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Gian Paolo Romagnini - STORIA MODERNA LA SOCIETÀ DI ANTICO REGIME (XVI-XVIII SECOLO), Sintesi del corso di Storia

Storia e storiografia. La parola “storia è ambigua e possiede molteplici significati: a) il divenire degli eventi nel corso del tempo, ossia realtà oggettiva, evento, b) storia narrata e interpretata dagli uomini, ossia prodotto soggettivo, narrazione, c) racconto. Il termine italiano “storia” deriva dal latino historia, che a sua volta deriva dal greco ἱστορεῖν, traducibili come “osservare, cercare di sapere, di vedere, informarsi, indagare

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Gian Paolo Romagnini - STORIA MODERNA LA SOCIETÀ DI ANTICO REGIME (XVI-XVIII SECOLO) e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! Gian Paolo Romagnini STORIA MODERNA LA SOCIETÀ DI ANTICO REGIME (XVI-XVIII SECOLO) Temi e problemi storiografici 1. Il lavoro dello storico Storia e storiografia. La parola “storia è ambigua e possiede molteplici significati: a) il divenire degli eventi nel corso del tempo, ossia realtà oggettiva, evento, b) storia narrata e interpretata dagli uomini, ossia prodotto soggettivo, narrazione, c) racconto. Il termine italiano “storia” deriva dal latino historia, che a sua volta deriva dal greco ἱστορεῖν, traducibili come “osservare, cercare di sapere, di vedere, informarsi, indagare”. In greco ἱστορίη è “indagine, ricerca”, quindi l'idea greca di storia è inscindibile da quella di ricerca. I due più grandi storici del mondo greco furono Erodoto (484-425 ca. a.C.) e Tucidide (460- 404 ca. a.C.) e intitolarono le loro opere Ἱστορίη (“Le ricerche”) e Τὰ ἔργα (“I fatti”). I due concetti sono diversi: da un lato la storia come ricerca, osservazione, indagine, problematizzazione; dall'altro lato la storia come narrazione di fatti per lo più politici e militari. Al primo modello si richiama la storia sociale multidimensionale (affermatasi a partire dalla prima metà del Novecento), una storia strettamente collegata alla geografia e all'antropologia; al secondo modello una storia evenemensiale (Marc Bloch), ossia una storia incentrata sulle grandi narrazioni di fatti e di avvenimenti politici, militari e istituzionali, assai meno attenta all'indagine dei mutamenti lenti, profondi e sotterranei. Qualsiasi approccio alla conoscenza storica è veicolato inizialmente dai libri degli storici. Noi non conosciamo nulla della storia che non sia passato attraverso il filtro dell'interpretazione e della narrazione di uno storico. Non è concepibile una storia che non sia prima di tutto storiografia. La conoscenza del passato è sempre mediata, è sempre storia della storiografia. Tre sono le principali forme e funzioni dell'attività storica: ricordare, ammaestrare e spiegare. Dalla prima deriva la storiografia narrativa; dalla seconda la storiografia pragmatica; dalla terza scientifica. La storiografia risponde al bisogno di ricerca di identità, ossia ciò che definisce i tratti comuni con coloro che riteniamo nostri simili e ciò che ci differenza dagli altri. L'interesse dello storico si concentra sugli uomini e la loro vita. Oggetto della ricerca storica è dunque l'uomo, ma non isolato: le società umane nelle loro molteplicità, nel divenire e mutare, quindi nelle loro trasformazioni nel corso del tempo. La storiografia è dunque una disciplina eminentemente sociale che ha come coordinate fondamentali lo spazio e il tempo. Storia e memoria. Il passato ricostruito non sarà mai oggettivo, ma filtrato e selezionato dalla memoria altrui. Lo storico è inizialmente il testimone o colui che può risalire alla memoria dei testimoni. Il suo compito è fornire una lettura del passato, ma sempre in chiave soggettiva e suscettibile di essere smentita. La memoria umana è sempre selettiva. La memoria cerca sempre di addurre prove, ma valgono solo per quanti abbiano già riconosciuto la verità della testimonianza e siano chiamati a convalidarla. Inizialmente la storia non è che la memoria messa per iscritto. La trasmissione della memoria è per le società umane qualcosa di essenziale e necessario e può manifestarsi sia attraverso la storiografia, sia attraverso riti collettivi condivisi (es. feste nazionali). La pratica storiografica si fonda dunque sulla memoria, ma non deve identificarsi con essa: lo storico è interprete critico dei fatti. A partire dal Rinascimento, tra Cinque e Seicento, si fa strada l'idea che lo storico-testimone non garantisca la veridicità, ma spesso viene considerato come colui che inquina le prove. Oggi sappiamo che lo storico non è identificabile con il testimone e che la storia inizia laddove finisce la testimonianza. Questo cambiamento farà sì che la ricerca si affermi sotto gli auspici della ragione e che nasca lo studio critico dei documenti. Nessun testimone è consapevole della portata storica degli eventi che sta vivendo; il distacco è necessario per poter formulare un giudizio storico. La questione è assai più delicata quando si tratta di storia contemporanea, perchè storia e memoria tendono a sovrapporsi. Gli storici cercano di essere condizionati il meno possibile dalla loro esperienza personale. Scrivere di storia. Nel 1975 François Furet pubblica l'articolo Dalla storia-racconto alla storia-problema dichiarando definitivamente tramontata la storia-racconto, dominata dalla cronologia, evento e individualità, a favore della storia-problema, dominio della struttura, seriale e quantitativo. Per Furet l'approccio doveva avvicinarsi sempre più quello scientifico e lavorare, più che sui singoli avvenimenti, sulle strutture e quadri socio- economici di lungo periodo, sforzandosi di costruire modelli interpretativi multidimensionali. La storia per trasformarsi in scienza avrebbe dovuto eliminare il carattere singolare, unico, individuale. Nel 1979 lo storico inglese Lawrence Stone pubblica l'articolo Il ritorno al racconto: riflessioni su una nuova vecchia storia, dove traeva la conclusione che «La narrazione è un modo di scrivere la storia, ma è anche un modo che coinvolge ed è coinvolto dal contenuto e dal metodo». Il ritorno alla narrativa dello storico non comportava una rinuncia all'analisi, ma la consapevolezza che la narrazione e l'eleganza stilistica rappresentavano componenti ineliminabili dal “discorso storico”. Alle spalle dell'articolo di Stone si trova la secolare contrapposizione fra la storiografia intesa come arte (genere letterario e racconto soggettivo dell'autore) e storiografia intesa come scienza (ricerca di dati oggettivi). La storiografia nasce infatti come racconto, strettamente congiunta con generi letterati. Fare storia significa “raccontare” una storia. Aristotele nella sua Poetica distingueva «Lo Settecento per indicare il ripristino dell'obbedienza confessionale nel Sacro Romano Impero tra il 1555 e il 1648. solo a fine dell'Ottocento al concetto negativo di Controriforma si contrapporrà il concetto positivo di Riforma cattolica, introdotto da Ludwing von Pastor e definitivamente sancito da Hubert Jedin nella Storia del Concilio di Trento (1949-75). In Italia il concetto è stato introdotto e sviluppato dagli studiosi cattolici Giuseppe Alberigo e Paolo Prodi: in questa visione la Riforma non è solo reazione (come afferma la storiografia protestante) alla Riforma luterana, ma autonoma spinta riformatrice nata all'interno della Chiesta, capace di risolvere in maniera diversa una parte degli stessi problemi posti dalla Riforma e culminata con il rinnovamento post-trientino. La Riforma cattolica viene interpretata come un movimento autonomo avviato a fine Quattrocento e portato avanti da Erasmo da Rotterdam. 3) La crisi generale del Seicento. La controversia verteva sulla natura della crisi, sul suo carattere di crisi generale, sul ruolo della rivoluzione inglese e sul ruolo degli spazi italiani nel quadro della crisi. Una prima e netta divisione si aveva tra storici marxisti e non- marxisti. I primi, in particolare per gli inglesi Maurice Dobb, Christopher Hill ed Eric J. Hobsbawm, la crisi del Seicento era il primo segnale della crisi del “modo di produzione feudale” e del contestuale emergere dell'economia capitalistica, che avrebbe consentito l'affermazione della borghesia come classe dominante. Per gli storici non-marxisti, come l'inglese Hugh R. Trevor-Roper e il francese Ronald Mousnier, bisogna fare riferimento sopratutto alla sfera politica guardando alla frattura creatasi fra società e Stato. Secondo lo storico di economia italiano Ruggiero Romano, vedeva nella crisi la conseguenza di una “prova capitalistica fallita”, ma che si era bloccata nel secolo successivo determinando in molti casi una reazione nobiliare ed una “rifeudalizzazione”. Una seconda divisione passava tra chi (Hobsbawm e Villari) considerava il Seicento come secolo di crisi e chi, come Giorgio Spini, individuava nello stesso secolo significativi elementi di sviluppo e crescita economici. Si inseriscono in questo quadro le diverse interpretazioni delle vicende italiane del XVII secolo. Da un lato la visione di crisi e di decadenza generalizzata, causata in particolare dal malgoverno e dal pesante fiscalismo spagnolo. Dall'altro lato la visione delle vicende del secolo come chiave di comprensione del presente, pensando che solo con la Resistenza, la proclamazione della Repubblica e la Ricostruzione si fosse finalmente avviato quel processo di emancipazione dell'Italia dall'arretratezza. 4) Il Settecento è davvero il “secolo dei Lumi”? Uno stereotipo storiografico diffuso è l'identificazione del Settecento con l'Illuminismo, senza tener conto che la cultura dei Lumi rappresentò solo un fenomeno di minoranza (popolazione ancora superstiziosa), e di conseguenza l'associazione fra Illuminismo e rivoluzione. Il carattere emancipatorio dell'Illuminismo è stato messo in discussione nel Novecento in particolare dai filosofi tedeschi di formazione marxista Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, con La dialettica dell'Illuminismo (1947), hanno individuato nell'Illuminismo la matrice di una modernità razionalizzatrice e totalitaria. Lo storico del pensiero politico israeliano Zeev Sternhell, in Contro l'Illuminismo (2006), ha messo in dubbio che la modernità passi necessariamente attraverso il sistema di valori universali proposto nel Settecento, facendo piuttosto riferimento a una modernità liberale e conservatrice. 2. Le molte dimensioni della modernità La periodizzazione storica. Ogni epoca ricompone il passato secondo la sua percezione delle proprie categorie di tempo e spazio. Le periodizzazioni sono uno strumento di lavoro e servono a rendere pensabili i fatti. La storia della storiografia indaga sul processo di formazione dei criteri di periodizzazione e delle categorie storiche. Esse non sono oggettive né arbitrarie: sono prodotti storici e storiografici. Secondo lo storico Delio Cantimori «La periodizzazione assume di riordinare il materiale storiografico e di ricondurlo alle tendenze generali fondamentali della società umana del periodo particolare del quale ci si vuole occupare; presuppone cioè quella che si chiama “interpretazione”». Per costruire una periodizzazione è necessario: 1. definire dei punti di partenza (data a quo); 2. impiegare unità di misura temporale comparabili (giorni, anni, secoli); 3. individuare epoche caratterizzate da un segno comune (es. nel Settecento l'Illuminismo); 4. costruire categorie storiografiche sulle quali fondare ipotesi interpretative (es. medioevo, umanesimo, rinascimento, controriforma, barocco, illuminismo, risorgimento ecc). Definire l'età moderna: un problema europeo. L'età moderna è una categoria interpretativa di periodizzazione. La parola “moderno/a” deriva dal latino modo “recentemente, più recente”: di qui il frequente equivoco fra moderno e contemporaneo nell'indicazione di epoche storiche a noi più vicine. La categoria storiografica di età moderna viene fondata a fine XVII secolo dallo storico tedesco Christoph Keller. Nel 1696 pubblica in tre volumi una sintesi universale di storia Historia Antiqua (vol. I), Historia Medii Aevi (vol. II), Historia Nova, sive Moderna (vol. III). Keller trasferiva dunque nella storiografia una periodizzazione nata in età umanistica (Renovatio) in ambito letterario, ma caricata di valenza religiosa: per il luterano Keller la Historia Nova, sive Moderna era la rigenerazione spirituale dell'Europa in seguito alla Riforma protestante (1517). questo schema ha continuato a esistere alternando epoche di decadenza ad epoche di rinascita (medioevo/Rinascimento, Controriforma/Riforma, Restaurazione/Risorgimento ecc). Alcune proposte di periodizzazione. La stessa categoria di età moderna può essere definita in maniera diversa a seconda della periodizzazione adottata, ossia delle date a quo e ad quem che la delimitano convenzionalmente. Fino a pochi anni fa si faceva iniziare l'età moderna con il 1453, caduta di Costantinopoli e fine dell'Impero romano d'Oriente (adottata per simmetria alla caduta dell'Impero romano d'Occidente 476 che indica l'inizio del Medioevo). Questa data coincide con l'avanzata islamica nel Mediterraneo, l'esodo degli intellettuali greci in Italia e l'inizio dell'Umanesimo greco; è dunque una data fortemente eurocentrica ed occidentocentrica. Se si sceglie invece il 1492, oggi universalmente accettata, ossia la scoperta del Nuovo Mondo americano, la si può considerare come inizio del mondo “globalizzato”. La data coincide anche con la conquista del Califfato di Cordova e Granada da parte del “re Cattolico” Ferdinando d'Aragona e della conseguente caccia dei musulmani dalla Spagna, seguita da quella degli ebrei: primo atto di una storia di intolleranze e persecuzioni religiose. Nel mondo tedesco i manuali pongono l'inizio della storia moderna nel 1517: data dell'affissione delle 95 tesi di Wittenberg da parte di Martin Lutero. La modernità è infatti identificata nella tradizione storiografica tedesca con l'età della Riforma protestante, vedendo in essa la premessa e il fondamento delle moderne idee di libertà e democrazia. La storiografia cattolica tradizionalista, di contro, vedrà la Riforma come il primo anello di una lunga serie di errori che avrebbero minato la società tradizionale. Per quanto riguarda le date ad quem in Francia si indica il 1789, ossia lo scoppio della Rivoluzione francese e inizio della storia contemporanea, mentre in Italia si preferisce la data del 1815, la Restaurazione, includendo nell'età moderna sia la Rivoluzione francese che l'età napoleonica. Lo storico americano Arno J. Mayer indica addirittura come data di fine antico regime il 1918 e come inizio della sua definitiva crisi il 1848 con le grandi rivoluzioni europee e l'emergere del movimento socialista da un lato e dei partiti liberali dall'altro. A favore di questa periodizzazione Mayer porta ad esempio che sul piano economico fino ai primi decenni del Novecento in Europa prevale ancora la grande proprietà terriera nobiliare e la piccola manifattura artigianale è più diffusa del sistema fabbrica; così sul piano sociale quasi tutti i paesi sono dominati dall'aristocrazia. Altri storici ancora, specialmente italiani, indicano nel 1861, proclamazione del Regno d'Italia, la vera fine dell'antico regime per la penisola. Altri spostano la data al 1870, meno italocentrica, che fa riferimento non solo alla fine del potere temporale dei papi e al completamento dell'unità italiana, ma ance alla guerra franco-prussiana, alla caduta di Napoleone III, alla proclamazione della Terza Repubblica in Francia e alla tragica esperienza della Comune di Parigi. giacimenti di argento e oro in America induce i conquistatori europei a sfruttare le risorse causando squilibri sull'economia europea. Aumentano i prezzi dei beni agricoli. • La rottura dell'unità del mondo cristiano (1517-1555), in seguito alla Riforma protestante e alla conseguente grave crisi del papato e della Chiesa di Roma, ha come conseguenza l'aprirsi di una stagione di conflitti religiosi gravissimi, ma anche a scoperta della possibilità di un pluralismo religioso all'interno del cristianesimo. • La nascita degli Stati moderni, dotati di confini precisi e difesi da eserciti permanenti, amministrati da una rete di burocrati e funzionari permanenti, governati da sovrani dotati di poteri sempre più ampi. • La trasformazione dell'economia europea da agricola a commerciale e industriale e la nascita del capitalismo (economia di mercato), con conseguente “rivoluzione agricola” e “rivoluzione industriale”. Ciò porta all'aumento demografico, aumento di prezzi, aumento della circolazione di metalli preziosi, urbanizzazione e sviluppo della manifattura. • L'invenzione della stampa e la sua diffusione come nuovo veicolo di comunicazione, pur in presenza di un alto tasso di analfabetismo. La maggior possibilità di diffondere i frutti del sapere, il basso costo di produzione, la circolazione di idee attraverso la stampa, l'affermazione di una vera e propria industria editoriale sono tutti fattori che rappresentano una rivoluzione inavvertita. Con la diffusione del libro a stampa si afferma anche una nuova figura di intellettuale laico e si assiste alla progressiva professionalizzazione dei letterati. • La rivoluzione militare trasforma completamente i modi di fare guerra, a partire dall'invenzione della polvere da sparo circa a metà Quattrocento. Dagli inizi del Cinquecento si avvia la crisi della cavalleria, arma tradizionalmente nobile, progressivamente soppiantata dall'artiglieria, arma borghese per eccellenza, fondata sulla tecnica più che sul valore. Gli eserciti accrescono in dimensione, si ha una progressiva professionalizzazione, ma anche la città cambia struttura e fisionomia con la rapida scomparsa delle mura medievali merlate, alte e sottili, a favore di fortificazioni basse e spesse, più adatte a sopportare i lunghi assedi e i colpi di cannone. 3. Gli spazi della vita e del mondo rurale I quadri ambientali. I quadri ambientali entro i quali si muovono uomini e donne dell'antico regime sono campagna e città. La campagna è lo spazio di vita della maggior parte della popolazione europea, di quei ceti contadini che sono i veri soggetti della lenta e impercettibile trasformazione dei quadri ambientali del vecchio continente. Le campagne europee tra Cinque e Settecento sono caratterizzate da aree coltivate e aree incolte. Il bosco occupa un terzo del territorio europeo. Pianure e colline sono densamente abitate e coltivate, le zone montagnose presentano rare isole insediative. Foreste, fiumi e montagne costituiscono i principali ostacoli alla comunicazione. Le vie di comunicazione sono limitate e i mezzi di trasporto lenti, scomodi e costosi (la maggior parte della popolazione non possiede un cavallo). Le strade sono per lo più sterrate e sono le principali arterie di comunicazione; alcuni tratti lasciati in pietra. Sassi, fango e polvere ricoprono le strade. Le merci deteriorabili e quelle più pesanti viaggiano preferibilmente lungo vie d'acqua, tuttavia le piene autunnali, le secche estive e i ghiacci invernali le rendono poco sicuri. Viaggiare è rischioso e scomodo. Daniel Roche ha mostrato nel libro Humeurs vagabondes.. de la circulation des hommes et de l'utilité des voyages (2003) ha mostrato come la società di antico regime europea fosse percorsa da una fitta rete di spostamenti di corto raggio e che coinvolgesse gran parte della popolazione. Le campagne europee sono caratterizzate da bassa densità umana e insediativa. Per raggiungere qualsiasi meta bisogna percorrere molti chilometri a piedi, perdendo giorni interi di viaggio. Nel 1544 lo studioso tedesco Sebastian Münster descrive i contadini nella sua Cosmographia universa, ma alcune affermazioni vengono successivamente smentite: i contadini non vivono isolati, ma raggruppati in villaggi; la dimensione delle case non è necessariamente legata al reddito, ma alla struttura della famiglia e alle condizioni lavorative. Le abitazioni sono costruite con legno, terra e paglia, pietra, raramente in muratura. La casa contadina non era solo abitazione, ma riparo per animale, luogo di lavoro o deposito per i generi alimentari. Il panorama materiale della casa è per lo più costituito da sostanze vegetali o animali lavorate per essere usate come attrezzi, arredi e suppellettili. Il combustibile è il legno. Non hanno vetri alle finestre ma solo scuri. La casa è dotata di un unico focolare (fuoco rappresenta un pericolo), si preferisce il calore animale per il riscaldamento. I mobili sono per lo più limitati a un tavolo, panche e sgabelli e a una o più cassapanche dove tenere indumenti e oggetti di maggior valore. I letti sono sostituiti da pagliericci o sacchi riempiti di foglie secche o lana. Nascere e morire. Gli uomini di antico regime non avevano una chiara coscienza della realtà demografica del loro tempo. In assenza di censimenti possiamo basarci solo sugli archivi parrocchiali, presenti in tutte le parrocchie dell'Europa cattolica a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento. Ad oggi questi archivi sono una fonte importantissima per la storia demografica in quanto svolgono la funzione di anagrafe della popolazione (solo quella cattolica). L'andamento demografico è un fenomeno sia biologico sia sociale, soprattutto determinato dalle condizioni sociali di vita dei vari gruppi umani. La mortalità è condizionata da fattori sociali e ambientali. Un alto tasso di mortalità è per lo più indizio di miseria e disagio sociale, mentre un basso tasso di mortalità e un allungamento di speranza di vita della popolazione sono segni di benessere. In antico regime si moriva più frequentemente in età giovane e la percezione della morte era meno drammatica anche se più ritualizzata. Alla morte del coniuge si reagiva spesso con un secondo matrimonio. Per un uomo un secondo matrimonio era l'unico modo per assicurarsi il mantenimento e la cura dei figli piccoli, mentre per la donna era l'unica possibilità per evitare il disastro. Le cause di morte erano più numerose: si moriva molto più frequentemente di malattia, in quanto la maggior parte erano incurabili. Si poteva distinguere fra malattie egualitarie (legate all'ambiente, es. peste), patologie alimentari (derivanti da avitaminosi o sottoalimentazione) e patologie alimentari (interessavano solo i ceti più ricchi che si nutrivano esclusivamente di carte o cacciagione). Si poteva morire a causa del clima, ma anche di fame a causa di carestie. Si moriva a causa delle guerre, ma più frequentemente a causa delle guerre subite dalle popolazioni: l'esercito nemico poteva causare carestie, villaggi distrutti o saccheggiati, bestiame sequestrato o divorato ecc. Si poteva morire per banali incidenti di lavoro, investiti da una carrozza, cadendo in un fossato, travolti dalla corrente di un torrente o fiume in piena. Si moriva per le percosse e i maltrattamenti subiti in famiglia, in osteria, feriti da borseggiatori o vittime di un'aggressione. Pochissimi raggiungevano indenni la vecchiaia. La natalità era più soggetta alle scelte individuali e quindi più condizionata da fattori sociali e culturali. Si facevano più figli rispetto ad oggi. La natalità subì flussi e riflussi quasi sempre determinati dai cicli economici. Sicuramente in antico regime i metodi di controllo delle nascite erano più rudimentali e meno efficaci di oggi. La società più povera ed arretrata faceva (e fa) più figli perchè: a) i figli sono un investimento sul futuro, b) per reagire alla presenza della morte, c) per motivi religiosi, d) perchè mancavano contraccettivi efficaci. La natalità è una funzione derivata dal rapporto fra fertilità e fecondità: la fertilità è la natalità in potenza (capacità femminile di procreare in età 15-45) e la fecondità è la natalità in atto (la realtà riproduttiva costituita da un numero variabile tra 1-15 figli nell'arco di 30 anni [Bach ha avuto da due mogli 24 figli, solo 6 diventarono adulti]). Fecondità e fertilità sono determinate da fattori molteplici di ordine biologico, ambientale, sociale o soggettivo. L'età media di nozze nell'Inghilterra e in gran parte dell'Europa di fine Cinquecento era attorno ai 28 anni per gli uomini e 24 per le donne (nobili 25 maschi-19 femmine). Solo le famiglie aristocratiche comprendevano di norma più nuclei conviventi, mentre le famiglie contadine non raggiungevano mai dimensioni molto ampie anche a causa della minor durata di vita media. Il controllo della natalità avveniva innanzitutto attraverso il controllo della nuzialità, ritardando l'età del matrimonio nei momenti di difficoltà economica; meno efficaci erano la limitazioni delle occasioni d'incontro fra giovani, contraccezione naturali o l'aborto. Secondo i calcoli del demografo francese Louis Henry, in assenza di fattori limitanti, ogni donna tra 20-45 anni avrebbe messo al mondo una media di otto figli, ma ciò non avveniva a causa dell'elevata mortalità infantile, esplicito controllo della natalità e fluttuante ritardo nella nuzialità; oltre a ciò si aggiunge che quasi la metà della popolazione femminile in età fertile non giungeva al matrimonio (figlie di nobili si può tripartire l'Europea feudale in un'area centro-orientale, una settentrionale e una mediterranea. Nell'Europa settentrionale (Francia centro-settentrionale, Fiandre, Olanda, Inghilterra e in parte Italia settentrionale) i vincoli feudali si sono per lo più trasformati in vincoli economici, ossia in censi rappresentati da contributi in denaro da consegnare periodicamente al signore mentre i contadini possono disporre liberamente delle loro terre, venderle, dividerle, trasmetterle in eredità limitandosi a pagare una tassa al signore. In quest'area si diffonde l'affitto che vede i singoli proprietari (nobili o borghesi) prendere in affitto terre signorili, coltivandole in proprio o cedendole in subaffitto a contadini (in alcuni caso gli affittuari riescono ad acquistare le terre o ad acquistarne i diritti, in rari casi il titolo nobiliare). Nell'Europa orientale e meridionale (Polonia, Austria, Ungheria, Spagna Regno di Napoli) invece i vincoli feudatari sono più forti e duraturi e le condizioni di servaggio permangono gravose per i contadini, tenuti a svolgere le corvées (prestazioni obbligatorie di lavoro gratuito sulle terre del signore, comprensive anche dei servizi domestici al palazzo signorile). Lo storico italiano Aurelio Musi ha suggerito nel 2007 l'impiego della categoria di feudalesimo mediterraneo per indicare alcuni tratti comuni alla società del Mezzogiorno fra basso medioevo e la prima età moderna. Le differenze con il modello dell'Europa centro-orientale e in particolare con il caso polacco: il feudo può diventare merce; la servitù della gleba è assente. In tutta l'area mediterranea si riscontra la distinzione tra la parte del signore e la parte dei contadini. Il termine di “rifeudalizzazione”, riferito al fenomeno di ritorno alla terra in atto nel corso dei Seicento da parte dei ceti mercantili italiani, si è rivelato insufficiente e inadatto a comprendere le dinamiche economiche e sociali nella penisola. È stato soppiantato dalla nuova categoria di “crisi e formazione delle aristocrazie” collegata al fenomeno d'indebitamento e alla crisi finanziaria. Non si tratta di “nuovi feudatari”, ma di esponenti delle élite che ricercano una piena legittimazione sul piano sociale grazie al processo terriero e all'ottenimento di titoli nobiliari. 4. La città e il mondo del lavoro Lo spazio urbano in età preindustriale. All'interno della cinta muraria e all'esterno di un eventuale centro fortificato, la città si compone di: a) centro amministrativo con palazzo municipale e piazza; b) centro commerciale (a volte coincidente col primo) con piazza del mercato ed eventuale palazzo o casa dei mercanti; c) centro religioso con chiesa, palazzo vescovile e piazza. All'interno dello spazio urbano si distinguono spazi vuoti coltivati ad orto, vigneto, frutteto o addirittura pascolo, utili ad alimentare la città in caso di assedio. Le dimore aristocratiche e borghesi posseggono quasi sempre orti e giardini, mentre le stalle per gli animali da trasporto sono presenti ovunque. Le strade e i quartieri subiscono facilmente un processo di specializzazione dovuto alla necessità economica, all'abitudine o alla legislazione (es. piazza delle Erbe, via Pelliciai ecc). Nei sei secoli tra Due e Settecento la società urbana europea fu profondamente segnata dalla presenza del lavoro. Attorno alle Arti e alle Corporazioni si disegnò il quadro economico ed istituzionale dal quale emerse la civiltà moderna: economia monetaria, capitalismo, idea di cittadinanza e di rappresentanza politica. L'esercizio di un'arte o il legame con le sue espressioni istituzionali era il prerequisito essenziale per poter svolgere qualsiasi attività. L'iscrizione ad una Corporazione precedeva i diritti di cittadinanza. Una città in antico regime si distingue da un borgo per la presenza di mura difensive, una guarnigione, uffici giudiziari o di magistrature territoriali, di un mercato. Può essere o meno sede di una corte o residenza di un principe o sede di un vescovo. Ciò che caratterizza una città è innanzitutto la presenza di privilegi di carattere giuridico e fiscale concessi e riconosciuti dal sovrano e con esso ricontrattati periodicamente. Tutti i privilegi di una città sono menzionati negli statuti. Il privilegio più importante e distintivo di una città è il diritto all'autoamministrazione, ossia ad eleggere i propri organi di governo (che rispondono comunque all'autorità superiore, ma esercita autonomamente alcune funzioni). La città esercita sul contado, ossia sulle comunità rurali e sul territorio da essa dipendente. Inizialmente il contado è caratterizzato come lo spazio di terra coltivabile necessario alla sopravvivenza della città e alla sua difesa, vi si distinguono le terre della città, le proprietà agricole dei cittadini, i villaggi dipendenti dalla città. La comunità urbana e le sue istituzioni. Gli abitanti delle città di antico regime sono una minoranza della popolazione. Procedendo dall'alto in basso della gerarchia sociale si trova: 1. il principe e i nobili del conte, il vescovo e i canonici della cattedrale, i signori feudali inurbati, gli esponenti del patriziato, gli alti funzionari dello Stato; 2. i giuristi, i prelati, gli ecclesiastici, i professionisti, i mercanti, i negozianti; 3. i segretari e gli impiegati della pubblica amministrazione o dell'amministrazione ecclesiastica, gli scrivani e i contabili al servizio dei grandi mercanti, i maestri artigiani, i bottegai; 4. i servi, i lavoratori delle botteghe e delle manifatture, i lavoratori stagionali, i piccoli venditori ambulanti, i lavoratori a giornata; 5. poveri e vagabondi. La cittadinanza è un privilegio: solo chi è in possesso del diritto di cittadinanza può definirsi cittadino o borghese di una città. La comunità urbana è un soggetto giuridico ben definito e stratificato, che si confronta con gli altri soggetti giuridici presenti sul suo territorio ed in primo luogo con il sovrano o i principe territoriale. Al suo interno dovrà trattare con gli enti ecclesiastici, con le Arti e le Corporazioni; all'esterno con i signori feudali presenti nel contado, con le comunità rurali ad essa subordinate e con le altre comunità urbane. Il principale organo amministrativo cittadino è il Consiglio comunale, del quale fanno parte solo gli esponenti del patriziato e che può esprimere a sua volta un Consiglio ristretto e alcune magistrature cittadine. In alcuni casi l'amministrazione cittadina è presieduta da un magistrato elettivo espressione del consiglio, in altri è presieduta o sottoposta al controllo di un rappresentante del principe o della città dominante. Nella maggior parte dei casi l'amministrazione cittadina recluta autonomamente una propria burocrazia (cancelleria) al cui salario deve provvedere. Al di sotto del patriziato urbano, che domina la città, si trova il ceto borghese, formando dagli esponenti delle famiglie mercantili che si riconoscono nelle Corporazioni di mestiere o dei professionisti. Il Comune rappresentava un insieme di forze autonome ed indipendenti che agivano talora in concorso, talora in opposizione fra loro. Le Arti e le Corporazioni espressero fin dal medioevo la loro autorità giurisdizionale, affiancandosi e spesso entrando in concorrenza con le giurisdizioni civili, signorili ed ecclesiastiche, acquisendo il nome di universitates. Le Arti e le Corporazione espressero un forte orientamento politico che derivava dalla loro costituzione come gruppo organizzato in grado di svolgere un ruolo di primo piano all'interno degli organi di governo cittadino. Il mondo del lavoro e il sistema corporativo. Il lavoro artigiano caratterizzava le città del medioevo e della prima età moderna. Le città europee preindustriali sono città di commerci e di manifatture. La grande finanza, il commercio internazionale potevano avere e avevano maggior peso economico rispetto alle molteplici piccole imprese artigiane, ma erano queste ad influenzare il clima e la fisionomia urbana. Nel mondo medievale e moderno la Corporazione era un'associazione di persone definita da comuni finalità, dotata di autonomia giuridici e quindi di diritti, poteri e obblighi (regole comuni erano gli statuti) nel nome dei suoi appartenenti. La Corporazione rappresentava la principale garanzia del mantenimento di standard qualitativi, assumendo di conseguenza un connotato pubblico (affidata a questa la vigilanza della manutenzione e pulizia delle strade urbane ecc). La Corporazione poteva assumere il compito di tutelare e di assistere i suoi membri e le loro famiglie, organizzando confraternite di assistenza e casse di mutuo soccorso, aprendo ospedali e scuole. Da universitates cittadine le associazioni di mestiere si trasformano in corpi privilegiati ben determinati ad elevare e difendere le barriere erette contro chi non faceva parte delle Corporazioni: si rafforza l'obbligo di appartenenza ad una Corporazione. Con il rafforzamento dei poteri cittadini entro una rete di poteri territoriali anche la natura delle Corporazioni subì una trasformazione. La formazione delle oligarchie indusse i ceti dirigenti della città a separare sempre di più il momento del governo da quello della partecipazione alla vita e lotta politica. L'amministrazione dello Stato finì per essere più svincolata dal corpo sociale e dalle Corporazioni. Con l'affermazione dei poteri signorili o monarchici si giunse in certi casi all'abolizione degli organismi corporativi (Milano e Ferrara). Nella maggior parte dei casi il ruolo delle Arti e delle Corporazioni venne limitato alla rappresentanza del mondo e del lavoro e del commercio. Fra Quattro e Cinquecento le Arti e Corporazioni divennero uno dei principali strumenti di disciplinamento e rafforzamento delle nuove gerarchie urbane. L'appartenenza ad esse o meno poteva determinare inclusione o esclusione in un'area di privilegio e la collocazione entro la gerarchia sociale. Alle Arti maggiori e minori e alle Corporazioni si affiancarono e poi contrapposero i Collegi, che rappresentavano tutte le attività professionali (non produttive); loro obbiettivo era il riconoscimento di un titolo nobiliare e l'ingresso a pieno titolo nell'élite degli ordini privilegiati. La società aperta medievale si sta trasformando in una società chiusa come quella moderna, basata su di una stratificazione gerarchica per ceti che avrebbe consentito solo all'aristocrazia nobiliare o patrizia l'accesso alle cariche pubbliche e al potere politico. Arti e gerarchie sociali. Per essere riconosciuti cittadini era necessario esercitare un'arte o essere inquadrati in una Corporazione. Gli artigiani erano i cittadini per eccellenza. I nobili erano spesso feudatari rurali inurbati, orgogliosamente estranei alla vita cittadina. Il popolo costituiva la grande massa della popolazione esclusa dalla politica. L'Arte è soprattutto il mestiere, quell'insieme accumulato ed elaborato di saperi e pratiche, di tecniche e di veri e propri segreti che si trasmettono da una generazione Telai e altiforni. Manifattura e protoindustria. In età moderna le più grandi concentrazioni di lavoratori sono in genere stabilimenti per i poveri, le cosiddette case di lavoro (workhouses) istituite a partire dalla fine del Cinquecento in Inghilterra, in Olanda e in altri paesi del nord Europa. La “fabbrica” come stabilimento industriale dotato di macchinari nel quale è concesso un gran numero di lavoratori salariati compare sporadicamente solo in Inghilterra alla fine del Seicento. Fino alla metà del Settecento la tipologia più diffusa in Europa è la bottega artigiana o della manifattura diffusa, con ampio ricorso al lavoro a domicilio. Tutto comincia a cambiare solo nel Settecento con l'impetuoso sviluppo dall'industria tessile con il fenomeno chiamato “rivoluzione industriale”. La trasformazione epocale in Europa a partire da metà Settecento (prima in Inghilterra) avviene a seguito dell'affermarsi dell'economia di mercato, del macchinismo e del sistema di fabbrica. La Rivoluzione industriale, strettamente connessa alla nascita del capitalismo, si basa sulle nuove fonti energetiche quali il carbone, il coke e in seguito il petrolio. L'attenzione degli studiosi si è spostata verso la “protoindustrializzazione” e le “molteplici vie verso l'industrializzazione”, mostrando come la rivoluzione industriale inglese fosse solo una delle vie possibili. La categoria storiografica di protoindustrializzazione si deve allo storico dell'economia americano Franklin F. Mendels, che nel 1972 in un articolo comprese sotto quel concetto tutte le realtà manifatturiere sviluppatesi prima della piena affermazione del sistema di fabbrica nell'Inghilterra settecentesca. Vi era una significativa crescita della popolazione nelle aree toccate dalla protoindustrializzazione. Il distretto produttivo manifatturiero indica quelle unità territoriali in cui si concentravano attività industriali prevalentemente omogenee, soprattutto in aree rurali subregionali. Il modello britannico si basa sulla sequenza: concentrazione industriale, macchinismo, capitalismo industriale, produzione di massa. Interessanti le esperienze di protoindustrializzazione in Italia: sono casi di produzioni manifatturiere con basi saldamente piantate nel mondo agricolo e ad esso complementari, caratterizzate da una produzione dispersa nel territorio e da un massiccio impiego del lavoro a domicilio, ma in grado di rapportarsi con il mercato anche a livello internazionale. Nel Seicento la manifattura si era spostata fuori città per trovare manodopera a basso costo. L'intreccio fra lavoro a domicilio e mercato, manifattura artigianale e industria, dimensione regionale e internazionale dell'economia può essere considerato come un fattore di maggior flessibilità delle economie periferiche. A parte l'Inghilterra non si assiste dunque ad una transizione meccanica da un regime produttivo all'altro. Nella maggior parte dei casi la concentrazione dei lavoratori in un unico stabilimento apparve come la scelta più razionale per consentire al tempo stesso un miglior controllo e disciplinamento della manodopera, un miglioramento qualitativo della produzione e una più rapida meccanizzazione delle diverse fasi produttive. La rivoluzione dei consumi. A partire da metà Settecento nasce un proletariato industriale, si afferma il sistema di fabbrica, il macchinismo,, si impiegano nuove forme di energia e si internazionalizza il mercato. Non si tratta solo dunque di rivoluzione industriale, ma anche di rivoluzione dei consumi. Nell'antico regime il rapporto tra produzione e consumo si basa su una relazione asimmetrica: la trasformazione dei beni precede la domanda. La capacità di consumare dipende da vincoli che non sono solo riferibili alla disponibilità sul mercato, ma anche elementi sociali, culturali e simbolici. Il Settecento è il secolo nel quale si afferma il consumo di massa: le differenze sociali sono meno percettibili perchè i beni sono a disposizione di tutti i ceti sociali, a differenziarli è la qualità dei prodotti. Con l'età moderna l'acqua corrente si afferma come la principale risorsa energetica: nel Settecento diventa elemento dinamico delle macchine a vapore, pompe idrauliche, impianti industriali e più tardi locomotori per il trasporto. Ciò porta inevitabilmente ad un crescente inquinamento delle acque. La stessa igiene personale si affermerà e generalizzerà solo nel Settecento, portando a un miglioramento delle condizioni di vita, minor diffusione di malattie e un aumento della vita media. Si diffonde la biancheria in cotone, i nuovi metodi di riscaldamento e illuminazione, come anche i vetri trasparenti di grandi dimensioni alle finestre della casa (in campagna non c'era il vetro alle finestre, in città finestre dai vetri piccoli, opachi e colorati). L'illuminazione dava una percezione di maggior sicurezza e la possibilità di allungare l'orario di lavoro. Entrano a far parte dell'arredo domestico, al posto di focolari e caminetti, le stufe in ceramica e ghisa, che implica la disponibilità di nuovi fonti di energia come il carbon fossile. Nelle nuove dimore urbane compaiono i corridoi, che collegano stanze isolate permettendone la divisione funzionale. I primi servizi igienici interni alla casa. Armadi e comò, prime poltrone e divani che sostituiscono le sedie, i letti sono ormai dotati d lenzuola. Si trasforma anche l'abbigliamento: i borghesi diventano i protagonisti del mercato della moda e i prodotti in cotone soppiantano quelli in lana, diventa uso cambiare biancheria e camicia quasi ogni giorno, gli abiti leggeri vengono sostituiti più spesso creando il mercato, il gusto si raffina e si estende ai ceti medi, il bottone soppianta la spilla, il corpetto e i tacchi si affermano anche tra le donne del popolo. 6. Le nobiltà europee “Nobiltà”: la genesi di un concetto. Il termine aristocratico deriva dal greco αριστός “il governo dei migliori”. Nel mondo tardo antico e medievale con il termine nobile (lat. nobilis, notabilis “noto, conosciuto”) si indicava colui che per nascita o titolo godeva di uno statuto speciale, ossia un privilegio da cui derivavano prerogative che ad altri non erano concesse. La nobiltà antica era costituita da nobilitas, ossia natali illustri, virtus, ossia virtù e coraggio militare, e certa habitatio, ossia il possesso di una casa e di una terra, quindi di una signoria fondiaria. In una parola la nobiltà è un ceto, ordine, statuto. Il concetto di “classe” (nella comune accezione sociologica marxiana) distingue un gruppo sociale per la sua posizione economica all'interno del processo produttivo. Il concetto di “ceto” distingue un gruppo sociale per la sua posizione all'interno della gerarchia sociale. Il concetto di “ordine o stato” distingue un gruppo sociale per la sua posizione giuridica. Le società di antico regime si autodefinivano in termini di ceti ordini, o stati. Lo storico e antropologo francese Georges Dumézil ha mostrato come la tripartizione sociale sia tipica di tutte le civiltà in base a sovranità, forza e fecondità, prerogative rispettivamente degli oratores, bellatores e laboratores. Nel 1936 gli storici Marc Bloch e Lucien Febvre proposero una inchiesta “Nobiltà. Ricognizione generale del terreno” per arrivare alla definizione di nobiltà; lo schema si basa su un'analisi dall'esterno all'interno che affrontasse nell'ordine a) lo status: presenza o assenza di prescrizioni legali volte a tutelare la condizione di nobile preservandone i patrimoni; b) la la quantità: la proporzione percentuale dei nobili rispetto alla popolazione totale; c) la stratificazione interna alla nobiltà: la presenza e il peso della gerarchia, la sua natura, la diversa dignità ed i diversi privilegi concessi ai vari strati nobiliari; d) i problemi di contatto e di influenza con altri gruppi. L'enigma delle nobiltà. Le nobiltà sono i ceti privilegiati che detengono l'egemonia politica e sociale nelle società di antico regime e che ne costituiscono le élite. Esse posseggono uno statuto giuridico particolare. Generalmente rappresentano una minoranza della società (Svezia 0,5%, Polonia 10%). I principali titoli della nobiltà imperiale europea sono duchi, marchesi, conti, visconti, visdomini e baroni. Duchi sono, in età tardo romana e lombarda, i comandanti militari (duces) e poi i governatori militari dei territori conquistati; in età carolingia i grandi feudatari. Marchesi sono i governatori delle marche, ossia delle province di confine o di importanza strategica. Conti (comites “coloro che mangiano insieme”) sono i più fedeli collaboratori del sovrano e, in età carolingia, feudatari invitati a governare una contea. Visconti sono inizialmente i sostenitori dei conti (vicecomites), quindi feudatari con titolo ereditario di livello inferiore a quello dei conti. Visdomini sono feudatari laici ai quali il vescovo delega la propria autorità temporale. Baroni in età medievale sono tutti i detentori di “alta signoria”, mentre in età moderna sono quelli partecipanti a una nobiltà feudale di natura inferiore. Questo significato antico dei titoli nobiliari si trasforma con l'inizio dell'età moderna quando le monarchie territoriali si creano fedeltà distribuendo titoli alle maggiori famiglie. Un privilegio è qualsiasi esenzione o distinzione rispetto ad un insieme di leggi o norme valide per gli altri individui o gruppi sociali (es. dalle tasse). Conseguenza del privilegio è la diseguaglianza, uno dei fondamenti delle società di antico regime. È nobile solo chi dimostra di possedere “titoli di nobiltà”, ossia privilegi o esenzioni sancite dal sovrano, dalla consuetudine o dal tempo. Tanto è più antica la nobiltà, tanto maggiore è il rispetto dovuto. Si è nobili per nascita, per diritto ereditario, ma anche per servizio ottenendo dal sovrano un titolo in segno di ricompensa. La mobilità sociale è un fenomeno tipico della modernità. I principali tipi di nobiltà europea sono: 1. nobiltà terriera di antica origine feudale, altrimenti detta nobiltà “di sangue” o “di spada” (per merito militare); 2. patriziati urbani, o nobiltà cittadina di origine comunale, ossia famiglie “di Consiglio” che derivano i loro privilegi dall'esercizio delle più antiche cariche amministrative cittadine; 3. nobiltà di toga, di origine più recente, acquisita per diritto in seguito all'esercizio di alte cariche di giustizia; 4. nobiltà di servizio, acquisita o confermata in seguito a servizi resi al sovrano; 5. nobiltà di fatto, non titolata ma riconosciuta “per consuetudine” o in seguito a vita more nobilium (alla maniera dei nobili). La nobiltà può anche essere perduta, in particolare se qualcuno dimostra l'impurità di sangue. I ceti nobiliari sono alla cotante ricerca di una legittimazione nei confronti dei poteri superiori, dei ceti privilegiati e dei ceti inferiori. Elementi di legittimazione della nobiltà possono essere a) a livello simbolico la purezza di sangue, ossia la nascita nobiliare, e l'onore, b) a livello politico la competenza e autorità, c) a livello economico i beni. Un processo di rilegittimazione delle nobiltà europee si verifica nel corso del Settecento in diversi paesi europei. Dove il sovrano è assoluto, e quindi arbitro della legge, la nobiltà si consolida e rinnova, pur perdendo di autonomia rispetto al potere Nobiltà europee a confronto. La Francia. Le due nobiltà. Dalla metà del Seicento in Francia vi erano due nobiltà in distinte e in competizione. Da un lato la nobiltà di spada, di origine più antica, che deriva il suo potere dall'esercizio delle armi, dalle giurisdizioni feudali e dalla proprietà terriera, dotata di titolo ereditario e che gode di maggior considerazione sociale, ma che non controlla più le leve del potere politico amministrativo autonoma dal sovrano. Dall'altro lato la nobiltà di toga, di origine più recente, che deriva il suo potere dall'esercizio delle cariche di giustizia e finanza, ha ottenuto il titolo nobiliare ereditario in virtù dei servizi resi al sovrano e gode di minor prestigio sociale; la sua ricchezza proviene principalmente dalle rendite degli uffici e dalla terra. Dal 1680 Luigi XIV realizza una complessa operazione politica concentrando e mantenendo a proprie spese presso la corte di Versailles la maggior parte dei nobili di spada e consegnando lo Stato alla nobiltà di toga, colta e preparata, ma totalmente subordinata al sovrano. L'Inghilterra. Un'élite aperta? Anche il caso inglese vede due nobiltà distinte e indipendenti. I Lords, altrimenti detti Pari, nobiltà di antica origine feudale, militare e terriera, dotata di titolo ereditario e che gode di grande considerazione sociale e di considerevole potere politico; siede di diritto in uno dei due rami del Parlamento “la Camera dei Lords”; è quasi sempre di orientamento politico conservatore (tory). Al di sotto dei Pari troviamo la gentry, nobiltà “di fatto”, dotata di minor prestigio sociale, esercita una notevole autorità in sede locale attraverso le cariche elettive di giudici di pace, magistrati di contea o deputati alla Camera dei Comuni. Il suo potere si rifà all'autorevolezza acquisita in sede locale e alla proprietà terriera; è autonoma rispetto al sovrano. Nell'età moderna vi era il problema del indebitamento progressivo dell'alta aristocrazia dei Pari e la crisi dell'aristocrazia dovuta a conflittualità tra famiglie, spese eccessive, conseguente indebitamento dei nobili e dispersione del patrimonio terriero. Il Seicento era un secolo di straordinaria mobilità dell'élite, capaci di ben adattarsi ai cambiamenti in atto nella società, e di ripresentarsi mutate nel quadro di una cornice sostanzialmente statica. La Russia. Una nobiltà di Stato. Fino ai primi del Settecento troviamo in Russia un'aristocrazia di origine feudale (i Boiardi), dotata di immense proprietà terriere e giurisdizioni, in grado di armare piccoli eserciti da mettere a disposizione dello zar, e proprietaria di intere regioni disseminate di villaggi abitati da servi della gleba. A partire dal regno di Pietro I il Grande (1682-1725) si viene a costruire un'unica nobiltà di servizio, suddivisa in base alla cosiddetta Tavola dei ranghi (1722) in tre livelli gerarchici e tre diverse carriere (militare, civile e di corte) e quattordici ranghi, sottoposta al potere assoluto dello zar che costituisce l'unica fonte del diritto e l'unica ragione di distinzione sociale. L'aristocrazia feudale si trasforma in un enorme ceto di funzionari al servizi dell'imperatore. Al livello più alto della gerarchia si trovano i Principi, appartenenti alla più antica nobiltà feudale. Grandi proprietari terrieri possono ottenere incarichi di alto comando militare. Ad un livello inferiore i Boiardi, grandi proprietari di origine feudale, che possono ottenere posti di Governatori delle province e comandi militari. Al di sotto si colloca la nobiltà burocratica composta da alti dignitari, magistrati e funzionari di Stato. Al di sotto c'è la piccola nobiltà di provincia che deriva o conserva il suo potere grazie a ruoli burocratici ereditari nell'apparato ministeriale, nella magistratura o nel governo delle province si crea così un sistema burocratico-militare su base aristocratica. A metà Settecento l'apprendimento di lingue straniere e i viaggi d'istruzione in Europa divengono per la nobiltà russa lo strumento di evasione-reazione al sistema zarista. Lo stesso populismo ottocentesco nascerà dal bisogno avvertito dall'élite intellettuale d'immergersi nella civiltà europea per “civilizzarsi” La Polonia. Una nobiltà “egualitaria” e inflazionata. Il caso polacco è quello di una nobiltà in soprannumero, priva di gerarchie formalizzate ma di fatto fortemente gerarchizzata. Tutti gli esponenti maschi maggiorenni della nobiltà hanno accesso al potere politico, siedono di diritto nella Dieta (luogo di rappresentanza della nobiltà e il supremo organo legislativo) e godono dell'elettorato attivo e passivo alla carica di re. La Polonia è una monarchia elettiva, ma di fatto è una monarchia nobiliare. La Dieta nobiliare ha il potere di giudicare il re e i suoi sudditi e sorveglia tramite il Senato l'operato del re. Al vertice della nobiltà polacca c'è l'élite nobiliare costituita dai Magnati controlla la maggior parte delle terre e dei villaggi del paese e domina politicamente la Dieta; i Magnati possono assoldare proprie milizia. Al di sotto si colloca la nobiltà media che possiede il resto della tessa. Al terzo livello si collocano i “frazionari”, possessori di frazioni di antiche terre demaniali. Al livello più basso si colloca la nobiltà povera di piccoli e piccolissimi proprietari, a volte costretti a lavorare la terra, esenti da imposte, ma del tutto dipendenti dalla nobiltà maggiore di cui sono clienti e servitori. 7. Sovranità e potere politico Una definizione di Stato moderno. L'espressione “Stato moderno” compare solo agli inizi dell'Ottocento in presenza di un processo di crescita e di consolidamento degli apparati statuali, decisamente diverso da qualunque fenomeno analogo dei secoli precedenti. È Otto Hintze, storico e giurista tedesco, a indicare nel 1906 lo “Stato moderno” come tipo ideale, modello astratto, e non come realtà di fatto nell'età moderna. Ci sono sei linee di tendenza che la maggior parte degli storici hanno individuato come caratteristiche del cosiddetto Stato moderno. 1. La progressiva affermazione del monopolio statale della forza attraverso la costituzione di eserciti professionali e permanenti. A partire dalla fine del Quattrocento si sviluppa la fanteria e l'artiglieria, dotate di armi da fuoco leggere o pesanti. Questo mutamento epocale, determinato dall'invenzione della polvere da sparo, inizia a mettere in crisi il tradizionale ruolo della cavalleria e quindi della nobiltà che ne rappresentava il nerbo esclusivo. Accresce il ruolo strategico e l'importanza dell'artiglieria. Sempre più spesso gli eserciti sono formati da professionisti della guerra, mercenari, in possesso di particolare esperienza e di competenze e soggetti ad ingaggi di lunga durata. 2. Presenza di una burocrazia permanente e specializzata, dotata di competenza professionale ed esperienza amministrativa. Si tratta inizialmente di notai e cancellieri a servizio permanente del sovrano. Quelli che oggi chiameremmo funzionari pubblici, selezionati in seguito ad un pubblico concorse, nei primi due secoli dell'età moderna erano in realtà reclutati in maniera diversa: o attraverso la chiamata diretta degli uomini più capaci, o in seguito alla vendita delle cariche e degli uffici, o attraverso la concessione di titoli nobiliari ereditari ai funzionari più capaci o più fedeli, da cui ebbe origine la cosiddetta nobiltà di servizio. 3. Presenza di una diplomazia permanente presso le corti straniere, che sostituisce gli inviati temporanei o i funzionari incaricati di singole missioni di breve durata. Ciò implicava disponibilità di denaro, di conoscenze e soprattutto una capacità di agire e sapersi muovere in maniera adeguata negli ambienti di corte; queste prerogative erano esclusive della nobiltà più istruita e più ricca. Da ciò derivava anche la codificazione delle regole della diplomazia. 4. Affermazione del monopolio statale del prelievo attraverso il fisco, ossia attraverso un sistema di tassazione unico e tendenzialmente esteso a tutto il territorio dello Stato. L'autorità fiscale viene a sostituirsi a quella militare come elemento caratterizzante lo Stato. La riforma della fiscalità implica come unico soggetto lo Stato. La tassazione era concepita dai ceti privilegiati come aiuto o contributo volontario concesso al sovrano concordato preventivamente nell'ambito degli organi rappresentativi. Le tasse straordinarie non concordate erano possibili solo in caso di guerra. 5. Tentativo di affermare una legislazione unitaria su tutto il territorio dello Stato a scapito delle diverse ed autonome giurisdizioni territoriali o delle giurisdizioni particolari di ceti o gruppi privilegiati. Questa linea di tendenza verrà a realizzarsi solo in pochi casi e solo nel Settecento attraverso il progressivo passaggio dal diritto comune ai codici scritti; la riduzione dei privilegi locali, dei privilegi di ceto e dei privilegi ecclesiastici in seguito ai Concordati fra Stato e Chiesa cattolica. 6. Affermazione di un mercato ampio ed esteso e tendenza dello Stato a regolamentare l'economia. Segnali di questa tendenza sono le politiche economiche ispirate al mercantilismo e quindi ad un maggiore intervento dello Stato sull'economia. Sulla base di queste sei linee i governi europei dei primi anni del Cinquecento appaiono molto più simili fra loro di quanto non sarebbero apparti in seguito. Nell'ultimo quindicennio 2. Una posizione geografica relativamente protetta e garantita dalla presenza di confini naturali. 3. Una successione ininterrotta di abili statisti (uomini di governo). 4. Il successo in guerra, e quindi la forza militare. 5. L'omogeneità della popolazione soggetta e l'assenza di conflitti interni di carattere etnico o religioso. 6. La presenza di una robusta alleanza del potere centrale con le élites locali, tale da non provocare conflitti di potere, resistenze o rivolte. I principali fattori che gli storici hanno indicato come ostacoli alla formazione di un unico Stato territoriale italiano sono: a) l'arcaicità e la polverizzazione delle strutture statali, fattore di immobilità sociale; b) la debolezza di un apparato burocratico; c) l'indebolimento delle attività commerciali dalla fine del XV secolo (crisi del Mediterraneo, crisi delle autonomie urbane, ritorno alla terra da parte dei ceti mercantili); d) l'egemonia straniera sulla penisola e la lunga dominazione spagnola su Regno di Napoli e Ducato di Milano in assenza di un potere forte in sede locale; e) la presenza di patriziati cittadini forti e radicati; f) l'esistenza di Stati repubblicani (Venezia, Genova Lucca) cristallizzati nelle loro istituzioni oligarchiche, ulteriore fattore di immobilità sociale; g) la presenza di uno Stato della Chiesa autonomo e territorialmente esteso, unica monarchia assoluta, ma priva di continuità dinastica. Monarchie assolute e repubbliche oligarchiche. L'assolutismo monarchico fu solo una tendenza e in nessun paese si realizzò mai in forma compiuta. Il concetto di “assolutismo”, che sta a indicare una monarchia sciolta da ogni vincolo, viene introdotto dal giurista francese Jean Bodin nei Sei libri della Repubblica (1576): per descrivere la sovranità dello stato fa riferimento alla potestà assoluta del sovrano, sciolta da ogni vincolo, su cittadini e sudditi. Impiegato a lungo con connotazione negativa, l'assolutismo è stato recuperato con una valenza parzialmente positiva unito all'attributo di “illuminato”. La monarchia assoluta è un prodotto storiografico più che una realtà. L'assolutismo europeo è stato considerato come un processo, tendente a realizzare in forme e tempi diversi nei diversi paesi europei, una sovranità più libera da controlli istituzionali, ma pur sempre limitata. Dunque l'assolutismo è solo una delle tendenze delle grandi monarchie europee, mentre la forma più diffusa di governo è lo Stato cetuale, fondato su una molteplicità di poteri e sulla condivisione della sovranità fra il principe, i ceti e i loro organi rappresentativi. Diversa è la situazione delle antiche repubbliche oligarchiche e patrizie, come Venezia, Genova e Lucca. Venezia rappresenta il caso di una repubblica patrizia il cui ceto dirigente si trasforma nel corso dei secoli (soprattutto dopo la metà del Cinquecento) in un ceto chiuso e scarsamente permeabile ai mutamenti. Anche la nobiltà delle maggiori città d'Italia (Verona, Brescia, Padova ecc) era esclusa dal potere politico nell'amministrazione centrale dello Stato e doveva limitarsi a ricoprire cariche amministrative subalterne nelle magistrature locali delle rispettive città. Burocrazia e uffici: dalla venalità alla carriera. Il termine “burocrazia” (francese bureau, “lo scrittoio”) viene coniato a metà Settecento dall'economista francese Vincent de Gounay e poi impiegato dagli economisti fisiocratici per denunciare il potere crescente dei funzionari governativi nella vita pubblica della Francia. Indica sia un sistema di potere dominato dai funzionari e dalle loro regole poco trasparenti, sia l'insieme degli impiegati pubblici. Il sociologo tedesco Max Weber la indica come espressione idealtipica dell'autorità e dell'organizzazione razionale e funzionale dello Stato moderno. Secondo Weber lo strumento principale attraverso cui i sovrani assoluti sarebbero riusciti ad esercitare il loro potere era la concessione agli ufficiali del possesso patrimoniale della carica, concepita come un beneficio feudale. La vendita degli uffici e delle cariche (che consente delle entrate allo Stato) prende il nome di venalità. Dove il ruolo degli organismi rappresentativi dei ceti era più debole, maggiore era il potere degli ufficiali, titolari di uffici patrimoniali o venali; dove gli organi rappresentatiti esercitavano un maggior controllo sull'azione del sovrano, gli ufficiali erano semplici esecutori. Nella prima età moderna, fino a metà Cinquecento, la maggioranza degli ufficiali ha carattere patrimoniale o venale; nella seconda età moderna, tra Sei e Settecento, i pubblici ufficiali divengono funzionari stipendiati. Il servizio alle dipendenze dello Stato diventa così una “carriera” che consente il passaggio dagli uffici inferiori a quelli superiori e da incarichi di minor prestigio a quelli più prestigiosi e meglio remunerati. “Carriera”, nel significato di servizio amministrativo di Stato, non si attesta prima della metà del Seicento, mentre nel significato militare si consolida solo nel Settecento. Lo sviluppo di una burocrazia permanente nasce dunque con lo Stato moderno, come conseguenza delle nuove necessità poste dalla guerra e dall'amministrazione di territori sempre più ampi. I segretari di Stato, originariamente notai del re, tendono assumere un ruolo preminente in seno ai Consigli, mentre le funzioni amministrative tendono a differenziarsi e a specializzarsi. Nel Cinquecento si passa così alla costituzione di un corpo autonomo di “professionisti” al servizio dello Stato, in possesso di precise competenze economiche e giuridiche e non necessariamente reclutati nei ranghi della nobiltà. I canali di reclutamento si riducevano a tre modelli: a) si reclutavano esponenti della piccola nobiltà desiderosi di distinguersi [modello di merito; si afferma in tutta Europa tra Sei e Settecento], b) si procedeva al reclutamento di giuristi non nobili in base alle loro competenze, c) si concedeva l'ufficio in beneficio o lo si vendeva al miglior offerente [modello della venalità, prevale nella maggior parte delle monarchie europee di Cinque e Seicento perchè consentiva di utilizzare un istituto antico, tipico del feudalesimo, come il beneficio, per realizzare obiettivi nuovi]. Il titolare di un ufficio si distingueva più per la “dignità” che veniva a ricoprire” che per la funzione effettiva che esercitava; l'ufficio era una titolarità non revocabile, al contrario della commissione che era un incarico temporaneo e revocabile. Il commissaire era incaricato alle dirette dipendenze del sovrano, mentre l'officier era un dignitario. In quanto funzione pubblica delegata dal sovrano l'ufficio era un'articolazione del potere centrale, ma anche uno strumento fiscale per realizzare un prelievo su chi intendeva esercitare quella funzione; garantiva l'ascesa sociale di chi lo deteneva. Inizialmente la venalità fu uno strumento nelle mani del sovrano per garantire sia un'estensione della rete di ufficiali al proprio servizio sia nuove entrate nelle casse dello Stato; successivamente divenne ostacolo alla razionalizzazione dello Stato e al rafforzamento del legame tra ufficiali e sovrano. Nel 1604 il re di Francia Enrico IV promulgò un editto col quale si concedeva la trasmissione degli ufficiali per via ereditaria, previo pagamento di una tassa annua. All'inizio del Seicento si era nella fase di transizione dalla monarchia patrimoniale e contrattuale (mosaico di poteri per l'equilibrio) alla monarchia assoluta e burocratica (sistema di poteri con al centro il sovrano). La venalità degli uffici era il punto di passaggio da una fase all'altra: si ha un rafforzamento numerico dell'élite a spese della loro autonomia in quanto ceto sociale distinto dallo Stato e una parte della nobiltà si trasforma progressivamente da ceto autonomo in corpo dello Stato subordinato al sovrano e al sistema. 8. Giustizia e fiscalità in antico regime La giustizia in età moderna: verso il monopolio della giurisdizione. Giurisdizione significa in particolare due cose: a) l'esercizio del diritto di punire, b) la capacità di imporre tributi. Quindi monopolio della giustizia e del fisco. C'è una profonda differenza con i giorni nostri: in antico regime la giustizia era per lo più espressione di un privilegio cetuale. Esistevano tribunali diversi in cui si esercitava giustizia diversa a seconda del ceto di appartenenza di chi vi ricorreva e della giurisdizione di chi la esercitava (giustizia regia, giustizia signorile, giustizia ecclesiastica). La maggior parte dei giudici locali era nominata dal signore feudale che esercitava la giustizia sui suoi territori, tutelando i propri interessi oltre a quelli del proprio ceto. Solo per i casi più gravi e i reati che coinvolgevano la nobiltà si ricorreva alla giustizia regia. Esisteva una diffusa pratica di giustizia “infragiudiziaria”, ossia di giudizi o arbitraggi emessi fuori dai tribunali, ma ritenuti validi a tutti gli effetti dalle comunità locali. Si trattava di una giustizia “privata”: obiettivo di questa giustizia era di riparare in termini materiali o simbolici al danno procurato alla vittima mediante risarcimenti, promesse o compensazioni private. In alcuni casi questa giustizia finiva per legittimare la stessa faida, ossia la rivincita di sangue. Il lento e progressivo affermarsi della giustizia esercitata dal sovrano e dai suoi rappresentanti rappresenta uno dei tratti tipici dello Stato moderno: l'imperium di un principe si traduce innanzitutto nell'esercizio esclusivo della giustizia nei propri territori. Ai principali monarchie europee vennero investite da un'ondata di rivolte che trovano un tratto comune nell'opposizione alla crescente pressione fiscale causata sia dall'aumento delle spese per il mantenimento delle corti, sia dai costi di una lunga e devastante guerra continentale. Le opposizioni ai governi erano accomunati dall'accusa di voler colpire i ceti borghesi e di affamare il popolo con le tasse. Le plebi urbane furono ovunque protagoniste di episodi insurrezionali ed i contadini si sollevarono assaltando ville e castelli, ma i ceti borghesi tentarono di sfruttare la situazione a loro vantaggio, contrattando ulteriori privilegi con i sovrani. Superata la crisi di metà Seicento, nella seconda metà del secolo in molti Stati europei si incominciarono ad elaborare progetti di riforma del fisco volti ad eliminare le peggiori storture e a razionalizzare un sistema fortemente sperequato. In Francia si pose il dilemma fra imposizioni dirette e imposizioni indirette, in Prussia si introdusse la tassa sui beni di largo consumo (l'accisa) che segnò l'avvio di una fiscalità sottratta ai ceti privilegiati, ma gestita dall'amministrazione centrale. Le riforme fiscali e i catasti. Il cardine delle riforme fiscali settecentesche è il catasto, definibile come sistema di schedatura il più completo possibile dei beni immobili posseduti dai contribuenti e finalizzato alla ripartizione del carico fiscale sulla base della quota di proprietà immobiliare posseduta da ciascuno. Un catasto è in genere costituito da: a) una serie di mappe quanto più possibile precise del territorio dello Stato con indicati i confini e l'estensione delle singole proprietà; b) una parallela serie di registri con l'indicazione del nome dei proprietari di ogni loro di terreno con i successivi passaggi di proprietà dei terreni stessi e con le variazioni delle colture. I principali scopi che si prefiggeva chi realizzava un catasto erano: a) la conoscenza precisa dei redditi reali dei soggetti tassabili, b) l'estensione del peso delle imposte dirette sui ceti privilegiati, c) la tassazione dei patrimoni dei ceti privilegiati, d) una tassazione più equa dei beni dei ceti non privilegiati. Per realizzare e mantenere un catasto erano necessarie almeno quattro condizioni: a) una forte volontà politica da parte del sovrano e degli uomini del governo a suo servizio, b) mezzi finanziari considerevoli, c) notevoli competenze tecniche, d) collaborazione dei soggetti tassabili. La realizzazione dei catasti veniva ostacolata dalla resistenza dei ceti privilegiati che temevano l'aumento del peso fiscale a loro carico. 9. La guerra e gli eserciti Dalle milizia feudali agli eserciti permanenti. Micheal Roberts ha proposto una nuova storiografia militare: la categoria di “rivoluzione militare” diventa chiave interpretativa per comprendere la modernità a partire dalle profonde trasformazioni in atto nel modo di fare guerra, fra Cinque e Seicento, dopo l'invenzione della polvere da sparo. Dal Cinque all'Ottocento, quindi nell'arco di tre secoli, si individuano sette fattori chiave di trasformazione: 1. passaggio da eserciti temporanei ad eserciti permanenti e di grandi dimensioni; 2. prevalere della fanteria sulla cavalleria; 3. mutamento strategico derivante dalla necessità di retribuire, alimentare e spostare masse crescenti di uomini; 4. accresciuta importanza del militare nella società (specialmente in rapporto con Stato e finanza); 5. ruolo della tecnologia applicata alla guerra; 6. funzione dell'architettura militare; 7. nuovo ruolo della marina militare. Il primo problema da affrontare nello studio della storia militare dell'antico regime è relativo alla trasformazione degli eserciti da feudali a professionali. Fra XV e XVI secolo la maggior parte degli eserciti europei muta la propria natura trasformando l'esercito temporaneo (uomini reclutati per brevi periodi legati da fedeltà) in un corpo disciplinato, gerarchicamente organizzato, in possesso di competenze professionali precise. Allo stesso tempo assume un ruolo più rilevante la fanteria, arma non nobile. Già a metà Quattrocento i corpi dei picchieri, per lo più reclutati nei Cantoni svizzeri, sostituiscono la fanteria leggera in molti eserciti italiani, mentre i soldati mercenari sostituiscono le milizie cittadine volontarie. Il modello dell'esercito interarmi, ossia composto da diversi corpi specializzati, si afferma come soluzione più efficace. Le nuove monarchie territoriali e il rafforzamento degli Stati impone eserciti di maggiori dimensioni e eserciti permanenti e di mestiere. Ciò implica costi più elevati perchè i professionisti della guerra vanno retribuiti, ma implica anche miglior garanzie che la guerra sia condotta a termine e non interrotta per la stagione del raccolto. Machiavelli nel 1521 è autore dell'Arte della guerra, nel quale discute l'alternativa fra milizie cittadine della tradizione repubblicana e le compagnie mercenarie di quella signorile: era legato agli eserciti locali, perchè difendevano il proprio territorio, ma riconosce che solo le compagnie disciplinate, ben addestrate, tecnicamente preparate e ben pagate potrebbero rispondere alle nuove esigenze delle guerra europee di lunga durata. La lunga stagione delle guerre d'Italia, fra 1494 e 1530, si svolge durante la fase di transizione da una modalità bellica all'altra e ciò spiega anche il carattere incerto dell'esito di molte campagne di guerra. Nasce in questo periodo il falconetto, un cannone in grado di perforare qualsiasi armatura; vengono costruiti i primi alloggiamenti per militari, antesignati delle attuali caserme; viene istituito il primo ospedale militare stabile; si provvede per la prima volta al sostentamento dei reduci, degli invalidi, degli orfani e delle vedove di guerra; viene predisposto il “corridoio militare” lungo la linea Genova-Milano-Bruxelles in modo da consentire il rifornimento delle truppe. Dalla metà del Cinquecento le guerre venivano combattute anche da navi e flotte ben equipaggiate. L'introduzione delle armi da fuoco sulle navi e la trasformazione delle stesse avviene fra Quattro e Cinquecento, avviando le battaglie navali condotte a distanza con armi da fuoco e volte alla distruzione fisica della flotta nemica. Si passa da agili galere a remi a pesanti velieri armati di cannoni. La guerra navale implicava nozioni tecniche ben più complesse e raffinate, intrecciando logistica, fisica, matematica, balistica, geografia e meteorologia. Dall'arma bianca alle “bocche da fuoco”. Il 1453 (presa di Costantinopoli da parte dei turchi del sultano Mehmet II il Conquistatore) rappresenta anche una delle prime apparizioni della “bocca di fuoco”. Il primo grande cannone della storia moderna era lungo dieci metri, con una canna di bronzo spessa venti centimetri, sparava proiettili del peso di seicento chili che dovevano essere sollevati da sette uomini e trasportati da un carro trainato da trenta buoi. Sparava solo sette colpi al giorno. Il passaggio dall'arma bianca all'arma da fuoco ha rappresentato una delle più grandi rivoluzioni nella storia dell'umanità, destinata a mutare radicalmente il modo di fare la guerra e destinata anche a trasformare i rapporti fra i ceti sociali. Con l'introduzione delle armi da fuoco sempre più importante diviene il ruolo dell'artiglieria: quella pesante era affidata alla perizia tecnica di fabbri fonditori, artificieri e periti balistici; quella leggera era affidata alla rapidità di movimento e alla precisione di mira di fucilieri, archibugi e moschettieri addestrati al tiro a segno. Sempre più spesso l'esito della battaglia sarà determinato dall'abilità tecnica e manuale di fabbri e fonditori, dall'invettiva di abili artigiani protetti da muraglie o sacchi di paglia e dai lavoratori impiegati a scavare gallerie dietro ai campo di battaglia o sotto le mura delle città assediate. I sistemi difensivi urbani precedenti entrano in crisi. Le mura medievali merlate, alte e sottili, adatte alla difesa da eserciti armati in maniera leggera, vengono sostituiti da bastioni più basse e più spessi, costituiti da diversi ordini di mura ben difese dall'artiglieria pesante. Da una difesa “in verticale” si passa a una difesa “in orizzontale”. Da metà Cinquecento gli assedi diventano imprese lunghe e complesse i cui esiti sono per lo più decisi da singole vittorie militari sul campo o dalla diplomazia. Guerre e fiscalità. Fino agli inizi dell'età moderna il servizio militare pesava in misura minima sulle finanze pubbliche in quanto si trattava di un servizio obbligatorio le cui spese (cavallo, armatura, armi ecc) erano a carico di ciascun combattente. Le spese di mantenimento dell'esercito e di foraggiamento del bestiame erano a carico del territorio dove l'esercito era di stanza. È solo con la costituzione di eserciti permanenti e di mestiere che le spese crescono in maniera esorbitante inducendo principi e sovrani o ad indebitarsi o ad aumentare la pressione fiscale sui sudditi. Inoltre con l'invenzione delle armi da fuoco le spese per l'armamento si moltiplicarono ed implicarono sempre più la presenza di vere e proprie industrie belliche. Anche la costruzione di sistemi di difesa, mura e fortificazioni di nuovo tipo, implicava competenze diverse e raffinate. Fra Quattro e Cinquecento gli Stati preferiscono differenziare il perso fiscale fra la città capoluogo (gravata da un carico minore) e i territori e le città suddite (carico maggiore). È nel corso del Cinquecento che il costo degli eserciti e delle guerre si fa proibitivo. La difficoltà di retribuire i soldati provoca diserzioni o ammutinamenti, oppure costringe i sovrani (guerra dei trent'anni) a delegare enormi poteri militari, politici e finanziari ai cosiddetti “signori della guerra”, ossia imprenditori militari. La macchina statale di molte potenze europee, intorno alla metà del Seicento, incomincia ad organizzarsi in funzione di un prelievo destinato principalmente al mantenimento di eserciti permanenti. La pressione fiscale si fa più pesante. Fra Sei e Settecento in Francia e Prussia la nobiltà viene posta sotto lo stretto controllo della monarchia e trasformata in uno strumento al servizio del re, riorganizzando in parallelo forze armate e burocrazia secondo schemi gerarchici e razionali. Vita di truppa. I soldati erano mal pagati, mal equipaggiati, reclutati per lo più a forza e costretti a combattere in terre lontane guerre le cui finalità erano per loro quasi sempre estranee. Ci si arruola «per sfuggire ai propri lavori, per evitare una condanna, per vedere luoghi nuovi o per ottenere onori, […] nella speranza di avere abbastanza per vivere e qualcosa in più per le scarpe o altre piccolezze che rendano la vita sopportabile» (Giulio Savorgnan, generale dell'esercito di Venezia, 1572). In molti casi la professione delle armi è stata una risorsa per le popolazioni dei territori più poveri, infatti una quota molto consistente dei soldati dei grandi eserciti europei era reclutata all'estero. Per garantirsi eserciti permanenti di grandi dimensioni i sovrani ricorrevano a: a) arruolamento forzato dei poveri, delinquenti e sbandati; b) arruolamento obbligatorio (a guerra iniziata) dei prigionieri di guerra o dei soldati dell'esercito nemico appena sconfitto. Dagli Pierre Gutton ha delineato due categorie di povertà: 1. i poveri strutturali, impossibilitati ad uscire dalla loro condizione di povertà perchè impossibilitati a lavorare (vecchi, malati ecc); 2. poveri congiunturali, persone spinte verso la povertà dalla crisi, ma capaci di risollevarsi nei momenti di maggior benessere, mantenendosi però sempre in bilico al limite del livello di sussistenza. La loro presenza era considerevole: lo storico inglese Brian Pullan ha definito come “povera” una quota variabile fra il 75 e il 90% della popolazione di una media città europea fra Cinque e Seicento, a sua volta divisa in una prima fascia pari al 50-70% di poveri non indigenti, una seconda pari al 20% di poveri occasionali e una terza ed ultima fascia oscillante fra il 4 e 8& di poveri strutturali. La povertà è un concetto relativo e variabile in base alla “soglia di povertà”. Seguendo lo schema di Pullan, in campagna si può distinguere una quota di poveri variabile fra il 90 e il 100% della popolazione rurale, suddivisibile in una fascia di povertà fluttuante del 20-60%, una seconda fascia di povertà ricorrente del 30-40%, una terza fascia di povertà occasionale (o povertà della crisi) pari al 40-40% e un'ultima fascia di povertà strutturale del 10% circa. La povertà si maschera meglio nella società rurale, perchè in campagna il povero è comunque nella comunità e mai al margine. Uomini senza padrone. Uomini senza padrone è il titolo del saggio dello storico polacco Geremek del 1977. Con questo termine indica coloro che riuscivano a sopravvivere nelle società di antico regime senza mai essere inquadrati in un'entità o in una categoria sociale più ampia: erano marginai, vagabondi, artisti girovaghi, lavoratori saltuari, zingari. Il termine “marginali” indica gli individui o i gruppi umani che per varie ragioni si collocano ai margini della società; gli “emarginati” sono gli individui che vengono espulsi dalla società o respinti ai margini. Si possono individuare diverse forme di marginalità e di emarginazione: a) a livello economico, considerando chi non partecipa al processo produttivo o ne viene forzatamente espulso (disoccupati e licenziati); b) a livello sociale, chi non rispetta le regole e chi non condivide i doveri o i privilegi del gruppo di appartenenza; c) a livello spaziale, chi viola le regole dell'habitat organizzato o non vi partecipa; d) a livello culturale, chi non condivide i valori dominanti o prevalenti del gruppo di appartenenza r i comportamenti universalmente accettati. Spesso i mestieri più umili e infamanti erano riservati proprio ai forestieri. La condizione di “marginale” viene attribuita dai poteri dominanti a chi non rispetta le regole sociali e i valori condivisi dalla maggioranza. La marginalità può verificarsi in caso di assenza di certi legami che la società ritiene normali (famiglia, professione, credo religioso, società), o in caso di rifiuto consapevole. Dalla marginalità è facile cadere nell'emarginazione. La diffidenza nei confronti dei forestieri o di chi apparteneva ad una minoranza etnica o religiosa generava sentimenti xenofobi. Il vagabondaggio rappresentava la marginalità per eccellenza, perchè il vagabondo è sia “uomo senza padrone” che viaggiatore senza itinerario, non partecipa o rifiuta di partecipare ai legami sociali e pertanto va punito anche se non danneggia alcuno. Il povero: da “immagine di Cristo” a delinquente potenziale. Fino alla fine del Quattrocento vi era l'idea che i poveri fossero la “immagine di Cristo sofferente” e per questo andassero aiutati, in quanto significava in qualche modo farsi perdonare per atri peccati e riscattarsi agli occhi di Dio e della società. Facendo la carità il nobile acquisiva consensi e rafforzava la sua posizione di preminenza sociale, creandosi una rete di fedeli debitori, pronti a servirlo all'occorrenza. Nella prima metà del Cinquecento si passa dalla carità alla beneficenza e assistenza al povero, visto ora come ozioso e potenzialmente pericoloso. Al singolo è richiesta la carità, dalle organizzazioni politiche e religiose è concessa una beneficenza (viene raccolto il contributo da destinare ai poveri); dalla fine del Settecento e poi con i movimenti sociali dell'Ottocento inoltrato l'assistenza diventa un diritto del cittadino. A cambiare l'immagine del povere è stato un susseguirsi di fattori, decisivo il pauperismo, agli inizi del Cinquecento, come fenomeno di massa non più controllabile sul piano sociale. Sul piano dottrinale ha inciso la riforma protestante, con il principio affermato da Lutero della “giustificazione per sola fede” (perdono gratuito da parte di Dio) e non attraverso le opere. Nell'Europa cattolica il mutamento non è così radicale, ma certamente i poveri perdono la posizione che avevano conquistato nella dottrina della Chiesa. La mendicità viene bandita in gran parte d'Europa e in molti casi la carità individuale viene vietata, lasciando agli enti benefici istituiti in ogni città il compito di provvedere ai poveri. In questo contesto prende piede la prassi di distinguere fra veri e falsi poveri. La distinzione fra il povero locale e quello forestiero derivava in molti casi dalle licenze di mendicità: al povero veniva rilasciato un attestato di povertà e il certificato di battesimo da portare all'ufficio dei poveri, cosicché gli fosse concessa una licenza di mendicità data solo a chi fosse nato nella giurisdizione in cui operava l'ufficio. Al forestiero era negato qualunque aiuto. Gli “oziosi” venivano isolati. Sia per Voltaire che per l'abate Genovesi la povertà era una colpa di chi non sa uscire dal proprio stato di ozio e di ignoranza, mentre il lavoro viene assunto come valore etico capace di riscattare dalla miseria e di condurre ad un discreto successo economico. Lo storico inglese Edward Paul Thompson nota come negli gli ultimi due decenni del Settecento e gli anni trenta dell'Ottocento nasce e si sviluppa una nuova classe sociale, dalle origini assai composite e tuttavia dotata di coscienza di classe, ossia un grippo di uomini che sentono ed esprimono un'identità di interessi; stanno nascendo le classi lavoratrici. Le istituzioni per i poveri: assistere e recludere. Nel corso dell'età moderna si assiste a diverse e successive ondate migratorie dalle campagne alle città. La più significativa si colloca tra 1523 e 1529 in corrispondenza di una crisi agraria e della prima fase delle guerre di religione. La massa di contadini in cerca di lavoro e sostentamento provoca provvedimenti quasi ovunque per il respingimento dei forestieri. Nel 1522 a Norimberga viene per la prima volta deliberata la centralizzazione dell'assistenza dei poveri, seguito da Strasburgo, mentre i provvedimenti adottati nel 1525 nelle Fiandre spagnole (oggi Belgio) diventano modello: divieto assoluto di mendicità, organizzazione pubblica dell'assistenza, istituzione di case di lavoro con fondi comuni. Nel 1526 viene pubblicato il trattato Sull'assistenza ai poveri dell'umanista spagnolo Juan Luis Vives nel quale si sostiene la necessità di assistenza organizzata e disciplinata, senza tralasciare la repressione dei fenomeni criminali generati dal pauperismo. La laicizzazione dell'assistenza è un tratto comune sia ai paesi cattolici che a quelli protestanti. Una seconda ondata pauperistica si verifica negli anni ottanta del Cinquecento a seguito di una serie di annate cattive: le città rispondono discriminando i poveri, dando assistenza a quelli del contado e respingendo i forestieri; in molti casi vengono rinchiusi i poveri in lazzaretti. Nell'Italia settentrionale, a metà secolo, vengono fondi istituti assistenziali grazie ai fondi di privati cittadini e confraternite, luoghi non solo di ricovero e contenimento, ma anche di lavoro e un centro economico di primaria importanza. Gli ospedali dei poveri, spesso gestiti da ordini religiosi, godevano spesso di esenzioni fiscali e ricevevano molte donazioni; gli ospedali divennero anche istituti di credito, concedendo piccoli presti e a volte concedendo doti per aiutare le ricoverate a sposarsi. Nell'Inghilterra di Elisabetta I nascono le prime Houses of Correction destinate a rinchiudere vagabondi e assistere i poveri, poi trasformate in Workhouses (nel Seicento assumono il carattere di fabbriche di lavoro forzato). Anche in Germania e Francia nascono case con poteri di giurisdizione, repressione, controllo e assistenza su tutti i poveri. Lo storico e filosofo francese Michel Foucault nel suo Sorvegliare e punire (1975) ha richiamato l'attenzione al caso francese cosiddetto “grande internamento” di metà Seicento, ossia sull'imponente operazione di concentrazione e segregazione dei poveri all'interno di istituti e case di lavoro ad essi appositamente destinati. L'internamento segnala tangibile il fatto che la comunità rifiuta e respinge questi individui “oziosi”: tramite il lavoro coatto le cosiddette “classi pericolose” potranno trasformarsi in “classi laboriose”. Criminalità e marginalità. Lo studio della criminalità è recente nella ricerca storica. La storica Nicole Castan, studiando i registri della polizia francese del 1758-89 ha suddiviso in tre gruppi chi risulta “senza fissa dimora” (23-42%), i “recidivi” (15—22%) e gli individui “al primo reato” (43-60%). La maggior parte degli imputati inoltre dichiarava di avere un mestiere, solo il 26% non lo dichiarava. Si trattava principalmente di “marginali”, più che di veri e propri delinquenti abituali. La concezione di criminalità era ben diversa nel passato. Nel 1729 a Londra la parola crimine non compare, mentre il solo elemento di differenziazione tra fellonie e trasgressione è dato dalla pena prevista: nel primo caso la morte, nel secondo un'ammenda o una pena corporale (la maggior parte dei reati implicava castighi corporali, non la detenzione, e moltissimi la pena di morte). La pena era concepita come punizione e non come correzione, e la legge presupponeva la diseguaglianza di trattamento a seconda del ceto sociale o gruppo di appartenenza. L'85% dei reati di antico regime erano furti e aggressioni. Va fatta una distinzione tra criminalità rurale e criminalità urbana. La criminalità rurale, centrata su furto e aggressione, era dominata da piccoli reati come furti, costellata da episodi di brutalità domestica, segnata da una ricorrente violenza pubblica. Rare, ma sanguinose, sono le esplosioni di violenza collettiva. Il crimine rurale è per lo più spontaneo, individuale e dettato da bisogno o ira. La criminalità rurale è intraclassista, ossia esercitata all'interno della stessa classe sociale (poveri). Il brigantaggio è a sé stante: è quella particolare forma di criminalità, diffusa in ambiente rurale, ma lontano dalle comunità agricole, quindi esercitata in territori di confine e lungo le principali vie di comunicazione. I briganti si organizzavano in gruppi per derubare viaggiatori isolati, carrozze e carri, lasciando feriti e in certi casi morti. La criminalità urbana è diversa, perchè la città genera più facilmente il crimine in quanto concentra maggior popolazione in spazi più ristretti, vi è un minor controllo sociale, maggiori e più evidenti differenze sociali con una compresenza di ceti e redditi molto diversi. Anche in questo caso domina il furto, ma compiuto da “professionali” bande di ladri e borseggiatori, bande di scassinatori e bande di assassini. Gli episodi di violenza sono più diffusi e vanno dalla violenza domestica, alla rissa, alla rapina. Gli episodi di rivolta urbana sono meno frequenti che in campagna e più facilmente repressi. Il crimine è per lo più premeditato e interclassista, in genere da esponenti di ceti inferiori ai danni di quelli superiori. Fra XVI e politiche e familiari, in molti casi senza neppure essere ordinati sacerdoti. Il papato rinascimentale era definito a ragione dai suoi avversari come nepotista e corrotto carriera ecclesiastica era una carriera come un'altra, riservata in primo luogo agli esponenti delle principali famiglie nobili romane, ma anche ai figli cadetti delle principali dinastie signori italiane e ad alcuni intelligenti e abili figli di famiglie di provincia. I più potenti cardinali erano uomini di governo e d'affari, molto lontani dalla spiritualità; in molti casi gli alti prelati provenivano dai tribunati ecclesiastici, dove si erano esercitati nella lotta al dissenso religioso e alla repressione degli atteggiamenti non conformisti. I legami famigliari restavano fortissimi e oltre il 20% dei magistrati pontefici erano legati tra loro da vincoli di parentele. Chi proveniva da una potente famiglia, o era legato da rapporti di parentela con papi e cardinali, spesso raggiungeva i vertici molto rapidamente e in giovane età. In molti casi le cariche e i benefici erano ereditari. La carriera ecclesiastica consentiva di controllare ingenti patrimoni e di determinare la successione a decine di enti, abbazie, conventi, oltre a numerosi benefici ecclesiastici. I prelati, nel ristretto numero, erano tutti appartenenti alle maggiori famiglie cittadine. Era decisivo poter essere nominato vescovo. In alcune diocesi italiane si creavano dinastie vescovili che si tramandano la carica da zio a nipote. Un ruolo delicatissimo era quello dei presidenti dei tribunali vescovili, dai quali dipendevano non solo le vertenze relative al clero o alle questioni religiose, ma anche le cause ereditarie e quelle matrimoniali (oggi di pertinenza dei tribunali civili). Differenze religiose. L'Europa cristiana non si identifica con l'Europa cattolica. Già divisa dal 1054 fra Chiesa cattolica di rito latino e Chiesa ortodossa di rito greco, l'Europa cristiana si spacca ulteriormente con la crisi religiosa del Cinquecento, ponendo fine definitivamente all'unità del mondo cristiano e aprendo una lunga stagione di sanguinosi conflitti a sfondo religioso, contemporaneamente la cacciata degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna nel 1492 sancisce la frattura con le minoranze religiose non cristiane. La lunga stagione delle intolleranze introduce concetti come “minoranze religiose”, “eterodossi”, “eretici” o “infedeli”. Nell'Europa cattolica le minoranze protestanti sono duramente perseguitate. Solo in Francia, dopo una lunga e sanguinosa stagione di guerre di religione, la monarchia accetta l'esistenza di due confessioni religiose e stabilisce il principio della tolleranza religiosa, garantendo il privilegio di “religione di Stato” alla Chiesa cattolica, ma garantendo il diritto di culto alla minoranza protestante, pur con alcune restrizioni. Nell'Europa protestante invece le minoranze cattoliche vengono per lo più tollerate. Gli ebrei, perseguitati ed espulsi dalla Spagna e dal Portogallo, sono rinchiusi nei ghetti, sottoposti a regole molto rigide e controllati dalla polizia in Italia, Polonia e in alcune città della Germania. I musulmani, presenti in Spagna fin dal medioevo, sono costretti alla conversione o espulsi. Le condizioni delle minoranze religiose cambiano da luogo a luogo e nel corso del tempo. Dal Settecento gli spazi di tolleranza si faranno sempre più ampi. Il protestantesimo ha favorito la modernità rispetto al cattolicesimo che per secoli si era opposto ai grandi mutamenti intellettuali, sociali e strutturali avviati in età moderna. Il mondo protestante ha consentito, dalla metà del Cinquecento, la formazione di un universo mentale dominato dalla soggettività e dal senso di responsabilità, un'immagine di minor separatezza e di maggior integrazione nel mondo. Il senso di peccato è presente, ma rappresenta un problema soggettivo del credente, risolubile solo nel rapporto intimo con Dio, non con la Chiesa. La confessione auricolare non esiste e i peccati sono confessati direttamente a Dio senza la mediazione di un sacerdote. Non esiste il culto dei santi né il culto mariano, né prevede un'iconografia ricca. Le Chiese protestanti sono infatti povere e in nessun caso sono strutture di potere. C'è una separazione del potere politico da quello ecclesiastico. La “laicità”, intesa come neutralità delle istituzioni politiche e civili nei confronti della dimensione ecclesiastica e religiosa, ha matrice protestante. La Riforma avviata nel 1517 da Lutero parte dall'idea del carattere ineliminabile del peccato e dell'impossibilità dell'uomo di liberarsene se non affidandosi completamente a Dio. La diaspora ebraica. Dagli inizi del Cinquecento l'Europa deve affrontare, oltre alla profonda crisi religiosa del mondo cristiano, anche con la fine della lunga stagione di relative tolleranze. La cacciata degli ebrei dalla penisola iberica nel 1492 segna l'inizio della stagione di intolleranza nei confronti degli ebrei che toccherà l'apice nel Novecento con la promulgazione delle leggi razziali e la Shoah. L'antisemitismo ha dato degli ebrei le vittime preferite di ogni persecuzione. Bisogna distinguere le due grandi famiglie del mondo ebraico: i Sefarditi e gli Askenaziti. I Sefarditi sono gli ebrei occidentali e più antichi, gli Askenaziti sono gli ebrei dell'Europa centro-orientale e discendenti delle comunità ebraiche medievali. Un gruppo a parte sono gli “Ebrei del Sultano”, per lo più Sefarditi. Al momento dell'espulsione dalla penisola iberica, gli ebrei costituivano il 1,5% della popolazione; più della metà di questi accettarono di convertirsi al cristianesimo, prendendo il nome di “nuovi cristiani”, continuando a praticare in segreto i propri culti. Al momento dell'espulsione Il sultano turno Bayezid invitò sulle coste spagnole una piccola frotta marocchina al comando di Kemal rais per portare in salvo quanti più ebrei possibili, concedendo loro la possibilità di stabilirsi nei territori dell'Impero ottomano senza pagare tasse per 15 anni. In tutto l'Impero ottomano gli ebrei sono tollerati e accettati e spesso svolgono compiti amministrativi o di rilievo. Godono libertà di culto, di movimento, possono esercitare qualsiasi mestiere e acquistare proprietà. Unico obbligo è quello di pagare forti tasse a garanzia della protezione e portare un segno distintivo. Non gli è permesso sposarsi con musulmani, costruire sinagoghe superiori a una certa altezza, portare armi e montare a cavallo. In Spagna i “nuovi cristiani”, inizialmente accolti, vengono ben presto emarginati e perseguitati per ragioni razziali più che religiose incorrendo in nuove ondate di persecuzioni che colpiscono chi non dimostra di avere sangue cristiano da almeno quattro generazioni. Una colossale migrazione di ebrei sefarditi si verifica dai primi anni del Cinquecento verso alcune città portuali come Tunisi e Alessandra d'Egitto. Fra Quattro e Cinquecento l'Italia accoglie molti ebrei provenienti sia dalla Spagna che dalla Germania, accrescendo le comunità ebraiche italiane. In seguito alle guerre di religione e alle successive ondate di persecuzioni, alcune migliaia di ebrei tedeschi emigrano fra Cinquecento e Seicento nella più tollerante Polonia e Lituania, mentre alcuni si spingono fino in Ucraina e Russia. Sulla spinta della diaspora si formano in Europa molte comunità ebraiche, di cui le più grandi sono quelle polacche. Convertiti, rinnegati e “cristiani di Allah”. Nella storia d'Europa e del mondo mediterraneo molti passarono da una religione all'altra attraversando, anche più di una volta, frontiere confessionali e di civiltà: è il caso dei cristiani convertiti negli anni della crisi religiosa del Cinquecento, nati e formatisi all'interno della fede cattolica e successivamente passati al protestantesi. Si convertono, ma restano sempre legati ad un mondo e ad un sistema di valori propri della fede originaria. I “cristiani di Allah”, che tra Cinque e Seicento erano la maggior parte dei comandanti delle navi corsare del Mediterraneo, erano in origine marinai cristiani italiani catturati dai corsari barbareschi e successivamente convertiti all'Islam; uomini di mare coraggiosi e spietati quindi, ma che avevano origini umilissime e che avevano trovato nella società ottomana una possibilità di riscatto che mai l'Occidente cristiano avrebbe offerto loro. L'Islam si rivela per molti un veicolo di ascesa sociale. Nessun'altra società europea dell'epoca consentiva infatti carriere così folgoranti a chi non era nato nobile e tanto meno a chi proveniva da un'altra fede religiosa. I giovani cristiani che accettavano di convertirsi all'Islam dopo aver servito per qualche tempo come schiavi dei turchi, potevano sperare davvero in un futuro migliore. Condannati dall'inquisizione per aver abbandonato la fede cristiana, in molti casi questi uomini morivano in carcere, ma in altri, sfuggiti dalla condanna o liberi dopo una detenzione, riprendevano il mare per far ritorno al mondo islamico. 12. Figure e spazi della cultura Tra la fine dei Sei e la metà del Settecento si incomincia a far riferimento agli uomini di cultura impiegando termini come “dotti” e “letterati”. L'idea di una “Repubblica delle lettere” (formulata fra i primi da Erasmo da Rotterdam) intesa come comunità intellettuale capace di superare le frontiere geografiche, politiche e confessionali, nasce nel Cinquecento, ma si afferma pienamente solo nel Settecento come un più ampio e pacifico spazio dei dotti all'interno del quale lo scambio di idee viene veicolato da lettere, libri, viaggi in un'Europa ancora attraversata da divisioni e conflitti. I principali luoghi di elaborazione della cultura di antico regime sono anzitutto la Chiesa e le corti, ma anche le accademie e biblioteche, in un'epoca in cui, dopo l'invenzione della stampa a caratteri mobili, il libro si trasforma in un prodotto alla portata di un pubblico più numeroso, consentendo una più ampia circolazione delle idee. Ecclesiastici e cortigiani. Per tutto il medioevo e ancora a lungo fra Cinque e Seicento, l'intellettuale per eccellenza è l'ecclesiastico, il solo ad aver un'istruzione superiore, che conosce il latino e talvolta i greco, e ad avere accesso ai libri delle grandi biblioteche monastiche o diocesane. Il XVI, con la diffusione della stampa e la frattura del mondo cristiano, rappresenta il primo momento di crisi dell'intellettuale-ecclesiastico. La possibilità di produrre e far circolare i libri all'esterno di una ristretta élite e soprattutto fuori dal controllo della Chiesa costituisce una sfida e una minaccia per la cultura ecclesiastica: costituisce la fine di una Chiesa intesa come custode dell'interpretazione delle Sacre Scritture, costringendo gli ecclesiastici a ridefinire il proprio ruolo, anche all'interno del mondo cattolico. La Controriforma darà l'avvio ad una poderosa opera di riconquista delle posizioni perdute dalla Chiesa cattolica ed avrà dei nuovi intellettuali-ecclesiastici. Bisogna distinguere fra gli ecclesiastici il clero regolare, ossia i frati e i monaci sottoposti ne fu toccata. La lettura inoltre non era individuale, ma collettiva. Il possesso di un libro era considerato un elemento di distinzione sociale. Le autorità politiche e religiose si resero conto di quanto potesse essere potenzialmente pericoloso un libro e la diffusione delle idee. La Chiesa cattolica innanzitutto, ma anche le autorità laiche intervennero per disciplinare la stampa imponendo che ogni testo dovesse avere l'autorizzazione preventiva da parte dell'autorità ecclesiastica. La censura prevedeva non solo il divieto di stampare, ma anche di diffondere e possedere libri non autorizzati. Nel 1559 venne pubblicato a Roma il primo ed ufficiale Indice dei libri proibiti, ossia il catalogo di tutte le opere che la Chiesa cattolica vietava di stampare, diffondere e possedere. Nel 1571 papa Pio V istituì la Congregazione dell'Indice per aggiornare l'Indice. Tra Cinque e Settecento quasi tutte le più importanti opere dell'ingegno umano finirono all'Indice. La circolazione delle idee. Fra cultura alta e cultura bassa si trova un intreccio di “credenze” e superstizioni condivise. Lo stesso Rinascimento è frutto di un'interazione continua fra cultura alta e cultura bassa. Chi studia la circolazione delle idee in età moderna deve tener conto di movimenti fra l'alto e il basso e nello spazio e nel tempo. Con l'invenzione della stampa e con il progressivo miglioramento delle vie di comunicazione la circolazione delle idee si fa via via più intensa. Le idee si propagano attraverso gli uomini che se ne fanno portatori, ma anche attraverso le pagine dei libri che se ne fanno veicolo. La propaganda religiosa e quella politica saranno un tratto essenziale della cultura barocca. Nel Settecento la progressiva laicizzazione della cultura, unita a una più facile circolazione della parola scritta, consentirà alle diverse espressioni dell'Illuminismo di penetrare non solo fra le élite, ma fra gli strati intermedi della popolazione. Tra la fine del Sei e l'inizio del Settecento comparvero in Europa numerosi periodici eruditi o scientifici che rappresentarono i primi veicoli di comunicazione e internazionalizzazione dei saperi e delle scoperte scientifiche. Le gazzette di notizie si diffondono affianco ai giornali eruditi, inizialmente politiche e commerciali, poi via via più complete. Il più celebre periodico italiano dell'età dei lumi è il “Caffè”, omonimo del luogo di scambio e di socializzazione per eccellenza. 13. Educazione e istruzione Leggere, scrivere, far di conto. Le società di antico regime erano domate dall'analfabetismo. Attorno al 1680-1700 oltre i 4/5 dei sudditi francesi erano analfabeti. L'oralità dominava sulla scrittura, ma la comunicazione era fatta anche di immagini, simboli, emblemi, il cui significato oggi stentiamo a comprendere. La molteplicità dei linguaggi e dei diversi codici espressivi, fra cui la gestualità, era presente nella società stratificata, certamente analfabeta, ma non incapace di comunicare anche in maniera complessa. Leggere, scrivere e far di conto erano tre abilità che costituivano il punto d'incontro di percorsi formativi fra loro separati. Spesso si apprendeva a leggere in famiglia, in viaggio, durante l'apprendistato in bottega, lavorando sotto padrone o nel servizio militare. Gli uomini del medioevo leggevano ad alta voce o comunque pronunciando le parole nel momento della lettura, e così fino a metà Cinquecento. Ugualmente la scuola medievale e l'università fino alle soglie dell'età moderna incoraggiavano una lettura intensiva dei testi, ritornando più volte sulle stesse pagine o righe e approfondendo via via il significato più profondo (esegesi) dei concetti espressi. La lettura intensiva favoriva l'apprendimento mnemonico ed ogni studente universitario ricordava a memoria intere pagine della Bibbia. Si riteneva che imparare a memoria un testo facesse bene alla salute. Solo con il Settecento con l'enciclopedismo e con la diffusione della stampa periodica incomincia ad affermarsi una lettura estensiva, che si basa sulla capacità di scorrere, sfogliare, consultare più testi di cui si trattiene l'essenziale, è una lettura selettiva o parziale finalizzata a domande o ad interessi precisi. Si diffonde la pratica dell'annotazione o dell'appunto non più solo, secondo la tradizione medievale delle glosse, a margine della pagina, ma su taccuini o fogli riuniti a seconda della necessità. Alunni e insegnanti. In antico regime le scuole erano presenti soprattutto nelle città. Solo nel Settecento una parte della popolazione rurale accede all'istruzione di base. Nella maggior parte dei villaggi della Francia, Germania e Inghilterra furono istituite scuole elementari a classe unica dove si poteva imparare a leggere e scrivere. Altra cosa erano le scuole di dottrina cristiana, gestite dalle congregazioni religiose con la finalità di formare “fedeli sudditi e buoni cristiani”. I maestri di villaggio erano per lo più preti o parroci, ma dalla seconda metà del Settecento cominciano ad avere una formazione professionale specifica. In Austria, Lombardia, Francia e buona parte degli Stati tedeschi si chiedeva loro un diploma di abilitazione e il loro reclutamento iniziò ad essere effettuato mediante corsi pubblici. All'istruzione elementare, non obbligatoria, accedevano per lo più in città i figli di artigiani e commercianti oltre che figli della piccola e media borghesia; in campagna i figli di artigiani di villaggio e dei piccoli e medi proprietari terrieri, pochissimi figli di contadini. L'apprendimento era essenzialmente mnemonico e le lezioni si svolgevano in una stanza annessa alla parrocchia o in un retrobottega. Nelle suole latine, per lo più annesse ad una chiesa e riservate ai figli dell'élite, si apprendeva a leggere e scrivere in latino e in volgare, a cantare e a fare esercizi di aritmetica. Chi ne usciva poteva iscriversi all'università. Nelle scuole tedesche, frequentate per lo più dai figli del ceto medio mercantile, si imparava a leggere a leggere e far di conto, qualche volta a scrivere, perchè destinati ad entrare nelle botteghe artigiane o nei commerci. Gli studenti più grandi godevano di privilegi, tra cui viaggiare. Per frequentare gli studenti dovevano pagare una tassa corrispondente al costo di vitto e alloggio presso il maestro, e in qualche caso potevano godere di borsa di studio. L'apprendimento della lingua era fonetico e avveniva attraverso la lettura e ripetizione dei testi. La lingua d base della cultura era quasi sempre il latino, le lingue volgari erano concepite come strumentali. Lettura e scrittura erano apprendimenti separati e indipendenti. Le regole grammaticali venivano apprese a memoria. Non esistevano libri di testo, solo il maestro possedeva alcuni libri. Con la stampa nascono i manuali per scuola. Le punizioni corporali erano all'ordine del giorno. Collegi e università. L'istruzione dei figli dei ceti elevati non era affidata alla scuola, ma a precettori privati alle dipendenze delle famiglie. Solo dalla seconda metà del Cinquecento l'istruzione dei ceti elevati cominci a svolgersi all'interno dei apposite istituzioni, i collegi, antenati degli odierni licei. Il modello più celebre è quello della Compagnia di Gesù: in pochi anni i Gesuiti istituirono collegi di istruzione superiore in quasi tutte le città più importanti (245 nel 1600) e definirono un articolato programma di studi che nel 1599 sarà codificato nella ratio studiorum (tre classi di grammatica, una di umane lettere, una di retorica e due di filosofia), fondata su una solida formazione umanistica, ma aperta a discipline quali la musica, il canto, la danza e il teatro. Con questo grande modello per la prima volta nella storia si realizza un dettagliato programma di studi allo scopo di formare nella maniera più omogenea possibile i futuri esponenti dei ceti dirigenti dell'Europa cattolico. Essenziale nell'educazione gesuitica era il senso della disciplina e dell'obbedienza all'autorità. Durante i sette anni di studio e di internato nei collegi, i ragazzi venivano allontanati dalle famiglie e inseriti in una comunità separata e disciplinata, destinata a formare il carattere e a proteggerli dalle influenze negative presenti nella società esterna. Le scuole di villaggio si affermarono solo nel Settecento e i collegi d'istruzione superiore nel Cinquecento. Le università invece avevano un'origine più antica, erano una realtà estremamente elitaria ed erano in numero assai ridotto ed ubicate solo in alcune città. Fino alla fine del Cinquecento erano tre le Facoltà: Teologia, Giurisprudenza e Medicina. Fra Sei e Settecento in molte sedi venne creato anche il Magistero delle Arti, destinato a formare insegnati e basato sull'insegnamento di filosofia, scienze matematiche e fisiche, latino e retorica. Le più antiche università erano sottoposte all'autorità religiosa e solo debolmente controllate dallo stato (almeno fino a metà Cinquecento). All'inizio del Seicento i centri universitari europei si erano moltiplicati e differenziati ed erano quasi un centinaio. Nei paesi protestanti alle università venne quasi sempre attribuito il ricchissimo e prezioso patrimonio libraio. In Italia le Università di Napoli e Torino si affermarono fra Sei e Settecento. Gli studenti e i dottori laureati avevano un ruolo molto importanti ed erano i veri custodi delle università degli studi. Le singole Facoltà erano governate dai Collegi dei dottori che selezionavano e nominavano i docenti, presiedevano agli esami di laurea e percepivano le sportule (tasse) per gli esami e le lauree. Il rettore era eletto dagli studenti anziani. Gli studenti o le loro famiglie retribuivano direttamente, per lo più in natura, i docenti che si preoccupavano di alloggiare in casa propria e mantenere gli studenti iscritti ai loro corsi. Le lezioni si tenevano o nelle case dei docenti o nei locali dell'università e prevedevano: a) la dettatura dei trattati in latino, b) il commento, c) l'apprendimento e la ripetizione mnemonica, d) nel caso delle discipline mediche il teatro anatomico o chimico, e) nel caso di discipline teologiche, filosofiche e giuridiche le dispute fra studenti e maestri sul passo d'autore. Al docente si affiancava spesso il ripetitore, incaricato di far ripetere a memoria i testi agli studenti fino all'apprendimento. Momento conclusivo del percorso era la dissertazione finale, ossia la prova che consentiva di riconoscere la validità dell'apprendimento. Il candidato si presentava di fronte al Collegio dei dottori che gli ponevano uno o più quesiti; si apriva la discussione nel corso della quale il candidato era tenuto a rispondere in latino; conclusa la discussione il candidato, se accettato, veniva proclamato dottore. Solo col Settecento si passa alla dissertazione scritta: si chiedeva una tesi da svolgere per iscritto in un tempo determinato lasciando lo studente libero di consultare i libri della biblioteca; la dissertazione era presentata all'esame del Collegio dei
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