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Gian Paolo Romagnani: La società di antico regime (XVI-XVIII). Temi e problemi storiografici. Carrocci editore 2010, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto del libro di Romagnani per esame di storia moderna.

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 20/12/2018

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Scarica Gian Paolo Romagnani: La società di antico regime (XVI-XVIII). Temi e problemi storiografici. Carrocci editore 2010 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Gian Paolo Romagnani: La società di antico regime (XVI-XVIII secolo). Temi e problemi storiografici. Carocci editore 2010 Cap. 1: Il lavoro dello storico Storia e storiografia La parola “storia” è piuttosto ambigua e possiede molteplici significati. Con lo stesso vocabolo della lingua italiana indichiamo infatti: a) il concreto divenire degli eventi nel corso del tempo, ossia una realtà oggettiva; b) la storia così come è narrata e interpretata dagli uomini, ossia un prodotto soggettivo; c) un racconto. Concentriamo la nostra attenzione sulle prime due accezioni di “storia”: storia come realtà oggettiva e come evento, narrazione. In italiano possiamo distinguere, utilizzando nel primo vocabolo “storia”, nel secondo “storiografia”. Il termine italiano “storia” deriva dal latino historia che a sua volta deriva dal greco antico historéin, traducibile come “osservare, cercare di sapere, informarsi, indagare”. L’idea greca di storia è dunque inscindibile da quella di ricerca. La storia intesa come narrazione, indagine, problematizzazione si richiama alla storia sociale multidimensionale affermatasi a partire dalla prima metà del Novecento, una storia strettamente collegata alla geografia e all’antropologia; e dall’altro lato la storia intesa come narrazione di fatti si richiama a quella che Marc Bloch definiva “storia evenemenziale”, ossia una storia centrata sulle grandi narrazioni di fatti e di avvenimenti politici, militari e istituzionali. Si tratta di due diversi approcci storiografici. Ma che cos’è la storiografia? La storia è in primo luogo storiografia. Qualsiasi approccio alla conoscenza storica è infatti veicolato inizialmente dai libri degli storici, noi non conosciamo nulla della storia che non sia passato attraverso il filtro dell’interpretazione e della narrazione di uno storico. La conoscenza del passato è sempre mediata: è sempre storia della storiografia. Tre sono le principali forme e funzioni dell’attività storiografica: - ricordare, da essa deriva la funzione della storiografia narrativa; - ammaestrare, la storiografia pragmatica - spiegare, la storiografia che oggi definiremo scientifica. La storiografia risponde pertanto ad un bisogno sociale fondamentale, presente in tutte le epoche e in tutte le civiltà: la ricerca di identità. L’identità è la ricerca della comune origine (nascita), quindi del padre (sangue) e del luogo comune (terra). Oggetto della ricerca storica sono gli uomini e le donne nelle loro relazioni reciproche, quindi le società umane nella loro molteplicità, nelle loro trasformazioni nel corso del tempo. La storiografia è dunque una disciplina eminentemente sociale che ha come coordinate fondamentali lo spazio e il tempo. Soggetti e oggetti della storiografia sono gli storici, coloro che riflettono e scrivono delle vicende storiche del suo tempo. Potremmo quindi dire che la storia della storiografia è la storia che riflette su sé stessa tenendo conto di questa duplicità ineliminabile. Storia e memoria Senza memoria un individuo non si riconosce più e si perde, è senza identità quindi ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a recuperarla raccontandogli chi è. Lo storico è inizialmente testimone, o colui che può risalire alla memoria dei testimoni. Egli fornisce una lettura del passato, ma sempre in chiave soggettiva e suscettibile di essere smentita. Infatti la memoria è sempre selettiva. La trasmissione della memoria è per le società umane qualcosa di essenziale e necessario e può manifestarsi sia attraverso la storiografia, sia attraverso riti collettivi condivisi, come le celebrazioni delle feste nazionali (esempio, il 25 aprile in Italia). La pratica storiografica si fonda dunque sulla memoria, ma non deve mai identificarsi con essa. Lo storico infatti deve essere solo un interprete critico dei fatti. Nel mondo antico e nel medioevo lo storico era innanzitutto il testimone, o chi aveva avuto accesso alle testimonianze di chi era stato più vicino ai fatti; ma a partire dal Rinascimento, tra Cinque e Seicento la figura dello storico-testimone non è più considerata una garanzia di veridicità, anzi spesso è considerata un elemento di inquinamento delle prove. Nessun testimone, nemmeno il più attento e smaliziato è consapevole della portata storica degli eventi che sta vivendo: nessun diplomatico avrebbe potuto affermare, tra il 1618 e il 1648 che era in atto la guerra dei Trent’anni; nessuno avrebbe potuto scrivere nel luglio 1789 “ è iniziata la Rivoluzione francese!”. Il distacco è dunque necessario per poter formulare un giudizio storico. Secondo lo storico francese François Furet, lo storico doveva avvicinarsi sempre di più all’approccio scientifico, sforzandosi di costruire modelli interpretativi multidimensionali. Per convertirsi in scienza la storia avrebbe dovuto eliminare gli avvenimenti, o più esattamente ciò che per tanti storici ne costituiva l’aspetto più importante: il carattere singolare, unico,individuale. Lo storico quindi si limita a descrivere accadimenti particolari e limitati. La storia inoltre deve dichiarare le proprie fonti (prove), e le immagini che propone dovrebbero essere documenti iconografici, i quali hanno il compito di provare la verità. Lo storico deve credere e far credere che ciò che dice è la verità, sapendo però che non si tratta mai di una verità assoluta e indiscutibile. Il discorso storico quindi si svolge su due piani distinti: quello della descrizione e quello dell’analisi e dell’interpretazione nel quale lo storico espone le proprie considerazioni relative all’accadimento storico. Le fonti Conoscere le società di antico regime significa conoscere quindi: a) le fonti che gli storici hanno utilizzato per restituircene un quadro interpretativo; b) la storiografia, ossia le principali opere storiche che le riguardano; c) il significato delle principali categorie storiografiche ossia gli schemi di periodizzazione; d) i grandi dibattiti che hanno visto gli storici confrontarsi. Partiamo dalle fonti. Spesso si impiegano i due vocaboli “fonte” e “documento” come se fossero sinonimi. In realtà non sono la stessa cosa. Il documento si definisce rispetto al passato (il mondo di cui è testimonianza), la fonte si definisce rispetto al futuro (la conoscenza che lo storico vuole ricavare dal documento). Le fonti sono l’insieme di ciò che ci consente di capire qualcosa delle società del passato di cui ci interessiamo. Le fonti possono essere primarie, ossia testimonianze dirette, o secondarie, ossia testimonianze indirette; possono essere manoscritte, reperibili per lo più negli archivi; o a stampa reperibili negli archivi e nelle biblioteche; ma possono essere anche oggetti (es opere d’arte, manufatti), tracce presenti sul territorio (campi, muri, palazzi, chiese ecc..) nella lingua, nelle tradizioni, nelle leggende, nella musica e nelle canzoni. Per lo storico le fonti sono l’oggetto principale della sua ricerca. La bibliografia invece è tutto ciò che è stato scritto sul problema di cui lo storico si occupa: è lo strumento principale della ricerca. La bibliografia può distinguersi in bibliografia primaria, ossia i libri frutto di un lavoro di ricerca diretta sui documenti, e secondaria ossia i libri scritti lavorando su altri libri. Per svolgere bene il suo lavoro di ricerca lo storico dovrebbe conoscere, i risultati delle principali discipline che un tempo venivano definite “ausiliari della storia” ossia: la filologia (la ricostruzione critica di un testo manoscritto); la codicologia (lo studio dei codici antichi); la paleografia (lo studio delle antiche scritture, per lo più latine medievali); la diplomatica (lo studio formale degli antichi diplomi e documenti istituzionali); la grafologia (lo studio delle forme di scrittura antiche o moderne); l’epigrafia (lo studio delle “scritture esposte” e delle antiche epigrafi su pietra o marmo); la sfragistica (lo studio dei sigilli impiegati per chiudere le lettere); la numistica (lo studio delle antiche monete); l’araldica (lo studio degli antichi emblemi e stemmi, per lo più nobiliari). L’archivio è il luogo canonico della ricerca storica, luogo di conservazione dei documenti ed è quasi sempre la memoria organizzata di un’istituzione, ossia la fotografia che lo ha generato. Un archivio è organizzato per funzioni. Vi sono grandi archivi di Stato nati come archivi della monarchia, o archivi nazionali; vi sono archivi comunali, di enti pubblici, ecclesiastici; archivi privati di famiglie, di imprese, di associazioni. Negli archivi di Stato si può trovare tutto ciò che ha a che fare con la pubblica amministrazione e con il governo del territorio: documenti politici, diplomatici, economici e fiscali ecc. Le interpretazioni Le interpretazioni proposte dagli studiosi non sempre hanno portato ad una chiave di lettura condivisa, ma hanno sicuramente aperto la strada a ricerche particolare che hanno sempre modificato lo stato della questione. Proponiamo qui alcuni dei temi più controversi del dibattito storiografico novecentesco: precisi e difesi da eserciti permanenti; amministrati da una rete di burocrati e funzionari permanenti; entrambi mantenuti grazie ad un sistema fiscale di prelievo del denaro sempre più efficace ed omogeneo. 4. La trasformazione dell’economia europea da agricola a commerciale e industriale e la nascita del capitalismo (economia di mercato), con conseguente “rivoluzione agricola” e “rivoluzione industriale” in alcuni paesi più sviluppati, primo fra tutti l’Inghilterra. 5. L’invenzione della stampa e la sua diffusione come nuovo e straordinario veicolo di comunicazione, pur in presenza di un tasso altissimo di analfabetismo. 6. La rivoluzione militare che trasforma completamente i modi di fare la guerra, a partire dall’invenzione della polvere da sparo verso la metà del Quattrocento. Dagli inizi del Cinquecento si avvia la crisi della cavalleria, arma tradizionalmente nobile progressivamente soppiantata dall’artiglieria, arma borghese per eccellenza, fondata sulla tecnica più che sul valore. Cap. 3: Gli spazi della vita e il mondo rurale I quadri ambientali La campagna è lo spazio di vita della stragrande maggioranza della popolazione europea. Un mondo basato sulla comunità di villaggio e sull’economia rurale, ossia sulla produzione di beni agricoli, popolato da donne e uomini. Le campagne europee tra Cinque e Settecento sono caratterizzati dalla presenza di aree coltivate e di aree incolte. Il bosco occupa ancora una superficie di quasi un terzo del territorio europeo. Le vie di comunicazione stradali e vie navigabili, sono assai limitate e i mezzi di trasporto, piedi, asino o mulo, cavallo, barca o nave sono lenti, scomodi e costosi. Il mezzo più rapido il cavallo, permette di muoversi al massimo a 20 km all’ora, ma la maggior parte della popolazione non possiede un cavallo, in genere riservato agli esponenti dei ceti superiori e viaggia prevalentemente a piedi. Per raggiungere qualsiasi metà bisogna percorrere molti chilometri a piedi, perdendo giorni interi in viaggio. Viaggiare è dunque un’impresa scomoda e in molti casi rischiosa. Da altre ricerche condotte da storici inglesi risulta che fra Sei e Settecento oltre il 50% della popolazione rurale cambiava residenza nell’arco di 10 anni. Le campagne europee sono del resto caratterizzate da una bassa densità umana e insediativa. Raramente i contadini vivono isolati, ma per lo più raggruppati in villaggi circondati da campi, prati e boschi. La maggior o minore dimensione delle case è legata alla struttura della famiglia e alle sue condizioni lavorative: casolari e fattorie più ampie anche isolate accolgono famiglie numerose, composte da diversi nuclei parentali. Le abitazioni sono costruite con legno, terra e paglia, pietra, raramente in muratura. La casa contadina è costituito da sostanze vegetali o animali lavorate a mano per ottenere sia gli attrezzi da lavoro, sia gli arredi e le suppellettili domestiche. L’unico combustibile impiegato per cucinare, per riscaldarsi e per lavorare è il legno. Gli indumenti sono prodotti in casa con sostanze animali o vegetali (lana, canapa, pelle). Le finestre delle case contadine, per lo più, non hanno i vetri, ma solo gli scuri o assi di legno per proteggere dal freddo; i vetri incominciano a comparire nel Settecento in Francia, in Inghilterra e in Toscana. La casa è dotata di un unico focolare, per lo più centrale senza camino, utilizzato per illuminare l’ambiente, per cucinare e per riscaldarsi. I caminetti a parete laterale compaiono in Italia a partire dal XIII secolo, ma solo nelle case patrizie, mentre in quelle contadine si diffondono in genere nella seconda metà del XVII secolo. Gli armadi sono del tutto assenti. I letti sono per lo più sostituiti da pagliericci o sacchi riempiti di foglie secche o lana e solo nelle case dei contadini agiati, verso la metà del Cinquecento, compaiono i letti con materassi e lenzuola. In ogni caso il letto è considerato un oggetto di valore, prerogativa della coppia dei padroni di casa, mentre gli altri membri della famiglia (figli, parenti, domestici) dormono su pagliericci. Nascere e morire Che cosa sappiamo oggi, della popolazione di antico regime? In assenza di periodici rilevamenti statistici come i censimenti, possiamo basarci solo sugli archivi parrocchiali, presenti in tutte le parrocchie dell’Europa cattolica a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento. È infatti solo con il Concilio di Trento che si impone a tutti i curati di compilare i registri di battesimo, di matrimonio e di sepoltura. Gli archivi parrocchiali sono oggi considerati dagli storici una fonte importantissima per la storia demografica in quanto svolgono la funzione di una vera e propria anagrafe della popolazione. Il fattore determinante per comprendere l’andamento demografico di un paese è dato dalla mortalità. La morte è fortemente condizionata da fattori sociali e ambientali. Un alto tasso di mortalità è per lo più indizio di miseria e di disagio sociale. In antico regime si moriva molto più frequentemente in giovane età e la stessa percezione della morte era assai diversa da quella attuale. Per certi aspetti era meno drammatica. Alla morte di un coniuge si reagiva molto spesso con un secondo matrimonio. Si moriva più frequentemente di malattia, in quanto la maggior parte delle malattie erano incurabili: una grave infezione, una malattia polmonare, una cardiopatia, una malformazione congenita come la febbre malarica, la peste, il colera, la lebbra, patologie alimentari (come lo scorbutico o la pellagra). Si poteva morire a causa del clima, troppo freddo, troppo caldo o troppo umido. Si moriva di fame, in occasione di crisi alimentari conseguenza di carestie. Si moriva a causa delle guerre, ma più frequentemente a causa delle guerre subite dalle popolazioni civili. Il transito di un esercito su di un territorio coltivato poteva avere infatti esiti disastrosi; villaggi interi venivano saccheggiati e distrutti al passaggio delle truppe; il bestiame veniva sequestrato o divorato, i corsi d’acqua potevano essere contaminati da centinaia di cadaveri abbandonati. Si poteva morire, infine, per banali incidenti di lavoro come la caduta da albero, o la mutilazione di una mano con la falce o la scure. Si poteva morire per le percosse subiti in famiglia dal marito o dai genitori (se bambini); si poteva morire per una accoltellata da un ubriaco, essere vittima di un’aggressione o in un duello (se nobili), dal momento che “lavare un’offesa col sangue” faceva parte del codice d’onore nobiliare che in molti casi costringeva gli aristocratici a battersi, anche contro la loro volontà. Pochi raggiungevano indenni la vecchiaia e quei pochi erano oggetto di rispetto in quanto portatori di una memoria e di un’esperienza che non tutti possedevano. Di qui derivava anche la maggior considerazione in cui venivano tenuti gli anziani in una società fondata, sulla trasmissione orale delle conoscenze. La natalità invece è più condizionata da fattori sociali e culturali. In antico regime si mettevano al mondo più figli, poiché i metodi di controllo delle nascite erano assai più rudimentali e meno efficaci di oggi. Perché in genere si facevano più figli nelle società più povere ed arretrate? Le ragioni sono molteplici e cambiano nei diversi contesti sociali, ma una prima risposta può essere ricondotta a quattro fattori: a) perché i figli sono comunque considerati un investimento sul futuro; b) per reagire alla presenza della morte; c) per motivi religiosi, riconducibili alla dottrina cattolica; d) perché mancano contraccettivi efficaci. La natalità deriva dal rapporto fra fertilità e fecondità, definendo fertilità la natalità in potenza, e fecondità la natalità in atto, ossia la realtà riproduttiva costituita da un numero variabile fra 1 e 15 figli nell’arco di 30 anni. In antico regime la fertilità e fecondità erano determinate da fattori di ordine biologico, ambientale, sociale. Altre forme di controllo della natalità si realizzavano mediante la limitazione delle occasioni di contatto fra giovani oppure attraverso forme di contraccezione naturale o meccanica o ancora ricorrendo all’aborto o in casi estremi all’abbandono dei neonati o all’infanticidio. Oltre ai matrimoni tardivi i demografi segnalano la frequente e precoce mortalità del coniuge come fattore di limitazione della fecondità, ma segnalano anche una terza caratteristica tipica dell’antico regime: quasi la metà della popolazione femminile in età fertile non giungeva al matrimonio. La famiglia di antico regime era basata, sulla gerarchia e la diseguaglianza dei suoi componenti: gli uomini dominavano sulle donne, i mariti sulle mogli e sui figli, gli anziani sui giovani. Fra i figli si definiva prestissimo una gerarchia d’età: il primogenito era l’erede del patrimonio famigliare, mentre i figli cadetti erano spesso destinati al celibato per consentire ai fratelli maggiori di godere dell’intero patrimonio; la figlia primogenita era destinata al matrimonio, mentre le altre figlie potevano essere destinate al nubilato o al convento. Il mondo rurale Il mondo rurale è un luogo di produzione di beni agricoli, destinati per la maggior parte all’autoconsumo, quindi dominato dalla terra e dai suoi prodotti. Ma a chi appartiene la terra che i contadini lavorano? La terra appartiene in primo luogo al sovrano o al principe territoriale, ai nobili, ai proprietari terrieri liberi, o alla Chiesa. Solo in minima parte e in determinate situazioni la terra appartiene ai contadini. Tuttavia in campagna vive oltre l’80% della popolazione europea: mendicanti, vagabondi e banditi che qui trovano più facile rifugio, servi rurali e servi della gleba appartenenti ad un signore feudale, contadini nullatenenti costretti a lavorare a giornata sotto padrone, lavoratori stagionali immigrati da altri territori. Ma anche fittavoli, proprietari agricoli, proprietari terrieri, bottegai e artigiani di villaggio, amministratori dei beni dei grandi aristocratici assenteisti, i signori feudali titolari dei diritti giurisdizionali su territori più o meno ampi e in molti casi proprietari di palazzi o castelli. La comunità rurale era costituita dalle famiglie che vivevano al centro di una data area coltivata. I componenti delle famiglie diminuiscono in rapporto alla gerarchia sociale: i più ricchi hanno famiglie più numerose dei poveri. Col termine “famiglia” si indicavano coloro che vivevano sotto lo stesso tetto, servi compresi. Le uniche famiglie nucleari composte da due genitori e uno o due figli erano quelle dei braccianti e dei poveri. All’interno della famiglia contadina vigeva una divisione del lavoro abbastanza rigorosa. I ragazzi e adulti facevano i lavori pesanti, mentre le donne e ragazze tenevano la casa, preparavano da mangiare. Va anche detto che la famiglia rurale non comprendeva solo genitori e figli, ma spesso anche nonni, i fratelli e le sorelle non coniugati del capofamiglia. Dal punto di vista dei contadini il soggetto principale del mondo rurale è la comunità di villaggio. Ogni singola comunità è dotata di statuti riconosciuti dagli altri soggetti, primo fra tutti il signore territoriale. L’organo decisionale è l’assemblea dei capofamiglia che amministrano i beni della comunità. Spesso la comunità concede ai singoli contadini una parte dei beni comuni in affitto, dietro pagamento di un canone. Fra i compiti amministrativi assegnati alle comunità di villaggio il più delicato è sicuramente il riparto del carico fiscale fra le famiglie, definito con criteri proporzionali ai redditi agricoli. In genere la comunità rurale si identifica nella parrocchia o nelle parrocchie in cui è suddivisa. I beni della parrocchia sono esenti da tassazioni. Ogni parrocchia possiede infatti dei beni immobili oltre ad un patrimonio terriero costituito da case e campi. Le parrocchie più povere vivono invece unicamente dei contributi dei fedeli. La parrocchia percepisce infatti dai parrocchiani la decima ecclesiastica e altri tributi in denaro o in natura (i cosiddetti casuali). La decima era in origine la quota di prodotto agricolo che si destinava al sacerdote quindi era un donativo spontaneo. All’interno delle singole parrocchie si organizzano poi le confraternite dei laici con compiti religiosi di assistenza, di beneficenza e distribuzione delle elemosine. Le basi agricole dell’economia. Il feudo In antico regime, nei paesi cattolici la forma di prelievo più diffusa è la decima ecclesiastica destinata a tutti gli enti ecclesiastici (diocesi, conventi, monasteri, abbazie, santuari ecc.) presenti sul territorio. Un villaggio poteva dunque pagare anche quattro o cinque decime ecclesiastiche. Abolita al tempo della Riforma in tutti i paesi protestanti, la decima avrebbe caratterizzato ancora a lungo l’economia dell’Europa cattolica, almeno fino alla Rivoluzione francese. Accanto alla decima in tutti i paesi troviamo la rendita signorile articolata in varie forme. Oltre alle corvées imposte ai contadini, ai signori spettano i ricavi dei pedaggi su strade e ponti, i diritti di transito su tutte le merci che attraversano il loro feudo, i diritti sui mulini ecc.. I contratti più diffusi sono affittanza, mezzadria, soccida, pastinato ecc. In alcuni casi il padrone fornisce ai contadini solo la terra e la casa, in altri anche una parte del bestiame e degli attrezzi agricoli. In alcuni casi i contadini possono trattenere per sé una quota fissa del raccolto, in altri casi una quota proporzionale al prodotto agricolo. Il rapporto contrattuale più avanzato elaborato in età moderna era l’affitto. Il grande affittuario era per lo più un imprenditore agrario che versava al padrone un canone fisso in denaro in cambio della possibilità di far fruttare il terreno e di vendere sul mercato i suoi prodotti. Oltre al canone fisso in denaro, l’affittuario era tenuto a fornire ogni anno al padrone anche alcuni prodotti agricoli in natura (vitelli, maiale, pollame, riso formaggio, vino) definiti “appendizi” o “regalie” che in origine erano destinati alla mensa del signore. La forza lavoro impiegata sui terreni dell’affittuario era costituita da braccianti salariati, ossia da contadini poveri o nullatenenti che vendevano il loro lavoro a giornata o a stagione. Mentre i lavoratori stagionali venivano pagati in danaro. Un’ulteriore rendita è quella che potremmo definire “di usura”, ossia la rendita derivante da ipoteche sui terreni, o da crediti concessi precedentemente. Una gran quantità di terreni agricoli era gravata da ipoteche, i cui interessi continuavano ad essere pagati per decenni, conseguenza dei debiti contratti dagli antenati dei proprietari. Quindi le basi economiche della società di antico regime sono essenzialmente rurali e fondate su un’economia dominata dalla grande proprietà terriera. Nella prima età moderna le forme del possesso territorio sono essenzialmente due: il feudo una scuola e il maestro era un docente, al tempo stesso educatore e istruttore. Il lavoro dell’apprendista non era retribuibile. Periodicamente la commissione dei maestri si costituiva in collegio giudicante i “capi d’opera”, ossia i prodotti del lavoro presentati al giudizio per ottenere il titolo di maestro. Questa è l’antica origine della nostra tesi di laurea che rappresenta ancor oggi il capo d’opera dello studente il quale, concluso il suo ciclo di studi, dev’essere in grado di produrre e discutere, di fronte ad una commissione di docenti, un saggio scientifico autonomamente elaborato nell’ambito della disciplina prescelta. Le regole delle Corporazioni erano dunque le regole della città. Esclusi erano gli stranieri e le donne. Cap. 5: I ceti borghesi e le origini del capitalismo Chi sono i “borghesi” di antico regime? Nel medioevo con il termine borghesi si indicavano inizialmente gli abitanti dei borghi o delle città per distinguerli dai contadini. Successivamente fra Quattro e Cinquecento la qualifica di borghese è stata attribuita ai soli abitanti di una città dotati di privilegi e di diritti di cittadinanza. Il ceto borghese si collocava ad un livello inferiore rispetto al patriziato urbano, ed era formato dagli esponenti delle famiglie mercantili che facevano parte delle Corporazioni di mestiere, o dai professionisti (medici, notai ecc.) che si riconoscevano nei Collegi delle Arti e che erano, rappresentati nel Consiglio cittadino. La qualifica di borghese diventava un titolo onorifico per i cittadini più eminenti. Le borghesie di antico regime sono composte essenzialmente da due gruppi di riferimento che potremmo definire come: i “mestieri del denaro” sono i proprietari (proprietari terrieri, proprietari di manifatture, armatori navali ecc..) e gli uomini d’affari (commercianti, banchieri, negozianti ecc.); e i “mestieri del sapere” in questo gruppo possiamo annoverare i professionisti (notai, avvocati, medici, ingegneri ecc.) e i funzionari ( ufficiali, giudici, professori ecc.). Le basi dell’economia monetaria In antico regime non esisteva un’unità monetaria comune. Ogni territorio (Stato, contea città) possedeva la propria moneta e tutte avevano libero corso ovunque. Nessuna moneta aveva un valore facciale, ossia un valore “scritto sulla sua faccia”: il suo valore ufficiale era stabilito dall’autorità regia o dal signore, ma il valore reale era intrinseco e corrispondeva al valore e al peso del metallo che la componeva. Quella circolante in Europa era dunque, per lo più una cattiva moneta. Nell’economia di antico regime essa aveva del resto una funzione completamente accanto ai beni in natura: raramente un contadino pagava o veniva pagato interamente in denaro, ma più spesso lo scambio avveniva parte in natura (attraverso prodotti agricoli/generi alimentari) e parte in denaro. Inoltre non esisteva un sistema bancario e creditizio. Il credito era per lo più gestito dai grandi mercanti (chiamati negoziatores) che prestavano o anticipavano il denaro ad alti tassi d’interesse. Assai diffuso era il sistema delle lettere di cambio con le quali si compivano trasferimenti di denaro a distanza. Ad esempio un mercante di Anversa poteva trasferire con una lettera il proprio debito nei confronti di un commerciante di Amsterdam ad un mercante di Lione. Il commerciante di Amsterdam sarebbe stato rimborsato dal mercante di Lione, mentre il mercante di Anversa avrebbe saldato il proprio debito con il mercante di Lione mediante un ulteriore scambio di merci, senza sborsare nulla. La finanza internazionale della prima età moderna ha origini italiane (i grandi banchieri di Firenze, di Livorno e di Genova) al punto che fino alla metà del cinquecento i banchieri italiani continuarono a dominare le fiere commerciali di Lione e di Francoforte, verso la metà del secolo lo spostamento del baricentro dell’economia mondiale ad Anversa, fece loro perdere il primato a favore dei banchieri dei Paesi Bassi. Il genovese Banco di San Giorgio, fondato nel 1408, fu di fatto la prima grande banca di Stato. Telai e altiforni. Manifattura e protoindustria È abbastanza difficile determinare la data di nascita della fabbrica moderna. In età moderna le più grandi concentrazioni di lavoratori sono in genere stabilimenti per i poveri: le cosiddette case di lavoro (Workhouses) istituite a partire dalla fine del Cinquecento in Inghilterra, in Olanda e in altri paesi del nord Europa. Se definiamo “fabbrica” uno stabilimento industriale dotato di macchinari, nel quale è concentrato un gran numero di lavoratori salariati, allora ci riferiamo ad una tipologia che compare solo in Inghilterra alla fine del Seicento, che si diffonde poi nella seconda metà del Settecento per svilupparsi soprattutto nel secolo successivo. Fino alla metà del Settecento, infatti la tipologia più diffusa in Europa è quella della bottega artigiana o della manifattura diffusa. Di fatto tutto incomincia a cambiare solo nel Settecento con l’impetuoso sviluppato dall’industria tessile e con quel fenomeno che gli storici hanno chiamato la “rivoluzione industriale”. Con il termine “rivoluzione industriale” introdotto nel 1880 dallo storico britannico Arnold Toynbee, gli storici indicano la trasformazione epocale realizzatasi in Europa a partire dalla metà del Settecento, prima in Inghilterra e poi in gran parte del mondo occidentale, in seguito all’affermarsi dell’economia di mercato, del macchinismo e del sistema di fabbrica. La macchina a vapore inventata dal francese Denis Papin nel 1691 è il simbolo più evidente di tale trasformazione. La rivoluzione dei consumi Da alcuni anni l’attenzione degli studiosi si è spostata dalla produzione al consumo, connotando la grande trasformazione economica del Settecento non solo come rivoluzione industriale, ma anche come rivoluzione dei consumi. L’opera di Daniel Roche Il linguaggio della moda. Alle origini dell’industria dell’abbigliamento (1989) ha aperto la strada in questo senso. Roche sostiene infatti che “nella società d’Ancien régime al pari che in altre società, il rapporto tra produzione e consumo appare basato su una relazione asimmetrica: non si può consumare null’altro oltre a ciò che si è prodotto, ma la trasformazione dei beni precede la domanda. La capacità di consumare dipende da una quantità di vincoli che sono riferibili alla disponibilità di beni sul mercato, ma anche ad elementi sociali, culturali e simbolici. Il Settecento è il secolo in cui si afferma un consumo tendenzialmente di massa. Abbigliamento, illuminazione, cibo, trasporti diventano poco a poco a partire dagli anni c’entrali del secolo, consumi di massa, a disposizione di tutti i ceti sociali, pur con notevoli differenze nella qualità dei prodotti. Il nuovo modello di consumi si è affermato per primo in una società giovane e tendenzialmente egualitaria, in americana. Si impone via via, anche presso i ceti inferiori, la “necessità del superfluo”, ossia l’esigenza di possedere beni non strettamente necessari alla sopravvivenza quotidiana. Mentre il lusso si conferma come un importante vettore dell’economia, il consumo di massa si afferma come il fattore più importante di rinnovamento e trasformazione non solo dell’economia, ma dei consumi. Cap. 6: Le nobiltà europee Nobiltà: la genesi di un concetto La società di antico regime era una società dominata dall’aristocrazia che fondava il suo potere sul privilegio. Che cosa significava, concretamente in quel contesto “aristocrazia”? I termini “aristocratico” e “aristocrazia” derivano dal greco aristòs (il migliore) e significano “il governo dei migliori”. Nel mondo greco infatti, aristocratico era colui che si distingueva fra tutti per particolare valore, per l’eccellenza della sua natura. Nel mondo romano, l’élite era rappresentata dal patriziato, ossia dai patricii coloro che potevano vantare la discendenza da un pater: gli appartenenti ad una delle famiglie originarie della città con il diritto a sedere in Senato. Nel mondo tardo antico e medievale con il termine nobile, dal latino nobilis (noto, conosciuto) si indicava colui che per nascita godeva di uno statuto speciale, ossia di un privilegio. I tre elementi costituitivi della nobiltà antica erano nell’ordine: la nobilitas, ossia i natali illustri, da dimostrare attraverso l’albero genealogico; la virtus, ossia la virtù ed il coraggio militare, dimostrati attraverso l’esercizio delle armi; la certa habitatio ossia il possesso di una casa e di una terra. In una parola la nobiltà è un ceto, un ordine o uno stato. Che cosa distingue il concetto di classe, di ceto, di ordine e di stato? Il concetto di “classe” distingue un gruppo sociale per la sua posizione economica all’interno del processo produttivo (es la borghesia, il proletariato ecc.). Il concetto di “ceto” distingue un gruppo sociale per la sua posizione all’interno della gerarchia sociale (es ceti privilegiati, ceti medi ecc..). Il concetto di “ordine o stato” distingue invece un gruppo sociale per la sua posizione giuridica all’interno di una gerarchia prestabilita (es il clero, nobiltà ecc.). Quindi le società di antico regime si autodefinivano in termini di ceti, ordini o stati. Lo storico e antropologo francese Georges Dumézil ha dimostrato come la tripartizione sociale sia uno dei tratti tipici comuni a tutta la civiltà, indoeuropea antica e medievale, derivante dall’originaria distinzione di tre funzioni di ogni società: la sovranità, la forza e la fecondità, prerogative degli oratores, dei bellatores e dei laboratores. Gli oratores (i re-sacerdoti) erano impegnati nel governo della cosa pubblica, nella preghiera, nei sacrifici e nella difesa della piccola comunità dagli spiriti maligni; i bellatores (i guerrieri) erano impegnati nell’esercizio delle armi e nella difesa attiva dai nemici; i laboratores (i lavoratori) erano infine impegnati in tutte le funzioni relative al quotidiano mantenimento e alla riproduzione della comunità ed erano vincolati da una serie di obblighi dai quali i primi due gruppi (privilegiati) potevano e dovevano essere esentati in virtù del delicato e prezioso compito da loro svolto. Si spiega così la legittimazione dei privilegi del clero e della nobiltà in quanto tributi necessari e giusti da concedere ad oratores e bellatores. Nel 1936 gli storici francesi Marc Bloch e Lucien Febvre proposero, per arrivare ad una definizione di nobiltà, uno schema che prevedeva: a) lo status, ossia la presenza o assenza di prescrizione legali volte a tutelare la condizione di nobile escludendo gli intrusi; b) la quantità, ossia la proporzione percentuale dei nobili rispetto alla popolazione totale; c) la stratificazione interna alla nobiltà, ossia la presenza ed il peso della gerarchia, la sua natura; d) i problemi di contatto e di influenza con altri gruppi, con le comunità e con lo stato. La proposta di Bloch e Febvre si concretizzò in parte solo nella seconda metà del Novecento grazie alle ricerche di storici di diversi paesi, che proposero indagini esemplari sulle nobiltà di singoli paesi insieme ad una avvio di riflessione in chiave di storia comparata. L’enigma della nobiltà Che cosa sono le nobiltà? Le nobiltà sono i ceti privilegiati che detengono l’egemonia politica e sociale nelle società di antico regime e che ne costituiscono le élite. Esse posseggono uno statuto giuridico particolare, si perpetuano per via biologica e rinnovano i propri ranghi in base a regole prestabilite. Rappresentato una minoranza della società, ma nella maggior parte degli Stati europei raramente superano il 2% della popolazione. Che cosa distingue la nobiltà di antico regime? La nobiltà è un ceto distinto dal privilegio, i suoi tratti costitutivi sono la nascita, il ruolo sociale, il possesso; la sua propensione naturale è volta alla conservazione e alla difesa della tradizione. I principali titoli della nobiltà imperiale europea sono quelli dei duchi, marchesi, conti, Visconti, visdomini e baroni. Duchi sono in età romana e longobarda, i comandanti militari (duces) e poi i governatori militari dei territori conquistati. Marchesi sono i governatori delle Marche, ossia delle province di confine o di importanza strategica. Conti sono i più fedeli collaboratori del sovrano, quindi in età carolingia, feudatari inviati a governare una contea. Visconti sono i sostituiti dei conti, quindi feudatari con titoli ereditario di livello inferiore a quello dei conti. Visdomini sono i feudatari laici ai quali il vescovo delega la propria autorità temporale. Baroni nel medioevo sono tutti i detentori di “alta signoria” in età moderna il titolo viene ad indicare una nobiltà feudale di natura inferiore. Questo significativo antico dei titoli nobiliari si trasforma con l’inizio dell’età moderna quando le monarchie territoriali si creano fedeltà distribuendo titoli alle maggiori famiglie. Che cos’è un privilegio? Un privilegio è qualsiasi esenzione o distinzione rispetto ad un serie di leggi o norme valide per gli altri individui o gruppi sociali: ad esempio l’esenzione parziale o totale dal pagamento delle tasse. Conseguenza del privilegio è la diseguaglianza, che è uno dei fondamenti delle società di antico regime. Chi è nobile? È nobile solo chi dimostra di possedere “titoli di nobiltà” ossia privilegi o esenzioni sancite dal sovrano. Tanto è più antica la nobiltà, ossia il possesso di tali privilegi, tanto maggiore è il rispetto dovuto a chi li possiede. Come si diventa nobili? Si è nobili essenzialmente per nascita, per diritto ereditario; ma lo si può diventare anche per servizio ottenendo dal sovrano un titolo in segno di ricompensa per i servizi prestati, o per venalità acquistando un titolo in cambio di denaro. Quali sono i principali tipi di nobiltà europea? Ne possiamo individuare almeno 5: 1) La nobiltà terriera di antica origine feudale, altrimenti nobiltà “di sangue” (ereditaria) o nobiltà “di spada” (di origine militare). 2) I patriziati urbani, ossia famiglie “di Consiglio” che derivano i loro privilegi dall’esercizio delle più antiche cariche amministrative cittadine. 3) La nobiltà di toga, nobiltà acquisita per diritto in seguito all’esercizio di alte cariche di giustizia. un’élite nobiliare costituita da Magnati da cui provengono tutti i re di Polonia che controlla la maggior parte delle terre e dei villaggi del paese e che domina politicamente la Dieta. Ad un secondo livello si colloca la nobiltà media che possiede il resto della terra suddivisa in piccoli appezzamenti, e qualche villaggio. Al livello più basso i colloca la nobiltà povera (Zaganowa) costituita di piccoli e piccolissimi proprietari, a volte costretti a lavorare la terra con le proprie mani, del tutto dipendenti dalla nobiltà maggiore di cui sono clienti e spesso servitori. Cap. 7: Sovranità e potere politico Una definizione di Stato moderno Definire cosa si intende per Stato moderno non è impresa facile. L’espressione “Stato moderno” compare infatti solo agli inizi dell’Ottocento per affermarsi pienamente nel corso del secolo. Si deve allo storico e giurista tedesco Otto Hintze il merito di aver per primo indicato fin dal 1906 l’espressione “Stato moderno” come tipo ideale, ossia come modello astratto. Proviamo allora a definire uno schema interpretativo utile a capire le complesse dinamiche della statualità di antico regime, concentrando l’attenzione su sei linee di tendenza che la maggior parte degli storici ha individuato come caratteristiche del cosiddetto Stato moderno. 1) la progressiva affermazione del monopolio statale della forza attraverso la costituzione di eserciti professionali e permanenti. I nuovi eserciti presenti in quasi tutti gli Stati europei a partire dalla fine del Quattrocento, vedono infatti lo sviluppo della fanteria e dell’artiglieria, dotate di armi da fuoco leggere o pesanti. Questo mutamento epocale determinato dall’invenzione della polvere da sparo, inizia a mettere in crisi il tradizionale ruolo della cavalleria. L’importanza crescente dell’artiglieria, arma borghese e plebea vanno a scapito del codice d’onore della cavalleria, arma nobile per eccellenza, fondata sull’ideologia del coraggio e del valore, del disprezzo del pericolo e del confronto corpo a corpo con l’avversario. 2) la presenza della burocrazia permanente e sempre più specializzata, dotata di competenza professionale ed esperienza amministrativa. Si tratta di notai e cancellieri al servizio permanente del sovrano; quelli che oggi chiameremmo funzionari pubblici. Nei primi due secoli dell’età moderna erano reclutati in maniera diversa: o attraverso la chiamata diretta degli uomini più capaci; o in seguito alla vendita delle cariche e egli uffici (la cosiddetta venalità); o attraverso la concessione di titoli nobiliari ereditari ai funzionari più capaci o più fedeli, da cui ebbe origine la cosiddetta nobiltà di servizio. 3) La presenza di una diplomazia permanente presso le corti straniere. La politica d’immagine di un sovrano, utile ad intrecciare alleanze politiche o strategie matrimoniali, era determinata in molti casi dall’abilità o dalla magnificenza di un diplomatico e dalla sua capacità di stabilire buone relazioni presso la corte straniera di residenza. Da ciò deriva la codificazione delle regole della diplomazia, ossia i primi elementi su cui sorgerà in seguito il cosiddetto “diritto delle genti” o diritto internazionale. 4) La progressiva affermazione del monopolio statale del prelievo attraverso il fisco attraverso cui l’autorità fiscale viene a sostituirsi a quella militare come elemento caratterizzante lo Stato. La stessa idea di appartenenza ad uno Stato si identifica col pagamento delle tasse e con il servizio militare. 5) Il tentativo di affermare una legislazione unitaria su tutto il territorio dello Stato, attraverso il progressivo passaggio dal diritto comune (consuetudinario) ai codici scritti; la riduzione dei privilegi locali e quelli di ceto. 6) La progressiva affermazione di un mercato ampio ed esteso. Le politiche economiche messe in atto da molti governi europei a partire dalla metà del Seicento, ispirate al cantilismo, e quindi ad un maggior intervento dello stato sull’economia sono evidenti segnali di questa tendenza. Definite queste sei linee come parte di un unico schema interpretativo in base al quale i governi europei dei primi anni del Cinquecento appaiono molto più simili, si è assistito ad un netto ridimensionamento della categoria di “Stato assoluto” a favore di categorie interpretative più sfumate. Dal patto fra poteri autonomi alla rappresentanza politica La storia plurisecolare della formazione dello Stato moderno si possono individuare tre fasi successive: 1 fase: corrisponde al Medioevo è caratterizzata dal patto sancito fra poteri autonomi; 2 fase: corrisponde all’età moderna è segnata dalla progressiva affermazione del dominio del sovrano sugli altri poteri; 3 fase: corrisponde all’età contemporanea è caratterizzata dall’affermazione del principio costituzionale di rappresentanza politica come base di ogni governo. La storia dello Stato moderno è una storia di lotte e di compromessi fra poteri diversi, fino all’affermazione di un potere sovrano superiore. Nell’arco di alcuni secoli si passa infatti da un’idea di sovrano come vertice della scala feudale ed incarnazione dello Stato ad un’idea di Stato sovrano come entità superiore, autonoma e astratta. In tutti i territori europei esistevano organi di rappresentanza dei ceti (Diete, Stati Generali, Parlamenti, Cortes ecc.) di origine medievale. Nella Dieta imperiale si distinguevano inizialmente gli otto Grandi elettori (i principi-vescovi di Colonia, di Treviri e di Magonza, il re di Boemia, il principe di Palatinato, il duca di Sassonia, il principe di Brandeburgo, il re di Bavaria), i circa 300 rappresentanti della nobiltà (120 ecclesiastici, 30 principi, 140 signori) e gli 85 rappresentanti delle città imperiali. In altri contesti troviamo organi bicamerali, come il Parlamento inglese (Camera dei Lords ereditaria e Camera dei Comuni elettiva); o tricamerali, come gli Stati Generali di Francia (Assemblea del clero, della nobiltà e del terzo stato), o le Cortes spagnole (clero, nobiltà, città). Almeno fino alla rivoluzione inglese del 1641-1649 gli organi rappresentativi non esprimono orientamenti politici e programmi di governo, ma sono portatori di interessi codificati (i privilegi) dei corpi sociali di cui sono l’espressione. Due erano fin dal Medioevo i compiti prescritti alle assemblee rappresentative dei ceti: prestare aiuto e consiglio al sovrano, ossia deliberare l’entità degli aiuti da destinare al sovrano. Nel medioevo l’aiuto consisteva nella partecipazione diretta dei nobili alle guerre del sovrano, successivamente venne sostituito da una quota di imposta da ripartire in maniera “giusta”, fra i sudditi facendo salvi i privilegi dei ceti superiori. In alcune realtà, come l’impero, alle Diete territoriali erano demandate funzioni legislative, amministrative e giudiziarie; in Inghilterra ogni legge dello Stato doveva essere ratificata dal parlamento. Numerose ricerche hanno dimostrato che ad indurre i sovrani a limitare le prerogative degli organi rappresentativi furono, fra Cinque e Seicento, soprattutto ragioni economiche. L’inflazione cinquecentesca, l’aumento generalizzato delle spese militari e per la corte ed il conseguente indebitamento dello Stato implicavano infatti continue richieste di aiuti alle assemblee cetuali che opponevano una forte resistenza alla crescente pressione fiscale. Monarchie composite e Stati territoriali Se si esaminano le dinamiche della statualità di antico regime, tra Quattro e Settecento, si possono individuare 4 tendenze di medio periodo. 1) La tendenziale razionalizzazione del potere sul territorio che porta alla riduzione del numero dei piccoli Stati regionali. Agli inizi del Cinquecento erano presenti in Europa oltre 500 entità politiche mentre agli inizi del Novecento ne sopravvivevano solo 25. 2) La progressiva autonomizzazione dei più forti poteri territoriali rispetto alla suprema autorità feudale (l’impero). 3) La progressiva marginalizzazione dei poteri locali (città, chiese) delle magistrature e degli organismi rappresentativi (Parlamenti, Stati Generali, Diete, Cortes, Consigli) rispetto al potere dei principi sovrani. 4) Nell’arco di un secolo (1440-1550) si manifesta una spiccata tendenza alla concentrazione dei poteri, i sovrani affrontano le resistenze contrattando con i diversi poteri e ristabilendo un equilibrio parzialmente fondato sul mantenimento dei privilegi. Lo storico John Elliot ha coniato il concetto di “monarchia composita” per indicare quelle monarchie apparentemente unitarie, ma all’interno delle quali sopravvive e si intreccia una molteplicità di giurisdizioni, legittimate dalla forza della tradizione più che dal riconoscimento regio. Ogni nuova acquisizione o cessione di territori consente il mantenimento delle consuetudini, in cambio di alcuni tributi e della fornitura di contingenti militari al nuovo padrone. La monarchia spagnola è un tipico esempio di monarchia composita, costituita a partire dal 1469 dall’unione dei regni di Castiglia e di Aragona, poi di quelli di Navarra e di Portogallo, nella penisola iberica, con l’aggiunta dei regni di Napoli, di Sicilia e di Sardegna, in Italia ciascuno con la propria lingua, le proprie leggi, istituzioni e assemblee rappresentative, gelosamente custodite e mantenute nella loro diversità. Il concetto di “monarchia nazionale” è ormai ritenuto fuorviante dagli storici per connotare le monarchie di antico regime. Si tratta infatti di monarchie molto composite, nient’affatto nazionali, l’idea di nazione è tipicamente ottocentesca. Lo stesso concetto di “patria” veniva impiegato per indicare la terra o la città d’origine, ma non lo Stato di appartenenza. Oggi è meglio utilizzare la categoria di “Stato territoriale” per distinguere quegli Stati dotati di confini definiti entro i quali erano in grado di battere moneta, di imporre tributi e di reclutare truppe. Per mantenere uno Stato territoriale, in età moderna, erano però necessarie almeno 6 condizioni fondamentali. 1. Una buona disponibilità di risorse economiche e naturali sfruttabili. In questo senso i possedimenti del Nuovo Mondo hanno rappresentato nel Cinquecento una risorsa formidabile per la monarchia spagnola. 2. Una posizione geografica protetta e garantita dalla presenza di confini naturali (catene montuose, mari). In questo senso l’insularità dell’Inghilterra ha sempre rappresentato un elemento di notevole vantaggio rispetto alle altre potenze, consentendo al Regno Unito di non subire mai un’invasione. 3. Una successione ininterrotta di abili statisti, fossero essi sovrani o ministri. Grandi monarchie come la Francia e la Spagna si sono consolidate nel corso del Seicento grazie all’opera di ministri forti come il cardinale di Richelieu. 4. Il successo in guerra è un fattore da non trascurare. 5. L’omogeneità della popolazione soggetta e l’assenza di conflitti interni di carattere etnico o religioso; si pensi alle guerre di religione in Germania e in Francia nel corso del Cinquecento. 6. La presenza di una robusta alleanza del potere centrale con le élite locali. Fra Cinque e Settecento queste condizioni si trovano e solo parzialmente in Inghilterra, in Francia e in Spagna. Ma quali sono stati i principali fattori che gli storici hanno indicato come ostacoli alla formazione di un unico Stato territoriale italiano? Potremmo indicarne, schematicamente sette: 1) l’arcaicità e la polverizzazione delle strutture statali; 2) la debolezza di un apparato burocratico; 3) l’indebolimento delle attività commerciali dalla fine del XV secolo, dovute sia alla crisi del Mediterraneo; 4) l’egemonia straniera sulla penisola; 5) la presenza di patriziati cittadini forti e radicati; 6) l’esistenza di Stati repubblicani (Venezia, Genova, Lucca) cristallizzati nelle loro istituzioni oligarchiche; 7) la presenza di uno stato della Chiesa autonomo e territorialmente esteso, unica vera monarchia assoluta. Monarchie assolute , repubbliche oligarchiche e burocrazia Il concetto di “assolutismo” sta ad indicare una monarchia sciolta da ogni vincolo, è stato introdotto per la prima volta dal giurista francese Jean Bodin nei Sei libri della Repubblica del 1576. Il termine “assolutismo” entra però a far parte stabilmente del lessico politico solo con la Rivoluzione francese. Impiegato a lungo con una connotazione negativa e identificato con “nepotismo”, l’assolutismo è stato in seguito recuperato con una valenza parzialmente positiva, unito all’attributo di “illuminismo”. L’assolutismo è una delle tendenze, a tratti prevalente, delle grandi monarchie europee, mentre la forma più diffusa di governo rimane quella che la storiografa tedesca ha definito Ständesstaat (Stato Cetuale) fondato su una molteplicità di poteri e sulla condivisione della sovranità fra il principe, i ceti e i loro organi rappresentativi. Completamente diversa è la situazione delle antiche repubbliche oligarchiche e patrizie come Venezia, Genova e Lucca fondate su organismi rappresentativi delle élites cittadine e su complicati sistemi elettorali. Il termine “burocrazia” viene coniato a metà Settecento dall’economista francese Vincent de Gournay e poi impiegato dagli economisti fisiocratici per denunciare il potere crescente dei funzionari governativi nella vita della Francia. Il termine deriva dal vocabolo francese bureau Con la parola “fisco” (dal latino fiscus, la cesta dove si raccoglievano i contributi) in età romana si indicava la casa privata dell’imperatore, ben distinta dall’aerarium, ossia la cassa dello Stato, destinata a finanziare l’esercito o le opere pubbliche. Successivamente, agli inizi dell’età moderna, il termine è venuto a connotare lo Stato ed in particolare un sistema di prelievo esercitato sui sudditi ed esteso ad un intero territorio, al punto che l’attributo “fiscale” indica, già fra Sei e Settecento tutto ciò che riguarda lo Stato nel suo complesso (col titolo di Gran fiscale). Oggi è infatti solo lo stato ad avere il monopolio del prelievo, mentre in antico regime i soggetti del prelievo erano diversi: il sovrano, i signori territoriali, i feudatari, la Chiesa, gli enti ecclesiastici, le città, le Corporazioni, le comunità locali ecc. Fin dal tardo medioevo uno degli elementi che caratterizzavano la maggiore o minore autonomia delle amministrazioni cittadine, era rappresentato proprio dall’estimo, ossia dalla capacità dei Consigli municipali di determinare l’entità del prelievo fiscale da imporre ai propri cittadini. Questa importante prerogativa consentiva di determinare chi aveva diritto alla cittadinanza e di definire una precisa gerarchia sociale basata sul reddito. Le principali cariche pubbliche venivano per lo più attribuite ai maggiori estimati a sedere in Consiglio comunale. Tanto maggiore era la quota di estimo che il comune tratteneva per le proprie esigenze, tanto maggiore era l’autonomia di cui l’amministrazione locale poteva godere. Le forme attraverso cui si attuava il prelievo fiscale, in antico regime erano diverse: l’imposizione diretta mediante tributi e tasse ordinarie e straordinarie imposte dal sovrano ai sudditi; seguivano poi le imposizione indirette, ossia sui consumi come le imposte sul grano, sul tabacco, sul vino ecc., e ancora i dazi, i pedaggi e le gabelle, ossia imposti sui beni importati, esportati o trasportati su un dato territorio. Una modalità differente di ricavare denaro dai sudditi consisteva nella vendita di beni della corona (terre, gioielli, palazzi) che venivano acquistati a caro prezzo dai nobili e dai ricchi borghesi desiderosi di mettersi in vista. Acquistare un titolo nobiliare rappresentava per molti ricchi borghesi, o per gentiluomini non titolati, un lasciapassare per entrare a far entrare a far parte dell’élite del paese. Fermes e appalti Dovendo raccogliere denaro con urgenza, soprattutto in caso di guerra, i sovrani stipulavano dei contratti (denominati in francese fermes) con singoli finanzieri o appaltatori per lo più grandi mercanti, che anticipavano loro la somma necessaria ad armare l’esercito ottenendo in cambio una serie di concessione quali una rendita fissa in denaro sui beni demaniali, il diritto di esigere il denaro in nome del sovrano in un dato territorio (appalto dell’esazione), il diritto di sfruttamento di beni del sovrano (boschi, miniere, dazi ecc.), la concessione di alcuni monopoli (sale, zecca, commerci transoceanici ecc.). Sapendo che difficilmente la cifra loro prestata avrebbe potuto essere restituita, i sovrani facevano concessioni sempre maggiori agli appaltatori. In questo modo, il prelievo fiscale veniva interamente appaltato ai privati i quali ottenuto il monopolio della riscossione potevano esigere i tributi direttamente sul territorio e senza alcun controllo, incassando cifre ben maggiori di quelle prestate. Non era lo Stato o il sovrano ad esercitare il prelievo, ma i privati, gli appaltatori, nei confronti dei quali si concentravano le proteste dei sudditi vessati. Solo dalla seconda metà del 1600, i sovrani incominciarono a limitare il potere degli appaltatori, dapprima sottoponendoli ad un rigoroso controllo da parte dei funzionari statali, quindi riducendone il numero e vincolandoli a resoconti periodici dei loro profitti, infine abolendo l’appalto del prelievo ai privati ed incaricando dell’esazione solo funzionari governativi. Inoltre in molti Stati europei si incominciarono ad elaborare progetti di riforma del fisco volti ad eliminare le peggiori storture e a razionalizzare un sistema fortemente sperequato. In Prussia l’introduzione di una tassa (l’ascissa) sui beni di largo consumo, come la birra, segnò l’avvio di una fiscalità sottratta ai ceti privilegiati, ma gestita dall’amministrazione centrale, che avrebbe aperto la strada alle successive riforme settecentesche. Le riforme fiscali e i catasti Il cardine delle riforme fiscali settecentesche è il catasto, strumento essenziale di conoscenza e base per ogni intervento in materia fiscale. Un catasto è in genere costituito: a) da una serie di mappe quanto più precise del territorio dello Stato, con indicati i confini e l’estensione delle singole proprietà immobiliari, la redditività dei terreni; b) da una serie di registri periodicamente aggiornati con l’indicazione del nome dei proprietari di ogni lotto di terreno. Mappe e registri costituiscono un archivio prezioso per determinare la ricchezza dei contribuenti. Per dare un’idea della complessità dei problemi connessi alla realizzazione dei catasti settecenteschi basta dire che i principali scopi che si prefiggeva chi realizzava un catasto erano: a) la conoscenza precisa dei redditi reali dei soggetti tassabili e quindi in primo luogo dei ceti privilegiati; c) la tassazione dei patrimoni dei ceti privilegiati; d) una tassazione più equa dei beni dei ceti non privilegiati. Per realizzare e mantenere una catasto erano quindi necessarie almeno 4 condizioni: a) una forte volontà politica da parte del sovrano e degli uomini di governo al suo servizio; b) mezzi finanziari considerevoli; c) notevoli competenze tecniche, come misuratori, geometri contabili ecc.; d) la collaborazione dei soggetti tassabili e in primo luogo dei ceti privilegiati, disponibili ad accogliere ed aiutare i misuratori, a subire accurate ispezioni sui propri terreni, ad esibire i libri contabili, a dichiarare i propri redditi ecc. I catasti sono dunque uno strumento essenziale per realizzare qualsiasi seria politica fiscale. Le più significative riforme settecentesche in materia fiscale furono avviate nella Lombardia austriaca sotto il regno di Maria Teresa d’Asburgo (1740-1780). Cap. 9: La guerra e gli eserciti Dalle milizie feudali agli eserciti permanenti Lo storico inglese Michael Roberts in un saggio pubblicato per la prima volta nel 1956, ha proposto per primo la categoria di “rivoluzione militare” come chiave interpretativa per comprendere la modernità a partire dalle profonde trasformazioni in atto nel modo di fare guerra, fra Cinque e Seicento, dopo l’invenzione della polvere da sparo. Successivamente è stato un grande studioso della Spagna Geoffrey Parker ad estendere la categoria di “rivoluzione militare”. Basandosi su una dimensione europea più generale e ad un arco cronologico di tre secoli (1500-1800), individuò sette fattori chiave di trasformazione: 1) una trasformazione organica segnata dal passaggio dagli eserciti temporanei agli eserciti permanenti; 2) una trasformazione tattica che vede prevalere la fanteria sulla cavalleria, dopo l’introduzione delle armi da fuoco; 3) un mutamento strategico derivante dalla necessità di retribuire, alimentare e spostare sul territorio masse crescenti di uomini in armi e dai legami sempre più stretti fra guerra, politica e diplomazia; 4) l’accresciuta importanza del militare in seno alla società, soprattutto in rapporto allo stato e alla finanza; 5) il ruolo della tecnologia applicata alla guerra; 6) la funzione dell’architettura militare, in grado di ridisegnare le città fortificate; 7) il nuovo ruolo della marina militare. Il primo problema da affrontare nello studio della storia militare dell’antico regime è relativo alla trasformazione degli eserciti da feudali a professionisti. Già a metà Quattrocento i soldati mercenari delle compagnie di ventura veri e propri professionisti della guerra sostituiscono progressivamente le milizie cittadine volontarie. Il modello dell’esercito interarmi, ossia composto da diversi corpi specializzati (cavalleria, fanteria, picchieri, bombardieri, balestri ecc..) si afferma come soluzione più efficace anche se più costosa. L’aggregazione di spazi diversi nell’ambito delle nuove monarchie territoriali ed il rafforzamento degli Stati impone del resto eserciti di maggiori dimensioni e soprattutto eserciti permanenti e di mestieri. Ciò implica costi più elevati, in quanto i professionisti della guerra vanno retribuiti. Solo compagnie disciplinate, ben addestrate, tecnicamente preparate e ben pagate potrebbero rispondere alle nuove esigenze delle guerre europee di lunga durata. A partire dalla metà del Cinquecento la guerra non era solo questione di eserciti e di cannoni ma anche di navi e di flotte ben equipaggiate. L’introduzione delle armi da fuoco sulle navi, fra Quattro e Cinquecento, segna una tappa importante. Nell’arco di alcuni decenni si passa infatti dalla pratica dell’arembaggio ancora impiegata nella guerra per tutto il Seicento e volta alla cattura senza troppi danni delle navi nemiche alla battaglia navale condotta a distanza con le armi da fuoco e volta alla distruzione fisica della flotta nemica. Dall’arma bianca alle “bocche da fuoco” Il 1453 presa di Costantinopoli da parte dei turchi del sultano Mehmet II il Conquistatore rappresenta anche una delle prime apparizioni della terribile “bocca da fuoco”. Il primo grande cannone della storia moderna era lungo circa 10 metri, sparava proiettili del peso di 600 kg che dovevano essere sollevati da sette uomini e trasportati da un carro trainato da 30 buoi. Il “mostro” contribuì alla rapida presa della città imperiale e alla conseguente fine del mondo bizantino. Il passaggio dall’arma bianca all’arma da fuoco ha rappresentato una delle più grandi rivoluzioni nella storia dell’umanità, destinata a mutare radicalmente il modo di fare la guerra. Per secoli, infatti, la cavalleria aveva rappresentato il nerbo degli eserciti medievali e il valore militare inteso come capacità di mettere a repentaglio la propria vita in scontri e duelli corpo a corpo era ritenuto una delle principali virtù richieste di un uomo. Con l’introduzione delle armi da fuoco sempre più importanti diviene il ruolo dell’artiglieria, sia pesante che leggera: la prima affidata alla perizia tecnica di fabbri fonditori, artificieri e periti balistici; la seconda alla rapidità di movimento e alla precisione di mira di fucilieri e moschettieri addestrati al tiro al segno. Le mura medievali merlate, alte e sottili, adatte alla difesa da eserciti armati in maniera leggera, vengono infatti sostituite da bastioni più bassi ma molto più spessi. Di conseguenza gli assedi diventano imprese lunghe e complesse i cui esiti sono per lo più decisi da vittorie militari sul campo in un altro teatro di guerra, o della diplomazia. L’architettura bastionata si diffonde nel corso del Cinquecento e venne adattata per la prima volta in Francia, in Spagna e in Inghilterra. Guerre e fiscalità Dalla fine dell’Impero romano fino agli inizi dell’età moderna il servizio militare pesava in misura minima sulle finanze pubbliche in quanto si trattava di un servizio obbligatorio le cui spese (cavallo, armatura, spada e scudo per i nobili ecc..) erano a carico di ciascun combattente. Le spese di mantenimento dell’esercito e di foraggiamento del bestiame erano a carico del territorio dove l’esercito era di stanza. Gli oneri pur pesanti erano quasi sempre sostenibili, anche perché erano connessi con la difesa del medesimo territorio. È solo con la costituzione di eserciti permanenti e di mestiere, reclutati per lo più dal territorio e privi di stretti legami, che le spese crescono in maniera esorbitante inducendo principi e sovrani o ad indebitarsi o ad aumentare la pressione fiscale sui sudditi. Con l’invenzione delle armi da fuoco le spese per l’armamento si moltiplicano ed implicano sempre più la presenza di vere e proprie industrie belliche. Anche la costruzione di sistemi di difesa, di mura e di fortificazioni di nuovo tipo, più solide e resistenti ai colpi di cannone, implica competenze diverse e più raffinate. Sono necessari architetti e ingegneri, maestranze specializzate da reclutare all’esterno della città. A titolo di esempio ricordiamo che, tra il 1547 e il 1598, il costo delle guerre sostenute dal Regno di Spagna passa da meno di 2 milioni di Ducati all’anno a più di 9 milioni. La difficoltà di retribuire i soldati costringe i sovrani a delegare enormi poteri militari, politici e finanziari ai cosiddetti “signori della guerra”, veri e propri imprenditori militari. La pressione fiscale si fa più pesante, la raccolta del denaro viene spesso effettuata sotto la minaccia delle armi, mentre dal fisco l’esercito trae il suo principale sostentamento. Per farci un’idea approssimativamente delle risorse destinate al mantenimento degli eserciti fra Sei e Settecento possiamo citare il caso della Francia di Luigi XIV che nel 1700 destinava alla guerra il 75% delle entrate fiscali. Vita di truppa Proviamo ora ad osservare gli eserciti dal punto di vista della truppa, avvicinandosi alle decine di migliaia di soldati, mal pagati, mal equipaggiati, reclutati per lo più a forza e costretti a combattere in terre lontane guerre le cui finalità erano per loro quasi sempre estranee. Chi sono questi soldati? Da dove vengono e come ha luogo il loro reclutamento? La professione delle armi è stata una risorsa per le popolazioni dei territori più poveri. Per garantirsi eserciti permanenti di grandi dimensioni i sovrani europei ricorrevano ad almeno due altri espedienti: a) l’arruolamento forzato di poveri, delinquenti e sbandati; b) l’arruolamento obbligatorio dei prigionieri di guerra. Quest’ultima pratica risultava da un lato più pericolosa, ma dall’altro lato costituiva una soluzione In antico regime ai “margini” veniva in genere attribuito il marchio d’infamia come ai delinquenti, prostitute, vagabondi, ebrei. La condivisione di “marginale”, dunque viene facilmente attribuita dai poteri dominanti a quanti non rispettano pienamente le regole sociali ed i valori condivisi dalla maggioranza. Pertanto la marginalità può verificarsi su due piani distinti: quello dell’assenza e quello del rifiuto. Nel primo caso si sancisce la semplice assenza di certi legami che la società ritiene normali, ad esempio nell’ambito della famiglia (il matrimonio e i figli), della professione, del vicinato, del credo religioso; nel secondo caso si sancisce il rifiuto consapevole di quei legami e di quelle regole, considerato come indizio della volontà di rompere con la società o con il gruppo di cui si fa parte. Dalla condizione di marginale è dunque facile cadere in quella di emarginato. La diffidenza nei confronti degli invalidi, malati o malati di mente, che venivano tendenzialmente isolati e separati dalla comunità, si spiega solo come una misura di difesa contro un pericolo di contagio, ma con una necessità profonda della società moderna di depurarsi dagli elementi ritenuti estranei rispetto ad un ordine definito. Ecco perché il vagabondo rappresenta la marginalità per eccellenza. Sarà la legislazione napoleonica a definire per la prima volta il vagabondo come “colui nella cui borsa non sono presenti le minime risorse personali”. Il vagabondo non partecipa o rifiuta di partecipare ai legami sociali di un dato sistema e pertanto dev’essere punito, anche se non danneggia nessuno. Il povero: assistere e recludere Uno dei capisaldi della dottrina Cristiana fino alla fine del Quattrocento era l’idea che i poveri fossero “l’immagine di Cristo sofferente” e per questa ragione dovessero essere aiutati. Donare ai poveri significava in qualche modo farsi perdonare per altri peccati e riscattarsi agli occhi di Dio e della società. Facendo la carità il nobile acquisiva consensi e rafforzava la sua posizione di preminenza sociale, creandosi una rete di fedeli debitori, pronti a servirlo all’occorrenza. I successivi passaggi dalla carità alla beneficenza e quindi all’assistenza nella prima metà del Cinquecento, sono la conseguenza di una desacralizzazione del povero, che non è più raffigurato come “immagine di Cristo”, ma come ozioso e come elemento potenzialmente pericoloso. Non è dunque il singolo a dover fare la carità, per salvarsi l’anima ma sono le istituzioni benefiche a dover raccogliere il contributo dei fedeli per poi destinarlo ai poveri. Solo con la fine del Settecento e poi con i movimenti sociali dell’Ottocento inoltrato si incomincia a parlare dell’assistenza come di un diritto di ogni cittadino. Che cosa ha cambiato, dunque così profondamente l’immagine del povero nella coscienza collettiva europea, agli albori dell’età moderna? Decisivo è stato il manifestarsi del pauperismo agli inizi del Cinquecento. Sul piano dottrinale ha sicuramente inciso la Riforma protestante, con il principio affermato da Lutero della “giustificazione per solo fede” e non attraverso le opere, in base al quale il credente deve solo confidare nella propria fede e nel perdono gratuito da parte di Dio. Nel nuovo contesto religioso, la carità non è più uno strumento di elevazione spirituale, ma la sola via della salvezza è la fede. Di conseguenza in gran parte d’Europa la mendicità viene bandita ed in molti casi la carità individuale vietata, lasciando agli enti benefici istituiti in ogni città il compito di provvedere ai poveri. In questo contesto, anche nell’Europa cattolica, prende piede la prassi di “discriminare”, ossia di distinguere fra poveri bisognosi (per lo più malati, fanciulli, anziani o donne sole) da sostenere con la beneficenza, e poveri oziosi (per lo più ragazzi o uomini in grado di lavorare) da avviare al lavoro negli ospizi o da bandire dal territorio. La distinzione fra il povero locale e quello forestiero derivava in molti casi dalle cosiddette licenze di mendicità, per ottenerle i bisognosi dovevano portare l’attestato di povertà e il certificato di battesimo, rilasciati dal parroco, il quale poteva concedere la licenza di mendicità solo a chi era nato nella giurisdizione in cui operava l’ufficio. Al contrario, al povero forestiero, cioè a chi proveniva da un’altra giurisdizione, era negato qualunque aiuto. La reclusione era dunque la sola risposta possibile e la povertà si doveva dichiarare “sbandita” ossia abolita, in presenza di pubblici istituiti destinati al soccorso dei poveri. In ogni caso è presente l’idea tipicamente illuminista che la povertà sia in fondo, una colpa di chi non sa uscire dal proprio stato di ozio o di ignoranza, mentre il lavoro viene assunto come un valore etico capace di riscattare dalla miseria. Nel corso dell’età moderna si assiste a diverse e successive ondate migratorie dalle campagne alle città. In questi anni masse di contadini impoveriti si riversano nelle città europee alla ricerca di lavoro e di sostentamento, provocando immediate reazioni da parte delle autorità locali che adottano quasi ovunque provvedimenti per il respingimento dei poveri forestieri. Nel 1522 a Norimberga per la prima volta viene deliberata la centralizzazione dell’assistenza ai poveri. Nel 1526 viene pubblicato il trattato De subventione pauperum (Sull’assistenza ai poveri) dell’umanista spagnolo Juan Luís Vives nel quale si sostiene la necessità di passare dalla carità individuale all’assistenza organizzata e disciplinata. La laicizzazione dell’assistenza è un tratto comune sia ai paesi cattolici che a quelli protestanti. In Italia a partire dagli anni centrali del Cinquecento assistiamo alla fondazione di istituti assistenziali grazie ai fondi di privati cittadini e di confraternite, con l’appoggio di principi, Consigli municipali e vescovi. Il patrimonio amministrato delle istituzioni assistenziali si accrebbe al punto da rappresentare una quota analoga a quella di molti patrimoni nobiliari. In molti casi gli ospedali costituirono doti destinate ad aiutare le ricoverate a sposarsi, oppure fornirono contributi in denaro o in natura ai ricoverati più volenterosi che uscivano dall’istituto per aprire una piccola bottega. Fuori dall’Italia uno dei modelli più significativi è quello dell’Inghilterra, dove vengono istituite nel 1575 le prime Houses of Correction (case di correzione) destinate a rinchiudere vagabondi e assistere i poveri bisognosi; trasformate in Workhouses (case di lavoro), assumeranno nel Seicento il carattere di vere e proprie fabbriche alimentare dal lavoro forzato dei reclusi. A partire soprattutto dal caso francese, il filosofo e storico Michel Foucault, in Sorvegliare e punire (1975), ha richiamato l’attenzione degli studiosi sul cosiddetto “grande internamento” di metà Seicento, ossia sull’imponente operazione di concentrazione e segregazione dei poveri all’interno di istituti e case di lavoro ad essi appositamente destinati, concepiti al tempo stesso come luogo di assistenza, di disciplinamento e di punizione, capaci di trasformare i “poveri oziosi” in docili lavoratori. L’internamento segnala che la comunità rifiuta e respinge alcuni individui portatori di caratteristiche fisiche, o atteggiamenti e comportamenti devianti rispetto alle norme stabilite ed accettate. L’internamento è una misura che priva i soggetti della loro libertà costringendoli a lavorare e pregare. Criminalità e marginalità Per affrontare lo studio dei fenomeni criminali è necessario capire innanzitutto come veniva concepita la criminalità nel passato, quali comportamenti venivano puniti. La maggior parte dei reati implicava non la detenzione ma i castighi corporali ed in moltissimi casi la pena di morte. La pena era concepita come punizione e non come correzione e la legge presupponeva la diseguaglianza di trattamento a seconda del ceto sociale. Del resto l’85% dei reati di antico regime poteva essere compreso sotto le due categorie di furto e aggressione. Una prima distinzione va dunque fatta tra criminalità rurale e criminale urbana. La criminalità rurale è centrata su furto e aggressione, dominata dai piccoli reati come il furto campestre e il furto di bestiame da episodi di brutalità domestica che hanno come vittime soprattutto donne e ragazzi, segnata da una ricorrente violenza pubblica che come luogo privilegiato l’osteria o la piazza. La criminalità rurale è una criminalità intraclassista, ossia esercitata all’interno della stessa classe sociale, quella dei poveri. Un caso a sé è rappresentato dal cosiddetto brigantaggio: i briganti, organizzati per lo più in bande, assaltavano con le armi sia i viaggiatori isolati, sia le carrozze e i carri con merci. Il crimine è per lo più premeditato, ossia organizzato e programmato. Assai diversa è la criminalità urbana, per lo più individuale, dettato dal bisogno o da uno scatto d’ira, raramente è premeditato. La città genera più facilmente il crimine in quanto concentra maggior popolazione in spazi più ristretti, vi è minor controllo sociale, vi sono maggiori e più evidenti differenze sociali con una compresenza di ceti e redditi molto diversi. In questo caso domina il furto, compiuto con destrezza da bande di ladri e borseggiatori, da bande di assassini attivi durante la notte. Cap. 11: La dimensione religiosa Religione e vita quotidiana La vita quotidiana degli uomini e delle donne di antico regime è profondamente segnata dalla dimensione religiosa. A tutti i livelli sociali è presente il senso della precarietà dell’esistenza e di conseguenza la paura della morte e delle pene dell’inferno domina la vita dei credenti, consci della propria natura di peccatori. In una società profondamente gerarchizzata, in cui pochissimi avevano accesso alla persona del sovrano, pochi osavano rivolgersi direttamente all’Altissimo, e nell’Europa cattolica, i più poveri preferivano farlo tramite figure di mediazione, dalla Vergine Maria agli innumerevoli santi. La gerarchia celeste prevedeva che ci si rivolgesse, con un’offerta in primo luogo al santo locale e al suo santuario; quindi ad un santo di rango superiore, come sant’Antonio da Padova o San Nicola di Bari. Solo in rari casi e per le questioni più gravi ci si rivolgeva direttamente a Gesù! Solamente i sacerdoti si rivolgevano a Dio Padre. Il culto mariano, negato da Lutero e dai protestanti era molto diffuso nell’Europa cattolica, particolarmente fra le donne per le quali era più facile rivolgersi ad una figura femminile, materna e amorevole “la Madonnina” piuttosto che a una figura maschile. La percezione stessa del tempo, in antico regime, era fortemente segnata dall’elemento religioso. Contadini e contadine, spesso non conoscevano il calendario né sapevano distinguere i mesi e i giorni, ma conoscevano perfettamente il calendario liturgico. La Pasqua rappresentava la festività più importante, in occasione del quale, il vescovo o un suo delegato compivano il giro delle visite pastorali nelle parrocchie del diocesi. Ogni credente doveva confessarsi almeno una volta all’anno in occasione della Pasqua e la comunione pasquale veniva annotata dal parrocco che su quella base avrebbe poi redatto lo Stato delle anime, ossia il registro dei fedeli della parrocchia. Chi non prendeva la comunione pasquale era immediatamente sospettato di essere un miscredente o un peccatore con la coscienza sporca. Nella vita di un credente a ciascuna tappa della vita corrisponde un sacramento o un “rito di passaggio”: battesimo, comunione, matrimonio, estrema unzione . La parrocchia è il luogo della celebrazione di questi riti collettivi e di conservazione della loro memoria scritta (archivi parrocchiali). Il battesimo svolto dalla presenza dei padrini e non necessariamente dei genitori, era l’atto che consentiva di iscrivere alla comunità un suo nuovo componente, attribuendolo ad una coppia di coniugi e di conseguenza ad una famiglia. Era un atto civile e religioso, da cui dipendeva l’identità di ciascuno. La scelta dei padrini era di conseguenza un fatto di estrema importanza che determinava alleanze famigliari o rapporti di protezione (come il padrinaggio o patronato). Dopo il battesimo, la prima comunione rappresentava per il cristiano l’ingresso nella comunità dei fedeli. La confessione rappresentava la pacificazione con i propri nemici e la richiesta del perdono a Dio tramite la Chiesa. Solo a partire dal Concilio di Trento il matrimonio diventa il sacramento fondamentale in quanto rappresenta l’atto costitutivo di una nuova famiglia e in genere l’unione di due patrimoni. Esso deve quindi garantire il consenso dei coniugi, ma soprattutto delle due famiglie di origine che attraverso di esso stringono un patto di alleanza destinato a durare nel tempo. È bene ricordare che fino alla metà del Cinquecento il matrimonio era un atto eminentemente civile, celebrato di fronte al notaio o al giudice. Il matrimonio era essenzialmente un patto tra famiglie. In molti casi il matrimonio sanciva una pace fra due famiglie rivali che in questo modo dichiaravano la loro alleanza ed unione di fronte alla comunità. L’estrema unzione è un sacramento che ricevevano solo coloro i quali spirano nel loro letto con i conforti delle religione, mentre la maggior parte di coloro che muoiono lontano da casa (per strada, sul lavoro ecc..) non riceve i sacramenti e solo in alcuni casi può avere una degna sepoltura. Parroci e parrocchie. La chiesa come carriera Nella società di antico regime la parrocchia è il luogo dove vengono vissuti collettivamente i tre momenti chiavi della vita: battesimo, matrimonio e sepoltura. La figura del parroco riveste pertanto un’importanza particolare. Nel mondo rurale egli rappresentava infatti il principale mediatore fra la società contadina e la Chiesa. Il parroco di villaggio fa organicamente parte della comunità nella quale è inserito e né condivide i problemi; è l’amministratore dei sacramenti e della liturgia, ma è anche confessore. È quasi sempre lui il mediatore dei conflitti famigliari e sociali del villaggio. Inoltre il parroco è ufficiale di stato civile, in alcuni casi può essere notaio, maestro di scuola, musicista, agente di prestito, comunque organizzatore della vita sociale della piccola comunità. Nella maggior parte dei casi, è una delle poche persone e in molti casi l’unica persona istruita e alfabetizzata del villaggio. Il concilio di Trento definisce per la prima volta in maniera inequivocabile i doveri del parroco, imponendo un nuovo ideale modello di sacerdote: residente nella parrocchia ed impegnato nella cura d’anime, preparato, obbediente e disciplinato, capace di rispondere sia alle rinnovate esigenze della chiesa, sia a quelle di una società in trasformazione. Al mediterraneo. Si tratta di un colto diplomatico marocchino, Al-Hasan al-Wazzan, nato a Granada in Spagna, prima della cacciata dei musulmani. Incarcerato per un anno, dopo aver ricevuto un’istruzione religiosa, Al-Hasan viene battezzato cristiano con il nome di Giovanni Leone (in onore del papa) e liberato alla fine del 1519. Accolto nella corte pontificia, Leone l’Africano ottiene la protezione del papa ed entra in rapporto con i più importanti intellettuali dell’epoca, occupandosi anche della traduzione in arabo della Bibbia. Cap. 12: Figure e spazi della cultura Ecclesiastici e cortigiani. Accademie e biblioteche È solo tra la fine del Sei e la metà del Settecento che si incomincia a far riferimento agli uomini di cultura impiegando termini come “dotti” o “letterati”. Fra il Cinquecento e il Seicento l’intellettuale per eccellenza è l’ecclesiastico. Il solo ad aver avuto un’istruzione superiore, a conoscere il latino e avvolte il greco, ad aver accesso ai libri delle grandi biblioteche monastiche, almeno fino all’invenzione della stampa. Fra gli ecclesiastici bisogna distinguere il clero regolare, ossia i frati e i monaci degli Ordini religiosi, per lo più legati alla vita conventuale, dal clero secolare cioè i preti attivi nelle parrocchie ed i semplici abati. Nel pieno Rinascimento, l’alto clero rappresentò uno dei settori più colti dell’élite, soprattutto in Italia. Dalla metà del Cinquecento la cultura sarebbe stata dominata invece dai potenti Gesuiti, in grado di monopolizzare la formazione dei ceti dirigenti di tutta l’Europa cattolica. La figura più tipica di questa stagione culturale è l’abate secolare settecentesco, impegnato come precettore o come segretario presso una famiglia aristocratica. L’altra figura intellettuale è quella del cortigiano. Uomini come Ludovico Ariosto, Tarquato Tasso e Leonardo da Vinci, furono al servizio di principi laici ed ecclesiastici dai quali ottenevano generose pensioni per svolgere le loro attività a corte. Sovrani, principi e cardinali, signori locali e potenti vescovi, tenevano volentieri al loro servizio poeti e pittori, bibliotecari e antiquari capace di arricchire e valorizzare le loro collezioni. La corte rinascimentale era un’istituzione di notevole interesse sulla quale l’attenzione degli storici si è concentrata a più riprese, per coglierne le connotazioni artistiche e culturali, quelle politiche, economiche ed antropologiche. Esempio di corte: quella piemontese di Rivoli o di quella napoletana di Caserta. La corte era soprattutto un potente strumento di organizzazione del consenso. Le accademie nascono fra 1400-1500 come luogo autonomo della ricerca, per iniziativa di piccoli gruppi di letterati, filosofi e scienziati, ed si affermarono nel Seicento come spazio privilegiato della sperimentazione scientifica. Organizzate secondo una precisa gerarchia, dotate di statuiti e distinte da un motto e da un’impresa (stemma). Per accademie si intendono quelle società di uomini stretti fra loro con certe leggi, a cui essi medesimi si soggettano, che radunandosi insieme si fanno a disputare su qualche questione, o producono e sottomettono alla censura dei loro colleghi qualche saggio del loro ingegno e dei loro studi. Furono soprattutto le accademie scientifiche a segnare il clima di una nuova stagione: la più celebre ed antica accademia scientifica è l’Accademia dei Lincei, fondata a Roma nel 1603 e tuttora considerata la più prestigiosa istituzione accademica italiana. Nel corso del Settecento con la trasformazione delle antiche accademie in istituzioni più formalizzate, sostenute e finanziate dallo Stato ed investite di compiti di pubblica utilità, nascono le nuove accademie statali. Dapprima in Francia e poi nelle principali capitali dell’Europa monarchica (Londra, Berlino, Stoccolma, San Pietroburgo) tali accademie, promosse direttamente dai sovrani avevano il compito di fare ricerca nei diversi campi del sapere. Annessi alle accademie sorsero, tra 1600-1700 anche laboratori, giardini botanici, osservatori astronomici e alcune grandi biblioteche aperte agli studiosi e destinate a raccogliere i testi più importanti che si pubblicavano in Europa. Fino a quel momento non esistevano biblioteche pubbliche. Le biblioteche universitarie si diffusero nel corso del 1700, affidate alle cure dei professori o di bibliotecari. La professione del bibliotecario emerse solo allora come quella di un uomo di cultura e non di un semplice custode. La stampa e l’editoria. La circolazione delle idee L’importanza dell’invenzione della stampa a metà 1400 rappresentò davvero una “rivoluzione inavvertita”. Le prime aree di diffusione della stampa furono la Germania e la Valle del Reno (Colonia, Strasburgo e Magonza), la capitale culturale dell’editoria europea del 1500 fu sicuramente Venezia, con la figura di Aldo Manuzio (1450-1515), il maestro di scuola umanista divenuto raffinato stampatore. La diffusione della stampa implicò anche la nascita di nuovi mestieri (compositori, impaginatori, correttori di bozze) e la trasformazione di antichi mestieri in copisti, xilografi, illustratori, librai, rilegatori al servizio di un mercato in espansione. Il mondo dell’artigiano vide emergere al proprio interno la categoria dei tipografi come una sorta di élite alfabetizzata e spesso discretamente acculturata. Nei primi decenni dopo l’invenzione della stampa i libri prodotti erano prevalentemente testi in latino di autori antichi o testi religiosi; successivamente venne la stagione dei libri in volgare, destinati però ad un pubblico colto e raffinato; infine si passò alla produzione massiccia di libri popolari a larga circolazione, destinati anche ad un pubblico di semialfabetizzati. Due caratteristiche colpiscono il nostro sguardo se osserviamo il frontespizio di un libro antico: a) il grande rilievo dato alla dedica, ossia alla lettera con la quale l’autore o lo stampatore si poneva sotto la protezione di un uomo potente o autorevole (principe, nobile, ecclesiastico o uno scrittore già celebre) dedicandogli il volume con un atto di cortesia; b) l’assenza o lo scarso rilievo del nome dell’autore, perché era il titolo a dominare la pagina. In assenza di “diritti d’autore” qualunque stampatore poteva stampare le opere di chiunque. È solo con l’introduzione della privativa che si incomincia ad affermare la proprietà letteraria dell’autore ed il suo diritto ad essere pagato in base alle copie del libro vendute, diritto istituzionalizzato nel 1710 in Inghilterra con il copyright, ossia il diritto d’autore, in base al quale gli autori dei libri ottennero il potere di bloccare la diffusione delle proprie opere, se non autorizzate. Comunque la cosiddetta “rivoluzione inavvertita” riguardò solo una ristretta minoranza della popolazione, per lo più urbana, nelle campagne europee circolavano pochissimi libri. La lettura non era un fatto individuale, ma collettiva. Si leggeva in chiesa, al mercato, all’osteria, a volte in piazza, in qualche casa attorno al fuoco, grazie alla presenza di una persona alfabetizzata. Con l’introduzione della stampa, le autorità politiche e religiose si resero immediatamente conto di quanto il libro potesse essere potenzialmente pericoloso. La Chiesa ma anche le autorità laiche, intervennero imponendo che ogni testo da inviare in tipografia dovesse avere l’autorizzazione preventiva da parte dell’autorità ecclesiastica. La censura prevedeva il divieto di stampare, di diffondere e di possedere i libri non autorizzati. Papa Paolo IV fece pubblicare a Roma il primo ed ufficiale Indice dei libri proibiti, ossia il catalogo di tutte le opere di cui la Chiesa cattolica vietava la stampa, la diffusione e il possesso. Esempio gli scritti di Lutero e Calvino. Con l’invenzione della stampa e con il progressivo miglioramento delle vie di comunicazione la circolazione delle idee si fa via via più intensa. Le idee si propagano attraverso gli uomini che se ne fanno portatori, ma anche attraverso le pagine di libri, periodici e fogli volanti che ne sono veicolo. Poi la progressiva laicizzazione della cultura, unita a una più facile circolazione della parola scritta, consentirà alle diverse espressioni dell’Illuminismo di penetrare fra le élite e fra gli strati intermedi della popolazione. Accanto ai giornali eruditi si diffusero anche le gazzette di notizie, inizialmente politiche e commerciali. Attraverso di esse un pubblico assai più vasto incominciò ad essere informato settimanalmente su quanto accadeva in ogni parte d’Europa e del pianeta. Ad esempio le notizie del “Nuovo Mondo” con i commenti sulla guerra per l’indipendenza delle colonie americane. Cap. 13: Educazione e istruzione Leggere, scrivere, far di conto. Alunni e insegnanti Le società di antico regime erano dominate dall’analfabetismo. L’oralità dominava sulla scrittura a tutti i livelli, ma la comunicazione era fatta anche di immagini, di simboli, di emblemi, il cui significato oggi stentiamo a comprendere. Era certamente una società analfabeta, ma non incapace di comunicare, difatti dobbiamo tener conto della molteplicità dei linguaggi e dei diversi codici espressivi fra cui la gestualità. Per quanto riguarda l’istruzione e l’alfabetismo, alcuni studiosi hanno dimostrato che leggere, scrivere e far di conto erano tre abilità del tutto diverse che non si apprendeva nello stesso momento o all’interno del medesimo processo educativo. Chi sapeva leggere non è in grado di scrivere, e chi sapeva scrivere spesso aveva grosse difficoltà a leggere, e così via. Spesso si apprendeva a leggere in famiglia. Nelle campagne, poi la maggior parte delle famiglie considerava la scuola come un modo per sottrarre i giovani al lavoro e ne ostacolava la frequenza. Quindi l’alfabetismo era prerogativa di una minoranza. Come leggevano gli uomini di antico regime? Gli uomini del Medioevo leggevano ad alta voce o comunque facevano estrema fatica a leggere senza muovere le labbra o senza borbottare a bassa voce il loro testo. La scuola medievale e l’università fino alle soglie dell’età moderna incoraggiavano una lettura intensiva dei testi, ritornando più volte sulle stesse pagine e sulle stesse righe ed approfondendo via via il significato più profondo (esegèsi) dei testi espressi. Questa lettura risultava molto efficace per le Sacre Scritture. La lettura intensiva favoriva l’approfondimento mnemonico ed ogni studente universitario ricordava a memoria intere pagine della Bibbia. Nel Settecento con la diffusione della stampa, incomincia ad affermarsi un diverso tipo di lettura di tipo estensivo, ossia basato sulla capacità di scorrere, sfogliare, consultare più testi di cui si trattiene l’essenziale. È una lettura più superficiale, poiché i libri vengono letti in maniera selettiva o parziale, comunque finalizzata a domande o ad interessi precisi. Si diffonde inoltre la pratica dell’annotazione o dell’appunto; studenti e studiosi incominciano a prendere note sui margini dei libri, secondo la tradizione medievale delle glosse, ma su taccuini o su fogli sparsi. In antico regime le scuole erano presenti soprattutto nelle città, mentre nelle campagne e nei villaggi erano assai poco diffuse. Solo nel Settecento una parte della popolazione rurale dell’Europa occidentale e settentrionale poté accedere all’istruzione di base. Nella maggior parte dei villaggi della Francia, della Germania e dell’Inghilterra furono istituite infatti scuole elementari a classe unica, dove si poteva imparare a leggere e a scrivere. I maestri di villaggio, erano per lo più preti o parroci, le uniche figure alfabetizzate. Soltanto a partire dalla seconda metà del Settecento, i maestri incominciarono ad avere una formazione professionale specifica. L’apprendimento era essenzialmente mnemonico e in alcuni casi i più grandi aiutavano i più piccoli, affiancando il maestro nelle esercitazioni, come ripetitori. Le lezioni si svolgevano in una stanza annessa alla parrocchia, munita di panche e raramente dotata di banchi. L’apprendimento della lingua era principalmente fonetico ed avveniva attraverso la lettura e la ripetizione dei testi, per lo più di carattere religioso. La lingua di base era sempre il latino. I libri di testo non esistevano e solo il maestro possedeva alcuni libri. Con l’invenzione della stampa nelle scuole vennero progressivamente introdotti manuali, compendi e libri di testo. Le punizioni corporali erano all’ordine del giorno. Collegi e università Sia per i ceti elevati che quelli inferiori, l’istruzione dei figli era affidata a precettori privati alle dipendenze delle famiglie: per lo più religiose, preti, abati o pastori protestanti, giovani laureati in cerca di impiego, segretari e scrivani. Solo a partire dalla seconda metà del Cinquecento l’istruzione superiore dei ceti elevati incomincia a svolgersi all’interno di apposite istituzioni: i collegi, antenati degli odierni licei. Il modello più celebre è quello della Compagnia di Gesù, fondata nel 1550 dal prete spagnolo Ignazio di Loyola (1491-1556). Poi i Gesuiti istituirono collegi di istruzione superiore in quasi tutte le città più importanti e definendo un programma di studi che nel 1599 sarà codificato nella Ratio studiorum (tre classi di grammatica, una di umane lettere, una di retorica e due di filosofia). Con questo grande modello per la prima volta nella storia si realizza un dettagliato programma di studi, secondo un preciso calendario da seguire contemporaneamente in tutti i paesi ed in tutti i collegi della Compagnia. Componente essenziale dell’educazione gesuita era il senso della disciplina e dell’obbedienza all’autorità. Anche altri Ordini religiosi (Barnabiti, Scalopi, Somaschi) aprirono collegi d’istruzione superiore fra Cinque e Seicento. Si formò così in tutta Europa un corpo docente. Le scuole di villaggio si affermarono solo nel corso del Settecento, i collegi d’istruzione superiore nel Cinquecento, le università invece hanno un’origine più antica. Gli studi universitari potevano essere condotti solo a Bologna e a Padova, a Parigi, a Salamanca o a Oxford. Alla fine del Cinquecento le università erano costituite da tre facoltà: Teologia, Giurisprudenza e Medicina, destinate alla formazione delle tre uniche professioni allora riconosciute: il teologo, il giurisperito e il medico. Ma come funzionavano le università di antico regime? Le singole Facoltà erano governate dai Collegi dei dottori che selezionavano e nominavano i docenti, presiedevano agli esami di laurea e percepivano le sportule (tasse) per gli esami e le lauree. Le lezioni si tenevano nelle case dei docenti o nei locali dell’università e prevedevano:
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