ottenendo, in quest’ultimo caso, dal sovrano delle ricompense per i servizi prestati. I principali tipi di nobiltà europea furono la nobiltà terriera di monarchia nazionale, rivalutato dagli storici, è ritenuto fuorviante e fuori luogo: quelle dell’età moderna non erano monarchie nazionali, anzi, in alcuni casi erano a malapena territoriali. Il concetto di nazione è puramente ottocentesco e deve essere utilizzato solo per analizzare gli eventi del XIX secolo e XX secolo: nel Quattrocento il concetto di nazione aveva un significato molto relativo e la stessa idea di patria indicava la terra o la città di origine, ma non lo Sato di appartenenza. Oggi è meglio utilizzare la categoria di Stato territoriale per distinguere gli Stati(indipendentemente monarchie o repubbliche) dotati di confini definiti entro i quali erano in grado di battere monete, di imporre i tributi e di reclutare truppe. Accanto alla monarchia assoluta, alla monarchia consiliare, alla monarchia elettiva e alle repubbliche oligarchiche, erano presenti in Europa anche le varianti della monarchia elettiva sovranazionale(Impero), della federazione di città(Lega Anseatica fra le città portuali della Germania settentrionale) e della monarchia teocratica elettiva (Stato della Chiesa). Per mantenere e sviluppare uno Stato moderno erano necessarie sei condizioni fondamentali: a)disponibilità di risorse economiche e commerciali una risorsa formidabile vennero dai possedimenti del Nuovo Mondo(soprattutto per la monarchia spagnola), mentre il controllo dei commerci transoceanici rappresentò nel 1600/1700 un fattore di forza per potenze marittime(Inghilterra e Olanda); b)confini naturali l’insularità dell’Inghilterra ha sempre rappresentato un notevole vantaggio rispetto alle altre potenze, la Francia è stata sempre difesa meglio dalla catena dei Pirenei o dalla valle del Reno,mentre l’Italia è sempre stata aperta alla penetrazione degli eserciti; c)abili statisti per citarne alcuni: cardinale Richelieu, il conte-duca de Olivares, Filippo II d’Asburgo, Elisabetta I Tudor, Luigi XIV, Maria Teresa; d)forza militare guerre devastanti e sconfitte perenni contribuirono alla perdita dei possedimenti e all’appannamento della figura dei monarca, mentre il costante successo delle imprese militari contribuì al rafforzamento della potenza imperiale(nel primo caso Francia e Spagna uscirono indebolite rispettivamente dalle guerre condotte da Luigi XIV e dalla sconfitta nella guerra di successione); e)assenza di conflitti f)robusta alleanza del potere centrale con le élite locali Come facilmente immaginabile, questi sei fattori erano presenti solo in Inghilterra, Spagna e Francia, mentre in Italia a impedire la formazione di uno Stato unitario vero e proprio(unione che avvenne solo nel 1861) furono l’arcaicità e la polverizzazione delle strutture sociali(immobilità sociale), la debolezza di un apparato burocratico che tendeva quasi dovunque a far parte del sistema dei privilegi, l’indebolimento delle attività commerciali dalla fine del XV secolo dovute sia alla crisi del Mediterraneo sia alla crisi delle autonomie locali e al ritorno alla terra di una parte dei ceti mercantili, l’egemonia straniera sulla penisola e la lunga dominazione spagnola su territori estesi in assenza di un potere forte in sede locale, la presenza di patriziati cittadini forti e radicati ,l’esistenza di Stati repubblicani fissi nelle loro istituzioni oligarchiche e, infine, la presenza di uno Stato della Chiesa autonomo e territorialmente esteso. Analizziamo i poteri politici e amministrativi dello Stato moderno, rispettivamente monarchie assolute/ repubbliche oligarchiche e l’apparato burocratico. Allontaniamoci prima di tutto dall’idea che l’assolutismo monarchico fosse il modello dominante delle monarchie europee fra Cinquecento e Settecento: l’assolutismo fu solo una tendenza e non si realizzò mai in forma compiuta. Il termine venne utilizzato per la prima volta da Bodin nei Sei libri della Repubblica , entrò a far parte del lessico politico con la Rivoluzione francese e venne poi codificato a livello storiografico dagli storici liberali di metà Ottocento per essere recuperato con una valenza parzialmente positiva unito all’attributo di “illuminato”. Come è stato osservato dalla storica italiana Elena Fasano Giuliani, l’assolutismo è solo una delle tendenze delle grandi monarchie europee, mentre la forma più diffusa di governo rimase lo Stato cetuale(Standeestaat secondo la storiografia tedesca) fondato su una molteplicità di poteri e sulla condivisione della sovranità fra il principe, i ceti e i loro organi rappresentativile monarchie europee non erano compiutamente assolute. Diversa è la situazione delle antiche repubbliche oligarchiche e patrizie, come Venezia, Genova e Lucca; o come le Province Unite d’Olanda, fondate su organismi rappresentativi delle élite cittadine e su sistemi elettorali da non confondere mai con regimi potenzialmente democratici o più aperti di quelli monarchicile repubbliche oligarchie e patrizie sopravvissero alle turbolenze economiche e politiche perché il ceto era chiuso e scarsamente permeabile ai mutamenti. Il termine burocrazia venne coniato intorno al 1750 dall’economista Vincent de Gournay per denunciare il potere crescente dei funzionari governativi nella vita pubblica della Francia; Max Weber la indicava come espressione idealtipica dell’autorità e dell’organizzazione razionale e funzionale dello Stato moderno. Secondo Weber lo strumento principale attraverso cui i sovrani assoluti riuscirono a esercitare il loro potere era la concessione agli ufficiali del possesso patrimoniale della carica: in molti casi gli uffici vennero messi all’asta dal sovrano ed erano gli ufficiali a doversi acquistare,sborsando una notevole somma per entrarne in possessovenalità. A partire dal Settecento, con la crescita di un’efficiente apparato burocratico, i pubblici ufficiali divennero funzionari stipendiati direttamente dipendenti dal sovrano e con carriere soggette a brusche frenate o ad altrettante brusche e rapide accelerazioni. Il servizio di pubblico ufficiale divenne una vera e propria carriera che consentì il passaggio dai ceti inferiori a quelli superiori e da incarichi di minor prestigio a quelli di maggior prestigio e meglio stipendiati.I segretari di Stato assunsero un ruolo importante all’interno dei Consigli, mentre le funzioni amministrative si differenziarono e specializzarono. La scelta dei pubblici ufficiali avveniva o reclutando esponenti della piccola nobiltà desiderosi di distinguersi agli occhi del sovrano o reclutando giuristi non nobili scelti in base alle loro competenze o, infine, concedendo l’ufficio in beneficio/vendendolo al miglior acquirente (fu questa la principale scelta). Caratteristiche dell’ufficialità erano l’essere una titolarità non revocabile (diversamente dalla commissione che era invece temporanea), l’essere una carica dignitaria (l’ufficio era un’articolazione del potere centrale), un veicolo di garanzia dell’ascesa sociale di chi lo possedeva. La venalità, mentre all’inizio rappresentava l’arma nelle mani del sovrano per garantire un’estensione della rete di ufficiali al proprio servizio e nuove entrate economiche, diventò un ostacolo alla razionalizzazione dello Stato e al rafforzamento del legame fra ufficiali e sovrano. La venalità degli uffici rappresentò il passaggio dalla monarchia patrimoniale e contrattuale alla monarchia assoluta e burocratica: il risultato fu un rafforzamento numerico delle élite a spese della loro autonomia e la progressiva trasformazione da ceto autonomo a corpo dello Stato subordinato al sovrano e al sistema. GIUSTIZIA E FISCALITA’ IN ANTICO REGIME Esercitare la giurisdizione sul territorio era uno dei principali poteri del sovrano, ma anche una delle prerogative rivendicate dai poteri locali: giurisdizione significava sia esercitare il diritto di punire che la capacità di imporre tributi. In antico regime la giustizia era un privilegio cetuale: esistevano tribunali feudali, ecclesiastici, militari e mercantili nei quali si esercitava una giustizia diversa a seconda del ceto di appartenenza. Diffusa era anche la pratica di arbitraggi emessi fuori dai tribunali, ma ritenuti validi dalle comunità locali: si trattava di una giustizia privata che risolveva le controversie tramite negoziati, accordi, mediazioni e patti che, a volte, finivano per legittimare la faida, la rivincita di sangue che poteva sfociare nella mutilazione o nell’uccisione di qualcuno. In Francia la giurisdizione era piramidale: a)prevosture antiche giurisdizioni feudali e municipali; b)balivati(siniscalcati) tribunali per città senza Parlamento; c)tribunali di presidio d)Parlamenti provinciali e)Parlamento di Parigi autorità su tutti gli altri Parlamenti francesi; Il Parlamento francese e quelli inglese meritano particolare attenzione: il Parlamento francese , costituito da due presidenti nominati dal re e da un numero variabile di consiglieri, aveva funzione di emissione di sentenze regolamentari(pareri su leggi vigenti), di pronuncia di giudizi di equità(arbitrati) e diritto di registrazione(ogni editto regio doveva essere approvato dal Parlamento). In Inghilterra, invece, la giustizia rimase per molto tempo nelle mani di giudici locali non dipendenti dal sovrano ed eletti localmente(sceriffi di contea, funzionari con compiti di vigilanza, polizia e giudici di pace)il ricorso alla giustizia era reso difficile e scoraggiato dal fatto che le corti fossero attive solo quattro volte l’anno. A fine Quattrocento esistevano quattro corti centrali con competenze diverse(Common Pleas, Exchequer of Pleas, King’s Bench e Chancery with its Equity),ma, sotto i Tudor si costituì un secondo sistema di tribunali centrali basato sulla Star Chamber, High Commission for ecclesiastical causes, Admiralty Court; organo supremo della giustizia regia era il Privy Council dal quale dipendevano i tribunali regi distribuiti su tutto il territorio del Regno. In antico regime i sistemi penali dei Paesi dell’area mediterranea seguivano la tradizione del diritto romano- canonico,fondato sul metodo inquisitorio: l’accusatore doveva portare un reo in giudizio ed estorcerne la confessione usando anche la tortura,l’accusato aveva il diritto di difendersi prima che il giudice emettesse il giudizio finale. Il fisco era il sistema di prelievo dei sudditi su un territorio:in antico regime i soggetti del prelievo erano solo il sovrano, i signori territoriali, i feudatari, la Chiesa, gli enti ecclesiastici, le città e le Corporazioni, costringendo spesso un suddito a versare tributi anche a enti diversi. La più sgradita forma di prelievo, ma anche meno diffusa, era l’imposizione diretta con tasse e tributi ordinari e straordinari da parte del sovrano: tassa sui consumi, dazi, pedaggi, gabelle, beni importati/esportati o trasportati su un territorio. Dovendo raccogliere denaro con urgenza, soprattutto in caso di guerra, i sovrani stipulavano contratti con i finanzieri che anticipavano la somma necessaria ottenendo, in cambio, concessioni come una rendita fissa in denaro sui beni demaniali, il diritto di esigere denaro in nome del sovrano su un territorio, il diritto di sfruttare i beni del sovrano. Sapendo che difficilmente la cifra sarebbe stata restituita, i sovrani facevano concessioni sempre maggiori e così il prelievo fiscale era appaltato a privati che potevano esigere i tributi direttamente sul territorio e senza controlli, incassando cifre ben maggiori di quelle prestate. Se nobiltà e clero erano esenti dalle tasse e i contadini più poveri non potevano essere spremuti più di tanto, erano i ceti abbienti a essere gravati dalla maggior parte del peso fiscale: tratto comune delle rivolte del 1600 era l’opposizione alla crescente pressione fiscale causata dall’aumento delle spese per il mantenimento delle corti ed i costi di una lunga e devastante guerra continentalesuperata la crisi, in molti Stati ci furono progetti di rielaborazione del fisco: in Francia ci si pose il problema fra imposizioni dirette che penalizzavano i ceti produttivi e imposizioni indirette che scoraggiavano il consumo ai ceti deboli, mentre in Prussia si introdusse l’accisa, cioè la tassa sui beni di largo consumo. La principale riforma del Settecento fu il catasto, sistema di schedatura completo di immobili posseduti e finalizzato alla ripartizione del carico fiscale sulla base della quota di proprietà dell’immobile e che comprendeva mappe il più possibile precise del territorio dello Stato con indicati i confini e l’estensione delle singole proprietà, i registri con indicazione del nome dei proprietari e successivi passaggi di proprietà dei terreni per avere una conoscenza precisa dei redditi, un’estensione del peso delle imposte dirette sui ceti privilegiati, una tassazione di patrimoni per i ceti privilegiati e una tassazione più equa di beni per i ceti non privilegiatiil catasto era mantenuto dalla forte volontà politica del sovrano e degli uomini al suo servizio, dalla disposizione dei mezzi finanziari necessari, dalle competenze tecniche e dalla collaborazione dei soggetti tassabili disponibili ad aiutare i misuratori e subire accurate ispezioni sui propri terreni. LA GUERRA E GLI ESERCITI Michael Roberts fu il primo a parlare di rivoluzione militare come chiave interpretativa per comprendere la modernità a partire dalle profonde trasformazioni in atto nel modo di fare la guerra dopo l’invenzione della polvere da sparo. Fu Parker a individuare sette trasformazioni che fra 1500 e 1600 rivoluzionarono il modo di fare la guerra: passaggio da eserciti temporanei a permanenti e di grandi dimensioni con un corpo militare professionale, sostituzione della cavalleria con la fanteria, mutazione della strategia per necessità di retribuire, alimentare e spostare sul territorio masse crescenti di uomini in armi(garanzie maggiori che la guerra sarà portata a termine), maggior importanza del militare nella società, applicazione della tecnologia alla guerra,sviluppo dell’architettura militare e importanza crescente della marina militare. La presa di Costantinopoli da parte dei turchi,capeggiati dal sultano Mehmet II il Conquistatore,fu possibile anche grazie alla terribile “bocca da fuoco”, il primo grande cannone della storia moderna,lungo 10 metri con una canna spessa 20 cm, sparava proiettili pesanti 600kg. Il passaggio dall’arma bianca all’arma da fuoco ha rappresentato una delle più grandi rivoluzioni:per secoli la cavalleria aveva rappresentato il nerbo degli eserciti medievali e il valore militare era ritenuto una delle principali virtù richieste ad un uomo. La valori dominanti o prevalenti del gruppo di appartenenza ed i comportamenti universalmente accettati). Essendo la condizione di marginale attribuita a quanti non rispettavano regole sociali e i valori condivisi dalla maggioranza, la marginalità poteva verificarsi o sul piano dell’assenza o su quella del rifiuto: nel primo caso si sanciva la semplice assenza di certi legami ritenuti normali dalla società, mentre nel secondo il rifiuto consapevole di quei legamipossibilità di nascita di sentimenti xenofobi. In età moderna il povero non era più l’“immagine di Cristo sofferente”, ma un elemento potenzialmente pericoloso e non era più il singolo a dover fare la carità per salvarsi l’anima, ma era compito delle istituzioni benefiche raccogliere il contributo dei fedeli per poi destinarlo ai poveri. Solo sul finire del Settecento si iniziò a parlare di assistenza come diritto di ogni cittadino:la carità(individuale)era richiesta, la beneficenza (organizzata) era concessa, l’assistenza(istituzionalizzata) era assicurata. Decisivo al cambiamento della figura del povero fu il manifestarsi del pauperismo come fenomeno di massa non più controllabile, ma anche la Riforma protestante in base alla quale il credente non debba cercare il favore di Dio compiendo opere di bene per salvarsi l’anima, ma debba solo confidare nella propria fede e nel perdono gratuito da parte di Diola mendicità venne bandita e la carità individuale vietata, lasciando agli enti benefici istituiti in ogni città il compito di prendersi cura dei poveri: il mendicante che non si rivolgeva a queste istituzioni preferendo chiedere la carità ai bordi delle strade veniva condannato come ozioso e vagabondo. Questo portò alla prassi discriminante fra povero vero e povero falso, fra povero bisognoso e povero ozioso: per i primi carità, per i secondi condanna morale. Il povero locale e quello forestiero si differenziavano per le licenze di mendicità, l’ottenimento delle quali costringeva i bisognosi a presentare un attestato di povertà e il certificato di battesimo, mentre il povero forestiero non aveva alcun aiuto. Quale risposta arrivava dalla Chiesa a un cristiano che avrebbe potuto dubitare sull’obbligo di prestare aiuto a un povero? La risposta viene da André Guevarre che, in due opere esemplari come La mendicità proveduta e La mendicità sbandita ritiene che la reclusione fosse l’unica risposta possibile e che la povertà dovesse essere dichiarata abolita in presenza di pubblici istituti destinati al soccorso dei poveri. L’idea che alcuni ceti sociali potessero migliorare la loro condizione grazie al lavoro e all’istruzione si consolidò soprattutto nel Settecento: Voltaire era ben cosciente delle trasformazioni in atto nella società europea e della differenza fra il proletariato e un’aristocrazia operaia artigiana concentrata in alcune città, mentre di contro l’illuminista italiano Antonio Genovesi imputava alla pigrizia e all’ignoranza di quelle popolazioni contadine il degrado dei colli dell’entroterra napoletano, ma non dimenticava certo la necessità di un intervento diretto del governo per risolvere la situazione di degrado delle campagna meridionaliin entrambi gli illuministi è presente l’idea che la povertà sia una colpa di chi non sa uscire dal proprio stato di ozio o di ignoranza, mentre il lavoro veniva assunto come un valore etico capace di riscattare dalla miseria e di condurre anche a buone condizioni economiche. Su questo ultimo possibile cambiamento verte l’analisi di Edward Paul Thompson in Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra: evidenziando il processo attivo, fatto di azioni e reazioni composte in un gioco complesso e non lineare, vengono descritte le singole tappe attraverso cui nasce e si sviluppa una nuova classe sociale che, per quanto composita, è dotata di coscienza di classevera e propria storia sociale e culturale delle classi lavoratrici. Nel corso dell’età moderna si assistette a diverse ondate migratorie dalle campagne alle città: la prima e più importante avvenne tra il 1523 e il 1529 in corrispondenza di una cristi agraria generalizzata coincidente con la prima fase delle guerre di religione, con la rivoluzione dei contadini in Germania e con la spedizione imperiale che si concluse con il sacco di Roma del 1527riversamento di masse di contadini impoveriti nelle città europee alla ricerca di lavoro e di sostentamento provocando reazioni di parte delle autorità locali che adottarono provvedimenti per il respingimento dei poveri forestieri. Nel 1522 a Norimberga venne promulgata la centralizzazione dell’assistenza poveri, mentre i provvedimenti del 1525 adottati dal Senato della città di Ypres costituirono un modello: divieto assoluto della mendicità, organizzazione pubblica dell’assistenza, istituzione di case di lavoro con fondi comuni. Il Trattato De subventione pauperum di Juan Luis Vives sostiene la necessità di passare dalla carità individuale all’assistenza organizzata e disciplinata senza tralasciare la repressione dei fenomeni criminali organizzati dal pauperismolaicizzazione dell’esistenza come tratto comune del cattolicesimo e del protestantesimo. Una seconda ondata pauperistica si verificò nella seconda metà del secolo per annate cattive: vennero riutilizzate strutture di antiche lazzaretti per rinchiudere i poveri, nell’Italia settentrionale si fondarono istituti assistenziali grazie ai fondi di privati cittadini e di confraternite con l’appoggio di principi, Consigli municipali e vescovi(le istituzioni divennero sia un luogo di ricovero e di contenimento che di lavoro e di centro economico di primaria importanza),in Inghilterra Elisabetta I istituì le House of Correction(poi Workhouses), in Germania sorsero all’inizio del 1600 le Zuchthauser(case di punizione),mentre in Francia venne aperto nel 1614 il primo grande Hopital de la Charité. Fu a partire da quest’ultimo caso che Michel Foucalt, in Sorvegliare e punire(1975), richiamò l’attenzione sull’imponente operazione di concentrazione e segregazione dei poveri all’interno di istituti e case di lavoro ad essi appositamente destinati, concepiti al tempo stesso come luogo di assistenza, di disciplinamento e di punizione, capaci di trasformare i “poveri oziosi” in docili lavoratori. L’internamento è simbolo di come la società rifiutasse e respingesse chi non portasse caratteristiche fisiche, comportamenti o atteggiamenti conformi alle norme stabilite e accettate: attraverso l’internamento il soggetto veniva privato della propria libertà e, per riottenerla, avrebbe dovuto consentire alla rieducazione, al disciplinamento, alla necessità di mettersi a disposizione delle autorità per seguirne le norme di comportamento prescritte, lavorare e pregare. Anche la scoperta della criminalità come oggetto di ricerca storica è abbastanza recente: la severità delle pene e il loro carattere esemplare era l’unica soluzione per limitare il numero dei reati e la pena era vista come punizione(non come correzione) mentre la legge era diseguale a seconda del ceto sociale o del gruppo di appartenenza del reo(del resto l’85% dei reati di antico regime poteva essere facilmente compreso sotto le categorie di furto e aggressione). Bronislaw Geremek mise in luce i diversi ambienti in cui si sviluppava il crimine, partendo dal presupposto che l’ambiente generasse il crimine e la legge lo punisse; Thomas More portò l’idea di una divisione tra criminalità rurale e criminalità urbana: la criminalità rurale era spontanea, individuale, dettata dal bisogno e dallo scatto d’ira(criminalità interclassista, fatta all’interno della stessa classe sociale), mentre la criminalità urbana era quella che avveniva in città(la popolazione era concentrata in spazi ristretti, i controlli erano minori e vi erano più differenze sociali) e che era caratterizzata da premeditazione e violenza, oltre che essere una criminalità interclassista ed esercitata fra esponenti di classi diverse. Con il cambiamento della società, tra XVI e XVIII secolo si verificarono profondi mutamenti anche nella criminalità: la prima constatazione da fare è il graduale declino dei reati contro la persona a favore dei reati contro la proprietà; la seconda constatazione è rappresentata dall’affermazione dell’ordine dei proprietari, un sistema giuridico fondato sulla difesa della proprietà privata più che sulla difesa degli altri diritti dei cittadini nell’ambito del quale la certezza del diritto si affermava come un valore supremo, la lotta contro il cattivo utilizzo del potere del sovrano ne limitava i poteri, la lotta contro l’illegalismo diffuso creava le condizioni per una giustizia più efficiente(Cesare Beccaria, in Dei delitti e delle pene, non parlava di punizione, ma di colpa: non veniva punito il delitto, ma si correggeva il delinquente e scompariva il supplizio per affermare il diritto come volontà generale).
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