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Gianbattista Vico SCIENZA NUOVA, Schemi e mappe concettuali di Storia Della Filosofia

Vico procede per catene associative, ricche e complesse, e le immagini non possono essere ricondotte a significati univoci. Mentre la dipintura appare già nell'edizione del 1730, solo nell'edizione del 1744 vi è nella pagina del titolo un'altra figura allegorica.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

In vendita dal 07/11/2022

NottoladiMinerva95
NottoladiMinerva95 🇮🇹

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Scarica Gianbattista Vico SCIENZA NUOVA e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! Gianbattista Vico SCIENZA NUOVA (1744) LIBRO I: Dello stabilimento dei principi LIBRO II: Della sapienza poetica LIBRO III: Della discoverta del vero Omero LIBRO IV: Del corso che fanno le nazioni LIBRO V: Del ricorso delle cose umane nel risurgere che fanno le nazioni SPIEGAZIONE DIPINTURA – INTRODUZIONE La dipintura è una tavola allegorica, progettata da Vico come summa figurativa dell'opera e fatta realizzare dal pittore barocco Domenico Antonio Vaccaro. Essa si rivolge alla fantasia e anticipa e richiama il contenuto dell'opera. Vico procede per catene associative, ricche e complesse, e le immagini non possono essere ricondotte a significati univoci. Mentre la dipintura appare già nell'edizione del 1730, solo nell'edizione del 1744 vi è nella pagina del titolo un'altra figura allegorica. Vico non la commenta, ma la donna dalle tempie alate ricorda quella della dipintura e va quindi interpretata come personificazione allegorica della metafisica. Il motto Ignota latebat ("sconosciuta si nascondeva") indica la novità della metafisica vichiana. Nella dipintura la donna dalle tempie alate è la metafisica, che sovrasta il mondo della natura. Oggetto della metafisica è innanzitutto Dio, rappresentato da un triangolo luminoso con un occhio, simbolo della provvidenza. Ma attenzione: quella di Vico non è una metafisica della natura, ma una metafisica del mondo civile. Elemento centrale e trait-d'union degli elementi è il raggio della divina provvidenza, che illumina il gioiello convesso sul petto della donna (ovvero il cuore puro che deve avere per contemplare Dio). Lo sguardo vivificante di Dio dà al cuore della metafisica la forza perchè essa possa guardare nell'occhio di Dio e lì rispecchiarsi e conoscersi. Il raggio si riflette al di fuori, perchè la metafisica conosca Dio nelle cose morali pubbliche, e cambia direzione, così come la nuova scienza di Vico cambia direzione rivolgendosi al mondo degli uomini, che viene illuminato dalla luce divina. Il raggio dà quindi luce alle origini delle nazioni passando attraverso la statua di Omero, primo autore della gentilità. La base rovinosa della statua allude all'infondatezza della dottrina tradizionale riguardo la sapienza poetica degli antichi, che non fu riposta, ma volgare, espressione spontanea della sensibilità e della fantasia dei primitivi. I miti pagani vanno interpretati come documenti che ci fanno conoscere il mondo dei primordi. Le nubi oscure sul fondo significano le origini inizialmente oscure della civiltà, che si vanno chiarendo sotto il raggio della provvidenza con la scoperta della vera natura della poesia arcaica e del vero Omero. Il globo mondano è sovrastato dalla metafisica, che naturalmente si slancia al di là del mondo fisico. Il globo è sostenuto dall'altare in una sola parte, visto che i filosofi avevano finora contemplato la provvidenza solo per l'ordine naturale. Da qui la necessità di una "teologia civile ragionata della provvidenza", ovvero una considerazione razionale del modo in cui Dio provvede al mondo civile. Nella fascia dello zodiaco che ginge il globo mondano compaiono i segni del Leone e della Vergine. Il Leone allude al leone nemeo, ucciso da Ercole, che morì vomitando fuoco cosicchè la selva fu disboscata e coltivata. Con l'agricoltura ebbe origine anche la numerazione degli anni, fatta dai greci in riferimento alle Olimpiadi (che ricordano la fatica di Ercole). La Vergine ha una corona di spighe e allude anche lei all'agricoltura: il frumento è il vero oro dell'età dell'oro o età di Saturno (nome legato a "satus" = seminagione). Krònos è Saturno, ma anche il tempo. Insomma entrambi i segni zodiacali alludono al passaggio dalla natura alla cultura e alla storia umana. I tre principi fondamentali del "mondo di nazioni" sono: religioni, matrimoni, sepolture. Mentre i geroglifici che li rappresentano sono l'altare, vari oggetti che vi si trovano sopra e l'urna cineraria. Questi tre principi sono gli elementi fondamentali del "senso comune". L'altare rappresenta quindi le religioni, in quanto il mondo civile iniziò ovunque con le religioni. Sopra l'altare si trova un bastone ricurvo (lituo/verga), simbolo della divinazione: infatti le religioni primitive erano fondate sulla divinazione attraverso pratiche augurali. Vico distingue tra religioni dei gentili e degli ebrei, e scopo della Scienza Nuova è appunto spiegare l'origine delle civiltà pagane dal punto di vista della vera religione Cattolica. La "storia universal dei gentili" ebbe inizio col Diluvio Universale, quando "per uniformità di idee vari popoli gentili videro nei fulmini e tuoni segni di tanti Giovi". Vicino al bastone si vedono il fuoco e l'acqua, contenuta in un urciuolo. accordarono loro una legge agraria (la prima legge civile del mondo). Nacque perciò lo stato delle città, successivo a quello delle famiglie. I famoli nello stato di famiglie divengono ora plebei delle città. La ricostruzione vichiana delle origini è ispirata a quella romana arcaica e per avvalorare la tesi della nascita autoctona del diritto presso ogni nazione, si oppone all'idea della sua "importazione" da Atene. Importanti conquiste giuridiche della plebe furono la legge delle XII tavole, la Publilia e la Petelia. La spada ci dice che il diritto eroico fu diritto della forza, regolata dalla religione. Achille ne è il simbolo, e i duelli dei tempi arcaici erano una sorta di appello al giudizio provvidenziale di Dio. Dalle guerre private sorgono quindi le guerre pubbliche, di cui è simbolo la spada. I geroglifici della borsa e della bilancia alludono all'ultima fase della civiltà, in cui non ci sono nè dèi nè eroi, ma solo uomini. La borsa simboleggia i commerci. Mentre l'origine delle monete coniate va ricercata nelle armi gentilizie, nelle insegne militari e nelle medaglie. Bilancia e caduceo rappresentano i rapporti politici e giuridici di un mondo totalmente umano. La bilancia è l'uguaglianza civile, propria delle repubbliche popolari sorti dopo gli stati aristocratici. Altra forma di stato propria di questo mondo umano sono le monarchie, nate per porre fine alle guerre civili scoppiate nel frattempo. Nel mondo civilizzato si passa vicendevolmente da democrazia a monarchia. Il caduceo di Mercurio simboleggia soprattutto il diritto di guerra, che termina con la pace. Sebbene Vico ci dica che è l'ultimo geroglifico, scorgiamo in realtà anche il pètaso: cappello alato, attribuito al medesimo dio. Trovandosi nel lato opposto dell'altrettanto alata metafisica, si può supporre che alluda all'ambiguità della storia e al rischio incombente di un ricorso nella barbarie. Finito il commento alla dipintura, Vico ribadisce che la sua nuova scienza è una metafisica che, partendo da un fondamento onto-teologico, si rivolge alle origini della civiltà e stabilisce un sistema del diritto naturale delle genti che procede per l'età degli dèi, degli eroi e degli uomini. A tale tripartizione sono legate altre tripartizioni (trattate nel libro IV) relative ad aspetti del mondo degli uomini nelle rispettive età. Innanzitutto collega tale tripartizione a variabili politiche: nell'età degli dèi ci fu una sorta di teocrazia fondata su auspici e oracoli, nell'età degli eroi i padri costituirono repubbliche aristocratiche considerandosi superiori ai plebei, infine nell'età degli uomini tutti si riconobbero di uguale natura e sorsero perciò democrazie e monarchie. Alle tre età associa tre specie di lingue e giurisprudenze. La genialità di Vico è nell'avere indicato nel linguaggio la dimensione dell'esperienza umana e nell'aver dato grande rilevanza alla scrittura. Di più, lingue e lettere nascono e si sviluppano in simultanea, contro il parere dei filologi secondo cui nacque prima la lingua verbale. La Scienza Nuova si configura quindi come una considerazione pancronica dei linguaggi anche non verbali, e proprio dei linguaggi visivi ne rivendica l'importanza. Il linguaggio è quindi indagato in legame con l'esperienza religiosa e giuridica. La prima lingua, nel tempo delle famiglie, fu muta. La seconda, nell'età degli eroi, si parlò per imprese eroiche, per similutidini, immagini, metafore. La terza fu invece una lingua umana ed è qui interessante notare che, una volta scritte, le leggi non dipendono più dall'arbitrio dei padri-sacerdoti, ma sono una conquista delle plebi. Emblematico il caso delle XII tavole. Tale tripartizione linguistica è confermata anche dalle tre lingue che gli egizi dissero essersi parlate: la geroglifica, muta, sacra e segreta, convenevole alle religioni; la simbolica, per somiglianze; la pistolare, ovvero quella volgare, per gli usi di vita quotidiana. Da questo punto di vista si assiste quindi alla progressiva secolarizzazione del linguaggio: da un uso sacrale si passa a essa come strumento per trasmettere messaggi. A tali tre lingue Vico associa quindi tre forme di giurisprudenza. La prima è una teologia mistica, ovvero un diritto creduto di origine divina e amministrato da sacerdoti. La seconda è una giurisprudenza eroica, caratterizzata da un solenne formalismo. La terza è l'equità naturale fra uomini, fatta valere nelle democrazie e monarchie. Anche qui si assiste quindi a una progressiva secolarizzazione, umanizzazione e razionalizzazione. La Scienza Nuova si può considerare anche come un'estetica, se vista come dottrina della sensibilità (àisthesis = sensibilità) e più in generale dell'esperienza. L'estetica di Vico è anche un'antropologia del mondo primitivo. Infatti i primi popoli furono poeti, che parlavano per caratteri poetici o generi fantastici: ovvero immagini (di sostanze animate, dèi, eroi) formate dalla fantasia dei primitivi. Queste immagini sono le "parole" della lingua fantastica, propria dell'età degli dèi e degli eroi. Qui la tripartizione vichiana sembrerebbe rimandare a una bipartizione, di fantasia e ragione. La mitologia antica è una sorta di lingua della fantasia, ma che è espressione spontanea di una realtà storica e di sapienza volgare. Le sentenze poetiche di questi uomini dalla grande fantasia e deboli di raziocinio erano espressione di grandissime passioni e risveglianti la meraviglia. La lingua originaria fu poetica, nel senso che si parlò prima in versi e solo più tardi in prosa. Nel terzultimo capoverso introduttivo riassume il significato di molti geroglifici della dipintura, associandoli alle tre età appena descritte. L'altare, simbolo delle religioni, simboleggia anche l'origine del mondo civile, che nasce con le religioni. Il lituo, l'acqua, il fuoco, l'urna, il timone, l'aratro sono riportati tutti all'età degli dèi. La tavola degli alfabeti divide i geroglifici divini da quelli umani, che includono sia i simboli dell'età degli eroi che quelli dell'età degli uomini. Questo passaggio tra i geroglifici eroici e umani potrebbe essere indicato dall'interno della borsa, che segna il passaggio dalle divise, insegne, e medaglie (degli eroi) alle monete (degli uomini). Negli ultimi due capoversi propone altre due somme della dipintura. Prima la rilegge dall'alto in basso, interpretandola in relazione alla struttura dell'opera. La parte alta è quindi associata al Libro I, in cui le tenebre sono la materia incerta di questa scienza che si propone nella Tavola cronologica e nelle Annotazioni. Il raggio rappresenta invece gli Elementi, Principi e Metodo. Vi è insomma un rapporto di materia e forma (oscurità e luce) tra le due parti del Libro I, il più importante da un punto di vista metodologico. Come contenuti è il Libro II il più rilevante, cui si collega come un'appendice il Libro III. In essi si tratta della sapienza poetica, oggetto della Scienza Nuova in quanto antropologia delle origini del mondo civile. Il raggio che giunge alla statua di Omero è la luce che si dà alla Sapienza poetica. Il Libro II ricostruisce una peculiare enciclopedia dei saperi di questa sapienza arcaica ed è un'analisi delle forme primordiali di linguaggio, pensiero, esperienza. Il Libro III applica i principi della sapienza poetica alla questione omerica. Dalla scoperta del vero Omero sono poste in chiaro tutte le cose che compongono questo mondo di nazioni. Il Libro IV si occupa del Corso delle nazioni. Aggiunge poco, limitando a sistematizzare il tutto in una serie di triadi dedicate ai vari aspetti del mondo umano nelle tre età. Il Libro V è più interessante e tratta del Medioevo e più in generale del ricorso. L'ultimo capoverso è una nuova possibilità di interpretazione della dipintura. Ritroviamo i tre mondi: metafisico, naturale, civile. Ma qui ordinati nel modo in cui le menti umane si sono volte al cielo, ovvero dal basso in alto. L'ordine va quindi dal mondo delle nazioni, al mondo della natura, fino al mondo delle menti e di Dio. LIBRO I Dello stabilimento dei principi Tavola Cronologica e Annotazioni La tavola cronologica abbraccia un periodo di circa due millenni: 1500 anni prima della fondazione di Roma (753 aC) e circa 500 dopo. La numerazione degli anni è data in riferimento alla creazione del mondo e alla fondazione di Roma (penultima e ultima colonna). Di Gesù non si parla quasi mai e i rimandi biblici sono naturalmente all'Antico Testamento. La sua non è una filosofia cristiana della storia, ma una ricerca antropologica sulle origini delle civiltà presso i pagani.Vico ripristina la cronologia biblica tradizionale rispetto a chi, tra i contemporanei, sosteneneva che il mondo fosse più antico, mettendo in dubbio la veridicità del Genesi. Fissa la creazione a circa 6000 anni fa, ma narra dal periodo tra il diluvio universale e la seconda guerra punica (200 a.C.). La tavola espone il I "fondamenti delle confutazioni" criticano le fallacie e i pregiudizi che non hanno permesso una vera scienza delle origini delle nazioni. Il loro scopo non è meramente distruttivo, in quanto i difetti della mente umana sono almeno in parte produttivi. D1: "l'uomo fa regola dell'universo la propria mente rovesciata nell'ignoranza". È un pregiudizio antropomorfico (idola tribus). Ma tale ignoranza naturale svolse in tempi remoti una funzione positiva: perchè proiettando il loro modo di essere sul mondo, gli uomini elaborarono religioni caratterizzate da animismo, divinazione, superstizione, ecc. Furono il modo provvidenziale con cui essi cominciarono a dare un senso al mondo e a formare le prime società. D2: "delle cose non conosciute, gli uomini si fanno un'idea partendo da quelle conosciute". Di questa tendenza a ricondurre l'ignoto al noto e l'estraneo al familiare (idola specus), distingue due forme riguardanti la conoscenza delle origini del mondo umano: la boria delle nazioni e dei dotti. D3: "la boria delle nazioni consiste nella presunzione di aver trovato prima delle altre nazioni le cose utili della vita e aver conservato la memoria fino al principio del mondo". Una presunzione fondata solo nel caso degli ebrei, ma che ne restarono indenni poichè vissero nascosti. Caldei, sciti, egizi, cinesi sono tutti da lui considerati vanagloriosi. Idola fori. D4: "la boria dei dotti consiste nella pretesa che quanto sanno sia antico quanto il mondo". Essi attribuiscono la sapienza a personaggi leggendari come Zoroastro o Ermete, e pretendono di trovare significati mistici nei geroglifici e allegorie filosofiche nei miti greci. Idola theatri. D5: "la filosofia deve sollevare e reggere l'uomo, caduto e debole per il peccato originale, non stravolgerne la natura o abbandonarlo nella corruzione, come fanno gli stoici e gli epicurei". Essi sono filosofi individualistici, a cui contrappone filosofi politici e platonici, che convengono sulla provvidenza divina, la necessità di moderare le passioni e l'immortalità delle anime. E questi tre punti sono i tre principi della sua Scienza: religione, matrimoni e sepolture. In questo brano alla filosofia non è correlata la filologia, ma la legislazione. D6: "la filosofia considera l'uomo quale deve essere". D7: "la legislazione considera l'uomo quale è". La filologia è caratterizzata allo stesso modo del filologo Tacito, mentre la filosofia è associata al nome di Platone. Ma siccome la filosofia è utile a pochissimi, occorre la saggezza pratica della legislazione che riesce a fare buoni usi in società dei vizi degli uomini. Dietro a ciò si cela l'opera della provvidenza, divina mente legislatrice. D8: "le cose fuori dal loro stato naturale non durano". La natura umana è socievole, da che si ha memoria l'uomo ha vissuto convenientemente in società. L'uomo ha un libero arbitrio, ma debole, ed è aiutato naturalmente con la divina provvidenza e soprannaturalmente dalla grazia. La distinzione dei modi in cui Dio interviene nella storia coincide con quella tra storia sacra e profana. D9: evidenzia la sfasatura cronologica tra il momento del certo e del vero nella storia dell'umanità. Qui la nozione di certo sembra più l'erede del verosimile, che non del fatto. *D10: "la filosofia contempla la ragione, da cui viene la scienza del vero. La filologia osserva l'autorità dell'arbitrio umano, da cui viene la coscienza del certo". In rapporto al vero compare la ragione; in rapporto al certo l'autorità dell'umano arbitrio. Insomma, coglie il rapporto tra certo e vero nella loro integrazione simultanea nella nuova scienza. In relazione al certo si parla qui di filologia (e non legislazione), nel senso ampio di storia delle cose. Usa quindi i verbi accertare e avverare come ponti: dal vero della filosofia al certo della filologia, e dal certo della filologia al vero della filosofia. Questa scienza nasce così da finalità sia teoretiche che pratiche. Finora hanno mancato per metà i filosofi, che non accertarono le loro ragioni con l'autorità dei filologi, e per metà i filologi che non cercarono di avverare le loro autorità con la ragione dei filosofi. Le tre degnità seguenti sviluppano il tema del libero arbitrio introducendo il senso comune, che si forma col passaggio dall'arbitrio individuale alla condivisione di credenze e valori. D11: "l'arbitrio umano si accerta e determina col senso comune." D12: "il senso comune è un giudizio senza riflessione, comunemente sentito da una collettività". D13: "idee simili nati da popoli che non si sono incontrati devono avere un comune motivo di vero". Insomma, ci dice come risalire dal certo al vero attraverso un'indagine comparativa. La nuova scienza si volge al senso comune, criterio insegnato dalla provvidenza (per vie naturali) per definire il certo riguardo al diritto naturale delle genti. Vico introduce le nozioni di diritto naturale delle genti (struttura profonda del diritto di ogni nazione), dizionario mentale (struttura profonda di ogni lingua) e storia ideale eterna (struttura profonda di ogni storia nel tempo). Imparentate tra loro, esse designano l'orizzonte di universalità al quale la Scienza Nuova aspira. Inoltre il diritto nacque spontaneamente presso tutti i popoli, senza influenze reciproche. D14: "la natura delle cose è la nascita di esse in certi tempi e modalità". D15: le proprietà sostanziali delle cose dipendono dal modo della loro nascita. Le degnità 16-22 contengono i "fondamenti del certo", ossia quali dati filologici devono essere presi in considerazione e interpretati dalla nuova scienza vichiana: le tradizioni volgari, i parlari volgari e in primis quelli di lingua di nazione antica conservatasi in forma originaria, monumenti giuridici come la legge delle XII Tavole o poetici come i poemi di Omero. Tali dati filologici contribuiscono a ricostruire una lingua mentale comune a tutte le nazioni che renda conto dell'unità profonda e della diversità di superficie delle varie lingue. Le degnità particolari (23-114) sono dedicate ad argomenti specifici. Una prima parte riguarda soprattutto la religione e la poesia, la seconda si concentra invece più su storia e diritto. D23-27: due storie post-diluviane. La prima è sacra, più antica, e la cui verità fa valere contro la boria delle nazioni: è la storia degli ebrei, la cui religione fu fondata dal vero Dio sul divieto della divinazione. L'altra è la storia dei gentili, che diventarono giganti, simili ai selvaggi della Patagonia di cui raccontano gli esploratori del Nuovo Mondo o ai Germani di cui raccontava Tacito. D28-30: riferendosi a testimonianze egiziane, greche (Omero) e latine (Varrone), ci dicono che la prima età del mondo fu quella degli dèi e la prima lingua fu divina. Il mondo dei popoli cominciò ovunque con la religione, primo dei tre principi della Scienza Nuova. D31: la religione, anche se falsa, è l'unico mezzo per ricondurre i popoli inselvatichiti ai costumi umani. È la stessa provvidenza a permettere di essere intuita in modo fantastico, per risvegliare in essi un'idea seppur confusa della divinità. E le degnità successive presentano proprio la religione pagana come antropomorfica, animistica, idolatrica, superstiziosa, fantastica, poetica. D32: "gli ignoranti pensano che la calamita sia innamorata del ferro", e così facendo riprende la D1 e il pregiudizio antropomorfico. D33: "la fisica degli ignoranti è una volgare metafisica, che salta le cause seconde e riconduce tutto alla divinità." D34:" una volta sorpresi da una spaventosa supertizione, gli uomini rimandano tutto a essa" D35-36: "la meraviglia è figlia dell'ignoranza e la fantasia è tanto più robusta quanto è debole il raziocinio". Qui seguono le degnità dedicate alla poesia, nel senso di mitopoiesi o produzione fantastica. linguaggio si rivolge alla vista e corrisponde alla lingua dei geroglifici, a cui seguì la locuzione poetica per immagini, somiglianze, comparazioni. D58-59: "i muti e i balbuzienti riescono a cantare meglio che a parlare. Quei primi uomini, degenerati in bestie mute e risvegliati dal torpore sotto la spinta di violente passioni, formarono le prime lingue cantando". Insomma, la forma primitiva di linguaggio verbale è il canto. D60: "le lingue devono aver cominciato da monosillabi" e suoni onomatopeici. L'evoluzione dalla poesia alla prosa è interpretata come passaggio da un verso più lento a uno più veloce e più somigliante alla prosa. Altre degnità sul linguaggio introducono ora il tema della storia, con una breve riflessione filosofico-etimologica. D63: la mente primitiva si rivolge alla dimensione corporea, proiettandovi la propria natura. D64: "l'ordine delle idee deve procedere secondo l'ordine delle cose", ma l'ordine delle idee è testimoniato dalla storia delle parole che corre parallela all'ordine delle cose. D65: "l'ordine delle cose umane procedette dalle selve, ai tuguri, ai villaggi, alle città, alle accademie. Dunque la parola lex, che ebbe origini selvagge, significò dapprima raccolta di ghiande, poi raccolta di legumi e infine legge scritta." Vico dedica ora le degnità 66-96 ai principi della storia ideal eterna, sulla quale corrono nel tempo tutte le nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini. D66: "gli uomini prima sentono il necessario, poi badano all'utile, avvertono il comodo, poi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso e si scatenano nel dilapidare i patrimoni". È questa la parabola paradigmatica del corso della storia. D67: "analogamente la natura dei popoli prima è cruda, severa, benigna, delicata, infine dissoluta." D68: illustra la parabola storica dei tipi umani con esempi tratti dal mondo antico: polifemi, Achilli, Aristidi e Scipioni, Alessandri e Cesari, Tiberi, Caligoli, Neroni e Domiziani. A essi corrispondono sul piano statale: lo stato delle famiglie, repubbliche di forma aristocratica, quelle in cui vige la libertà popolare, fondazione delle monarchie, loro consolidamento e rovina. D69: afferma la necessità di una correlazione tra forme di governo e natura degli uomini. Le degnità 70-83 ripropongono i momenti rappresentati dalla dipintura (in particolare fascio e timone). Dopo l'erramento ferino post-diluviano vi furono due ondate di incivilimento: quella dei padri e quella dei famoli. I primi, come testimoniano le tradizioni volgari, furono a un tempo sapienti (di sapienza volgare), sacerdoti (della religione basata su divinazione) e re (nell'ambito della famiglia). Ma famiglie vere e proprie sono soltanto quelle di cui fanno parte anche i famoli, coloro cioè che furono accolti e protetti dai padri. Di qui l'origine dei benefici: ossia dei feudi, delle clientele. E di qui anche l'origine delle repubbliche, per natura aristocratiche, quando i padri si unirono per resistere alla rivolta dei famoli. I padri concessero la prima legge agraria del mondo per accontentare i famoli ammutinati. Essa accordava loro solo un dominio precario e personale, quello bonitario. I primi conflitti di classe della storia, nell'età degli eroi, sono così ricostruiti ripensando le lotte fra patrizi e plebei a Roma. A presentare nel giusto aspetto la storia romana sono le degnità 84-91 (e in parte fino alla 94), in cui Vico fa tuttavia anche riferimento alla filosofia politica di Aristotele. I principi dell'eroismo romano sono per Vico l'esempio migliore dell'età degli eroi. Le degnità 95-96 chiudono il ciclo dedicato alla storia e presentano nuovamente, e in forma lapidaria, il corso della storia ideal eterna dalle repubbliche aristocratiche a quelle popolari fino alle monarchiche. "Gli uomini prima desiderano uguaglianza, poi si sforzano di superare gli uguali, infine vogliono calpestare le leggi. È a questo punto che dalla tirannide delle anarchie sorgono come rimedio le monarchie." Le degnità 97-103 prendono il via dalla protostoria dei pagani, con gli uomini che dopo il diluvio abitarono sopra i monti. Perciò i viaggi per mare e la fondazione di colonie arrivano solo più tardi. Di qui anche la possibilità di un'altra origine etimologica delle parole straniere. La sua Napoli ebbe per esempio non solo il nome greco Partenope, ma anche quello fenicio ("siriaco") di Sirena. D103: postula l'esistenza di un'antica colonia greca nel Lazio, distrutta e dimenticata in seguito, che spiegherebbe la presenza di elementi greci nella cultura latina arcaica. L'ultimo gruppo di degnità, 104-114, sviluppa alcuni temi delle degnità generali in riferimento al campo specifico del diritto. Il "diritto" è per Vico l'insieme dei costumi e delle regole di convivenza delle comunità umane. "Il diritto naturale delle genti è ordinato dalla consuetudine, nato coi costumi umani sorti dalla natura comune delle nazioni. Tale diritto conserva la società umana. E ne segue che la natura umana è socievole". Tale soluzione del diritto naturale è congruente coi principi cattolici del peccato originale, grazia e libero arbitrio (con cui contrastano le teorie giusnaturaliste). Inoltre come del senso comune, anche del diritto naturale delle genti è ordinatrice la provvidenza. Una provvidenza che agisce per vie naturali, facendo leva sulla stessa natura degli uomini. Da qui la differenza del diritto naturale degli ebrei, delle genti e dei filosofi. *D106: "le dottrine devono cominciare da quando hanno inizio le materie che trattano. Essa è tanto fondamentale che era da proporsi tra le degnità generali" (anche per la contiguità tematica con le 14-15). Essa è in contrapposizione alle tesi di Grozio e Pufendorf che saltano il tempo delle famiglie, ovvero vi proiettano anacronisticamente una forma successiva di diritto. Le degnità 107-114 riprendono le nozioni di vero e certo, ripensandole nel campo del diritto. D111: definisce il "certo delle leggi" come "un'oscurità della ragione sostenuta dalla sola autorità" D113: definisce il "vero delle leggi" come "un certo lume di cui ci illumina la ragione naturale". Nella fase del certo, insomma, il diritto non ha ancora quella forma razionale che avrà nella fase del vero. Vico associa inoltre il certo alla "ragione stretta, della quale è regola l'uguaglianza civile", propria di un'età antica in cui conta solo il bene dello stato e ci si attiene alla lettera. Associa inoltre il vero alla "ragione benigna, regolata dall'uguaglianza naturale", connaturata alle ragioni ingentilite nelle quali vengono riconosciuti e fatti valere i diritti dei singoli individui, e in cui conta lo spirito della legge. Per Vico hanno quindi sbagliato i tre principi del diritto naturale delle genti, che hanno confuso l'uguaglianza naturale teorizzata dai filosofi e quella civile praticata nelle prime nazioni. Dei principi Vico ricorda che le degnità danno forma alle materie apparecchiate sulla Tavola Cronologica. Invita pertanto il lettore a prenderle come criterio per valutare quanto scritto sul mondo pagano: risulta così evidente da una parte la solidità e validità scientifica delle degnità, e dall'altra la confusa disorganicità e inefficacia conoscitiva di quegli scritti, le cui carenze filologiche e filosofiche sono messe in parallelo alla boria delle nazioni e dei dotti. Ma se l'erudizione libresca non getta luce sulla protostoria, essa non è comunque destinata a rimanere per sempre oscura: "in quella notte di tenebre, appare il lume eterno della verità: il mondo civile è fatto dagli uomini, per cui se ne possono trovare i principi nelle modificazioni della mente umana". Il passo è interpretato come applicazione al mondo della storia del principio del verum ipsum factum, formulato nel De Antiquissima come criterio di verità alternativo al cogito cartesiano ("io sono una cosa pensante"). Per Vico la verità indubitabile è la consapevolezza del concreto operare degli uomini nella storia. La mente In generale il metodo qui proposto può lasciare perplessi. Vico non ha la forma mentis di Cartesio o Spinoza. Ma l'esigenza di fondo è un'integrazione di ragione ed empiria, che solo in parte si realizza in Bacone (da lui chiamato Verulamio). Così i brevi capoversi dedicati alle prove filologiche sono un elenco di dati storici: le mitologie, gli elementi della lingua degli eroi, tradizioni popolari, il vocabolario mentale delle cose umano socievoli. L'ultimo capoverso fornisce un epilogo solenne al Libro I, richiamandone temi e istanze principali: l'impostazione umanistica, la finalità pratica-teoretica, i tre principi, il senso comune come criterio. LIBRO II Della sapienza poetica Il libro II occupa circa metà dell'opera. In esso compie una ricostruzione storico-antropologica del mondo arcaico, delle sue strutture di linguaggio e pensiero, mettendo in pratica quell'ermeneutica poetico-mitologica fin qui teorizzata. Prolegomeni L'introduzione argomenta la tesi secondo cui la sapienza originaria fu poetica, contrapponendosi alla pretesa dei dotti di ritrovare una sapienza riposta nei miti antichi. Della boria dei dotti Vico ne ricerca anche le cause, tra cui la principale nell'intenzione di "accreditare le riflessioni di questi filosofi con l'autorità della religione o la sapienza dei poeti". Il processo storico conduce quindi dalla poesia alla filosofia: "i poeti sono come il senso e i filosofi l'intelletto del genere umano." Vico insomma proietta sulla storia la tradizionale tesi filosofica secondo cui niente è nell'intelletto che prima non sia stato nel senso. Nel breve cap. I descrive la sapienza come "la facoltà che comanda tutte le discipline" e che deve perfezionare l'umanità dell'uomo, che è intelletto e volontà. "La vera sapienza deve insegnare la cognizione delle cose divine per condurre al sommo bene". Per lui la sapienza tra i gentili iniziò dalla musa: la nozione greca di mousikè abbraccia il complesso delle arti liberali e in un significato più stretto la musica e il canto, che hanno il primato. Ma Vico insiste sul carattere divino della musa: di tal sapienza furono sapienti i poeti teologi, "che fondarono l'umanità della Grecia". È lì che inizia la storia della sapienza e Vico la ricostruisce a partire dalla sapienza poetica, passando per la sapienza filosofica e arrivando infine alla sapienza teologica, qui nel senso di teologia rivelata. Vico distingue tre specie di teologie: poetica (dei poeti teologi e teologia civile delle nazioni), naturale (dei metafisici) e cristiana. Ed è alla luce di quest'ultima e alla provvidenza divina che Vico ricostruisce la prima fase della teologia (e sapienza) poetica. Il cap. II fornisce una sorta di indice commentato del libro II. E comincia con un riferimento alla sapienza dispiegata in forma filosofica, definendo la metafisica come la scienza sublime. Pertanto anche l'albero delle scienze dei primi sapienti gentili dovrà cominciare da una metafisica poetica (non ancora razionale), da cui si diramano da una parte logica, morale, iconomica e la politica; e dall'altra fisica, cosmografia, astronomia, cronologia e geografia. Si tratti dei saperi trattati nel libro II. La ricostruzione vichiana della sapienza poetica è fatta in riferimento alla forma di vita sociale di coloro che elaborarono quelle forme di sapere. I fondatori dell'umanità gentilesca con la teologia naturale s'immaginarono gli dèi, con la logica trovarono le lingue, con la morale generarono gli eroi, con l'iconomica fondarono le famiglie, con la politica le città, con la fisica stabilirono i principi divini delle cose, con la cosmografia si finsero un universo di dèi, con l'astronomia portarono in cielo i pianeti e le costellazioni, con la cronologia diedero principio ai tempi e con la geografia descrissero il mondo entro i confini. La classificazione vichiana sembra ispirata alla tripartizione tradizionale delle discipline filosofiche in: logica (e metafisica), etica, fisica. Ma sorge così un problema riguardo al posto della logica nell'albero vichiano. Infatti nella sezione dedicata alla logica sostiene una piena solidarietà di logica e metafisica, data la corrispondenza tra strutture dell'essere e del linguaggio. Ma in quel caso sarebbe più opportuno collocare la logica al fianco alla metafisica, nel tronco dell'albero della sapienza. Il primo ramo, esclusa la logica, comprende morale, iconomica, politica (e storia): lo potremmo definire etico. Il secondo ramo comprende invece i saperi fisici. Grazie alla sua impostazione storico-antropologica, la nuova scienza è "una storia delle idee, costumi e fatti del genere umano", ricostruita con un'interpretazione socio-politica della mitologica greco-romana. Il cap. III racconta del diluvio universale e dei giganti. Dopo il Diluvio molti rinunciarono alla vera religione di Noè, dissolsero i matrimoni e si dispersero lungo la Terra in uno stato bestiale per scampare dagli altri animali e inseguire le donne. I figli, abbandonati dalle loro madri, crebbero senza apprendere i costumi umani e finirono anche loro in uno stato bestiale. Tale degenerazione riguarda anche i corpi, deformi e giganteschi a causa di una sorta di autoconcimazione e relativo sforzo fisico. Infatti le madri dovettero solo allattare i bambini, per poi lasciarli rotolare nudi nei loro escrementi e abbandonarli per sempre. Rotolandosi, si autoconcimavano e la dilatazione dei muscoli faceva meglio assimilare le sostanze fertilizzanti (sali nitri), e così si ingrandirono le carni e le ossa. Della corporatura gigantesca di questi uomini-bestioni Vico porta come prove il confronto con popolazioni selvagge di cui ha testimonianze (antichi Germani e abitanti della Patagonia), nonchè una prova paleontologica: le ossa e i teschi giganti rivenuti sopra i monti (dove l'acqua, dopo il Diluvio, si ritirò prima). Altre prove sono tratte dalla storia delle lingue. Termini come aborigeni, autoctoni, indigeni denotano i giganti come "figli della Terra". Il termine ingenui (collegato a indigenae) passò poi a significare i nobili e liberi (e le loro attività: le arti liberali), quando le prime città si composero di giganti "nobili" (i padri, divenuti patrizi). Altre speculazioni etimologiche riguardano i lavacri e le purificazioni con l'acqua, e si spinge a collegare la pulizia e il greco politèia, ovvero il governo civile. Il capitolo si conclude ribadendo che il primo mondo fu composto da ebrei, di giusta corporatura, e di giganti, autori delle nazioni gentili. Ma gli stessi giganti vanno a loro volta distinti in due specie, corrispondenti alle due ondate di incivilimento: una di figli della Terra, i nobili che diedero il nome all'età dei giganti; l'altra dei giganti signoreggiati. Della metafisica poetica "I filosofi e filologi dovevano cominciare le riflessioni sui gentili dai giganti". La metafisica è la scienza che ottiene "le prove dei principi del mondo civile nelle modificazioni della mente", quindi partendo dalla storia post-diluviana dei gentili, in una sorta di infanzia dell'umanità. La sapienza poetica, prima sapienza della gentilità, dovette cominciare da una metafisica poetica, sentita e immaginata, un'esperienza dell'essere in generale e dell'Essere supremo in particolare. Ma l'essere che potè venire esperito da quei primi uomini era il loro essere sensibile che attribuirono al mondo, divinizzandolo. La loro poesia è naturale, spontanea, figlia di ignoranza e meraviglia, divina perchè immaginavano e attribuivano le ragioni delle cose che sentivano a dèi. La poesia dei primi uomini dà quindi per la prima volta un senso al mondo. Se si vuol vedere un'applicazione del verum ipsum factum lo si fa così: dal greco poièo ("faccio") segue pòiesis ("poesia, o "produzione") e poietès ("poeta", "produttore"). L'uomo puo' imitare ingegnosamente il modello divino, costruendo per esempio il modello matematico o il mondo civile. Ma quest'ingegnosa mimesi si rivela ora quasi una parodia involontaria: Dio crea il mondo nell'atto stesso in cui lo conosce, mentre l'uomo produce il mondo umano grazie a una fantasia che ignora la vera natura delle cose. Tale creazione umana è sia poietica che poetica, sia produzione che poesia. Così vico riprende nozioni e dottrine della poetica e retorica tradizionali, ripensandole verso un'estetica antropologica. Il sublime vichiano per esempio è il prodotto volgare di una fantasia scossa da un evento naturale (come un fulmine) di cui ignora le cause. Non c'è un poeta filosofo che educhi i popoli, ma questi si educano da sè, con la loro poesia. Tre sono i compiti della poesia: "ritrovare favole sublimi comprensibili al popolo, perturbare all'eccesso e insegnare a operare virtuosamente". La prima e più grande favola divina è quella di Giove, descritta con tre aggettivi che esprimono i tre compiti: popolare, perturbante e insegnativa. La "favola divina" di Giove è l'espressione fondamentale della metafisica poetica. Disseccatasi la terra dopo il Diluvio, il cielo tornò a tuonare con A tale retorica originaria Vico risale con l'originale ripresa della "dottrina dei tropi". In retorica, un tropo è il procedimento con cui si modifica il significato di una parola facendole assumere un significato figurato. Ma siccome nel linguaggio fantastico dei primitivi, primario è quel significato che definiremmo figurato, parlare di tropi assume un senso peculiare. È come se fa un tropo della nozione di tropo per risalire al linguaggio e pensiero di quei bestioni. Infatti il linguaggio è in origine metaforico. Dei primi tropi "la più luminosa è la metafora, che dà senso e passione alle cose più insensate" e "in tutte le lingue la maggior parte delle espressioni sulle cose inanimate sono fatte riferendosi al corpo umano". C'è analogia e opposizione tra la metafisica proiettiva e antropomorfica dei primitivi e quella dei filosofi: ovvero tra i modi in cui si compie (in ignoranza o conoscenza) la conversione metafisica di verum e factum. La comprensione razionale è un aprirsi dell'uomo alle cose, un penetrarle; mentre l'ignoranza provoca una proiezione della natura umana sulle cose, che non le fa conoscere nella loro vera natura, ma che produce però un mondo di senso. Dopo la metafora, Vico illustra la metonimia e la sineddoche. I primi uomini si esprimono con questi due tropi perchè nel loro linguaggio prevalgono il concreto e il particolare. Basta un esempio: l'espressione "tertia messis erat" per dire che era il terzo anno. La messe è un tipo particolare di raccolto ma li indica tutti (sineddoche), ed è qualcosa di concreto che serve per nominare un concetto astratto (metonimia). In origine i tropi non erano artifici consapevovli. La sineddoche "divenne un traslato con l'azarsi dei particolari agli universali" e "tutti i tropi sono stati i necessari modi di spiegarsi delle prime nazioni poetiche, non ingegnose scoperte di scrittori". Solo poi, con lo sviluppo del pensiero astratto, sono divenuti traslati. Vico intende quindi la propria opera ermeneutica come un risalimento all'origine dimenticata dei tropi stessi. Un caso diverso è quello dell'ironia, che non può essere attribuita ai primi uomini perchè presuppone la capacità di distinguere fra vero e falso, e consiste nel dire il contrario di ciò che si pensa. In fondo "così come i fanciulli sono veritieri, così le favole dei primi uomini non poterono dire nulla di falso, ma furono vere narrazioni", anche se ci appaiono false dal punto di vista dell'oggettività razionale. Come i tropi, anche i mostri e le trasformazioni poetiche provenivano dal fatto che i primi uomini erano incapaci di astrarre. Essi riconducevano perciò ogni proprietà o modificazione alle sostanze, che risultavano così mostruose poichè vi era una compresenza di nature contrarie. Per esempio "mostri sono figli partoriti da meretrice", perchè questi figli sono umani nell'aspetto, ma non umanamente generati poichè nascono da matrimoni non riconosciuti. Il fatto che si tratti di esempi di natura giuridica è una riprova della parentela di ambiti tanto distanti come poesia e diritto. Il cap. III sulla logica poetica fornisce esempi di "caratteri poetici delle prime nazioni". Sono caratteri eroici, quindi i personaggi storici o leggendari che qui interpreta come universali fantastici vanno collocati nell'età degli eroi. Le modalità di pensiero e linguaggio dell'età degli dèi si mantengono infatti in parte in quella degli eroi, per spingersi anche in quella degli uomini. Le nazioni nella loro boria hanno attribuito ai loro leggendari fondatori scoperte e teorie successive. Ne sono esempio: Ermete Trismegisto, Zoroastro, gli orfei, i pitagorici. Solone fu per esempio sapiente di sapienza volgare e il suo "conosci te stesso" è interpretato come rivendicazione di uguaglianza. Una personicazione delle rivendicazioni delle plebi dev'esserci stata in tutte le nazioni antiche. Nella Roma antica si trovano i leggendari sette re come caratteri poetici, a ciascuno dei quali fu attribuito quanto concerneva un certo ambito (per esempio, a Numa la religione). In Grecia Dracone personifica la severità delle leggi, invece Esopo è carattere poetico dei famoli (come Solone), pensa per favole ed è perciò espressione di una fase più arcaica. La favola pensa infatti per somiglianze ed esempi e precede il pensiero astratto, che nasce con l'induzione socratica: essa mira all'universale e si perfeziona con la sillogistica aristotelica. L'interesse di questi capoversi è nell'originale collegamento tra logica e storia civile delle nazioni antiche. Il cap. IV è dedicato alle origini del linguaggio, problema che trova nel '700 un rinnovato interesse. Vico mette subito in luce le carenze dei dotti, affermando che sulle origini delle lingue e delle lettere vi sono "tante opinioni quanti sono i dotti che vi hanno scritto". Opinioni che giudica incerte, superficiali, presuntuose, ridicole. I dotti considerarono separate le origini delle lettere da quelle delle lingue, quando in realtà sono congiunte. La lingua è per lui un sistema di segni (anche se non verbali), e la scrittura un sistema di segni visivi. Vico compie una grande quantità di associazioni linguistiche partendo dal latino nomen e dal greco nòmos, e collegando tra loro varie nozioni (nomi, fatti, leggi, monete, imprese, insegne), e dunque la logica poetica col diritto, economia, numismatica, araldica. Per lui tutte le nazioni per prima cosa si espressero attraverso segni visivi: gesti, cose e figure. Le prime nazioni pensano per caratteri poetici, parlano per favole e scrivono per geroglifici. I primi uomini grazie al loro ingegno spontaneo danno un senso alle cose per mezzo di immagini. La prima lingua fu geroglifica, divina. Dopo questo stadio naturale si produce una distinzione fra segni e cose. La seconda fu simbolica, per segni, per imprese eroiche. La terza fu pistolare per comunicare a chi sta lontano. Queste tre lingue sono espressione di forme diverse di società: delle famiglie, delle città, delle nazioni. Partendo dalle "parole" della prima lingua, sacra, ribadisce che va rovesciata la falsa opinione di chi crede che "i geroglifici furono invenzione di filosofi per nascondervi misteri d'alta sapienza riposta, come credevano gli egizi. Invece fu una naturale necessità di tutti i popoli primitivi parlare con geroglifici." Le "parole reali" dei geroglifici sono cose, cioè corpi (naturali o artificiali, es. animali o utensili) e al contempo segni. I primi uomini "parlano scrivendo", nel senso che si esprimono mostrando cose corporee o producendo gesti corporei. Quando interviene la consapevolezza di usare le cose in funzione di segni, si è già prodotto uno scarto fra segno e cosa e non vengono più percepiti come identici. Dunque non si tratta più di lingua divina, ma eroica. Parole o frasi della lingua divina sono invece quelle "favole" o miti con cui i primi uomini pensano e nominano la natura popolandola di divinità. Il secondo parlare nell'età degli eroi fu parlato per simboli. Se nella prima lingua vi è piena identità tra segno e cosa, nella seconda si produce uno scarto, si ha la percezione di una somiglianza che nella terza lingua condurrà alla retorica erudita e letteraria. Fra primo e secondo linguaggio vi è comunque continuità, essendo entrambi fantastici, pur cambiando gli ambiti: se nel primo tutto è ricondotto all'esperienza del sacro, nel secondo tutto è ricondotto all'esperienza eroica del valore militare, o all'esperienza cavalleresca nel ricorso della lingua eroica del Medioevo. Molto diverso è il terzo linguaggio, pistolare, dal greco epistolè (messaggio, lettera). In esso prevale la funzione strumentale, in quanto serve agli uomini a comunicarsi a vicenda anche da lontano ciò che loro occorre, in un mondo ormai desacralizzato. È umano nel senso di plebeo e corrisponde all'età degli uomini. Volgare nel senso di popolare, che fa valere un diritto dei popoli. Ed è in questo senso che è un linguaggio convenuto, nato da convenzioni. La scrittura propria di questa lingua è alfabetica. Questa terza lingua nasce in e in contrapposzione alla seconda, cioè rimanda al conflitto tra eroi e famoli, alla divisione in classi di nobili e plebei. Il passaggio alla terza lingua è un momento decisivo nella tendenza della storia umana verso una maggiore secolarizzazione, astrazione, razionalità, convenzionalità. I popoli nella loro varietà (dovute a condizioni climatiche) "hanno guardato le stesse necessità della vita con aspetti diversi". Ricostruire una struttura profonda soggiacente alle varie lingue è lo stesso che compilare un "dizionario mentale". Risulta difficile spiegare il passaggio dalla prima e seconda lingua alla terza, notevolmente diversa. Nel cercare una soluzione, Vico ripensa la tripartizione delle lingue in un senso più tipologico che storico. Ma la tendenza del linguaggio va dal mutismo all'articolazione e alfabetismo. Un possibile ponte di passaggio è l'onomatopea, che ha da un lato un carattere imitativo, e dall'altro natura vocale. La sua teoria dell'origine del linguaggio non concerne solo la forma (il modo in cui si parla), ma anche e soprattutto il contenuto. L'onomatopea esemplare è quella che nominò Giove, La morale poetica è un sapere che corrisponde ai primordi dell'umanità quando, col timore della divinità, si sviluppa il pudore e sorge la regolamentazione morale della sessualità coi matrimoni. Gli strumenti principali per la ricostruzione di questi periodi arcaici sono l'interpretazione di miti e la ricerca etimologica, soprattutto sul latino. Per i miti Vico si oppone a ogni interpretazione in chiave di sapienza riposta e vi scorge l'espressione di situazioni antropologiche, sociali e politiche. I miti sono il modo in cui gli uomini costruiscono il loro mondo, dandogli un senso. Sono "storici" nel senso che con essi gli uomini fanno la storia. Fra i personaggi mitologici che passa in rassegna in queste sezioni spiccano le 11 divinità maggiori dopo Giove, protagonista della Metafisica e Logica poetica, e a ciascuna di esse dà un significato principale. Giove: divinazione, Giunone: matrimoni, Diana: acqua, Apollo: luce civile, Vulcano: fuoco, Saturno: seminagioni, Cibele: terra coltivata, Marte: contese eroiche, Venere: bellezza civile, Minerva: aristocrazie armate, Mercurio: leggi agrarie, Nettuno: colonie oltremare. Il capitolo dedicato alla Morale poetica tratta delle origini delle virtù insegnate dalla religione coi matrimoni. L'immagine terribile di Giove fulminante atterrò menti e corpi dei giganti, rendendoli pii. Polifemo è la personificazione di questi giganti che posero fine al divagamento ferino, si nascosero nelle grotte e svilupparono una primitiva pietas, un sentimento religioso e morale. "La morale poetica cominciò dalla pietà, madre di tutte le morali. E la pietà cominciò dalla religione, ovvero dal timore della divinità". La funzione fissante della religione è confermatta dall'etimologia, religio: legare, incatenare. Le catene di Tizio e Prometeo vanno appunto interpretate in questo senso, mentre l'aquila che "divora il cuore e le viscere è simbolo della spaventosa religione degli auspici di Giove." Insomma, la morale originaria nasce dalla religione e riguarda principalmente la regolamentazione della sessualità coi matrimoni. "La virtù morale sorse dal conato volontario con cui i giganti frenarono i loro corpi, ponendo fine al loro erramento e promiscuità sessuale. Spaventati dal fulmine, ciascuno trascinò per sè una donna nella grotta, la resero compagna di vita e fecero uso della loro sessualità umana con pudicizia." Il pudore (morale e sessuale) è così l'altro vincolo (dopo il timore religioso) "che tiene unite le nazioni. E i matrimoni sono pudiche unioni carnali fatti col timore della divinità." Vico nomina tre sollenità che accompagnano i matrimoni: 1) gli auspici che li regolano (i "consorti" sono tali poichè compartecipi dei medesimi auspici e sorte) 2) velo delle donne, simbolo di pudore 3) "prendersi le spose con una forza simulata", in ricordo di quella vera con cui i giganti trascinarono le prime donne nelle grotte. Se Giove è la prima divinità, simbolo del primo principio della Scienza Nuova (le religioni), la divinità simbolo del secondo principio, i matrimoni, è Giunone, sorella e moglie di Giove (in origine i primi matrimoni solenni si originarono da fratelli e sorelle). Vico interpreta sempre la mitologia in riferimento a situazioni sociali: così la gelosia di Giunone è politica. E il mito di Giunone legata in aria con una fune a collo e mani, e sassi ai piedi, è immagine del matrimonio: esso avviene sotto gli auspici del cielo, le donne sono trascinate in caverne, e le nozze hanno la stabilità dei macigni. Etimologie arbitrarie e significative gli permettono di collegare Era (Giunone) con gli eroi, Eros, l'eredità ed Ercole. Più in generale, Vico delinea i mores della morale poetica dei primordi dell'umanità. "La pietà e la religione fecero i primi uomini naturalmente prudenti", forti, temperati, magnanimi. Sono le virtù dell'età dell'oro, ma mescolate di religione e cose immani, come sacrifici umani e l'antropofagia. Un'età dell'oro intrisa di "fiera supertizione", da cui sorserso tuttavia luminose nazioni, mentre con l'ateismo non ne nacque nessuna. Iconomica poetica I primi nuclei sociali sono le famiglie ristrette (genitori e figli), a cui seguono le famiglie allargate (con famoli) e infine le unioni di più famiglie nelle città. Nelle prime famiglie di giganti ebbe luogo un processo di umanizzazione dell'anima e del corpo, ad opera dei "padri eroi", sacerdoti, re e legislatori (ma solo del loro nucleo famigliare). Così Vico si oppone alla falsa credenza della sapienza inarrivabile degli antichi e di chi sosteneva che la prima forma di governo fosse stata la monarchia. L'età dell'oro fu "di orgoglio per la libertà, dallo stile di vita semplice e rozzo, e di naturale uguaglianza, in cui tutti i padri erano sovrani nelle loro famiglie, l'una isolata dall'altra, senza velleità di soggiogare l'altra". Il graduale addomesticamento dei giganti avvenne grazie alla religione, da cui nascono le prime forme di cultura e diritto. Anche l'educazione dei corpi procede con riti religiosi. Quelle corporature gigantesche "erano necessarie affinchè i bestioni potessero sopportare la durezza del clima e muoversi nelle selve". Nelle famiglie, formate col matrimonio, si trasmette il patrimonio: i padri lasciano ai figli il loro patrimonio in luoghi ben difesi, sulle alture dei monti, dove volano le aquile (legate da Vico alla divinazione e all'acqua delle fontane perenni, dove guidano col loro volo i primi uomini). L'acqua è anche elemento cerimoniale delle nozze, assieme al fuoco. La toponomastica conferma che i primi insediamenti si formano dove abbonda l'acqua: Pozzuoli è un esempio significativo all'interno del dizionario mentale della nuova scienza. All'acqua è legata anche la terza divinità maggiore, Diana, il cui mito con Atteone allude alla pudicizia del matrimonio. Ma l'origine delle famiglie è segnata anche dalla sepoltura, legata alla credenza universale dell'immortalità delle anime, nonchè alla delimitazione del territorio e alla trasmissione dei terreni per eredità ai discendenti. Quarta divinità è Apollo, dio della luce civile e della sapienza poetica, connesso al lustro della nobiltà e alla storia eroica. Anche al mito di Apollo e Dafne dà un senso socio-antropologico, con la donzella che, dopo aver errato, si ferma e si trasforma in alloro. Apollo ha sede sul monte Parnaso, dove abitano le muse. È infatti il dio fondatore dell'umanità e delle arti liberali, proprie degli uomini liberi, nobili. Ma siccome l'umanità cominciò anche dalla pratica del seppellire, Apollo è collegato anche al terzo principio delle sepolture. "Gli eroi, stando nelle loro terre, le ridussero a coltura per sfamare le famiglie". A ciò li spinse anche la religione, che gli suggerì di tagliare i boschi per poter meglio cogliere gli auspici in cielo. Una volta disboscate le selve col fuoco, i giganti si diedero quindi a coltivare. Alla nascita dell'agricoltura alludono alcune fatiche di Ercole, come quella della conquista della "poma d'oro" (le spighe) nei giardini delle Esperidi. La terra da ridurre a coltura è rappresentata come un animale che vomita fuoco. E intanto nota come la serpe sia una "parola" fondamentale nel dizionario mentale, ovvero un simbolo universale. Il frumento è perciò il primo oro del mondo. Oro che designa anche l'allevamento, infatti "le belle lane si dissero d'oro." All'origine dell'agricoltura alludono anche Saturno, Vulcano, Cibele (o Vesta). All'aratro Vico fa di nuovo riferimento, richiamando la successiva funzione nel tracciare il recinto delle città. Recinto che "in origine fu una siepe, delle cui erbe si adornavano gli altare e si coronovano gli araldi." Tutti gli araldi portavano queste corone ed erano perciò riconoscibili presso altre popolazioni. Il capitolo si conclude ribadendo il nesso tra religione e struttura famigliare: se viene meno la prima, cade anche la seconda. Per Vico, le famiglie dello stato "di natura" furono non solo di figli, ma soprattutto di famoli. A queste famiglie allargate (da cui si originano le città) è dedicato il cap. II, che si apre descrivendo la condizione insostenibile per le lotte tra giganti empi, rimasti nell'infame comunione di cose e donne. Una condizione simile allo stato di natura hobbesiano. Dunque la prima entrata nella società umana (l'origine dei matrimoni e delle famiglie), avvenne sotto la spinta simultanea degli stimoli della libidine bestiale e dei freni della religione. Mentre la seconda avvenne per motivi solo utilitari. Se la prima fu un'amicizia nobile e signorile, la seconda fu vile e servile, ed è l'unica che merita propriamente il nome di società (dai soci degli eroi). E la famiglia deve il nome ai famoli e alla fama che gli eroi acquistarono dominandoli e servendosene. In queste famiglie i famoli vivevano come schiavi. Ai nomi di soci e famoli Vico associa anche quello di clientes, che riconduce a cluer, splendore, poichè "rifulgevano con lo splendore delle armi che usavano i loro eroi." "Qui ebbero origine le clientele e i feudi", un'istituzione che ha il suo ricorso (e non la sua origine!) nel Medioevo. Come servi della gleba, i clienti furono "annodati" alle terre, e da questa loro funzione di "coloni" trassero il nome le prime colonie eroiche, continentali prima e marittime poi. Infine coi famoli ebbero origine i primi asili o ospizi. I personaggi mitologici principali connessi a questa fase della civiltà sono Marte e Venere. Marte è "carattere degli eroi e delle loro contese". I segni dell'agricoltura, della vita militare e della nobiltà sono collegati e hanno la stessa origine. Ingegnosa è l'interpretazione dell'occhio dei ciclopi: ogni gigante aveva infatti la sua radura aperta al cielo, il suo campicello rotondo. Venere è invece "carattere poetico della bellezza civile", la prima bellezza a essere apprezzata. La bruttezza civile è quella dei "rifuggiti" che divennero famoli: "uomini d'aspetto e bestie nei costumi." in questo senso interpreta i miti in cui appaiono mostri. Mostruosi furono anche considerati dai nobili eventuali connubi concessi tempo la storia del diritto naturale delle genti. Infatti col passaggio dalle famiglie alle città (con l'unirsi dei padri in ordini), sorge il diritto dei popoli. E il diritto naturale delle genti è per Vico divino, perchè fondato dagli eroi nell'età degli dèi e perchè corrisponde a quello ordinato da Dio. La storia dell'età degli eroi e delle loro città continua nel cap. VI. "Tutti gli storici fanno iniziare il secolo eroico con le piraterie di Minosse e la spedizione navale di Giasone". Nettuno è l'ultima delle divinità maggiori, perchè solo in una fase tarda della civiltà gli uomini scendono dai monti al mare, o viaggiano per mare. Vari miti greci sono interpretati in riferimento alle guerre per mare o alla pirateria. Il tridente di Nettuno è per esempio visto come un grande uncino per afferrare le navi. Allo stesso modo il minotauro è una nave corsara, e Arianna l'arte marinaresca che insegna col filo (della navigazione) come uscire dal labirinto (Mar Egeo). L'età degli eroi è segnata da una generale inospitalità dei popoli eroici. Sono ladroni, stranieri e nemici gli uni per gli altri e si fanno guerre continue con ladrocini e corseggi. Di questa condizione di guerra perpetua è esempio emblematico la storia dell'Iliade, coi 10 anni dell'assedio di Troia. Le guerra fra città degli eroi sono presentate come una continuazione e conseguenza delle lotte fra patrizi e plebei. In particolare a queste lotte alludono le "favole che contengono contese eroiche sugli auspici". Nello stesso senso Vico interpreta anche alcuni episodi dell'Odissea, come quello delle sirene o di Circe. I passeggeri (che s'addormentano o sono trasformati in porci) sono i plebei in lotta con gli eroi per conseguire da loro la compartecipazione agli auspici, ma restano vinti e puniti. Lo stesso schema interpretativo è applicato al mito di Vulcano (plebeo) azzoppato da Giove, o a quello di Fetonte che cade dal cielo perchè vuol portare via il carro d'oro del padre (cioè avere il dominio dei campi di frumento). Elementi comuni sono i mostri, che interpreta nel senso della natura discordante dei plebei: uomini d'aspetto, ma non considerati tali dai patrizi. E per diventare veri uomini, i plebei rivendicano il diritto di trarre gli auspici e contrarre nozze religiose. La conclusione del cap. VI ritorna al mare. A dare il nome di età degli eroi furono le contese eroiche, nelle lotte tra patrizi e plebei e nelle guerre tra città. Col riconoscimento della natura umana anche dei plebei si chiude l'età degli eroi e più in generale la sapienza dei poeti teologi. Il cap. VII è dedicato di nuovo (come il III e IV) alla storia di Roma arcaica. La tesi è che per i 400 anni dalla fondazione alla legge Canuleia, il popolo romano era fatto di soli nobili, era cioè uno stato aristocratico. Per questo Vico polemizza contro i sogni degli interpreti della storia romana. Sogni e illusioni legate al fraintendimento di tre parole: "popolo" che viene inteso dagli storici come comprendente i plebei, "re" inteso in senso monarchico quando intendeva reggitore, "libertà" che riguardava solo i nobili. Il cap. VIII infine lo dedica all'eroismo dei primi popoli, diverso da quello immaginato finora dai filosofi, che vi hanno proiettato idee di giustizia, gloria e desiderio di immortalità. Achille è presentato nell'Iliade come crudele con Ettore, per nulla interessato a raggiungere la gloria con un comportamento virtuoso, e anzi, desideroso della vita in terra. Dunque gli eroi antichi non furono benefattori dell'umanità. A favore della plebe romana non fecero nulla, contribuirono semmai ad angariarla. I principi dell'eroismo primitivo li enuncia con una formula che richiama un'arcaica tavola delle leggi: "l'educazione dei fanciulli sia severa e aspra. Si ottengano le mogli con doti eroiche. I figli acquistano, le mogli risparmiano per i mariti e padri. I giochi e piaceri siano faticosi. Si celebrino le schiavitù." Storia poetica La sezione è dedicata a ricapitolare le tre fasi raccontate nella Morale, Iconomica e Politica poetica: ovvero origini del matrimonio, delle famiglie e città. Affida il riepilogo a immagini (di un mito e due luoghi omerici) che restino impresse. Il mito è la favola di Cadmo, che "racchiude la storia divina ed eroica dei poeti teologi". La stessa storia è contenuta nella storia dello scettro, costruito da Vulcano, e dato da Giove a Mercurio (ovvero l'età degli eroi), e infine passato attraverso re eroici ad Agamennone. Inoltre lo scudo di Achille ha le immagini di due città: una rappresenta l'epoca delle famiglie eroiche coi figli nati da nozze solenni, l'altra l'epoca delle famiglie eroiche dei famoli. Entrambe rappresentano lo stato di natura, ovvero quello delle famiglie. Segue lo sviluppo delle istituzioni civili nella prima, poi la lotta con l'altra città ribelle e infine la storia delle arti dell'umanità (agricoltura, pane, vino, pastorizia, architettura urbana, e danze). Fisica poetica Le ultime sezioni rigurdano l'altro ramo del tronco metafisico poetico, in cui la sapienza poetica si dirama nella fisica, cosmografia e astronomia, di cui sono frutti la cronologia e la geografia. Ma questo ramo non considera la natura a prescindere dall'uomo. Anzi, per i primi uomini la natura è uno scenario su cui proiettano inconsapevoli e su scala mitica la loro realtà socio-antropologica, dotandola così di senso. Per Vico "i poeti teologi si occuparono della fisica del mondo delle nazioni." Una fisica quindi diversa da quella moderna, oggettiva e razionale. Vico comincia da informi figure mitologiche che risalgono ai tempi del divagamento ferino. Così, l'orco fu prima la condizione degli uomini che vivono promiscuamente, senza prole a cui lasciare eredità, e solo più tardi ha rappresentato la materia primordiale. Pan, mostruoso e selvaggio, fu carattere poetico degli empi vagabondi e solo più tardi è stato inteso nel senso dell'aggettivo greco, "tutto". In questa confusione la prima luce e bellezza fu quella, folgorante, del fulmine di Giove. Gli uomini, ormai capaci di controllare i loro istinti animali, formarono il mondo civile: ecco allora splendere la luce civile: Apollo. E la bellezza civile, Venere, solo più tardi intepretata come simbolo della bellezza naturale. Allo stesso modo esbbero significati innanzitutto religiosi e sociali i quattro elementi. E ancora, furono proiezioni animistiche e antropomorfiche quelle divinità che i metafisici come Platone intesero come "menti" o "intelligenze". Se quindi la fisica poetica riguarda il mondo degli uomini, allora la sua parte più importante è la comprensione della natura dell'uomo: ovvero l'interpretazione dei primi uomini della loro propria natura eroica. Qui Vico riprende alcune speculazioni di filosofia naturale sviluppate nel De Antiquissima con l'ipotesi di una sapienza riposta nelle origini della lingua latina, attribuendole ora alla sapienza poetica e volgare dei primitivi. "I poeti teologi guardarono nell'uomo soprattutto due idee metafisiche: essere e sostanza", ma tali idee furono intesi dagli eroi latini non in significato filosofico, ma concreto (essere come mangiare, esse; sostanza come cosa materiale che sta sotto, come i talloni). I fisici poetici "riducevano le funzione dell'anima a tre parti del corpo: capo, petto, cuore." Al capo attribuivano le cognizioni fantastiche. Vico ribadisce l'unità di memoria, fantasia, ingegno: e all'arte regolatrice di queste tre facoltà, cioè la topica, deve essere attribuita una priorità nella vita degli individui e delle nazioni, rispetto alla critica (arte del giudizio). I primi uomini fecero "il petto stanza di tutte le passioni e richiamavano al cuore tutti i consigli in quanto pensavano scossi da passioni." In loro il senso prevaleva sull'intelletto e infatti "le risoluzioni si chiamavano sententiae perchè come sentivano giudicavano". Alle sentenze e descrizioni eroiche sono dedicati i cap. III, IV e V della sezione e costituiscono dei corollari sulla natura degli eroi, che sono poi personaggi omerici: in questo senso anticipano la scoperta del vero Omero. Le sentenze eroiche, frutto di menti singolari incapaci di universalizzare, furono sublimi. Per le descrizioni eroiche, "i primitivi riducevano le funzioni esterne dell'animo ai cinque sensi, ma accorti, vividi e ipersensibili. Di ciò sono una prova i vocaboli dati ai sensi", in quanto indicano la loro attività (e non passività). Per esempio, "tangere" non significa solo toccare, ma anche rubare. E annusare indica quasi che mentre si odora si fanno gli stessi dei greci ancora barbari che avrebbe voluto educare, e lo avrebbe fatto in modo diverso dai poemi che ha scritto. "Non sarebbe stato saggio da parte sua raccontare delle villanie degli dèi e degli eroi, come nell'Illiade. Ma d'altro canto l'Odissea è ricca di favole per intrattenere i fanciulli". Per Vico tali costumi rozzi furono di uomini che per la debolezza delle loro menti erano quasi fanciulli, e i poemi omerici furono l'espressione immediata di tale mondo. Nel cap. II affronta la questione della patria di Omero. Non essendoci testimonianze scritte del suo tempo la risposta va trovata nelle sue opere. La lingua è una commistione di dialetti, e infatti ci furono contese tra le città greche per avere Omero proprio concittadino. L'incongruenza geografica dei due poemi è un elemento a favore della tesi dei corizonti, interpreti che hanno sostenuto che Iliade e Odissea sono scritti da autori diversi. Che anzi scrissero in tempi diversi. Nel cap. III indica testimonianze dei suoi poemi che possono indicare l'epoca di scrittura. Vico considera i poemi omerici come documenti storici in base a cui tentare una loro datazione e ricostruire il loro mondo. Rilevante gli appare notare che ai suoi tempi "esistevano già quasi tutti i tipi di giochi delle Olimpiadi, erano state inventati le arti dei bassorilievi e degli intagli, ma non la pittura, uomini e donne si tagliavano i capelli, i mari erano pieni di pesce" e soprattutto è già finito il rigoroso diritto eroico, perchè sono celebrati matrimoni con straniere e i figli illegittimi ereditano. Dunque Omero non può essere troppo antico. Nel cap. IV affronta la presunta inarrivabilità poetica di Omero, affermata da Orazio e Aristotele. Orazio sostiene l'opportunità d'ispirarsi a Omero "per fingere personaggi di tragedie", mentre in Grecia "i personaggi delle commedia nuova sono tutti finti". La ragione è che la commedia nuova proprone ritratti idealizzati di tipi umani, mentre i personaggi omerici sono universali fantastici, o lo furono al tempo della sapienza poetica di cui Omero fu l'ultimo collettore. Infatti visse nella terza età dei poeti eroici: quella che ricevette corrotte le favole inventate nella prima età e alterate nella seconda. I caratteri poetici dell'epica greca sono dunque generi fantastici a cui i greci attaccarono vari particolari. Per esempio, tutto ciò che appartiene alla virtù eroica lo attribuirono ad Achille. La bellezza e decoro di questi caratteri poetici consiste nell'uniformità, in quanto espressione del comune sentire di una nazione. Per questo il sublime va insieme al bello e al popolaresco. Nel cap. V e VI la ricerca del vero Omero procede con l'elenco di prove filosofiche e filologiche, ovvero di argomentazioni e testimonianze. Le prove filosofiche si fondano soprattutto sulla natura dei primi uomini, poco razionali, ma ricchi di ingegno, fantasia e memoria. Tre facoltà che per Vico sono in fondo la stessa. "Gli uomini sono naturalmente portati a conservare la memoria degli ordini e delle leggi." La memoria delle leggi e delle storie a fondamento di una società è infatti importante per la sopravvivenza stessa della città. E la memoria fu quindi un provvedimento divino, in tempi in cui non vi era ancora la scrittura alfabetica. Altrettanto naturale e provvidenziale fu il fatto che in quella cultura orale, le prime nazioni parlassero in versi, che agevolano la memoria. Da ciò, Vico inferisce che la poesia delle prime nazioni racconta e fonda la loro storia. "Le favole furono racconti veri, ma la loro forma fantastica fece sì che si alterarono e furono ricevute guaste da Omero". Allo stesso modo "i caratteri poetici, essenza delle favole, nacquero da necessità di natura", come modo di pensare di interi popoli, la cui mente era angustiata dalla robustezza dei sensi ed esplicò così la sua natura quasi divina sviluppando un'enorme potenza di fantasia. "Di necessità le loro allegorie poetiche devono contenere significati storici dei primi tempi della Grecia". Ciò vale ovviamente per tutti i popoli primitivi, oltre a quelli dei tempi barbari ritornati (cioè i poeti cavallereschi). Anche la poesia di Dante, pur essendo dotto di scienza riposta, fu storia e in questo senso gli dà il titolo di Omero toscano. Secondo Vico è impossibile che uno sia "allo stesso tempo poeta e metafisico sublime", dato che la poesia guarda al concreto e al particolare, mentre la metafisica all'astratto e all'universale. Omero è quindi poeta, non filosofo. "Sublime fino al cielo nelle sentenze poetiche", che sono ricche di passione sentita immediatamente e non dopo riflessione. Oltre ad avere talento nelle comparazioni e descrizioni. Gli eroi omerici sono come fanciulli e dunque impossibili da fingere per un filosofo con una simile naturalezza. Le incongruenze e inadeguatezze in Omero derivano dalla povertà della lingua arcaica. La lingua eroica è per similitudini, immagini, e in versi (come ogni lingua arcaica). "Tali favole, sentenze, lingue, si dissero eroici perchè propri dell'età degli eroi e proprietà di popoli eroici. Omero fu in questo il massimo dei poeti. E solo quello. Per cui i significati filosofici gli furono attribuiti a posteriori nelle sue favole. Nel cap. VI affronta quindi le prove filologiche, che confermano che la poesia mitologica arcaica fu in realtà la storia dei primi popoli, da loro elaborata fantasticamente e cantata in versi. Occorre quindi fare un cammino opposto ai dotti boriosi, "e dai sensi mistici restituire alle favole i loro significati storici originari". Novità di questo capitolo è il riferimento alla tradizione orale dell'epica greca, ai rapsòdi: uomini del popolo che in parti conservavano a memoria i libri dei poemi omerici". I rapsòdi cantavano infatti i libri di Omero nelle fiere e feste della Grecia. Fenomeno analogo fu quello ancora più popolare dei poeti ciclici: uomini illetterati che cantavano le favole ai popolani raccolti in cerchio nei giorni di festa. Sulle questioni etimologiche, Vico dice che il nome di rapsòdi rimanda al fatto che furono "cucitori di canti", così come "Omero" può essere inteso o come "componitore di favole", o fu così chiamato perchè cieco. Ciechi e ricchi di memoria erano infatti gli aèdi, poveri e girovaghi. Furono i Pisistratidi a decretare che i suoi poemi fossero cantati nelle feste panatinaiche dai rapsòdi, la cui tradizione si conclude in età ellenistica col lavoro di emendazione, divisione e ordinamento di Aristarco. La sezione si conclude con un riepilogo dei fattori che rendono problematica la questione omerica. Di lui non si conosce nè patria, nè tempo, e sembra aver vissuto in luoghi e tempi diversi, come sembrano indicare le vistose differenze dei due poemi (segnalate fin dall'antchità anche da Pseudo- Longino, ma per lui da ricondurre a una fase più giovanile e una più matura di Omero). Nella seconda e ultima sezione del Libro III le prove filosofiche e filologiche conducono alla scoperta del vero Omero. Che Omero non esistette e fu solo un poeta ideale va affermato "a metà". Omero fu la personificazione della creatività popolare dei greci dell'età arcaica. Un universale fantastico proprio come i suoi personaggi. I greci si contesero la patria di Omero perchè loro furono Omero. Le opinioni sul tempo di Omero variano perchè "Omero visse" nelle voci e nelle memorie di popoli nel corso di secoli. La cecità e povertà furono quelle dei rapsòdi. Compose giovane l'Iliade e da vecchio l'Odissea nel senso che la prima è testimonianza dei costumi della Grecia giovane, e l'altra della Grecia matura (v. Achille e la sua ira, e l'astuzia di Ulisse). Così Omero è anche assolto dalle critiche rivoltegli sia sul piano della forma che del contenuto. E merita comunque il primato dell'inimitabilità assegnatogli da Aristotele, Orazio e i maestri dell'arte poetica per le proprietà dell'età eroica (fantasiosa) che sono espresse nei suoi poemi. Così nessun poeta successivo in tempi di filosofia e arti critiche potè eguagliarlo. Omero fu l'ordinatore della civiltà greca, padre di tutti i poeti e fonte delle filosofie greche. Nel breve cap. II aggiunge che questo Omero fu il primo storico della gentilità, poichè i suoi due poemi devono essere considerati "tesori dei costumi della Grecia antica", paragonabili alla legge delle XII Tavola per la storia di Roma arcaica. Anzi, la credenza che i due poemi fossero frutto di un solo uomo, ha impedito di vedere in essi la loro portata come "testimonianza del diritto naturale delle genti di Grecia." Il libro ha anche una breve appendice in cui Vico discute alcuni problemi di storia della letteratura antica, greca e romana, ricostruendo lo sviluppo dei vari generi letterari sia come contenuto che come forma metrica. Così dopo aver ricordato la divisione in tre età della poesia epica fino a Omero (poeti teologi: eroi che cantarono favole vere, poeti eroici: alterarono e corruppero, Omero: le riceve alterate e corrotte), ricostruisce la storia della poesia lirica. Ma la parte più interessante è dedicata alla nascita della tragedia, una sorta di tradizione popolare tipica della stagione della "vendemmia", con personaggi quali i satiri. La tragedia arcaica è da lui avvicinata alla satira romana e al carnevale. Tale identificazione dei satiri col popolo, classe dominata, è anche confermata dal fatto che gli eroi chiamavano i plebei "mostri di due nature, uomini e caproni." La tragedia s'incivilì in seguito con Eschilo, e più tardi con Sofocle ed Euripide, fasi alle quali Vico collega la commedia antica e la commedia nuova (influenzata dalla filosofia socratica), che porta in scena personaggi inventati, esemplificazioni di tipi umani universali. In quest'ultima fase decadde il carattere collettivo e sociale della tragedia. colpevoli). Di qui anche le origini dei duelli e delle guerre. "I primi uomini si appellavano ai giudizi armati e all'esito della battaglia per capire la ragione," Fu un consiglio della provvidenza divina affinchè le guerre non fossero eterne e sorgesse un'idea primitiva di giustizia 2) giudizi ordinari, osservati con massima scrupolosità di parole: ordine significa solenne formula di azione. Anche questa fu un consiglio provvidenziale, che in questo modo preservò il genere umano dall'autodistruzione e stimolò l'evoluzione dell'idea di giustizia 3) giudizi straordinari (extra-ordinem), umani, ispirati all'uguaglianza naturale tra gli individui e indicati come unici dai giusnaturalisti moderni. Per Vico tutte queste cose si sono praticate "per tre sette dei tempi": quella dei tempi religiosi, quella dei tempi puntigliosi (Achille e Medioevo) e quella dei tempi civili. Giocando sul duplice senso di setta, ci dice che le sette a cui riferirsi per capire l'esperienza giuridica e politica delle nazioni sono "le sette (periodi) dei tempi, non le sette (correnti) dei filosofi." Insomma, si deve essere storicisti e non razionalisti. Del corso delle nazioni Vico porta varie prove, tratte perlopiù dalla storia romana arcaica con particolare riferimento all'evoluzione del diritto. Le prime prove sono i fenomeni civili, spiegabili con la scoperta delle repubbliche eroiche. Tali fenomeni esprimono il carattere conservatore delle aristocrazie e sono la custodia dei confini, ordini e leggi. A queste tre custodie dedica quindi tre capitoli della sezione XII. La custodia dei confini comincia con la divisione dei campi, al sorgere dello stato ciclopico delle famiglie, e procede poi nelle aristocrazie eroiche. La custodia degli ordini comincia con le gelosie giunoniche dei nobili, che non vogliono dividere i loro privilegi con le plebi, alle quali non sono concessi matrimoni solenni e neanche successioni testamentarie. Quando ciò accade (metà V secolo a.C.) la repubblica si trasforma da aristocratica a popolare. E cambiano anche i costumi: con l'amore dei padri verso i figli. La custodia degli ordini conduce a quella dei sacerdozi, e quindi alla custodia delle leggi e di come interpretarle. Tale sapere è prima tenuto segreto dai sacerdoti, ovvero i padri. È questa la fase del tempo divino in cui la religione riguarda l'osservanza scrupolosa delle leggi divine. Ma anche nella fase eroica le leggi sono custodite in modo rigido (legge delle XII Tavole). E in tale custodia della legge sta per Vico la ragione della grandezza di Roma. Le rigide distinzioni triadiche vengono attenuate quando Vico ammette forme di transizione. Si tratta di forme miste, interpretabili come una persistenza, all'interno di una forma statuale, della forma di governo propria dell'età precedente: in questo modo i governi familiari dei polifemi perdurano nelle prime repubbliche aristocratiche, e i governi aristocratici perdurano nelle prime repubbliche libere popolari. E siccome in queste ultime i cittadini guardano sempre più ai propri interessi, nasce naturalmente la monarchia. Ma poichè i principi hanno bisogno dell'appoggio del popolo, anche la monarchia nasce e si mantiene come forma mista: "per natura le monarchie si governano popolarmente". Altre prove del corso delle nazioni sono formite dall'evoluzione delle pene e delle guerre, nel cap. I della sezione XIV. Le pene furono dapprima crudeli (exempla, castighi esemplari), poi divennero benigne nelle repubbliche popolari (perchè la moltitudine è di deboli, inclini a compassione) e ancor di più nelle monarchie dove i prìncipi si compiaccioni del titolo di clementi. Nelle prime guerre i vinti venivano scambiati in greggi, mentre poi subentrò la magnanimità delle repubbliche popolari e delle monarchie. Un'ultima prova del corso è fornita dall'ordine dei numeri: i governi cominciarono dall'uno, con le monarchie famigliari; passarono a pochi con le aristocrazie eroiche, e quindi ai molti e tutti nelle repubbliche popolari. E infine tornarono all'uno nelle monarchie civili. Il libro si conclude col cap. II della sezione XIV, di grande densità teorica e dedicato al rapporto tra poesia, diritto e filosofia. Vico comincia col menzionare alcune solennità dei tempi mutoli in cui appaiono i simboli della mano e della maschera, antropologicamente rilevanti. Per quanto riguarda la mano, "le forme di trasferimento di dominio cominciarono con vera mano, che in tutte le nazioni la mano significò potestà". La maschera è invece avvicinata ai nomi e insegne delle famiglie: sono cioè universali fantastici la cui rappresentazione ha luogo nel foro, prima che nel teatro. "Persona" viene da personari ("vestire pelli di animali", come il leone di Ercole), il che conferma che la persona rappresenta i padri, eroi. Ecco il nesso fra poesia e diritto: "L'antica sapienza fu poetica, e introdusse maschere vane e senza soggetti". Ma tali finzioni poetiche nascondono, come maschere, verità storiche: "tutte le finzioni dell'antica sapienza furono verità mascherate". Persino il diritto romano "fu un poema serio", e per converso, i poemi omerici furono tesori del diritto naturale dei popoli della Grecia. Il passaggio dall'età della fantasia a quella dell'intelletto, da universali fantastici a intelligibili, avviene dapprima nell'ambito dell'esperienza civile e giuridica, che è il presupposto del sorgere della filosofia. La filosofia nasce come "metafisica legale", poichè l'induzione socratica, le idee di Platone, la teoria della giustizia di Aristotele presuppongono l'esperienza giuridica. All'avviso di Solone agli ateniesi "Nosce te ipsum", Vico attribuisce un senso politico: lo vede cioè come un invito a far valere la loro uguaglianza coi patrizi. Da esso uscirono le repubbliche popolari, quindi le leggi e infine la filosofia. Insomma, se non ci fossero state le religioni, e quindi le repubbliche, non ci sarebbero state le leggi. Il capitolo si conclude con una considerazione generale sulla storia del linguaggio, dall'età poetica del certo a quella razionale del vero. Se la natura umana era stata interpretata dalla tradizione filosofica precedente come un composto di mente e corpo, Vico aggiunge l'elemento del linguaggio, a cui attrbuisce una posizione intermedia. E allora il rapporto problematico di mente e corpo può essere ridiscusso facendo perno proprio su di esso. Il vero ideale è indicato infine da Vico con un'espressione e metafora di sapore neoplatonico: "la forma informe di ogni forma particolare", che "a guisa di luce di sè informa i corpi opachi dei fatti". LIBRO V Del ricorso delle cose umane nel risugere che fanno le nazioni Esso espone in forma sistematica la tesi del ritorno, nel Medioevo, della storia favolosa o barbara. Tesi divenuta famosa in forma impropria, per la quale Vico sarebbe il filosofo dei "corsi e ricorsi", di una concezione ciclica della storia in cui si alternerebbero fasi sempre ritornanti. In realtà non ha mai sostenuto una tesi così, e neppure una concezione lineare della storia nel senso di progresso o declino. La Scienza Nuova suggerisce una valutazione positiva di certi aspetti sia della cultura dei tempi favolosi, sia di quella dei tempi umani, indicandone al contempo gli aspetti negativi (credulità e crudeltà, intellettualismo e decadenza). Si tratta di trovare un equilibrio tra le due modalità di esperienza, poetica e razionale, esemplarmente espresse nelle due epoche. Il ricorso è una possibilità estrema, non qualcosa di ineluttabile: è la possibilità di un ritorno di barbarie, estremo rimedio posto dalla provvidenza se non vi è altro modo per garantire la storia del genere umano. Vico è interessato a un'indagine delle costanti fondamentali dell'esperienza umana attraverso una ricerca comparata delle analogie strutturali fra culture di tempi e luoghi diversi. Per questo confronta Medioevo e mondo arcaico. Un problema per il cattolico Vico è che il Medioevo viene dopo Cristo, e anzi è un'epoca dominata dal cristianesimo. Un problema analogo nel mondo pre- cristiano lo aveva affrontato separando storia sacra (ebraica) e profana (gentile). Nella storia cristiana più che mai vede la presenza di Dio: così il libro V "vuol chiarire i tempi della barbarie seconda". Vico parla di provvidenza e grazia (cioè vie naturali e soprannaturali), intendendole come successione temporale. I due livelli di grazia e provvidenza coesistono nella storia cristiana, seppure con una sfasatura temporale. Il riconoscimento del soprannaturale nella storia cristiana gli permette di dedicarsi a una ricerca spregiudicata di ciò che vi è di naturale, con un atteggiamento che non si fa scrupoli ad affermare l'analogia strutturale di elementi della cultura cristiana e pagana. Per esempio, riconduce alla tendenza della fantasia primitiva a ingrandire i particolari, il fatto che "le immagini degli eroi e degli dèi greci e latini siano sempre più grandi di quelle degli uomini". E nel Medioevo le dipinture di Dio, Gesù, Maria sono altrettanto grandi.
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