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Gianniti e Lupo, Corso di diritto Parlamentare, Sintesi del corso di Diritto Parlamentare

Una definizione di diritto parlamentare Con il termine diritto parlamentare si fa riferimento al complesso di norme che disciplinano l’organizzazione interna delle Camere, l’esercizio delle loro funzioni e i rapporti con gli altri organi (costituzionali e di rilevanza costituzionale) e con i soggetti terzi.

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Gianniti e Lupo, Corso di diritto Parlamentare e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Parlamentare solo su Docsity! Gianniti e Lupo, Corso di diritto Parlamentare CAPITOLO 1 – LA POLITICA E I SUOI LIMITI: DIRITTO PARLAMENTARE E DIRITTO COSTITUZIONALE 1. Una definizione di diritto parlamentare Con il termine diritto parlamentare si fa riferimento al complesso di norme che disciplinano l’organizzazione interna delle Camere, l’esercizio delle loro funzioni e i rapporti con gli altri organi (costituzionali e di rilevanza costituzionale) e con i soggetti terzi. QUADRO 1.1: L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI PARLAMENTO Con la sentenza n. 106 del 2002, la Corte costituzionale ha annullato una delibera del Consiglio regionale della Liguria, la quale stabiliva che, in tutti gli atti dell’assemblea regionale, alla dizione costituzionalmente prevista “Consiglio regionale della Liguria” fosse affiancata la dizione “Parlamento della Liguria”. La Corte ha ritenuto la dizione di Parlamento non estendibile ai Consigli ragionali, sulla base di due argomenti: 1) in quanto il nomen Parlamento non ha un valore puramente lessicale, ma qualificativa, connotando, con l’organo, la posizione che esso occupa nell’organizzazione costituzionale; 2) perché solo il Parlamento è sede della rappresentanza politica nazionale, la quale imprime alle sue funzioni una caratterizzazione tipica ed infungibile. 2. Il diritto parlamentare come avanguardia del diritto costituzionale Nella prospettiva qui utilizzata, il diritto parlamentare deve considerarsi come una branca del diritto pubblico e, più specificamente, del diritto costituzionale. Il legame tra il diritto parlamentare e quello costituzionale è evidente anzitutto se ci si pone in chiave storica. Sin dalla fine del ‘700 la rivendicazione di organi denominati Assemblee elettive o Parlamenti è andata di pari passo con la richiesta di Carte costituzionali: la disciplina di tali Assemblee si configura perciò come un loro contenuto necessario. In assenza delle Assemblee rappresentative, le costituzioni ottocentesche, infatti, sarebbero inidonee a raggiungere i loro principali obiettivi. Viene dunque naturale che tutte le Carte costituzionali ottocentesche fissino, anche con un certo grado di dettaglio, i caratteri strutturali delle Assemblee rappresentative e ne definiscano le funzioni fondamentali. È attraverso tali Assemblee, infatti, che si pongono concretamente in essere quei principi della democrazia rappresentativa che le dottrine politiche avevano teorizzato come l’unica forma di democrazia compatibile con la dimensione dello Stato moderno. Il legame del diritto parlamentare con il diritto costituzionale emerge con altrettanta chiarezza se si guarda ai caratteri contenutistici propri del costituzionalismo e dello Stato di diritto. Se si ritiene infatti che per l’esistenza di una Costituzione occorrano la garanzia dei diritti e la separazione dei poteri, ecco allora che i Parlamenti concorrono sia alla prima, mediante l’esercizio della funzione legislativa, sia alla seconda, ponendosi evidentemente come un limite all’azione del sovrano e del suo esecutivo. Il diritto parlamentare può considerarsi come una sorta di “avanguardia” del diritto costituzionale: una disciplina della quale è talvolta particolarmente arduo cogliere il carattere prescrittivo, ma proprio per questo di grande interesse per misurare fino a che punto si spinge il principio dello Stato di diritto. CAPITOLO 2 – LA STORIA DEI REGOLAMENTI PARLAMENTARI 1. Un’evoluzione nel segno della continuità La caratteristica dominante nella storia del diritto parlamentare è costituita da un'evoluzione nel senso della continuità. La scelta della continuità è in linea conseguente al sistema degli uffici. Si manifestò così il disprezzo del fascismo verso la rappresentanza proporzionale e i partiti politici. Questo disprezzo si manifestò poi con la riduzione di quasi tutti i diritti riservati alle minoranze. Si aprì così un periodo di modifiche che segnò pesanti divieti, come il divieto di mettere all'ordine del giorno un argomento che non fosse stato deciso dal capo di governo, l'obbligo per i cittadini di eleggere candidati che si trovavano in un'unica lista composta dal Gran consiglio del fascismo ed infine la sostituzione della Camera dei deputati con la Camera dei fasci e delle corporazioni. Furono create 12 commissioni legislative specializzate per materia e dotate di poteri deliberanti. Ovviamente tutti i membri del nuovo modello istituzionale (camera dei fasci) non venivano eletti ma scelti dal capo di governo. Il Senato invece restò in piedi durante il periodo fascista, sia perché era un organo assai vicino alla monarchia, sia perché il suo carattere non elettivo faceva si che fosse più agevole mantenerne il controllo, anche attraverso la tecnica delle "infornate" di senatori. Fu tolta ai senatori ogni autonomia legislativa e qualsiasi libertà di discussione e di critica. QUADRO 2.1: IL SISTEMA DEGLI UFFICI. Gli uffici erano collegi minori di carattere temporaneo, la cui composizione derivava da un’estrazione a sorte tra i nomi di tutti i parlamentari. Essa, perciò, non rispecchiava la composizione politica dell’Assemblea, né poteva essere in alcun modo proporzionale ai gruppi parlamentari, dal momento che questi nelle Camere statuarie non esistevano. I deputati si articolavano, infatti, secondo aggregazioni di carattere territoriale e personale, e solo genericamente li si poteva ricomprendere all’interno di formazioni dai confini non sempre chiaramente definiti quali le c.d. Destra e Sinistra storica. Una volta presentato, il progetto di legge era inviato a tutti gli uffici, ciascuno di essi procedeva ad una discussione informale, al termine della quale eleggeva un relatore. Tutti i relatori eletti andavano a costituire una commissione, la quale esaminava ed emendava il progetto di legge e lo presentava all’Assemblea. 3. LA FASE TRANSITORIA E L'AVVIO ( CON I REGOLAMENTI VECCHI) DEL PARLAMENTO REPUBBLICANO. Nel "periodo costituzionale transitorio" , in quello cioè, in cui si ricostruì l'assetto istituzionale italiano all'indomani della fine del fascismo e che si concluse con l'entrata in vigore della Costituzione, si guardò subito al sistema parlamentare come lo si era lasciato prima del fascismo. Fu istituita la Consulta nazionale, composta da 400 membri su designazione dei partiti del comitato di liberazione nazionale, dotato di poteri consultivi. Essa dedicò una parte rilevante del suo lavoro alla stesura del suo regolamento interno. L'Assemblea Costituente invece non creò un nuovo regolamento interno, ma adottò solo modifiche a quello previgente, poiché riteneva più urgente dedicarsi all'elaborazione della nuova Costituzione. In conformità con l'art.64 della Costituzione la Camera dei deputati lasciò in vigore il regolamento del 1922. Solo nel 1949 fu approvato un significativo insieme di modifiche al regolamento, un intervento diretto essenzialmente ad abolire i procedimenti delle 3 letture e degli uffici; ad adeguare la dizione di alcuni articoli alle nuove istituzioni (sostituzione della parola re con quella di presidente della Repubblica); e ad inserire nel regolamento talune disposizioni della Costituzione che si riferiscono direttamente al funzionamento delle Camere. Per il Senato invece la situazione fu differente, quest'organo attraverso il lavoro della giunta per il regolamento elaborò un nuovo testo che fu approvato con voto quasi plebiscitario (1 solo voto contrario). Le differenze rispetto alla Camera erano consistenti: diversa disciplina del voto segreto e delle modalità di revisione regolamentare; l'articolazione in giunte e commissioni. Il regolamento del Senato prestò maggior attenzione alle disposizioni della Costituzione, dedicando attenzione ai procedimenti speciali appena introdotti. Ulteriori differenze si notano soprattutto per le successive modifiche, durante la prima legislatura la Camera adottò profonde riforme regolamentari incisive, relative a: programmazione dei lavori (istituzione della conferenza dei presidenti -oggi dei capigruppo); procedimento legislativo (con la disciplina della sede redigente); la procedura di revisione costituzionale e le prerogative parlamentari. Al Senato si preferì lasciare inalterato il testo del 1948. Il coordinamento più efficace, ancorché mai integrale, tra i due rami del Parlamento si registrò con riferimento alle procedure finanziarie. QUADRO 2.2: LA CONTINUITA’ REGOLAMENTARE COME RAGIONE DI FORZA DEL PARLAMENTO REPUBBLICANO O COME SCELTA CATASTROFICA? Sulle ragioni e sugli effetti della scelta in senso continuista, compiuta dalla Camera e, in modo minore, anche dal Senato, le opinioni di due studisi sono radicalmente contrapposte: 1) Paolo Ungari ritiene che il metodo dei cauti e progressivi innesti sul tronco del regolamento del 1900 abbia prodotto fertili frutti e abbia dato origine ad una ricca e autorevole tradizione parlamentare. Le norme del regolamento ben si prestavano ad assicurare ai partiti esclusi dall’area di governo una posizione in Parlamento che li mettesse a riparo da un’ulteriore emarginazione; 2) Andrea Manzella giudica molto severamente la scelta di riadattare, nel ’49, come se nel frattempo non fosse successo quasi niente, i vecchi regolamenti parlamentari del ’22, che sottovaluta la rilevanza dei gruppi e delle dinamiche tra maggioranza e opposizione. Manzella qualifica come catastrofica quella decisione, ricordando che proprio l’assetto normativo parlamentare era stato tra le cause di quella debolezza istituzionale dei Governi, a cui era anche dovuto l’avvento del fascismo, definendo il periodo tra il ’48 e il ’71 come retroguardia del diritto costituzionale. 4. I NUOVI REGOLAMENTI DEL 1971 E LE LORO SUCCESSIVE MODIFICHE E' solo nel 1971 che si giunse alla redazione dei regolamenti parlamentari integralmente nuovi e maggiormente coerenti. La riforma fu preparata da elaborazioni svolte sia dalle forze politiche,sia dai funzionari parlamentari, sia dalla dottrina costituzionalistica. Queste riflessioni agevolarono il coordinamento delle iniziative assunte, con un'operazione senza precendenti nel diritto parlamentare italiano,sotto il forte stimolo dei due presidente: Pertini alla Camera e Fanfani al Senato.I nuovi regolamenti comportarono un deciso processo di modernizzazione, facendo leva sulla dimensione del gruppo parlamentare e valorizzando il valore delle commissioni permanenti e al tempo stesso fu proposto di aprire il Parlamento nei confronti della società , superando il tradizionale principio dell'esclusività del rapporto con il Governo. L'azione di aggiornamento dei regolamenti approvati nel 1971, pur soggetti a molte critiche, se viste nel loro complesso sicuramente hanno apportato notevoli cambiamenti in positivo accentuando la capacità decisionale dell'istituzione parlamentare. I ritmi e le modalità sono stati differenti nei due rami: al Senato, il grosso delle innovazioni è stato apportato con un unico intervento riformatore operato nel 1988 , sotto la presidenza Spadolini, con il quale furono novellati 46 articoli: tra questi la revisione delle modalità di votazione in nome della prevalenza del voto palese e la generalizzazione del contingentamento dei tempi. Altre successive modifiche hanno riguardato il sindacato ispettivo , le procedure finanziarie e comunitarie e la composizione del consiglio di presidenza. Alla Camera invece il percorso è stato più travagliato. Le modifiche apportate nel corso deglia anni '80 riguardano: l programmazione dei lavori,la durata degli interventi, la di procedere alle riforme istituzionali e costituzionali, disciplinando altresì un procedimento di revisione costituzionale derogatorio, rispetto a quello delineato dall’art. 138 Cost. Va poi considerato il più recendte art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001 (i cui primi articoli hanno profondamente modificato il titolo V della seconda parte della Costituzione), nel quale il legislatore costituzionale assegna un nuovo compito ai regolamenti di Camera e Senato: prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali alla commissione parlamentare per le questioni regionali, in attesa che siano riviste le norme del titolo I della parte seconda della Costituzione. Peraltro, se si va a rintracciare la fonte istitutiva di tale commissione (art. 126 Cost.), essa prevede che la commissione sia consultata sul decreto di scioglimento e che essa sia istituita nei modi stabiliti con legge della Repubblica. Ecco dunque un primo caso in cui vengono chiamati in causa, con riferimento allo stesso organo, sia i regolamenti delle due Camere, sia la legge ordinaria, a riprova della sovrapposizione e dell’intarsio tra le diverse fonti del diritto parlamentare. Dunque tra le fonti del diritto parlamentare si riscontra spesso una fungibilità e quasi una permeabilità, anziché una gerarchia e una competenza statiche. E’ appena il caso di segnalare che tale previsione è rimasta lettera morta, coerentemente del resto con la stagione di assai scarso riformismo regolamentare che ha caratterizzato le Camere della XIV e XV Legislatura repubblicana. 2. I regolamenti di Camera e Senato 2.1. Fonti dell’ordinamento generale I regolamenti parlamentari maiores o generali che dir si voglia rappresentano a tutt’oggi non l’unica, ma sicuramente la principale tra le fonti-atto del diritto parlamentare. L’art. 64, nel momento in cui stabilisce che “ciascuna camera adotta il proprio regolamento” prevede l’adozione della fonte regolamentare come obbligatoria, evitando perciò che la fissazione delle regole procedurali sia rimessa, caso per caso, alla volontà dell’Assemblea. A lungo si è dubitato che i regolamenti parlamentari rappresentassero effettivamente un atto-fonte, o comunque, una fonte dell’ordinamento generale. I due quesiti sono tra loro evidentemente intrecciati. Infatti il principale sostenitore della teoria volta a negare il carattere di norme giuridiche ai regolamenti parlamentari (Santi Romano) è stato anche il principale riferimento della tesi secondo cui tali regolamenti sono da intendersi come norme interne, che hanno validità e vigenza solo nell’ordinamento di ciascuna camera. Egli infatti sostenava che i regolamenti parlamentari potessero consisderarsi come atti costitutivi del diiritto in senso oggettivo, ma solo nell’ambito di una sfera di efficacia “speciale ed interna”, limitata cioè ai membri del collegio. Per il primo quesito (fonte o non fonte), la risposta ad esso dipende da quali sono i caratteri distintivi delle fonti. Nell’ottica della teoria generale del diritto e alla luce di almeno tre distinti orientamenti dottrinali: il primo (collegato al nome di Vezio Crisafulli 1984) tende a richiamare i criteri tradizionali della generalità, dell’astrattezza e della novità, come tipici dei contenuti propri degli atti-fonte; il secondo (proposto pressoché unicamente da Zagrebelsky 1990) individua le fonti del diritto come quegli atti che sono espressione, nella sfera dell’ordinamento giuridico, dei processi di unificazione politica dei fenomeni che hanno luogo nel pluralismo sociale; il terzo (illustrato efficacemente da Alessandro Pizzorusso 1977) insiste sulla efficacia erga omnes degli atti-fonte, prescindendo dal relativo contenuto, dando perciò particolare rilievo all’aspetto della pubblicazione obbligatoria degli atti-fonte. Ebbene, da tutti e tre i punti di vista, sembra difficile riuscire a negare il carattere di atti-fonte ai regolamenti di Camera e Senato. Sul primo versante (generalità-astrattezza-novità), i due regolamenti contengono infatti una disciplina di tipo generale (l’ambito di applicazione concerne i parlamentari, ma anche i dipendenti delle Camere, i membri del Governo e tutti i soggetti, dagli auditi al pubblico che assiste alle sedute, che si trovino ad avere rapporti con gli organi parlamentari. Sul secondo versante, la natura di fonte dei regolamenti parlamentari emerge con chiarezza ove si osservi la loro incidenza sui caratteri della forma di governo, e quindi sugli equilibri che caratterizzano i rapporti tra i diversi organi costituzionali, incluso lo stesso corpo elettorale. Tale incidenza è esaltata da quelle concezioni dottrinali che leggono i regolamenti parlamentari come atti di indirizzo politico, se non addirittura come l’atto normativo primigenio dell’indirizzo politico. Sul terzo versante, infine, va dato atto di un progressivo avvicinamento dei regolamenti parlamentari alle forme di pubblicazione proprie delle fonti del diritto, Si è registrata inizialmente alla pubblicazione del regolamento del Senato in Gazzetta Ufficiale (1948), con valore solo notiziale; questo è rimasto a lungo tempo l’unico esempio di pubblicazione di un testo integrale di un regolamento parlamentare, sino ai regolamenti del 1971, dopo la disposizione dell’obbligo di previa pubblicazione dei regolamenti di Camera e Senato e delle loro modifiche. Il secondo quesito riguarda invece la natura interna o esterna degli atti-fonte costituiti dai regolamenti parlamentari. La dottrina romaniana è stata oggetto di serrate critiche in epoca repubblicana. Da un lato si è infatti rinvenuto il fondamento dei regolamenti parlamentari nella Costituzione, anziché nella “supremazia speciale” di cui le Camere godevano nel precedente ordinamento. Dall’altro, si è evidenziata la rilevanza esterna di molte norme dei regolamenti parlamentari, rivendicando anche alle norme cd “interne”, in essi contenute, una piena giuridicità. Le obiezioni di maggiore consistenza al riconoscimento della piena giuridicità ai regolamenti parlamentari poggiano oggi sul carattere derogabile delle loro prescrizioni, almeno nel caso in cui nessuno sollevi obiezioni a una deroga o non applicazione delle regole scritte. In proposito, un’autorevole dottrina ha qualificato tale fenomeno come una vera e propria fonte-fatto, rilevando cioè l’esistenza di una consuetudine nemine contradicente, che assisterebbe, limitandola, la coercitività delle norme regolamentari. Più in generale può segnalarsi come non tutte le norme dell’ordinamento generale siano tutelate ex se, a prescindere dall’azione di un soggetto dell’ordinamento: si pensi alle norme del diritto civile, che spesso hanno carattere dispositivo, e la cui giustiziabilità è in genere rimessa all’azione da parte del soggetto che si ritiene essere stato leso dall’altrui comportamento illecito, e che pertanto ricorre ad un giudice. Semmai, la peculiarità del diritto parlamentare è che solo i componenti del collegio possono opporsi (in sede non giurisdizionale) ad una deroga al regolamento. Il che rischia di originare una lesione dei diritti dei terzi, ogniqualvolta vengano in rilievo le proprie posizioni giuridiche (è il caso di un terzo oggetto di un intervento parlamentare offensivo nei suoi confronti non interrotto dal Presidente; oppure del candidato non eletto benché il conteggio delle schede dimostri che egli aveva in effetti prevalso. Su questo elemento ha fatto leva chi ha ripreso ed aggiornato al nuovo quadro costituzionale la tesi dei regolamenti parlamentari come atti privi del carattere di fonti del diritto (dell’ordinamento generale), sostenendo che la loro legittimazione poggerebbe su regole di natura convenzionale, stipulate all’interno di ciascuna Assemblea e solo in taluni casi suscettibili di trasformarsi in consuetudini, e perciò inidonee a costituire oggetto o parametro del sindacato di legittimità costituzionale. In quest’ottica si è argomentato che tali regolamenti avrebbero effetti non sulla generalità dei soggetti dell’ordinamento, ma solo sulla ristretta cerchia dei soggetto politico-costituzionali, avendo ad oggetto esclusivo la disciplina dei rapporti politico-parlamentari: il compito di delineare le restanti posizioni giuridiche spetterebbe invece esclusivamente alla Costituzione e alla legge. Tuttavia si tratta di una teoria che, benché coerente con alcuni anche recenti svolgimenti della giurisprudenza della Corte costituzionale, non riesce a spiegare fino in fondo le constatazioni prima richiamate riguardo all’idoneità dei regolamenti parlamentari ad essere qualificati come atti-fonte; né tantomeno a dare ragione di molti contenuti assunti dai regolamenti della Camera e del Senato, che decisamente eccedono, in più direzioni, l’ambito soggettivo dei componenti delle rispettive assemblee. Non a caso essa appare decisamente minoritaria. competenza, qui inteso come fonte destinataria di una riserva costituzionalmente esclusiva. L’area di competenza del regolamento parlamentare, oltre che il procedimento legislativo, riguarda anche una serie di altri settori materiali, che sono stati identificati come segue: 1) organi interno delle Camere (Presidente, ufficio di presidenza, commissioni, giunte ecc.) 2) componenti delle Camere (diritti e doveri dei singoli parlamentari; loro organizzazione in gruppo) 3) procedimenti relativi alle diverse funzioni parlamentari 4) strutture di servizio e rapporto con i dipendenti delle Camere 5) rapporti che occasionalmente possono instaurarsi tra le Camere e i terzi estranei Rimane comunque un limite all’intervento dei regolamenti parlamentari, nel senso che questi potrebbero muoversi fintanto che rimangano nell’ambito dell’attuazione e dello sviluppo delle funzioni che la Costituzione attribuisce al Parlamento. Si tratta di un ambito funzionale da intendersi evidentemente in modo ampio, in coerenza al rango primario attribuito a tale fonte e con la natura di principio, propria di molte disposizioni costituzionali relative al Parlamento. La giurisprudenza costituzionale, pur richiamandosi espressamente alla “riserva di regolamento”, non ha fornito chiarimenti quanto all’ambito materiale in cui tale riserva è destinata ad operare. 2.4. Il procedimento di formazione Al procedimento di formazione dei regolamenti parlamentari l’art. 64 dedica invece specifica attenzione, richiedendo che essi siano approvati da ciascuna Camera, a maggioranza assoluta dei componenti. A partire dal 1993 questa previsione è stata spesso criticata, in quanto tale quorum non sarebbe sufficiente ad assicurare un’effettiva garanzia alle minoranze o all’opposizione in un Parlamento eletto con meccanismi maggioritari. Nel procedimento di revisione dei regolamenti parlamentari un ruolo assai incisivo viene a giocare la giunta per il regolamento: tale organo, oltre a coadiuvare il Presidente nell’interpretazione del regolamento, detiene infatti anche una sorta di monopolio dell’iniziativa di revisione regolamentare. Al Senato tale monopolio è più attenuato, limitandosi a stabilire l’obbligo di un previo esame in giunta tanto delle proposte di modifica del regolamento, quanto degli emendamenti a esse riferiti. Più diffusa e più innovativa è la disciplina dedicata alla questione del regolamento della Camera, che ha in parte codificato e in parte corretto un lodo Iotti (intervenuto nel 1981, in occasione dell’approvazione delle prime riforme regolamentari dirette a limitare il manifestarsi dell’ostruzionismo posto in essere dal partito radicale). L’art. 16 r.C. ha deferito alla giunta lo studio delle proposte di revisione regolamentare e soprattutto ha riservato ad essa quasi il “monopolio della penna” con cui tali norme sono scritte. In sostanza, rispetto al testo proposto dalla giunta all’Assemblea, i singoli deputati non possono presentare veri e propri emendamenti, bensì unicamente principi e criteri direttivi, che, se approvati, obbligano la giunta a redigere un nuovo testo. La giunta perde la penna solo nel caso in cui il presidente di gruppo o venti deputati dissentano sul modo in cui la giunta ha recepito i principi e i criteri direttivi e presentino perciò un testo interamente sostitutivo di quello della giunta, che viene messo a votazione a mo’ di emendamento. I due regolamenti negano che sulle proposte di modifica del regolamento il Governo possa porre la questione di fiducia. QUADRO 3.2: LA DIVERSA INTERPRETAZIONE DEL QUORUM RICHIESTO DALL’ART. 64 COST. TRA CAMERA E SENATO Il Senato, sin dall’inizio, richiedeva la maggioranza assoluta sia sulla votazione finale del nuovo regolamento, sia sulle sue singole modifiche. Tale rigore è stato attenuato nel ’71, richiedendosi la verifica automatica della maggioranza assoluta solo per l’approvazione finale di un complesso organico di modifiche al regolamento. Alla Camera si è seguito il percorso opposto, infatti, nel riadattare il regolamento prefascista la Camera non si era nemmeno posto il problema dell’attuazione da dare all’art. 64 Cost.: tutte le delibere relative al regolamento erano state assunte con modalità tali da non far risultare né la sussistenza del numero legale, né tanto meno il superamento del quorum aggravato richiesto. Quando la questione fu sollevata da Togliatti nel’50, il Presidente della Camera Gronchi prima provò a sostenere che tale quorum fosse richiesto solo per l’adozione di un nuovo regolamento e non di sue modifiche. Poi sulla base delle critiche rivoltegli dalla DC concorse all’individuazione di una soluzione di compromesso: consistente nell’inserimento nel regolamento di una disposizione ai sensi della quale le modifiche regolamentari dovranno essere adottate a maggioranza assoluta dei componenti qualora, prima dell’inizio della discussione, lo richiedano il presidente di un gruppo parlamentare o dieci deputati. Questa soluzione è stata superata solo con la revisione dell’art. 16 r.C. avvenuta nel ’90, la quale ha chiarito che la maggioranza assoluta occorre solo per il voto finale del testo della giunta per il regolamento e che la sussistenza di tale quorum è in questa ipotesi accertata automaticamente attraverso votazione nominale. 2.5. I regolamenti parlamentari speciali e quelli minori Accanto al regolamento parlamentare generale, il Parlamento italiano conosce una molteplicità di altri atti, denominati anch’essi regolamenti, rivolti a disciplinare organi della camera o del Senato o profili specifici del diritto parlamentare. Essi sono in genere previsti dal regolamento parlamentare generale, anche se non mancano casi in cui il loro fondamento si rinviene invece all’interno di leggi ordinarie. Nell’ambito dei regolamenti “altri” rispetto a quello generale occorre operare una fondamentale distinzione, a seconda del relativo procedimento di formazione. Da un lato, si pongono i regolamenti approvati dall’Assemblea dell’una o dell’altra Camera, con le medesime procedure, inclusa perciò la garanzia della maggioranza assoluta, richieste per il regolamento maior e in genere con l’aggiunta di una consultazione dell’organo collegiale interessato; dall’altro, si collocano i regolamenti approvati dall’ufficio di presidenza della Camera o dal consiglio di presidenza del Senato. I regolamenti rientranti nella prima categoria si possono denominare regolamenti speciali: si tratta di sezioni specializzate dei regolamenti generali, dotati perciò del medesimo rango e abilitati anche a derogare, per la parte di propria competenza, alle prescrizioni dei regolamenti generali. Per quelli che appartengono alla seconda categoria, li si può denominare, con equivoca terminologia, regolamenti minori, oppure, optando per una terminologia più precisa regolamenti di diritto parlamentare amministrativo. Rientrano nella prima categoria, in particolare: 1. il regolamento espressamente qualificato come “interno” della giunta delle elezioni della Camera 2. il regolamento per la verifica dei poteri applicabile alla giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del senato Certo tutto ciò non deve far dimenticare le rilevanti differenze tra la legge ordinaria e il regolamento parlamentare: - procedimento formativo: la legge è bicamerale a maggioranza semplice, il regolamento è monocamerale a maggioranza assoluta - regime giuridico: la legge è soggetta al vaglio del Presidente della Repubblica e al sindacato di legittimità costituzionale; inoltre, essa può essere abrogata totalmente o parzialmente attraverso il referendum abrogativo. Il panorama appena delineato fa sì, dunque, che l’ambito materiale riservato integralmente e in via esclusiva al regolamento parlamentare risulti, in definitiva, piuttosto limitato e che, invece, non manchino aree sulle quali si sovrappongono norme legislative e dei regolamenti parlamentari. Ciò comporta che, riguardo a tali aree, occorra individuare un criterio per la risoluzione delle possibili antinomie tra legge e regolamento parlamentare. In proposito, una parte della dottrina ha sostenuto il criterio cronologico. Altra parte della dottrina nega invece che sussista un problema di tal fatta, ritenendo che tra i due atti-fonte si realizzi una sofisticata divisione dei compiti, in nome del principio di cooperazione, idonea tendenzialmente ad impedire ogni forma di antinomia tra legge e regolamento parlamentare. QUADRO 3.3: LA QUESTIONE DEI SEGGI FANTASMA NELLA CAMERA DELLA XIV LEGISLATURA La legge n. 277 del ’93 per l’elezione della Camera, prevedeva la distribuzione dei seggi proporzionali residui, che cioè non hanno potuto essere assegnati per esaurimento dei candidati collegati a una lista, tra tutte le altre liste che avessero superato la soglia di sbarramento. Tale previsione regolamentare non è stata ritenuta utilizzabile dalla stessa Camera ai fini dell’attribuzione di dodici seggi ulteriori: di quelli cioè rimasti da assegnare in quanto spettanti alla lista Forza Italia che non aveva più candidati ad essa collegati ancora da eleggere. La Camera ha perciò preferito decidere di non decidere, approvando un ordine del giorno con il quale si è stabilito di non attribuire affatto tali seggi; e, in un secondo momento, per i seggi resisi vacanti in corso di legislatura ha approvato con la legge del 2005, che ha difatti dettato a posteriori una regola per l’assegnazione di alcuni seggi in base ad una tornata elettorale già svoltasi. Finendo per comportare una violazione, oltre che della previsione di cui all’art. 56 Cost, sul numero dei deputati, anche del principio della necessità di una previa norma: nella specie, di norme sulla modalità di trasformazione dei voti in seggi stabilite anteriormente allo svolgimento delle elezioni. 4. Gli statuti dei gruppi, dei partiti e delle coalizioni: fonti di diritto parlamentare? Fonte del diritto parlamentare è ritenuta da alcuni altresì la normazione interna ai singoli gruppi parlamentari: dunque, i regolamenti dei gruppi parlamentari (ove esistenti); e, più a monte, anche gli statuti dei partiti cui essi in genere corrispondono, o persino delle coalizioni (ovviamente, nella misura in cui tali atti dettino norme relative all’attività parlamentare dei propri membri). Tuttavia, contrariamente a quanto avvenuto in Inghilterra, va ricordato che in Italia sono nati prima i partiti politici e poi le loro proiezioni parlamentari: ciò ha fatto sì che la dimensione parlammentare del partito sia risultata spesso sacrificata rispetto a quella extraparlamentare.È evidente che le qualificazioni di tali atti come fonti del diritto parlamentare appare tutt’altro che pacifica, dipendendo strettamente dalla scelta di campo operata dai diversi autori circa la natura giuridica dei gruppi parlamentari: se si propende per la lettura dei gruppi come associazione tra privati o come organi dei partiti politici, è ben difficile qualificare come fonti del diritto i relativi regolamenti; se invece si opta per i gruppi come organi delle Camere, è arduo sostenere che le regole che essi si danno siano giuridicamente del tutto irrilevanti, almeno nell’ambito dell’ordinamento delle due camere. In ogni caso, relativamente a tali atti sussiste un grave problema di pubblicità, in quanto gli statuti dei gruppi parlamentari risultano assai poco conoscibili. D’altronde, la scelta della mancata pubblicità degli statuti dei gruppi parlamentari appare coerente con quella della mancata giuridicizzazione del diritto interno ai partiti politici. Una rilevanza nell’ordinamento parlamentare degli statuti dei gruppi è stata ora sancita dall’art. 53 c. 7, r.S., introdotto nel 1988, il quale richiede che i “regolamenti interni dei gruppi stabiliscano procedure e forme di partecipazione che consentano ai singoli senatori di esprimere i loro orientamenti e di presentare proposte” sulle materie in discussione. Nel momento in cui si accentuano ulteriormente, anche al Senato, i poteri attribuiti ai capigruppo e all’indomani della generalizzazione del contingentamento dei tempi e del voto segreto, ci si è preoccupati di assicurare una qualche minima tutela delle minoranze interne ai gruppi. Molto si discute intorno al valore di tale prescrizione: secondo alcuni si tratterebbe di una norma inutile o comunque di carattere meramente esortativo, in quanto caratterizzata dall’assenza di sanzioni; altri, al contrario, tendono a valorizzarla, rilevando come essa abbia posto fine al tradizionale atteggiamento di indifferenza tenuto dai regolamenti parlamentari rispetto agli interna corporis dei gruppi, delineando uno schema di statuto con forti limiti all’autonomia della disciplina del gruppo. Alla camera non vi sono previsioni analoghe, ma norme esclusivamente dirette a garantire appositi spazi a favore dei deputati dissenzienti rispetto al proprio gruppo (norma presente comunque anche al Senato) sia in sede di predisposizione del calendario, riservando agli interventi a titolo personale un quinto del tempo attribuito al complesso dei gruppi; sia in sede di dichiarazione di voto, ove spetta al Presidente stabilire le modalità e i limiti di tempo degli interventi per i deputati dissenzienti. Anche al Senato vi sono norme a tutela dei senatori dissenzienti rispetto alle posizioni del proprio gruppo, che garantiscono loro la possibilità di intervenire in discussione generale o in sede di dichiarazioni di voto. In Senato si è inoltre discusso se il dissenso potesse sussistere solo quanto al voto o anche alla motivazione o se questa dovesse ritenersi irrilevante: poiché in alcuni casi si è consentito di utilizzare tale spazio temporale anche ai senatori che, pur convenendo con il voto indicato dal loro gruppo, intendessero esprimere una motivazione diversa a supporto, si è introdotto così il “controlimite”, per cui il numero dei senatori dissenzienti dev’essere inferiore alla metà di quello degli appartenenti al gruppo stesso. Alla Camera in sede di dichiarazione del voto si fa riferimento ai soli deputati che intendano esprimere un voto diverso rispetto a quello dichiarato dal proprio gruppo; mentre nell’organizzazione dei lavori si fa più generico riferimento ai deputati che intendano intervenire “a titolo personale”. 5.Le fonti-fatto 5.1. Le consuetudini costituzionali Come è noto, le sole vere e proprie fonti-fatto sono costituite, nel nostro ordinamento, dalle consuetudini: vale a dire, da comportamenti ripetuti nel tempo e tenuti in quanto reputati giuridicamente obbligatori. Esse trovano ampio spazio nel diritto parlamentare, caratterizzato, da un tasso particolarmente alto di politicità, e perciò da un intenso bisogno di flessibilità. Esempi di consuetudini rilevanti per il diritto parlamentare sono la questione di fiducia, consuetudine formatasi sulla base di decisioni presidenziali, successivamente codificata prima nel regolamento della Camera, poi in quello del Senato, ma la sua natura consuetudinaria rimane perché le previsioni del rdC sono state superate dalle successive pronunce presidenziali e la disciplina del rdS appare assai parziale, limitandosi a sancire il divieto di porre la questione di fiducia su determinati oggetti; l’immunità di sede, che solo di recente è stata codificata parte codificate dai regolamenti o da altri atti scritti, sia alcune regole di notevole rilievo istituzionale, che talvolta sono suscettibili di essere qualificate come convenzioni o persino come consuetudini parlamentari. Tra queste ultime si possono ricordare ad esempio quelle attuative del principio costituzionale del bicameralismo paritario perfetto, che richiedono l’alternanza delle due Camere nella presentazione del programma di governo o nella trasmissione, in prima lettura, dei disegni di legge finanziaria e di bilancio. O anche lo svolgimento in sedi alterne delle sedute di indagini conoscitive avviate da commissioni congiunte della Camera e del Senato. O, ancora, in caso di commissioni permanenti riunite, la regola per cui la presidenza spetta al Presidente più anziano. Come di correttezza costituzionale potrebbero essere qualificate le regole che limitano l’attività che le Camere possono svolgere in momenti particolari del sistema politico- istituzionale (crisi di governo, dopo l’adozione di un decreto di scioglimento, in pendenza di voto fiduciario, ecc.) 5.4. La prassi e la formazione dei precedenti Se nelle convenzioni parlamentari e nelle regole di correttezza costituzionale si è nella zona grigia che è a cavallo tra fatto e diritto, la prassi è invece interamente collocata sul versante del fatto. Ci si riferisce alla prassi quando si intende richiamare i comportamenti tenuti in precedenza, senza porsi il problema del loro rapporto con la norma, scritta o no. In altri termini, ci si rifà alla soluzione data in precedenza ad una fattispecie concreta, con l’intento di applicarla anche alla situazione attuale, con funzione. Però, non vincolante, ma unicamente persuasiva, tant’è che nulla impedisce di apportare alla prassi i dovuti adattamenti al fine di affrontare la situazione attuale, o persino di innovare rispetto alle prassi seguite in passato. Il riferimento alla prassi può operare solo in assenza di una disposizione normativa che regoli la fattispecie in questione, o quando è la stessa fonte normativa a ritrarsi, facendole spazio. Nel diritto parlamentare lo spazio per la prassi è notevole. (DA FARE) CAPITOLO 4 – LO STATUS DEI PARLAMENTARI 1. Una serie di garanzie a tutela della funzione parlamentare Ai deputati e ai senatori le norme costituzionali attribuiscono una serie di poteri, competenze e garanzie: in particolare, le immunità e le indennità. Tali previsioni sono integrate da disposizioni di legge e, soprattutto, dai regolamenti parlamentari. Questo complesso di attribuzioni , che vanno intese come situazioni giuridiche di natura individuale, ma strettamente inerenti alla funzione del parlamentare, costituiscono il suo status. Si tratta di situazioni individuali tutelate per assicurare l’indipendenza degli organi parlamentari. Lo status di parlamentare si acquista dal momento della proclamazione, atto conclusivo del procedimento elettorale. La proclamazione proviene o dagli uffici elettorali o, per i subentranti, dalla giunta provvisoria delle elezioni. Nel caso dei “senatori di diritto e a vita” (ossia gli ex Presidenti della Repubblica), lo status di parlamentare si acquista automaticamente, al momento stesso in cui cessano dalla carica di Capo dello Stato; i “senatori a vita di nomina presidenziale”, infine, diventano tali dal momento della comunicazione al Senato della loro nomina. L’acquisto dello status, tuttavia, è attribuito sotto la condizione risolutiva che l’elezione non sia annullata dalla camera di appartenenza, occorrendo anzi che da questa venga convalidata. A norma dell’art. 66 Cost. spetta, infatti, a ciascuna Camera giudicare dei titoli di ammissione dei suoi componenti. Oltre che quando sia la Camera stessa ad accertare la mancanza dei requisiti per l’elezione di un parlamentare, la cessazione della carica di parlamentare avviene per la fine della legislatura o per dimissioni. Le dimissioni di un parlamentare devono essere annunciate all’Assemblea. Se esse sono dovute alla circostanza che il dimissionario riveste incarichi incompatibili col mandato parlamentare, delle dimissioni si prende semplicemente atto, senza dibattito e senza voto. Se invece sono motivate da ragioni diverse dall’incompatibilità esse devono essere accettate dall’Assemblea con un voto esplicito. 2.Le immunità parlamentari 2.1. Le origini, tra Inghilterra e Francia Fra le prerogative che costituiscono lo status del parlamentare vengono in considerazione innanzitutto le cosiddette “immunità”: insieme dei meccanismi di tutela previsti nell’art. 68 Cost., frutto di una storica sedimentazione a garanzia dell’indipendenza e del regolare funzionamento delle Camere di fronte agli altri poteri dello Stato. Si tratta di veri e propri divieti rivolti agli altri poteri, innanzitutto al giudiziario. La prima delle immunità ad essere stata codificata, anche storicamente, è l’insindacabilità. Secondo l’art. 68, comma 1, Cost., i parlamentari non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Si tratta di una garanzia sostanziale, che immunizza i parlamentari da ogni specie di responsabilità giuridica (non solo penale, ma anche civile, amministrativa e disciplinare) per tutte le decisioni e per tutte le manifestazioni del pensiero che hanno avuto luogo “nell’esercizio delle loro funzioni”. Già nel ‘300 il giovane Parlamento inglese denunciò i costumi scandalosi della Corona e della sua Corte e seppe resistere alla volontà del Re di censurare questa discussione condannandone i protagonisti: il Re fu costrtto dal parlamento ad annullare la sentenza di condanna e a riconoscere quindi la libertà di parola e discussione in Parlamento. Questa libertà fu iscritta nel Bill of Rights del 1689 dopo la “Gloriosa Rivoluzione” (“La libertà di parola in Parlamento non può essere ostacolata o contestata né in sede giudiziaria, né in alcuna altra sede diversa da quella parlamentare”). Un secolo e due anni dopo, l’Assemblea nazionale francese, nel momento in cui affermava la propria indipendenza dal sovrano, sancì, in aggiunta alla prima garanzia, una garanzia di tipo procedurale: l’inviolabilità della persona di ciascun deputato senza il consenso della Camera di appartenenza. Ciò costituisce un divieto di perseguire, arrestare o detenere un deputato senza l’autorizzazione dell’Assemblea stessa. Il parlamentare può essere arrestato in caso di flagranza o in forza di un mandato di cattura; ma ne sarà dato immediato avviso al corpo legislativo e l’azione giudiziaria potrà continuare solo dopo che esso avrà deciso che vi è luogo all’accusa. L’assemblea nazionale rivendicava quindi non solo la propria libertà, ma anche una sorta di preminenza sugli altri poteri dello Stato. Il modello francese fu quello seguito dallo statuto albertino. Dopo lo svuotamento delle prerogative parlamentari realizzato dal regime fascista (9 Novembre 1926 quando i deputati aventiniani furono dischiarati decaduti) la Costituente ripristinò, con alcune varianti, la disciplina statutaria delle immunità. Mentre l’insindacabilità esplica i suoi effetti in tutti i procedimenti giurisdizionali e non viene meno con la cessazione dello status di parlamentare (ovviamente per le opinioni e i voti espressi quando lo status sussisteva), l’inviolabilità si applica solo per le misure relative al procedimento penale e solo se il parlamentare è ancora in carica. Inoltre, l’insindacabilità è tendenzialmente automatica nella sua applicazione, mentre l’inviolabilità è superabile con un’autorizzazione da parte della Camera di appartenenza, che può dare via libera alle misure coercitive o investigative nei confronti del parlamentare. questioni circa l’applicabilità della prerogativa dell’insindacabilità poste direttamente dai parlamentari interessati, sono tutte deferite dal Presidente dell’Assemblea, che le riceve, a un organo che le istruisce: la giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari al Senato e la giunta per le autorizzazioni alla Camera. La giunta deve presentare una proposta, corredata da una relazione, all’Assemblea. Nel frattempo il procedimento dinanzi al giudice è sospeso. La legge 140/2003 fissa però un termine massimo di tale sospensione pari a 90 giorni dalla ricezione degli atti da parte della Camera, prorogabili di altri 30 giorni su richiesta della Camera. Oltre tale termine il procedimento può riprendere, ma è ancora suscettibile di essere bloccato dalla Camera, purché la sentenza non sia divenuta definitiva. Nell’elaborazione delle proprie proposte la giunta segue un procedimento quasi giurisdizionale, invitando il parlamentare a fornire i chiarimenti ritenuti opportuni. È poi il plenum della Camera o del Senato a decidere sulle richieste presentate dall’autorità giudiziaria o sottoposte dai parlamentari. L’Assemblea può anche rovesciare le indicazioni della giunta. Nel Maggio 1993, all’indomani cioè del diniego dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, le giunte per il regolamento stabilirono che le votazioni delle autorizzazioni al procedimento avessero luogo a scrutinio palese, non dovendosi più considerare come votazioni riguardanti persone, ma espressioni di una prerogativa dell’organo parlamentare nell’ambito del rapporto con gli altri organi dello Stato. A scrutinio segreto possono, invece, continuare a votarsi le autorizzazioni al provvedimento (cioè riferite a provvedimenti limitativi della libertà personale). L’applicazione di questi principi (pregiudizialità ed effetto inibente) e la tendenza delle Camere ad affermare con larghezza l’insindacabilità di dichiarazioni rese al di fuori dell’attività parlamentare, portano i giudici a sollevare conflitto di attribuzione nei confronti delle delibere camerali: scaricando così sulla Carte Costituzionale ogni questione circa l’applicazione dell’insindacabilità parlamentare. Questa frequenza dei conflitti di attribuzione tra i poteri è segno evidente di un equilibrio non ancora raggiunto tra politica e magistratura, di un malessere del sistema. QUADRO 4.2: LA SENT. N. 1150 DEL 1988 DELLA CORTE COSTITUZIONALE: L’ARCHETIPO DEI CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE SULL’APPLICAZIONE DELL’ART. 68 COST. La Corte Cost. rivendico a sé stessa la possibilità di sottoporre a verifica il corretto uso del potere parlamentare di dichiarare l’insindacabilità del comportamento di un proprio componente. Cadeva così il principio, indiscusso dai tempi dello statuto albertino, secondo il quale l’unico interprete della portata della prerogativa è il parlamento. 2.3. L’inviolabilità, salvo autorizzazione al provvedimento Cancellata nel 1993 la necessità dell’autorizzazione alle indagini e all’esercizio dell’azione penale nei confronti dei parlamentari, resta tuttavia imprescindibile la necessità dell’autorizzazione della Camera di appartenenza per arrestare il parlamentare (salvo che si tratti di eseguire una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero qualora il parlamentare sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto come obbligatorio l’arresto in flagranza) e per compiere alcuni rilevanti atti della precedente fase di indagine e di acquisizione delle prove, invasivi della sfera della libertà personale dei parlamentari: quindi, perquisizioni domiciliari e personali e, a partire dal 1993, sequestro di corrispondenza e ogni altra forma di intercettazione di conversazioni o comunicazioni. La regola generale che le Camere devono seguire per evitare che la prerogativa si trasformi in privilegio è quella secondo la quale la concessione dell’autorizzazione all’arresto, o alla privazione in qualsiasi altra forma della libertà personale del parlamentare, dovrebbe essere negata solo in via eccezionale, sulla base del sospetto di una volontà persecutoria (cosiddetto fumus persecutionis) negli intenti che muovono l’azione dell’autorità giudiziaria: fumus che si ritiene non sussistente nel caso dell’arresto in flagranza e nell’ipotesi di condanna definitiva. Al criterio del fumus si aggiunge la considerazione di un ulteriore interesse, che attiene strettamente alla funzionalità e all’indipendenza delle istituzioni parlamentari: l’interesse a che non venga alterata l’integrità della composizione delle Camere, come risultante dal voto dei cittadini. Nella prassi le Camere hanno autorizzato l’arresto di parlamentari non condannati in via definitiva solo in quattro casi, tra la I e la IV Legislatura per deputati inquisiti di gravi fatti di sangue, istigazione a reati di terrorismo o di detenzione di armi. Nelle ultime legislature ci sono stati solo dinieghi all’arresto (come misura cautelare). I problemi più scottanti riguardano comunque le autorizzazioni per le intercettazioni telefoniche, efficace strumento investigativo, ma, al tempo stesso, oggetto di accesa curiosità, a volte ai limiti del morboso da parte dei mass media e dell’opinione pubblica. Sin dall’entrata in vigore del nuovo art. 68, si osservò che le intercettazioni (ma lo stesso dovrebbe dirsi per le perquisizioni domiciliari, che proprio nella sorpresa trovano una condizione essenziale per la loro riuscita) non avrebbero potuto più essere efficacemente utilizzate dai magistrati inquirenti, i quali quindi avrebbero dovuto rinunciare a una serie di strumenti per istruire l’accusa nei confronti dei parlamentari. Tuttavia, proprio la delicatezza di questo strumento investigativo giustifica la scelta del legislatore costituzionale del 1993 a garanzia della funzione parlamentare, volta a impedire che “l’ascolto di colloqui riservati da parte dell’autorità giudiziaria possa essere indebitamente finalizzato ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività” parlamentare (intercettazioni indirette). Certo queste “intercettazioni indirette” possono essere meramente “casuali”, ma potrebbero essere invece frutto di una strategia investigativa volta a controllare tutte le utenze dei soggetti che circondano il parlamentare, aggirando così la ratio dell’art. 68 comma 3. La legge 140/2003 ha espressamente previsto che l’obbligo di richiedere l’autorizzazione sussiste anche: a) per l’acquisizione di tabulati di comunicazioni che si riferiscano a utenze intestate al parlamentare b) per l’utilizzo delle cosiddette “intercettazioni indirette” (riguardanti cioè le comunicazioni del parlamentare, ma effettuate su utenze diverse da quelle a lui intestate) In questo secondo caso spetta al giudice per le indagini preliminari decidere della rilevanza o meno dei verbali e delle registrazioni alle quali hanno preso parte membri del Parlamento: disponendone la distruzione, over ritenuti irrilevanti; o, in caso contrario, richiedendo, entro i 10 giorni successivi, “l’autorizzazione della Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento in cui le conversazioni o le comunicazioni sono state intercettate”. voli nazionali. Nonché altri servizi a disposizione dell’amministrazione della Camera di appartenenza. CAPITOLO 5 – I PARLAMENTARI E LA RAPPRESENTANZA POLITICA 1. La rappresentatività dei parlamenti Caratteristica essenziale dei Parlamenti è essere rappresentativi: ciò fonda la legittimazione delle loro decisioni e la centralità degli stessi nei movimenti politici. Solo perché dotato di una funzione costituzionale di rappresentanza generale della società nello Stato, di rappresentanza dunque politica, relativa non a singoli o a parti, ma alla comunità nazionale (art. 67 Cost.), il Parlamento, a maggioranza, può adottare deliberazioni che si presume rappresentino la volontà degli elettori. Sono le elezioni, a suffragio universale e diretto, ogni cinque anni lo strumento che garantisce questa legittimazione del parlamento. Le elezioni hanno una funzione di legittimazione e al contempo di espressione delle opinioni e degli interessi; garantiscono il ricambio dei governanti e permettono un controllo dei rappresentati sui rappresentanti e quindi dei cittadini sulle strutture dello Stato. La materia elettorale è oggetto di una serie di prescrizioni costituzionali, riferite soprattutto alle condizioni di accesso all’elettorato, attivo e passivo. L’art. 48 Cost. fissa le condizioni dell’elettorato attivo, precisando che sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Ma il successivo art. 58 specifica che gli elettori per il Senato sono solo i cittadini che hanno superato il venticinquesimo anno di età. Il voto di ciascun cittadino, il cui esercizio è un dovere civico, è, sempre secondo l’art. 48, personale, uguale, libero e segreto. L’art. 51 stabilisce il principio che tutti i cittadini, dell’uno e dell’altro sesso, possono accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, rinviando però alla legge la fissazione dei relativi requisiti. L’art. 65 riserva alla legge la determinazione dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato o di senatore. Gli artt. 56, 57 e 58 ribadiscono che le due Camere sono elette a suffragio universale diretto. Il numero dei deputati è di 630, quello dei senatori elettivi 315, cui si aggiungono i 5 senatori a vita nominati dal Presidente della Repubblica e quelli di diritto (gli ex Presidenti della Repubblica). Sono eleggibili alla Camera i cittadini che abbiano compiuto i 25 anni, al Senato quelli che abbiano compiuto i 40. QUADRO 5.1: LE AZIONI POSITIVE VOLTE A PROMUOVERE LA RAPPRESENTANZA FEMMINILE La revisione dell’art. 51 Cost., del 2003, trae origine da uno scontro tra Corte Cost. e legislatore. Nelle leggi elettorali nazionali del ’93 era stata prevista una serie di meccanismi volti ad incentivare una più equa rappresentanza dei due sessi: fissando, ad es., una percentuale massima di candidati di uno stesso sesso nelle liste elettorali tra cui esprimere la preferenza; o richiedendo la presenza di donne e uomini necessariamente alternati nelle liste bloccate. La Corte, nel ’95, ha dichiarato costituzionalmente illegittime, giudicandole in contrasto con l’art. 3 e 52 Cost, dai quali ha ritenuto derivi l’irrilevanza dell’appartenenza all’uno o all’altro sesso ai fini della candidabilità. Tuttavia, il legislatore costituzionale ha affermato il principio della necessità di azioni positive per incoraggiare una più equilibrata presenza dei due sessi negli organi della rappresentanza politica. 2. I sistemi elettorali di Camera e Senato 2.1. Dal sistema proporzionale a quello prevalentemente maggioritario La Costituzione tace su quello che è ritenuto il cuore della materia elettorale, ossia il sistema elettorale in senso proprio: il meccanismo di traduzione dei voti in seggi. La scelta del sistema elettorale è infatti rimessa al legislatore ordinario statale. La materia non è invece tra quelle per le quali l’art. 75 esclude il referendum. 2.2. Il vecchio sistema elettorale della Camera Il sistema elettorale previsto dalla legge n. 277 del 1993 che si è applicato per tre tornate (94, ’96, 2001) per l’elezione della Camera, stabiliva la possibilità di espressione di due voti, su due schede separate: il primo valido per l’assegnazione del 75% dei seggi in collegi uninominali, con una formula maggioritaria relativa, all’inglese (o formula plurality: il candidato che ottiene la maggioranza relativa dei voti, anche un solo voto più dell’avversario, viene eletto); il secondo, per il restante 25% dei seggi, ripartiti proporzionalmente tra le liste che avessero conseguito almeno il 4% dei voti a livello nazionale. Un collegamento tra le due schede era dato dal c.d. scorporo: al riparto dei seggi proporzionali, infatti, le liste concorrevano non con tutti i voti ottenuti, ma scorporando, sottraendo cioè da questi, una parte dei voti ottenuti nei collegi uninominali dai candidati vincenti collegati alle liste medesime. QUADRO 5.2: L’AGGIRAMENTO DELLO SCORPORO CON LE LISTE CIVETTA E LE SUE CONSEGUENZE Proprio per evitare la penalizzazione derivante dallo scorporo, nelle elezioni del 2001 le due maggiori coalizioni hanno fatto collegare gran parte dei candidati dei collegi uninominali non con le effettive liste di appartenenza, ma con liste civetta (prive cioè, con ogni probabilità, di consensi nella scheda proporzionale). Il che ha prodotto, per il maggior partito della coalizione vincente, un risultato paradossale. Il sistema elettorale prevedeva che, qualora ad una lista spettassero più seggi rispetto al numero dei candidati al proporzionale, si dovesse procedere al ripescaggio dei candidati non eletti ai collegi uninominali. Ora, essendo quasi tutti i candidati appartenenti al partito di Forza Italia, nei collegi uninominali, collegati alle liste civetta, non si è riusciti a individuare un numero sufficiente di candidati perdenti nei collegi uninominali da ripescare. Per regolamento questi seggi si sarebbero dovuti distribuire proporzionalmente alle altre liste (quindi 7 su 11 seggi sarebbero finiti all’opposizione). La decisione della Camera fu quella di non assegnare questi 11 seggi. 2.3. Il vecchio sistema elettorale del Senato A proclamare eletti i parlamentari sono gli uffici elettorali. A fronte di eletti in più circoscrizioni, il Presidente di Assemblea, dopo l’opzione fatta dal candidato eletto per una circoscrizione, procede a proclamare il candidato “subentrante”, che segue nella lista l’ultimo eletto nell’ordine accertato dalla giunta delle elezioni. Con la proclamazione il parlamentare acquista il suo status, ma è un acquisto “temporaneo” e reversibile. La proclamazione infatti è oggetto del giudizio di convalida previsto dall’art. 66 Cost. La procedura di verifica che porta a questo giudizio è affidata nelle due Camere a un organo, la giunta delle elezioni, composta da 30 membri alla Camera e 23 al Senato, scelti dal Presidente (su indicazioni non formalizzate dei gruppi), e per prassi consolidata presieduta da esponenti dell’opposizione. Queste giunte, raccolto il materiale documentale dagli uffici elettorali, ricevuti gli eventuali ricorsi, predispongono relazioni circoscrizione per circoscrizione. Su iniziativa dei relatori la giunta può decidere di proporre all’aula la convalida delle elezioni o aprire un’istruttoria. Così la giunta, o meglio un comitato costituito al suo interno, procede a verificare le schede. Tutte queste attività alla Camera sono compiute in contraddittorio, mentre il Senato segue un modello inquisitorio, che considera il contraddittorio come meramente eventuale. A conclusione dell’istruttoria la giunta può proporre la convalida o la contestazione dell’elezione. In quest’ultimo caso si sviluppa una procedura quasi dibattimentale: si svolge una vera e propria udienza pubblica, ove le parti possono farsi assistere da un avvocato, al termine della quale, in camera di consiglio, la giunta decide proponendo la convalida o l’annullamento dell’elezione contestata. Qui la palla torna all’Assemblea, che può sovranamente rovesciare, con un voto privo di motivazione, la proposta argomentata della giunta, senza che sia possibile alcun rimedio giurisdizionale. Dal 1992 il regolamento del Senato prevede che sulle proposte della giunta l’Assemblea non proceda a votazioni, intendendosi approvate le conclusioni della giunta stessa. Alla Camera, dal 1990, questa procedura di silenzio-assenso si segue qualora una proposta della giunta discenda dal risultato di accertamenti meramente numerici. L’aula resta pertanto sovrana nel decidere se annullare – o meno – un’elezione, ma con l’obbligo di fornire una qualche motivazione ove si discosti dalle indicazioni della giunta. QUADRO 5.4: IL FENOMENO DELLE CANDIDATURE PLURIME Tra le novità introdotte dalla nuova legge elettorale v’è la possibilità per i candidati di presentarsi in tutte le circoscrizioni (unico limite sta nell’impossibilità di un candidato ad una Camera di presentarsi nelle liste per l’altro ramo del Parlamento; fino ad allora al Senato non più di un collegio, alla Camera non più di tre circoscrizioni). Questa previsione è molto contestata ed è oggetto di una proposta di referendum abrogativo. Essa introduce un elemento di incertezza, poiché gli elettori che votano in una certa circoscrizione per una data lista non possono sapere in anticipo quali saranno il candidato o i candidati della lista che li rappresenteranno. Certezza sugli eletti si ha solo dopo il voto, quando i candidati eletti in più circoscrizioni avranno esercitato l’opzione tra l’una o l’altra delle circoscrizioni in cui sono stati eletti. I partiti così, non solo definiscono l’ordine dei candidati nelle liste bloccate, ma affidano anche ai candidati eletti in più circoscrizioni la possibilità di decidere, dopo le elezioni, chi entra in Parlamento. 4.L’accertamento delle cause di ineleggibilità e di incompatibilità Un procedimento analogo segue l’accertamento delle cause di ineleggibilità e incompatibilità. Le cause di ineleggibilità sono essenzialmente raccolte nel testo unico 361/1957 e possono in sintesi essere ricomprese in 5 gruppi: 1) titolarità di alcune cariche elettive (presidenti di provincia, sindaci di comuni con più di 20.000 abitanti) 2) titolarità di determinati uffici (magistrati, prefetti, diplomatici, capi di gabinetto dei ministeri, direttori generali delle ASL) 3) titolarità di particolari rapporti economici con lo Stato 4) titolarità di rapporti di impiego con governi esteri 5) l’essere giudici costituzionali (e, più di recente, componenti di autorità di vigilanza). Per potersi candidare, i titolari di cariche elettive e di uffici pubblici per i quali è prevista l’ineleggibilità devono abbandonare la carica almeno 180 giorni prima della fine della legislatura; oppure, nel caso di scioglimento anticipato, entro i 7 giorni successivi alla pubblicazione del relativo decreto. Quest’ultima possibilità è negata, a partire dal 1997, ai magistrati che intendano candidarsi nelle circoscrizioni sottoposte alla giurisdizione degli uffici cui sono assegnati. I sindaci dei comuni più popolosi e i presidenti delle giunte provinciali devono invece necessariamente abbandonare la carica prima delle elezioni. Non vale, invece, la regola inversa: deputati e senatori possono essere eletti sindaci o presidenti di provincia e, oggi, tendono comunque a conservare il proprio mandato parlamentare. Facendo leva sulla mancanza di una norma sull’ineleggibilità “a specchio”, ossia di una norma che, oltre all’ineleggibilità alla carica di parlamentare per i presidenti delle giunte provinciali e per i sindaci dei comuni con più di 20.000 abitanti, preveda espressamente anche l’ineleggibilità dei parlamentari in corso di mandato alle stesse cariche locali, le giunte di Camera e Senato sono addirittura arrivate a riconoscere le legittimità del cumulo dei mandati. La prassi parlamentare è così pervenuta alla conclusione di consentire che un parlamentare in carica, candidato ed eletto alla carica di presidente di provincia o di sindaco di comune con popolazione maggiore di 20.000 abitanti, possa continuare a ricoprire entrambi i mandati. Per l’ineleggibilità di chi ha rapporti economici con lo Stato il criterio seguito è quello formale del rapporto con lo Stato. La pura “fornitura statale”. E cos’ non può candidarsi chi è legato con lo Stato da rapporti di affari anche di modesta entità, mentre la via è aperta a chi controlla società titolari di importanti concessioni. La Costituzione prevede alcune ipotesi di incompatibilità per il parlamentare: non si può essere contemporaneamente deputato o senatore, parlamentare e giudice costituzionale, membro del CSM o consigliere regionale, né Presidente della Repubblica, ufficio questo incompatibile con ogni altra carica. Le leggi prevedono molti altri casi di incompatibilità: cariche di nomina governativa, cariche in enti o associazioni che gestiscono servizi in concessione, o ai quali lo Stato contribuisce in via ordinaria, cariche direttive negli istituti bancari o in società finanziarie, mandato di parlamentare europeo, consigliere del CNEL, cariche di autorità di garanzia e molte altre. Mentre il giudizio sulle cause di ineleggibilità rientra nella verifica dei poteri, e dunque si svolge contestualmente alla convalida di cui costituisce un aspetto, il giudizio sulla compatibilità degli incarichi dei parlamentari presuppone che la convalida sia già avvenuta. I parlamentari hanno l’obbligo, strumentale a entrambi i giudizi, di comunicare ai Presidenti dell’Assemblea di appartenenza gli incarichi ricoperti. Sulla base di questa documentazione, appositi comitati permanenti delle due giunte svolgono un’istruttoria, in contraddittorio con l’interessato. Se emerge un’incompatibilità, il parlamentare deve optare tra il mandato di parlamentare e l’incarico incompatibile. Qualora non vi sia l’opzione, la giunta propone all’Assemblea di dichiarare la decadenza del parlamentare; ad esso subentra il primo dei non eletti. 5. I gruppi parlamentari 5.1. La costituzione dei gruppi (ordinari e autorizzati) Il primo atto con cui si apre la legislatura è l’elezione dei Presidenti di Camera e Senato, e avviene tra esponenti della coalizione di maggioranza e con i voti solo di questa. Il risultato politico della consultazione elettorale viene reso più chiaramente leggibile con la costituzione dei gruppi parlamentari: proiezione in Parlamento dell’articolazione del sistema politico (partiti, movimenti politici ecc.). I deputati devono dichiarare di quale gruppo parlamentare vogliono fare parte. È questa un’articolazione prevista come la conferenza dei presidenti dei gruppi: l’organo di direzione politica di ciascuna Camera, che definisce il programma e il calendario dei lavori, ossia quali siano gli argomenti da discutere e con quali tempi e priorità. Un organo solo sommariamente disciplinato dal regolamento della Camera, e in modo indiretto da quello del Senato, che svolge funzioni politiche anche tipiche e crescenti, costituendo oggi il vero baricentro delle due Camere. Ai gruppi l’amministrazione e il bilancio delle Camere assicurano disponibilità di locali e attrezzature, e il versamento periodico di contributi. Presso i gruppi possono essere distaccati o comandati dipendenti pubblici o privati. Il funzionamento dei gruppi è disciplinato da statuti e regolamenti interni ai quali il regolamento del Senato richiede di stabilire “procedure e forme di partecipazione che consentano ai singoli senatori di esprimere i loro orientamenti e presentare proposte sulle materie comprese nel programma dei lavori o comunque all’ordine del giorno”. La disciplina di gruppo è un vincolo a cui volontariamente il parlamentare si sottopone, senza alcuna violazione dell’art. 67 Cost., il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi che gli vengono dall’esterno, compreso il proprio gruppo parlamentare, ma è anche libero di sottrarvisi. Lo stesso gruppo può dare, in alcune materie, libertà di voto. Ma generalmente i parlamentari seguono le indicazioni dei gruppi. I regolamenti, nel rispetto dello spirito dell’art. 67, assicurano tuttavia spazi ai dissenzienti. Viene così tutelata la libertà del mandato del singolo parlamentare, che, al di là dell’organizzazione partitica e politica di cui i gruppi sono espressione, è la garanzia ultima dell’apertura del Parlamento al pluralismo culturale e sociale, della sua piena capacità di rappresentanza. QUADRO 5.6: L’INCERTO STATUTO DELLE COALIZIONI Manca una disciplina regolamentare che assegni un ruolo alle coalizioni che pure sono oggetto di una chiara investitura: la coalizione vincente è investita della funzione di governo; quella perdente delle funzioni di opposizione, di critica, controllo ed elaborazione, quindi di alternative programmatiche. CAPITOLO 6 – L’ORGANIZZAZIONE DEL PARLAMENTO 1. Il Bicameralismo Alla pluralità di funzioni del Parlamento corrisponde una struttura complessa e articolata. È l’esigenza di inserire un elemento equilibratore, di limite, di ulteriore riflessione a motivare storicamente l’assetto bicamerale. Si è affermata la scelta per un bicameralismo paritario nelle attribuzioni, cristallizzata nella costituzione agli artt. 55 (“Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”), 70 (“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”) e 94 (“Il Governo deve avere fiducia nelle due Camere”). Nel testo costituzionale vi sono solo pochi elementi di differenziazione tra le due Camere, a volte frutto di voti “casuali” in Assemblea costituente, ma tutti recanti frammenti significativi delle istanze che nella storia hanno radicato le esperienze bicamerali. In primo luogo, la diversa disciplina dell’elettorato attivo e di quello passivo. È un elemento che nella storia connota le Camere alte, deputate alla riflessione che giustifica la maggiore anzianità degli eletti e pure quella degli elettori. In secondo luogo, il minor numero di componenti che è anch’esso elemento comune delle seconde Camere. Come pure il minimo di senatori assegnato a ciascuna regione, il quale determina una disomogeneità rappresentativa a favore delle regioni meno popolate. Mentre la Camera è tutta elettiva, fanno parte del Senato anche alcuni membri vitalizi. Infine, seppur parzialmente, diversi sono i sistemi elettorali. La Costituzione prevede che il Senato “è eletto a base regionale”. Questa previsione è sempre stata interpretata dal legislatore come volta a escludere modalità di assegnazione di seggi sulla base del risultato nazionale, ritenendosi in genere che i seggi del Senato debbano essere sempre assegnati regione per regione. Ne è risultata la scelta del legislatore di assegnare al Senato premi di coalizione regione per regione. Ragioni di efficienza e stabilità dell’esecutivo hanno portato a eliminare la differenza più incisiva originariamente prevista nel testo costituzionale: la diversa durata, 5 anni per la Camera e 6 per il Senato. I caratteri distintivi delle due Camere, come si è visto, sembrano costituire oggi elementi capaci di produrre più disfunzionalità che equilibrio e integrazione della rappresentanza (come invece auspicato dai costituenti), rischiando di compromettere la stabilità stessa del Governo e l’efficienza di molti aspetti del sistema parlamentare. Si pensi solo alle difficoltà per il Governo di garantire la definizione di un’agenda coordinata dei lavori nelle due Camere, che incentivano l’uso frequente di strumenti non ordinari, quali il decreto-legge e la “blindatura” dei testi attraverso la questione di fiducia. QUADRO 6.1: I SENATORI A VITA Sono senatori di diritto e a vita coloro che hanno ricoperto la carica di Presidente della Repubblica. Lo stesso Presidente può nominare senatori a vita cinque cittadini 5 cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. E sono senatori che hanno gli stessi diritti e prerogative degli altri componenti. Gran parte dei senatori a vita sono stati scelti tra personalità politiche eminenti che sono stati richiamati anche a coprire incarichi politici di rilievo. Forse perché scottati dalla prima esperienza la prassi presidenziale si è orientata in prevalenza verso la scelta di personaggi politici. Polemiche sono sorte all’inizio della XV Legislatura, generate dal fatto che, in alcune votazioni, il voto dei senatori a vita risultava determinate: esponenti delle forze di opposizione hanno ripetutamente invitato i senatori a vita ad astenersi dal partecipare ai lavori sostenendo che il loro voto non potesse equipararsi, in quanto privo di legittimazione popolare, a quello espresso dai senatori elettivi. QUADRO 6.2: UN PARLAMENTO, DUE AULE Anche la topografia ha aiutato lo strutturarsi, in Italia, di un bicameralismo nato e vissuto in due palazzi rigidamente separati. Fissata la capitale a Roma, furono scelti due edifici pubblici (un tribunale, Montecitorio; e un ministero, Palazzo Madama). Quelle aule ancora oggi sono il cuore della vita parlamentare: nelle due aule, Senato e Camera esprimono la fiducia al Governo, approvano normalmente le leggi, si svolgono i dibattiti politici più rilevanti, si votano gli atti di indirizzo, si svolgono le interrogazioni ecc. Nell’aula di Montecitorio si riunisce poi il Parlamento in seduta comune. Le due aule si presentano come dei teatri. Delle cavee ove si distribuiscono, in banchi posti a semicerchio su ordini degradanti, da destra a sinistra i deputati e i senatori. Di fronte i banchi del governo, in due ordini, ove siedono i ministri (dietro) e sottosegretari (più in basso). Sopra, in un banco collocato decisamente più in alto, il posto del Presidente. Alla sua destra, i parlamentari segretari; alla sua sinistra, gli uffici. Tra i banchi del Governo e la prima fila dei banchi dei parlamentari vi sono dei piccoli banchetti, ove si collocano gli stenografi, i quali redigono i resoconti stenografici delle sedute. Essi valgono a riaffermare il principio costituzionale della pubblicità delle sedute; a questo scopo le due aule, in alto, sono circondate da vari ordini di tribune. In particolare, l’elezione dei presidenti di commissione è strettamente legata agli equilibri politici della formazione del gabinetto. Ogni parlamentare è chiamato a far parte di una commissione permanente. Anche i membri del Governo (ministri e sottosegretari), i quali, per la durata del loro ufficio, sono sostituiti, nell’attività della commissione, da un collega del medesimo gruppo; quest’ultimo, dunque, farà parte di più di una commissione, in deroga alla regola generale per cui ciascun parlamentare può essere membro di una sola commissione. La regola suddetta subisce poi un’ulteriore e rilevante eccezione al Senato: i gruppi più piccoli, la cui consistenza sia inferiore al numero delle commissioni, possono designare uno stesso senatore in più commissioni, così da garantire la rappresentanza dei gruppi in tutte le commissioni permanenti. Il principio della rappresentanza proporzionale dei gruppi nelle commissioni, un principio sancito dalla Costituzione (art. 72, comma 3) per le sole commissioni con poteri deliberanti e d’inchiesta, è applicato dai regolamenti in via tendenzialmente generale. Salvo poteri correttivi dei Presidenti d’Assemblea, spetta ai gruppi designare i propri rappresentanti in commissione. Un potere che si ripropone dopo due anni di legislatura quando la composizione della commissione va rinnovata; e, ogni giorno, con la possibilità di sostituire i propri in commissione per la seduta o per il provvedimento. La sostituzione è lo strumento che garantisce il controllo politico dei gruppi sulla composizione e, quindi, sui lavori delle commissioni. L’articolazione delle loro competenze materiali consente di coprire, attraverso di esse, tendenzialmente l’intero spettro delle questioni che le Camere possono essere chiamate ad affrontare. Innanzitutto, le commissioni svolgono funzioni preparatorie rispetto all’attività dell’Assemblea. Ma le commissioni hanno anche il potere di definire automaticamente la volontà delle Camere cui appartengono. Il procedimento legislativo può svolgersi tutto secondo i limiti e le garanzie fissate dall’art 72, nelle commissioni parlamentari permanenti in sede deliberante. Le commissioni possono poi formulare atti di indirizzo al Governo nelle materie di loro competenza, approvando risoluzioni e in esse possono essere svolte le interrogazioni. Alle commissioni è affidata una funzione consultiva “interna” mediante pareri indirizzati alle altre commissioni. Ciò in primo luogo qualora una materia investa le competenze di una pluralità di commissioni. In questo caso, o viene radicata la competenza prevalente in una sola commissione, invitandosi le altre a svolgere una funzione consultiva attraverso pareri; oppure si sceglie la via dell’assegnazione del progetto di legge alle commissioni riunite. Il legislatore ha poi previsto, con notevole frequenza, un’attività consultiva “esterna” delle commissioni: sugli atti normativi del Governo; sugli atti preparatori della normativa dell’UE; su nomine fatte dal Governo. Le commissioni parlamentari sono dunque centri nevralgici dell’attività parlamentare, ciascuna secondo la propria competenza per materia, che corrisponde sostanzialmente ai vari settori dell’amministrazione pubblica. È una ripartizione non perfettamente corrispondente nei due rami del Parlamento. I lavori della commissione parlamentare permanente sono diretti da un presidente – eletto fra i suoi componenti a scrutinio segreto e a maggioranza assoluta, salvo il ricorso al ballottaggio – il quale svolge un ruolo essenziale, spesso predominante, innanzitutto nella definizione dell’ordine del giorno. Il presidente di commissione introduce l’esame o nomina il relatore per ciascun provvedimento e prende altresì parte attivamente al merito delle discussioni, partecipando, di solito, alle votazioni che si svolgono in commissione. Ogni commissione ha un ufficio di presidenza, cui spetta, integrato dai rappresentanti dei gruppi, definire la programmazione dei lavori della commissione. A sua volta, poi, la commissione si può articolare in comitati permanenti o temporanei. 4.Le commissioni speciali La formazione di speciali commissioni avviene raramente, come per esempio nel caso di disegni di legge di grande importanza che investano la competenza di più commissioni. Il mandato di queste commissioni è definito dall’atto istitutivo e può sia essere limitato all’esame di disegni di legge chiaramente individuati e assegnati alla commissione speciale per una funzione referente, sia essere esteso, ovvero limitato, alle altre funzioni proprie delle commissioni: consultive e di indirizzo. Non è una commissione speciale, ma è per certi versi a essa assimilabile, la “commissione di indagine sull’onorabilità dei deputati e senatori”. Il parlamentare che si ritiene offeso da un collega può ricorrere a un organo interno (“Giurì d’onore”), il cui obiettivo è sostanzialmente quello di mettere pace tra i contendenti. Si tratta di un contrappeso all’insindacabilità che copre le opinioni espresse dai parlamentari nelle sedi di Camera e Senato. 5.Le giunte Le giunte si distinguono dalle commissioni per il loro essere organi con una proiezione tutta interna al lavoro delle due Camere; oltre che per una composizione più ristretta di quella delle commissioni e per avere componenti, anziché designati dai gruppi parlamentari, nominati dal Presidente. La giunta per il regolamento è composta da 10 o più membri nominati, secondo i criteri di proporzionalità tra i gruppi, dal Presidente di Assemblea, che la presiede. Ad essa spetta essenzialmente promuovere ed esaminare le proposte di modifica del regolamento parlamentare; proposte che, dopo essere state istruite dalla giunta, sono esaminate dall’Assemblea della Camera (o del Senato), e da questa approvate a maggioranza assoluta dei componenti, come prescritto dall’art. 64 Cost. La giunta per il regolamento ha importanti funzioni consultive su ogni questione di rilievo concernente l’interpretazione del regolamento. La giunta delle elezioni è l’organo che alla Camera svolge l’attività istruttoria per la “verifica dei poteri” affidata dall’art. 66 Cost. a ciascuna Camera, che consiste nel controllo sulla regolarità delle operazioni elettorali e sull’accertamento di eventuali situazioni di ineleggibilità o incompatibilità. L’attività della giunta è un’attività solo preparatoria di decisioni che possono essere rovesciate dall’Assemblea. La giunta per le autorizzazioni è l’organo competente: a valutare se un dato comportamento di un parlamentare rientri tra quelli coperti dalla garanzia dell’insindacabilità; a valutare poi se debbano essere accolte le richieste provenienti dall’autorità giudiziaria in ordine all’esecuzione di provvedimenti coercitivi nei confronti di parlamentari, nonché le richieste di autorizzazione a procedere nel caso di reati ministeriali, di reati cioè compiuti da ministri-deputati, nell’esercizio delle loro funzioni. 6. Il presidente di Assemblea Come per qualsiasi organo collegiale, anche nelle due Camere il Presidente è l’organo cui spetta regolare i lavori, dirigere e moderare le discussioni. Si è registrato nell’ultimo quindicennio un sensibile enlargement of functions della conferenza dei capigruppo, che è stata in più occasioni chiamata a svolgere funzioni ben diverse dalla programmazione dei lavori. È in conferenza che il Presidente di Assemblea ha modo di manifestare le sue capacità di mediazione e di influenza politica, lungi dal limitarsi a registrare le diverse posizioni presenti sul tappeto. Difficilmente in conferenza dei capigruppo si procede a vere e proprie votazioni: spesso si decide per consensus, ossia presupponendo l’unanimità dei presenti. Nei rari casi in cui si vota, o ciò accade all’unanimità dei presenti, o vige comunque un criterio ponderale: nel senso che il voto di ciascun capogruppo pesa in misura pari alla consistenza del gruppo che rappresenta: il consenso dei presidenti di gruppi la cui consistenza numerica sia complessivamente pari almeno ai ¾ dei componenti della Camera. 8.L’ufficio di presidenza L’ufficio di presidenza (consiglio di presidenza al Senato) è l’organo cui essenzialmente spetta, insieme al Presidente, la conduzione amministrativa della Camera. È composto, oltre che dal Presidente di Assemblea, dai quattro vicepresidenti (che sostituiscono il Presidente nella direzione dei dibattiti), da (almeno) otto segretari (che sovrintendono alla redazione dei verbali e assistono il Presidente nell’accertare il risultato delle votazioni) e dai tre questori. I questori delle camere sono i parlamentari che, collegialmente e sotto la direzione del Presidente dell’Assemblea, curano, da un lato, il buon andamento dell’amministrazione (bilanci, conti consuntivi)e, dall’altro, provvedono al mantenimento dell’ordine nella sede di ciascuna Camera. Esercitano a tal fine, veri e propri poteri di polizia. Vicepresidenti, questori e i primi otto segretari d’Assemblea sono eletti subito dopo l’elezione del Presidente, con un sistema di votazione che permette una rappresentanza delle minoranze. L’ufficio di presidenza, in particolare, delibera il progetto di bilancio e il rendiconto predisposti dai questori; adotta le norme relative all’amministrazione, alla contabilità interna, alla carriera dei dipendenti; nomina il segretario generale, che costituisce l’organo di vertice dell’amministrazione interna di ciascuna Camera. L’ufficio di presidenza svolge però anche un ruolo più marcatamente connesso con l’attività politica delle Assemblee. In particolare, autorizza la costituzione di gruppi in deroga ai requisiti numerici previsti dal regolamento; giudica delle controversie sulla composizione delle commissioni parlamentari; irroga le sanzioni disciplinari più gravi proposte dal Presidente nei confronti dei singoli parlamentari. 9.Le strutture di supporto Lo statuto di garanzia delle Assemblee parlamentari è sempre stato interpretato a rigorosa tutela dell’autonomia di ciascuna Camera. Un’autonomia non solo regolamentare, ma anche amministrativa, contabile e giurisdizionale. Ciascuna Camera gode di un’autonomia che, se si esprime anzitutto sul piano normativo, nel senso che agli organi in questione compete la produzione di apposite norme giuridiche, disciplinanti l’assetto ed il funzionamento dei loro apparati serventi, non si esaurisce nella normazione, ma comprende il momento applicativo delle norme stesse. In attuazione di questi principi, i regolamenti di Camera e Senato prevedono che servizi e uffici delle due Camere siano ordinati secondo norme approntate dagli uffici di presidenza. Gli apparati di supporto sono diretti dal segretario generale, che ne risponde al Presidente. Si sono così formate due burocrazie tradizionalmente di eccellenza, cui si accede per pubblico concorso, le quali nascono e vivono come corpi separati. Le biblioteche, insieme ai servizi di resocontazione dei palazzi, sono i servizi storicamente nati insieme alle due Camere. Da allora, i compiti delle amministrazioni sono cresciuti con lo svilupparsi delle funzioni parlamentari. E oggi il corpo dei consiglieri svolge funzioni di segreteria tecnica e organizzativa dei vari parlamentari, di consulenza e documentazione. A garanzia dell’autonomia delle Camere, le due amministrazioni godono di un’autonomia giurisdizionale: la cosiddetta giurisdizione domestica, in base alla quale le controversie tra dipendenti delle Camere e amministrazione sono sottratte alla competenza dei giudici ordinari e amministrativi per essere affidate a meccanismi interni di tutela: meccanismi disciplinati da appositi regolamenti, che li hanno avvicinati sensibilmente alle procedure e alle garanzie giurisdizionali, incluso il doppio grado di giurisdizione. Le amministrazioni delle Camere e le Camere nel loro complesso sono dotate altresì di un’autonomia contabile, fondata su una vera e propria consuetudine costituzionale. CAPITOLO 7 – LE FUNZIONI DEL PARLAMENTO 1. La classificazione delle funzioni parlamentari 2. Le funzioni di indirizzo politico, legislativa, di controllo, di garanzia costituzionale e di coordinamento Due aspetti molto importanti: - Relativizzazione della funzione legislativa - Le funzioni del parlamento si muovono lungo uno spettro ampio, e devono perciò articolarsi secondo tipologie più complesse di quelle tradizionalmente considerate Vi sono cinque funzioni parlamentari: a) La funzione di indirizzo politico, intesa come concorso alla determinazione dei grandi obiettivi della politica nazionale e alla scelta degli strumenti per conseguirli, in specificazione e attualizzazione del programma di governo; b) La funzione legislativa, comprensiva dei procedimenti legislativi “duali”, che vedono cioè la compartecipazione necessaria del Governo o di altri soggetti dotati di potestà normativa; c) La funzione di controllo, definita come verifica dell’attività di un soggetto politico in grado di attivare una possibile reazione sanzionatoria; d) La funzione di garanzia costituzionale, interpretata come concorso delle Camere alla salvaguardia delle condizioni di normalità costituzionale; e) La funzione di coordinamento delle autonomie, invero di sempre più difficile esplicazione, in un sistema che nelle sedi di raccordi esistenti a livello sia internazionale che infranazionale tende a privilegiare il dialogo tra esecutivi. 3. Il principio della polifunzionalità dei procedimenti parlamentari Assai variegata è la gamma dei procedimenti attraverso cui queste cinque funzioni vengono esercitate. Essendo il Parlamento organo costituzionale al tempo stesso collegiale e a struttura complessa, è evidente che la sua attività è fortemente procedimentalizzata, in modo da assicurare un ruolo ai diversi oggetti in campo (vale a dire, alle articolazioni interne delle Camere, ma anche ai soggetti politici, individuali e collettivi, che prendono parte alla vita parlamentare). 4.5. Le modalità di votazione: voto palese evoto segreto Con quale metodo si vota? In alcuni casi non vi è nemmeno una vera indizione. Sono le votazioni tacite: as es. l’approvazione del processo verbale, che, una volta letto, se nessuno chiede di parlare, risulta approvato. In altri casi, è la Costituzione a dare un’indicazione. Secondo l’art. 94, ciascuna camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata “votata per appello nominale”. L’appello nominale è la forma di voto più impegnativa e complessa. È un voto palese, che permette di fissare negli atti il numero e il nome dei parlamentari che votano a favore o contro e degli astenuti. Rispondendo all’appello nominale, ogni parlamentare esprime il proprio voto - ad alta voce – passando davanti al banco della presidenza. Al di là di questa indicazione, la Costituzione lascia ampia libertà ai regolamenti di disciplinare le modalità di votazione. Si può distinguere tra votazioni palesi e segrete. Segrete sono quelle che non permettono di sapere se il parlamentare abbia dato un voto favorevole, contrario o si sia astenuti; e tali sono lo scrutinio segreto e il voto per schede (cui si ricorre, in genere, per le elezioni, che si svolgono sempre in forma segreta). Si può poi distinguere tra votazioni sommarie, per determinare il risultato delle quali basta una valutazione a occhio da parte del Presidente; e qualificate, con le quali invece viene analiticamente registrato nome e numero dei votanti. Sia alla Camera che al Senato il metodo di votazione ordinario (palese e sommario), e anche il più semplice, è quello per alzata di mano. Su richiesta di 20 deputati o 15 senatori, si può procedere invece per votazione nominale, che ormai da decenni si effettua con il sistema elettronico. Sia alla Camera sia al Senato la votazione nominale con scrutinio elettronico è diventato sempre più il modo ordinario di voto. La regola generale è che le votazioni parlamentari si svolgono a scrutinio palese: entrambi i regolamenti prevedono, però, la possibilità per trenta deputati o venti senatori di chiedere, in relazione a determinate materie, lo scrutinio segreto. Vi sono, poi, alcune votazioni da svolgersi necessariamente a scrutinio segreto ed altre da effettuarsi per forza a scrutinio palese. La regola oggi è quella dello scrutinio palese, si può richiedere lo scrutinio segreto solo in relazione a determinate materie (cfr. quadro). Sia alla Camera sia al Senato, sono necessariamente sottoposte a scrutinio segreto – oltre, ovviamente, alle elezioni, cui si procede mediante schede – le votazioni relative alle persone. All’opposto, lo scrutinio segreto è vietato nelle votazioni concernenti le leggi finanziarie e di bilancio e, più in generale, su disposizioni ed emendamenti che comportino aumenti di spese o diminuzione di entrate. Obbligatoriamente a scrutinio palese si svolgono le votazioni in commissione, con la sola eccezione delle votazioni concernenti persone. Il Governo può comunque, quale che sia la materia, fare prevalere il vincolo di maggioranza mediante la posizione della questione di fiducia, precludendo così ogni possibilità di chiedere la votazione segreta. QUADRO 7.2. – LE MATERIE SU CUI SI PUÒ CHIEDERE IL VOTO SEGRETO Le materie su cui è possibile chiedere il voto segreto sono quelle, delicatissime, dei diritti e delle libertà previsti nella prima parte della Costituzione. Qui il possibile ricorso al voto segreto è a piena tutela del libero mandato parlamentare, agevolando la costruzione di maggioranze trasversali, che sfuggano al vincolo della disciplina di gruppo. Può esservi, inoltre, richiesta di voto segreto sulle modificazioni al regolamento di ciascuna Camera. QUADRO 7.3. – IL DIVERSO COMPUTO DEGLI ASTENUTI ALLA CAMERA E AL SENATO L’art. 48 r.C., dopo aver letteralmente ripetuto la regola costituzionale (le deliberazioni dell’Assemblea e delle commissioni sono adottate a maggioranza dei presenti), precisa però che sono considerati presenti a questo fine, solo coloro che esprimono voto favorevole o contrario, delle astensioni i segretari si limitano a prendere nota ai fini del numero legale (al raggiungimento del quale essi concorrono). Più vicino alla lettera della disposizione costituzionale, l’art. 107 r.S. stabilisce che le deliberazioni sono prese a maggioranza dei senatori che partecipano al voto, ivi compresi gli astenuti. Al Senato, quindi, il numero degli astenuti è sommato a quello dei favorevoli e dei contrari, per determinare il numero dei presenti che, diviso per due e aumentato di uno, dà la maggioranza necessaria. Il voto di astensione rende perciò più difficile raggiungere la maggioranza. 4.6. Lo scrutinio e il calcolo delle maggioranze (e degli astenuti) Una volta cominciata la votazione, questa non può essere interrotta e non è più concessa la parola fino alla proclamazione del voto. Per descrivere il momento dell’accertamento del risultato si parla di scrutinio. Non rileva, da quel momento, l’effettiva volontà del votante. L’eventuale errore non incide sul risultato. È quest’ultimo ad essere “accertato” dai segretari, per essere poi proclamato dal Presidente: ai primi, dunque, la funzione di contare e svolgere operazioni materiali di numerazione dei voti; al Presidente quella di controllare queste operazioni e proclamare il risultato, con le formule, nelle votazioni deliberative, approva o non approva. È sempre del Presidente, in ogni caso di irregolarità, apprezzate le circostanze, il potere di annullare la votazione e di disporne una seconda. Alla proclamazione del risultato non si arriva qualora, come si è visto, manchi il numero legale. Se tale numero c’è, quel che va accertato è se la somma dei voti favorevoli alla proposta sottoposta al voto ottenga la maggioranza. Sul punto la Costituzione fissa una regola: le deliberazioni non sono valide se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale (art. 64 comma 3). Oltre alla maggioranza semplice, possono essere previste, purché con norma costituzionale, maggioranze più elevate (altrimenti dette qualificate). Si dice maggioranza “assoluta” la metà più uno dei componenti del collegio. La maggioranza, sia essa dei componenti o dei votanti, è il numero minimo dei voti favorevoli alla proposta in votazione perché essa possa ritenersi approvata. Per le votazioni elettive il mancato raggiungimento del numero minimo previsto non dà un esito di rigetto: non chiude quindi il procedimento, che continua con una nuova votazione. maggioranza qualificata alla Camera); o, in mancanza di tale approvazione, è definito dal Presidente. f) Il programma è comunicato all’Assemblea e, dopo questa comunicazione, diviene definitivo; solo al Senato, nel caso in cui sia stato predisposto dal Presidente, esso può essere discusso ed, eventualmente, anche modificato. Il procedimento per la formazione del calendario è analogo a quello appena descritto, ma un po’ semplificato nelle fasi preparatorie, non essendo necessari i contratti preliminari. I regolamenti prescrivono poi una serie di vincoli contenutistici alla predisposizione di programmi e calendario. L’obiettivo è quello di garantire tempi congrui per l’esame in rapporto al tempo disponibile e alla complessità degli argomenti: evitando cioè una compressione eccessiva dei tempi di esame, in rapporto alla complessità, tanto tecnico-materiale quanto politica, dei provvedimenti in discussione. Un vincolo ulteriore riguarda il rispetto di un arco temporale minimo per l’esame dei progetti di legge in commissione. Ove programmi e calendari siano approvati dalla conferenza dei capigruppo, il regolamento richiede, inoltre, che il Presidente riservi comunque una quota del tempo disponibile agli argomenti indicati dai gruppi dissenzienti, ripartendola in proporzione alla consistenza di questi. Nel caso in cui, invece, i programmi e calendari siano definiti dal Presidente, il vincolo diviene più preciso: è necessario che il Presidente inserisca nel calendario le proposte dei gruppi di opposizione, in modo da garantire a questi ultimi 1/5 degli argomenti da trattare, ovvero del tempo complessivamente disponibile. Si può quindi parlare di una vera e propria quota riservata all’opposizione. Il regolamento del Senato contiene una previsione in qualche misura analoga, che, in più, cerca di attribuire rilievo anche alle indicazioni provenienti dai singoli senatori. Ogni due mesi almeno 4 sedute sono destinate esclusivamente all’esame di disegni di legge e di documenti presentati dalle opposizioni e da questi fatti propri. Non manca, comunque, qualche elemento di flessibilità, che consente di tener conto delle urgenze che regolarmente irrompono nell’agenda politica e, conseguentemente, in quella parlamentare. Vi sono alcuni provvedimenti che possono entrare automaticamente nel calendario. Il Senato usa una formula generale: “argomenti che, per disposizione della Costituzione o per regolamento debbono essere discussi e votati in una data ricadente nel periodo considerato dal calendario stesso”. Li enumera almeno in parte: disegni di legge finanziaria e di bilancio, disegno di legge comunitaria… Esiste una procedura per l’inserimento di argomenti nuovi all’ordine del giorno in seduta: sono richiesti quorum particolarmente elevati: 2/3 dei presenti al Senato; ¾ dei votanti alla Camera. Sia il calendario, sia il programma possono essere “aggiornati”, seguendo le medesime procedure previste per la loro approvazione. In relazione a situazioni sopravvenute ed urgenti si possono inserire in calendario argomenti nuovi, non presenti nel programma; alla Camera, è sempre la conferenza dei capigruppo a farlo; mentre al Senato è l’Assemblea a decidere, per alzata di mano. Queste integrazioni sarebbero ammissibili, comunque, purché non rendano impossibile l’esecuzione del programma: a questo fine, si potrebbero svolgere anche sedute supplementari. 1.3. Il contingentamento dei tempi Il Parlamento, specie oggi che è ben lungi dall’essere “solo” o “isolato” nello svolgimento delle sue attività, non può certo prescindere dal “fattore tempo”: tanto nella fase della programmazione, quanto nella fase della sua attuazione. Il contingentamento dei tempi consiste nella determinazione del tempo complessivo da dedicare ad un certo argomento e nella sua ripartizione tra i diversi gruppi parlamentari, oltre che tra gli altri soggetti e le operazioni che comunque risultino time consuming. Sarà poi ciascun gruppo parlamentare, secondo le proprie regole e procedure, a decidere come distribuire tra i propri membri il tempo ad esso assegnato. In questa chiave, essenziale è la previsione di appositi e non irrisori spazi per i singoli parlamentari, che desiderino intervenire a titolo personale o in dissenso dal proprio gruppo. In caso contrario, risulterebbero infatti non infondati quei dubbi sulla compatibilità con l’art. 67 Cost. di un contingentamento dei tempio che si limitasse a ripartire tra i soli gruppi tutto il tempo disponibile, rimettendo perciò integralmente alla decisione dei gruppi l’effettivo esercizio del diritto di parola del singolo parlamentare. Dunque, con il contingentamento dei tempi si stabilisce di dedicare un certo numero di ore all’esame di un progetto di legge o di un argomento, nel momento in cui questo è iscritto nel calendario dei lavori, eventualmente anche fissando il momento in cui tale esame si concluderà, il più delle volte, con il voto finale. Ribadito il principio generale per cui il tempo assegnato ad ogni argomento deve essere rapportato alla sua complessità, si stabilisce che: a) Dal tempo assegnato totale vengano sottratti i tempi per gli interventi dei relatori, dei rappresentanti di Governo, dei deputati del gruppo misto (che a sua volta è ripartito tra le componenti politiche, in base alla loro consistenza numerica), per i richiami al regolamento, e, infine, per le operazioni di voto b) Del tempo residuo dopo questa sottrazione, 1/5 sia riservato per gli interventi a titolo personale c) I restanti 4/5 siano invece distribuiti tra i gruppi: una parte in misura uguale e un’altra parte in misura proporzionale alla consistenza degli stessi; a ciò si aggiunge la regola per cui, per l’esame dei disegni di legge governativi, va riservato ai gruppi di opposizione un tempo complessivamente maggiore di quello attribuito ai gruppi di maggioranza Il potere di determinare il contingentamento dei tempi spetta, in linea generale, a chi decide il calendario dei lavori: perciò, alla conferenza dei capigruppo, nel caso in cui si raggiunga la maggioranza richiesta; oppure, ove tale maggioranza non si ottenga, al Presidente di Assemblea. Se è stato applicato senza problemi al Senato, molto sofferta è stata l’introduzione del contingentamento alla Camera, che ha disposto delle cautele, soprattutto nella seconda fase del procedimento legislativo (esame articoli e votazione finale). Il contingentamento poi va deliberato all’unanimità della conferenza dei capigruppo quando si tratti di progetti di legge: a) Costituzionale b) Vertenti prevalentemente su una materia su cui è possibile richiedere lo scrutinio segreto, vale a dire relativa a diritti e libertà previsti nella prima parte della Costituzione c) Riguardanti questioni di eccezionale rilevanza politica, sociale o economica riferite ai diritti previsti dalla prima parte della Costituzione, su richiesta di un gruppo parlamentare. In ogni caso, una volta scaduti i tempi (contingentati) a disposizione dei gruppi parlamentari, si procede solo alle votazioni, che si succedono una dietro l’altra, in un clima un po’ surreale, e anche se il tempo preventivato per la loro effettuazione fosse stato consumato tutto. A meno che il Presidente d’Assemblea non decida di assegnare un tempo ulteriore a ciascun gruppo, o anche solo ai gruppi che hanno esaurito il tempo a loro disposizione. 1.4. I rapporti per la programmazione in Assemblea e in commissione Anche nelle commissioni trova applicazione la programmazione dei lavori, che è affidata, oltre che ai loro presidenti, agli uffici di presidenza, integrati dai rappresentanti dei gruppi: una sorta di mini conferenza dei capigruppo in commissione. commissione dovrebbe dar conto delle indagini in una relazione conclusiva nella quale formulare proposte destinate all’esame dell’Assemblea, anche allo scopo di garantire un legame dell’attività di inchiesta con le funzioni tipiche del Parlamento. Spesso, però, queste relazioni non sono state discusse ovvero sono state esaminate solo a distanza di anni, senza mai realmente attivare processi di responsabilità politica. Ma vi è anche la prassi virtuosa di commissioni che hanno saputo efficacemente utilizzare questa libertà di azione per svolgere un prezioso ruolo persuasivo, di consiglio, controllo ed indirizzo dei pubblici poteri, valorizzando appieno la centralità del Parlamento nel sistema istituzionale e la sua essenziale funzione di arena di confronto e di discussione politica e sociale. 2.3. Le indagini conoscitive È lo strumento più utilizzato dalle commissioni parlamentari permanenti, insieme alle audizioni, per condurre accertamenti e acquisire notizie e informazioni nelle materie di loro competenza. Ciascuna commissione può deliberare di aprire un’indagine conoscitiva. In quella sede, la commissione parlamentare procede ad acquisire notizie, in particolare attraverso l’audizione di “qualsiasi persona in grado di fornire elementi utili all’indagine” (art. 155 r.C.). Questo strumento permette alle commissioni di ascoltare liberamente, in una sede formale, senza alcuna limitazione e sulla base di un semplice invito, soggetti estranei al Parlamento. Le indagini conoscitive si concludono alla Camera con l’approvazione di un documento che tende a trasformarsi in un atto di indirizzo politico. Più spesso, però, l’indagine conoscitiva è direttamente strumentale all’ordinaria attività delle commissioni. 2.4. Le audizioni Le audizioni dovrebbero essere lo strumento ordinario a disposizione delle commissioni parlamentari per acquisire le informazioni che ritengono necessarie in relazione alle varie questioni da trattare. Tuttavia, il ricorso a questo strumento è condizionato da un pesante vincolo strutturale. Gli unici soggetti che possono essere auditi sono, oltre ai membri del governo, dirigenti e amministratori delle amministrazioni centrali e degli enti sottoposti comunque a controllo ministeriale. Un novero di soggetti che si è andato ulteriormente restringendo con la privatizzazione degli enti pubblici ed economici. Oggi questi strumenti si colorano di una connotazione ispettiva piuttosto che semplicemente conoscitiva. Mentre l’obiettivo di acquisire semplicemente conoscenze viene perseguito attraverso audizioni informali che si svolgono in sede appunto informale, senza pubblicità, o più esattamente senza alcuna forma di resocontazione scritta. 2.5. Le interrogazioni L’interrogazione è una semplice domanda che ogni parlamentare può rivolgere al Governo su un fatto determinato, chiedendo informazioni particolari, documenti, notizie o di esprimere la propria posizione politica. Alle interrogazioni il rappresentante del Governo interessato risponde in Assemblea, in commissione o per iscritto, a seconda dell’opzione esercitata dall’interrogante al momento della presentazione. L’interrogante può solo replicare, intervenendo, appunto, in Assemblea o in commissione, dichiarandosi soddisfatto o insoddisfatto, ovvero, nel caso di risposta scritta, accontentarsi delle informazioni ricevute. Una particolare specie di interrogazione è quella “a risposta immediata” con la quale si è cercato di introdurre in Italia il cosiddetto question time. Una volta alla settimana viene riservato uno spazio della seduta dell’aula a interrogazioni presentate da un deputato per ciascun gruppo parlamentare, entro mezzogiorno del giorno precedente. A esse dovrebbero rispondere, alternativamente: il Presidente del consiglio dei ministri o il vicepresidente del consiglio, due volte al mese; e i ministri competenti, una volta al mese. Gli argomenti sono i più disparati, ma sempre conosciuti preventivamente dal Governo. 2.6. Le interpellanze Anche l’interpellanza consiste in una domanda formulata al Governo da uno o più parlamentari. Si tratta però, a differenza dell’interrogazione, di una domanda motivata tesa a conoscere i motivi o gli intendimenti della condotta del Governo in questioni che riguardino determinati aspetti della sua politica. La maggiore rilevanza politica della domanda spiega perché la sua risposta debba aver luogo necessariamente in Assemblea. La procedura si articola nello svolgimento della parte del presentatore, dell’interpellanza; nella conseguente risposta del rappresentante del Governo; in una replica dell’interpellante. L’obiettivo proprio di questo strumento di ispezione parlamentare è quello di far emergere la posizione politica del governo su una determinata questione. Si comprende quindi come, dopo il dialogo tra l’interpellante e il rappresentante del Governo, l’interpellante stesso, non soddisfatto possa presentare una mozione, prospettando perciò una diversa linea politica rispetto a quella indicata dal Governo, sulla quale si apre un dibattito che si conclude con un voto. Nella prassi l’interpellanza si è progressivamente confusa con lo strumento dell’interrogazione. 3. I procedimenti di indirizzo 3.1. Indirizzo politico e programma di governo nei sistemi maggioritari Il potere di indirizzo politico consiste nella determinazione dei grandi obiettivi della politica nazionale e nell’approntamento dei mezzi principali per conseguirli. Rispetto alla funzione di indirizzo politico il Parlamento gioca indubbiamente un ruolo attivo ed importante, in un circuito, che lo vede concorrere anzitutto con il Governo e con il corpo elettorale, oltre che con il Presidente della repubblica e la Corte Costituzionale (ai quali spettano essenzialmente poteri di garanzia). Il contributo delle camere alla funzione di indirizzo politico si esplica attraverso tutti i procedimenti parlamentari. In altri termini, un intervento delle Camere nel circuito di indirizzo politico si verifica, a volte, anche mediante atti che si collocano in procedimenti non prettamente di indirizzo: per es., interrogazioni, interpellanze, audizioni, indagini conoscitive, quando non nell’esame di proposte di legge o nelle inchieste parlamentari. I procedimenti di indirizzo politico sono quelli con cui le Camere esplicitamente assumono decisioni volte ad indirizzare l’attività di Governo. Tali procedimenti riguardano la presentazione e l’esame di mozioni, risoluzioni e ordini del giorno. 3.2. L’origine storica e l’efficacia degli atti di indirizzo 3.3. La mozione La mozione è un atto ad iniziativa non individuale diretto a provocare un dibattito e una deliberazione dell’aula. un desiderio delle Camere”. I loro effetti, dunque, dovrebbero esaurirsi all’interno dei rapporti tra Parlamento e Governo. 4. I procedimenti fiduciari 4.1. Il rapporto fiduciario e la debole razionalizzazione della forma di governo parlamentare Il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo costituisce il cuore della forma di governo parlamentare. Senza la fiducia di ambedue le Camere il Governo non può restare validamente in carica; e, reciprocamente, le Camere non possono continuare la loro attività, e devono essere sciolte dal Presidente della repubblica, se non sono in grado di esprimere la fiducia ad un Governo. È la sussistenza, e la necessaria permanenza, di questo rapporto fiduciario che, realizzando una sorta di collaborazione tra i due poteri, fa sì che le Camere contribuiscano legittimamente alla funzione di indirizzo politico-amministrativo e che il Governo, reciprocamente, possa svolgere il ruolo di coprotagonista dell’attività legislativa. 4.2 La mozione di fiducia L’art. 94 Cost. disciplina specificamente le modalità di instaurazione del rapporto fiduciario. È entro dieci giorni dalla sua formazione – ossia, dal giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica – che il Governo è tenuto a presentarsi alle due Camere per ottenere la fiducia. Il discorso programmatico del Presidente del consiglio è oggetto di dibattito parlamentare, in successione nelle due camere. Nel corso del dibattito, alla Camera come al Senato, viene presentata, ad opera dei capigruppo di quella che sarà la maggioranza, la mozione di fiducia: ossia quella specifica mozione, necessariamente motivata e da votarsi per appello nominale, che, ai sensi dell’art. 94 comma 2 Cost., è lo strumento la cui approvazione, a maggioranza semplice è richiesta perché le camere accordino la fiducia al Governo. La motivazione delle mozioni di fiducia è consistita unicamente in un riferimento esplicito ma generico ai contenuti delle dichiarazioni programmatiche rese dal Presidente del Consiglio. Una motivazione, dunque, ob relationem. L’art. 94 prevede per la mozione di fiducia (come per tutte le votazioni fiduciarie), la necessità di un voto per appello nominale: ossia il ricorso ad una forma di votazione palese e in qualche misura “solenne” e inequivocabile, dal momento che richiede a ciascun parlamentare di passare davanti al banco della presidenza e di rispondere individualmente, ad alta voce, alla “chiama” dicendo “si”, o “no”, o “mi astengo”. D’altronde, è per effetto della votazione della mozione di fiducia che si costituiscono, in Parlamento, qualificandosi giuridicamente, la maggioranza e l’opposizione. Per l’approvazione della mozione di fiducia, è sufficiente la maggioranza semplice. Nel disciplinare il procedimento di approvazione della mozione di fiducia, i regolamenti parlamentari si sono limitati a riprodurre esattamente il dettato costituzionale. 4.3. La mozione di sfiducia Vi è una regola generale per cui l’obbligo di dimissioni del Governo non discende da ogni votazione parlamentare nella quale il Governo “vada sotto” (nella quale, cioè, venga respinta una proposta del governo o vi sia stato il parere favorevole del Governo; o, viceversa, venga approvata una proposta su cui il Governo abbia espresso parere contrario), così superandosi, mediante il disposto dell’art. 94, comma 4 Cost. (“il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni”). E, allo stesso tempo, si delinea uno strumento tipizzato, la mozione di sfiducia, dalla cui approvazione deriva, per il Governo, l’obbligo giuridico di presentare le proprie dimissioni. In questa logica, l’art. 94 comma 2 estende alla mozione di sfiducia i due requisiti richiesti per la mozione di fiducia: la votazione per appello nominale e la motivazione (cioè concordando anche un indirizzo alternativo o esporre degli elementi comuni di critica nei confronti del suo operato). Ai due suddetti requisiti altrettanti ne aggiunge l’art. 94 comma 5, questi specificamente rivolti alla sola mozione di sfiducia: la necessità che essa sia sottoscritta da almeno un decimo dei componenti della Camera o del Senato; la previsione di un intervallo minimo di 3 giorni tra la sua presentazione e la sua votazione. La fissazione di un quorum per la presentazione della mozione di fiducia scoraggia l’uso banalizzante o ostruzionistico dello strumento della mozione di sfiducia. Ma non è un quorum particolarmente difficile da raggiungere, la disincentivazione sta nel fatto che le continue presentazioni di mozioni di sfiducia dall’opposizione sono respinte se l’opposizione non riesce a portare con sé almeno una parte dei parlamentari di maggioranza. L’intervallo di almeno 3 giorni tra presentazione e votazione della mozione di sfiducia è invece diretto ad impedire “assalti alla diligenza”, ad evitare cioè colpi di mano operati a sorpresa, si pensi ad esempio quando la maggioranza non si trovi in aula a ranghi compatti (vuoi perché si trovano a un congresso del partito fuori Roma). dall’opposizione. Oltre che per una finalità di tipo operativo-materiale, l’intervallo di tempo può risultare utile anche per una finalità più spiccatamente politica, cioè consente alla maggioranza di ragionare e riflettere al proprio interno la linea da prendere al riguardo. Dal 1948 ad oggi non si sono verificate approvazioni di mozioni di sfiducia e pochi sono i casi della sua presentazione. Si è andati vicini e con gli stessi effetti della mozione di sfiducia nel dicembre 1994 quando alla Camera è stata presentata 3 volte la mozione di sfiducia nei confronti del Governo Berlusconi 1, da gruppi parlamentari che costituivano piu’ della metà della composizione. Tutte le crisi nei primi anni 60 sono crisi extraparlamentari, nel senso che non sono dipese dall’esito di una votazione a carattere fiduciario, ma da altri motivi. Dal 93 a oggi, si è sviluppata una sorta di parlamentarizzazione delle crisi extraparlamentari, nel senso che il PDR tende a rinviare alle camere il PCM dimissionario in modo da rendere pubblico le motivazioni della crisi ed eventualmente da verificare con votazione fiduciaria la presenza o meno della maggioranza parlamentare. 4.4. La mozione di sfiducia al singolo ministro I procedimenti fiduciari espressamente disciplinati in Costituzione terminano qui, con le mozioni di fiducia e sfiducia. Le consuetudini costituzionali sono andate arricchendo la gamma di tali procedimenti, costruendone altri due: la mozione di sfiducia al singolo ministro e la questione di fiducia. Nel caso della mozione di sfiducia individuale, la sua disciplina è stata inventata dalla giunta per il regolamento del Senato in un parere del 1984 e codificata poi dal regolamento della Camera, novellato sul punto nel 1986. Prima il Senato e poi la Camera, nel ritenere ammissibili le mozioni volte a chiedere le dimissioni di un ministro, hanno deciso di estendere ad esse il medesimo trattamento procedurale previsto per le mozioni di sfiducia nei confronti dell’intero Governo: dunque, votazione palese per appello nominale; ma anche motivazione, presentazione da parte di almeno 1/10 dei componenti dell’Assemblea e intervallo minimo di tre giorni tra presentazione e votazione. La Corte costituzionale, con sentenza 7/1996, ha affermato la piena conformità a Costituzione della mozione di sfiducia individuale e la sua idoneità a comportare, per il ministro che ne sia stato colpito, l’obbligo di dimettersi. 4.5. La questione di fiducia Decisamente più rilevante sul piano quantitativo e sul piano sistemico è la questione di fiducia. Con la questione di fiducia è il Governo a dichiarare che dall’esito di una certa votazione parlamentare dipende la sua permanenza in approvati dalle Camere. E iniziative “riservate”, che spettano cioè a uno solo dei soggetti titolari del potere di iniziativa. Ai Presidenti di Assemblea spetta effettuare un generale giudizio sulla ricevibilità dei progetti di legge. Una verifica che dovrebbe limitarsi all’accertamento dell’esistenza dell’atto e della sua regolarità formale; e alla constatazione che un progetto di legge consista in un articolato, sia preceduto da una relazione illustrativa e, ove richiesto, da quella tecnico-finanziaria. 5.2. L’esame in commissione (in sedereferente) Il progetto di legge, presentato al Presidente di una delle due Assemblee, viene dal medesimo assegnato a una commissione parlamentare permanente; o altrimenti a una commissione “speciale”, costituita ad hoc. La scelta della commissione o delle commissioni competenti è, al Senato, un potere esclusivo del Presidente di Assemblea. Alla Camera questa scelta è sottoposta ad una valutazione dell’aula, che in genere si limita a prendere atto della decisione presidenziale. Al Presidente di Assemblea spetta comunque risolvere eventuali conflitti di competenza insorti dopo l’assegnazione. Nel procedimento normale in commissione viene svolto un esame preliminare e istruttorio rispetto alla fase deliberativa, che ha luogo, invece, in Assemblea. Nella fase istruttoria in commissione è ricompresa la scelta della formazione del testo che costituirà la base dell’esame da parte dell’Assemblea. Alla commissione spetta innanzitutto svolgere un’adeguata istruttoria. Scegliere la materia e dunque i progetti di legge su cui iniziare a lavorare è un’opzione politica. Solo per pochissime esiste un vero e proprio obbligo d’esame (es.manovra di bilancio e disegni di legge di conversione dei decreti legge). L’esame in commissione si apre con un’illustrazione preliminare svolta dal presidente o da questi affidata ad un relatore, che è da lui nominato. Si svolge quindi la fase dell’istruttoria propriamente detta: l’acquisizione cioè di “elementi di conoscenza necessari per verificare la qualità e l’efficacia” dell’intervento normativo proposto. Questa fase è regolata con dovizia di particolari dal regolamento della Camera che ha codificato due circolari dei 2 presidenti delle assemblee addottati nel 1997. La definizione dei contenuti dell’istruttoria legislativa è stata poi ribadita all’art 79 comma4 rC, ove si è stabilito che nel corso dell’esame in sede referente le commissioni sono tenute a prendere considerazione i seguenti elementi: 1) necessità dell’intervento legislativo, 2) il rispetto degli altri ambiti di competenza, 3) il rapporto costo-benefici e 4) la corretta stesura del testo (chiarezza, in equivocità delle disposizioni). Al fine di poter valutare tali elementi, la commissione può utilizzare l’intero strumentario delle procedure informative messe a disposizione dai regolamenti, come audire ministri, funzionari pubblici, disporre indagini conoscitive, richiedere info e rapporti alla corte dei conti, istat, CNEL. Al Senato, ove il regolamento dice poco sui contenuti dell’istruttoria, questi approfondimenti sono per lo più in sedi informali, per lo piu’ ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei gruppi. Esaurita questa prima fase, la commissione elabora un testo unificato di mediazione dei vari progetti abbinati, o altrimenti procede alla scelta di uno di questo come “testo base”. È con riferimento a questo testo che si fissa un termine per la presentazione degli emendamenti, che poi sono oggetto di discussione e votazione in commissione. L’esame di articoli ed emendamenti avviene senza un particolare rigore procedurale, non dovendo rispettare un rigido ordine. Sui testi risultanti dagli emendamenti viene sollecitato, alla Camera, e in concreto acquisito il potere delle altre commissioni parlamentari interessate. Fra questi pareri, i più importanti sono quelli delle cosiddette commissioni “filtro” che hanno cioè una competenza trasversale rispetto ai singoli settori, di competenza di ciascuna commissione. (commissione bilanci, affari costituzionali, politiche x l’unione europea, finanze e commissione bicamerale per gli affari regionali) Nella “sede referente”, il procedimento in commissione si esaurisce con la votazione del mandato al relatore a riferire all’Assemblea. È questo l’unico voto che la commissione in questa sede è tenuta a dare. Per sostenere il dibattito in aula, la commissione, oltre al relatore di maggioranza e agli eventuali relatori di minoranza, procede altresì alla nomina di un comitato rappresentativo anche delle minoranze, chiamato “comitato dei nove”. Questo rappresenta la commissione nel corso dell’esame del progetto di legge in Assemblea, esercitando quelle funzioni di guida e di sostegno della discussione in aula, oltre che esprimendosi preventivamente su tutti gli emendamenti ivi presentati. Oltre alla relazione di maggioranza, possono essere presentate relazioni di minoranza. 5.3. L’esame in Assemblea Arrivati in assemblea – ma la stesa procedura si segue in commissione in sede “deliberante” o “redigente” – sul testo predisposto dalla commissione si apre una discussione generale. È questo il momento del primo e più ampio confronto pubblico sul testo del provvedimento. Tuttavia, nei fatti, la discussione generale si è ridotta ad un passaggio rituale; ad ogni modo, essa è in genere oggetto di contingentamento. La discussione può altresì concludersi con la votazione di una questione pregiudiziale o sospensiva. Il procedimento legislativo si interrompe nel caso di votazione di una questione pregiudiziale o anche, al Senato, di approvazione della proposta “di non passaggio agli articoli”. Si tratta di voti che equivalgono al rigetto del provvedimento. Nel caso di approvazione di una questione sospensiva, il progetto di legge risulta solo accantonato. Diverso è, invece, il rinvio in commissione: uno strumento che interrompe l’esame in Assemblea ed è di solito strumentale alla ricerca di un accordo politico in una sede ristretta, ossia nella commissione, in cui la fase referente viene così a riaprirsi. Finita la discussione generale, si passa all’esame degli articoli che compongono il testo e dei relativi emendamenti: ossia delle proposte di modifica, presentate dai singoli parlamentari o dal Governo, a loro volta suscettibili di ulteriori proposte di modifica, dette subemendamenti. Con un emendamento si possono sostituire più articoli, un comma, una parola, anche una sola virgola del testo in esame. Quello di presentare emendamenti è un diritto riconosciuto a ciascun parlamentare, che in genere si presenta come una sorta di proiezione del diritto costituzionale di iniziativa legislativa. Non è un diritto privo di limiti, innanzitutto nei tempi del suo esercizio: i regolamenti dettano termini e modalità per la presentazione degli emendamenti. Sfuggono tendenzialmente ai vincoli temporali il Governo e la commissione. Non tutti gli emendamenti presentati sono però esaminati. Ai Presidenti è riconosciuto un rilevante potere circa la loro ammissibilità o proponibilità. Non sono ammissibili emendamenti relativi ad argomenti estranei all’oggetto del testo in esame. Al Senato sono espressamente ritenuti inammissibili gli emendamenti “privi di ogni reale portata modificativa”. Sugli emendamenti presentati in Assemblea vanno poi acquisiti i pareri delle commissioni bilancio, per i profili di copertura finanziaria. assegnati in sede legislativa anche i progetti di legge rilevanti, “qualora rivestano particolare urgenza”. La decisione iniziale spetta al Presidente d’assemblea, al momento dell’assegnazione in commissione. Per il trasferimento di sede, invece, occorre oltre all’assenso esplicito del Governo, una richiesta unanime della commissione al Senato; una richiesta di tutti i rappresentanti dei gruppi in commissione o di più dei 4/5 dei componenti della commissione, alla Camera. Si tratta di quorum esattamente speculari rispetto a quelli che la Costituzione richiede per la rimessione in Assemblea. I regolamenti configurano in modo notevolmente diverso la sede redigente. Al Senato essa costituisce un vero e proprio tertium genus, ossia un procedimento intermedio tra sede referente e deliberante, che sin dall’inizio viene scelto dal Presidente e che affida all’aula la sola votazione finale. Alla Camera, invece, al sede redigente è disegnata come una sorta di subprocedimento all’interno della sede referente. È l’Assemblea, chiusa la discussione generale, a decidere di affidare alla commissione la definizione degli articoli, riservandosi il voto sugli stessi articoli e il voto finale. Quanto alle modalità di svolgimento dei lavori della commissione, nel caso delle sedi deliberante (o legislativa) e redigente, si applicano, in quanto compatibili, le medesime regole previste per l’esame in Assemblea. 5.5. La promulgazione e la pubblicazione Approvata, nel medesimo testo, dai due rami del Parlamento, la legge è ormai formata (o giuridicamente perfetta): per produrre i suoi effetti, però, deve essere promulgata dal Presidente della repubblica e quindi pubblicata in Gazzetta Ufficiale. Alla pubblicazione in Gazzetta si lega l’entrata in vigore. La promulgazione da parte del Presidente della Repubblica, con la controfirma del Presidente del consiglio, deve avvenire, ai sensi dell’art. 73 Cost., entro un mese dall’approvazione. In alternativa alla promulgazione, il Presidente della Repubblica, ove riscontri vizi di legittimità costituzionale può rinviare la legge alle Camere. In tal caso, dopo che del messaggio di rinvio si è data lettura in ambedue i rami del Parlamento, il procedimento riparte dalla Camera che aveva esaminato per prima il progetto di legge. Dopo questa ulteriore fase, se le camere riapprovano la legge, il Presidente della Repubblica non può differire ancora la promulgazione, ma deve inviare la legge al ministro guardasigilli entro i 30 giorni successivi per la sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. 6. I procedimenti legislativi “speciali” 6.1. Leggi costituzionali Nella categoria delle leggi costituzionali rientrano (art. 138 Cost.) sia le leggi di revisione costituzionale, sia le altre leggi costituzionali. A parte la possibilità di richiedere il referendum per le leggi costituzionali la Costituzione prevede un doppio aggravamento procedimentale: a) La necessità di due delibere sul medesimo testo da parte di ciascuna camera, intervallate almeno da tre mesi b) La necessità, nella seconda e definitiva lettura presso ciascuna Camera, di una maggioranza aggravata, pari almeno alla maggioranza assoluta dei componenti (ma, per evitare la possibilità del referendum, superiore alla maggioranza dei 2/3 dei componenti) I regolamenti parlamentari, con norme pressoché coincidenti, hanno sviluppato entrambi i profili. Riguardo al primo, hanno optato in favore delle letture alternate tra Camera e Senato, anziché delle letture consecutive nel medesimo ramo del parlamento. In tal modo si è in condizioni di procedere con maggiore celerità. Riguardo al secondo profilo, hanno stabilito che in occasione delle seconda lettura tanto la commissione in sede referente, quanto l’Assemblea siano chiamate ad esaminare il progetto di legge costituzionale solamente nel suo complesso, senza poter procedere alla discussione né alla votazione di articoli o di emendamenti. In entrambi i casi si sono dunque adottate interpretazioni volte ad attenuare, per quanto possibile, gli aggravamenti procedurali stabiliti dal costituente. 6.2. Leggi di amnistia e indulto Il requisito di una maggioranza aggravata è richiesto dalla Costituzione anche per le leggi di amnistia e indulto (art. 79 Cost.). Per queste leggi, anzi, diversamente da quel che accade per le leggi costituzionali, è necessario superare la maggioranza dei 2/3 dei componenti di Camera e Senato anche nelle votazioni relativa ai singoli articoli che la compongono. La prescrizione costituzionale non ha ricevuto però specifico sviluppo nei regolamenti parlamentari. 6.3. Leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali La Costituzione, all’art. 80, prevede che il Parlamento debba autorizzare con legge la ratifica da parte del Capo dello Stato dei trattati più importanti. Per la sua delicatezza politica, almeno sul piano potenziale, la legge di autorizzazione alla ratifica va obbligatoriamente approvata in Assemblea e non può essere sottoposta a referendum abrogativo. È il Governo a presentare normalmente alle Camere i disegni di legge di autorizzazione alla ratifica. Questa, che era considerata una regola indiscussa, non lo è più: è stata ammessa la presentazione di iniziative legislative di singoli parlamentari recanti l’autorizzazione alla ratifica di trattati. I disegni di legge di autorizzazione alla ratifica normalmente constano di un articolo che reca l’autorizzazione alla ratifica, di un altro contenente il cosiddetto ordine di esecuzione, nonché del testo del trattato, che costituisce un allegato in sé inemendabile. Come inemendabili sono ritenuti, secondo una consolidata prassi, sia la disposizione contenente l’autorizzazione alla ratifica, sia quella recante l’ordine di esecuzione. Quando invece il trattato lascia margini di discrezionalità al legislatore nazionale, i disegni di legge di autorizzazione alla ratifica possono contenere, oltre l’ordine di esecuzione, anche puntuali disposizioni di adattamento dell’ordinamento interno agli obblighi derivanti dal trattato. Su queste ultime è possibile, secondo le regole ordinarie, l’attività emendativa. 6.4. Leggi di approvazione delle intese con leconfessioni acattoliche I rapporti tra lo Stato e gli enti rappresentativi delle religioni diverse dalla cattolica sono regolati con legge sulla base di intese bilaterali (art. 8 Cost.). I rapporti con la Chiesa cattolica sono invece disciplinati, secondo l’art. 7, dai famosi Patti Lateranensi del 1929, modificabili, senza revisione costituzionale, se le variazioni sono “accettate dalle due parti”. Le leggi che regolano i rapporti con le confessioni diverse dalla cattolica seguono un procedimento particolare, che nella sostanza ripropone il modello della legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati. Innanzitutto, l’iniziativa legislativa è, nei fatti, riservata al Governo, che procede a negoziare le intese con la controparte. Il testo dell’intesa così negoziata è riprodotto in un disegno di legge (nel corpo stesso del disegno di legge), il quale, similmente a quanto avviene per i trattati, non è considerato emendabile. 6.5. Le leggi di conversione dei decreti-legge I disegni di legge di conversione dei decreti-legge sono lo strumento con cui il Governo trasmette alle Camere il testo del decreto-legge, adottato dallo stesso Governo, ai sensi dell’art. 77 Cost., “in casi straordinari di necessità e hanno ridefinito il contenuto proprio della legge finanziaria e ulteriormente arricchito gli strumenti che compongono la manovra di bilancio, includendovi il DPEF e i disegni di legge collegati. Questa disciplina legislativa ha trovato una risposta “speculare” nei regolamenti di Camera e Senato. Il ruolo dei regolamenti parlamentari è diventato cruciale soprattutto dopo il 1978, quando l’istituzione del disegno di legge finanziaria ha consigliato di dedicare un apposito periodo di tempo dei lavori parlamentari quasi esclusivamente all’esame dei due disegni di legge, per i quali si è previsto l’esame abbinato in commissione e in Assemblea, e ai documenti ad essi correlati, originando così una fase specializzata e concentrata dei lavori parlamentari (la sessione di bilancio). Poiché lo scopo primario di tale disciplina era quello di assicurare tempestività all’approvazione delle leggi finanziaria e di bilancio, la sessione di bilancio è stata caratterizzata da due elementi indefettibili: la garanzia dei tempi di decisione, ottenuta mediante l’obbligatoria applicazione del meccanismo del contingentamento dei tempi; e il divieto di adottare deliberazioni su progetti di legge con conseguenze finanziaria quando è in corso l’esame dei disegni di legge finanziaria e di bilancio. Il divieto opera solo nel corso della lettura dei disegni di legge finanziaria e di bilancio presso quello stesso ramo del Parlamento ed è tendenzialmente derogabile con decisione unanime delle conferenza dei capigruppo. La disciplina dei regolamenti parlamentari ha poi avuto bisogno di ulteriori e rilevanti riformatori, essenzialmente ispirati all’esigenza di introdurre le procedure parlamentari per l’esame del DPEF e dei provvedimenti collegati e di assicurare la tenuta dei disegni di legge che compongono la manovra di bilancio rispetto a normative intruse. La più accurata tipizzazione del contenuto della legge finanziaria, legge a contenuto tipi e a competenza limitata, ha portato a rafforzare le difese nei confronti delle disposizioni che rispetto ad esse risultino estranee. Si è configurato uno specialissimo potere di stralcio presidenziale, per effetto del quale il Presidente del ramo del Parlamento cui il disegno di legge finanziaria è presentato per primo, preliminarmente all’assegnazione, “accerta che il disegno di legge non rechi disposizioni estranee al suo oggetto così come definito dalla legislazione vigente in materia di bilancio e contabilità di Stato” e, ove individui ipotesi siffatte, “comunica all’Assemblea lo stralcio delle disposizioni estranee, sentito il parere della commissione di bilancio”. Al fine di evitare modifiche in Parlamento che introducano disposizioni estranee al contenuto proprio del disegno di legge finanziaria, si è previsto uno specifico regime di presentazione e di ammissibilità degli emendamenti. essi devono infatti essere presentati necessariamente in commissione. L’inammissibilità è decisa, in prima battuta, dai presidenti di commissione e, soprattutto, dal presidente della commissione bilancio, con la possibilità, però, di appello al Presidente di Assemblea. Come la legge di approvazione del bilancio, anche quella di approvazione del rendiconto generale dello Stato necessita, ai sensi dell’art. 81 comma 1, di essere deliberata dalle due Assemblee a cadenza annuale, ponendosi a conclusione del ciclo di bilancio. Da ciò l’opzione del regolamento della Camera di garantirne un’approvazione tempestiva attraverso la fissazione di un termine piuttosto breve e l’estensione a tale disegno di legge, da esaminarsi insieme al disegno di legge di approvazione dell’assestamento, e alle relazioni della Corte dei conti sugli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, delle regole dettate per la sessione di bilancio quanto all’assegnazione. CAPITOLO 9 – IL PARLAMENTO ITALIANO NELL’UNIONE EUROPEA 1. Il primato delle fonti comunitarie Quella europea è diventata una dimensione sempre più pervasiva nell’attività parlamentare. L’Italia, con l’adesione ai trattati comunitari, è entrata a far parte di un ordinamento più ampio, di natura sovranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche con riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei trattati medesimi, con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. La prevalenza del diritto dell’Unione Europea, secondo la giurisprudenza costituzionale, si afferma attraverso lo strumento della non applicazione delle norme interne confliggenti. Tale applicazione è affidata al giudice comune, garantendosi così la diretta efficacia nell’ordinamento nazionale del diritto comunitario. Per gli atti diversi dai regolamenti (e dalle direttive dettagliate) è necessario, invece, il loro recepimento in atti normativi interni: in fonti, cioè, che risultino adeguate a garantire un pieno dispiegamento degli effetti della normativa comunitaria. La trasposizione fedele, completa e puntuale del diritto dell’Unione Europea è dunque un obbligo previsto dai trattati, ma anche – per effetto dell’art. 11 e dell’art. 117 commi 1 e 5 Cost., esigenza costituzionale. Fra le varie fonti vi sono atti di particolare rilevanza, alcuni di natura quasi costituzionale, che sono adottati con procedure che prevedono l’unanimità degli Stati, e vengono successivamente tradotti in norme di diritto interno con procedure assimilabili in Italia a quella dell’autorizzazione alla ratifica dei trattati. In queste ipotesi, il Governo, prima di impegnarsi a Bruxelles, ha sempre chiesto un preventivo via libera del Parlamento. Lo stesso ha fatto in casi che reputava di grande rilevanza, trattandosi di materie particolarmente delicate. 3.La cosiddetta “fase ascendente”: la riserva d’esame parlamentare Vi sono strumenti incisivi per controllare e indirizzare l’azione degli esecutivi in seno al Consiglio dei ministri dell’Unione, nel momento della definizione degli atti normativi (e non solo) europei. La materia è regolata oggi dalla legge 11/2005, intitolata appunto “Norme sulla partecipazione dell’Italia all’UE”, dai regolamenti parlamentari, oltre che da una serie di convenzioni e di prassi. Con l’entrata in vigore della legge 11/2005 si è avviata una trasmissione regolare di tutti gli atti preparatori della normativa europea e non solo. Il Governo, segnatamente il ministro per le Politiche dell’Unione Europea, con cadenza tendenzialmente settimanale, trasmette atti e documenti della più varia natura. Questi documenti sono inviati dalle Presidenze di Camera e Senato alle commissioni. Alla Camera è la presidenza ad assegnarli direttamente alle commissioni competenti; al Senato gli elenchi degli atti sono inviati a tutte le commissioni che, ove siano interessate, ne chiedono l’assegnazione. Gli attori della fase ascendente, dunque, secondo i regolamenti delle due Camere, sono le commissioni permanenti. Ciascuna, nelle materie di sua competenza, può sul progetto di atto normativo comunitario “esprimere il proprio avviso”, ricorrendo, alla Camera, a un “documento” finale e, al Senato, ad una “risoluzione”. L’effetto è sempre quello di un atto di indirizzo al Governo. Questi progetti di atti sono assegnati anche alle commissioni permanenti per le politiche dell’Unione Europea, che esprimono “pareri” alla Camera e “osservazioni” al Senato. Il Governo non può “procedere alle attività di propria competenza per la formazione dei relativi atti comunitari” prima che si sia concluso l’esame parlamentare. Decorsi 20 giorni, però, il Governo è libero di procedere anche in mancanza della pronuncia parlamentare. Grazie alla “riserva di esame parlamentare”, perciò, un procedimento parlamentare è in grado di esercitare un’incidenza diretta sull’attività del Consiglio dei ministri dell’Unione. L’effetto della pronuncia parlamentare è quello proprio degli atti di indirizzo. La trasmissione televisiva diretta delle sedute dell’Assemblea dedicate alle interrogazioni a risposta immediata (il cosiddetto question time) è invece disposta automaticamente dal Presidente. A fianco di queste forme di pubblicità diretta vi sono gli strumenti di pubblicità cartolare: i resoconti stenografici e sommari. Essi danno una rappresentazione indiretta di quanto si è detto in aula. Il principio della pubblicità dei lavori parlamentari, sancito dall’art, 64, comma 2, è in genere ritenuto applicabile nella sua più completa stringenza alle sole sedute delle due Assemblee, delle quali è garantita una compiuta pubblicità. La pubblicità dei lavori nelle commissioni trova una regolamentazione costituzionale nell’art. 72, comma 3, che si occupa tuttavia, mediante un generico rinvio ai regolamenti parlamentari, della sola sede deliberante, restando silenziosa quanto a tutte le altre sedi. I regolamenti parlamentari escludono la pubblicità diretta, mediante la presenza di pubblico, per i lavori delle commissioni, mentre consentono una ripresa televisiva a circuito chiuso effettuata a beneficio del pubblico e della stampa. Ad ogni modo, l’ordinaria forma di pubblicità dei lavori delle commissioni è quella indiretta assicurata attraverso i resoconti. La regola generale per i lavori delle commissioni è dunque quella di una pubblicità non troppo intensa. Ciò al fine di garantire flessibilità ai lavori di questi organi e la possibilità di raggiungere in essi accordi e consensi al di fuori di un pieno controllo da parte dell’opinione pubblica. La sentenza 231/1975 della Corte costituzionale, nel ribadire il principio della pubblicità dei lavori parlamentari di cui all’art. 64 comma 2, ha rimesso alla valutazione delle Camere la sua concreta applicazione, lasciandole del tutto libere nel decidere di secretare i lavori parlamentari d’aula o delle commissioni. La Costituzione, del resto, sempre all’art. 64 comma 2, prevede tuttora che ciascuna delle due Camere e il Parlamento in seduta comune “possano deliberare di adunarsi in seduta segreta” (e i regolamenti parlamentari individuano le relative procedure). Si ritiene che il procedimento di formazione delle leggi non possa essere oggetto di sedute segrete. Ciò su cui vi è un ampio consenso è l’assenza di un particolare valore probatorio degli atti parlamentari. La dottrina prevalente è nel senso di negare un privilegiato valore probatorio all’uno o all’altro atto parlamentare, ritenendoli tutti strumenti “ordinati al fine di dare pubblicità materiale ei lavori delle camere nella loro realtà storica e fenomenica”.
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