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Gigliola Fragnito, Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto gli occhi dei censo, Sintesi del corso di Storia

Fin dalle origini la Chiesa ha esercitato forme di controllo sull’ortodossia attraverso la condanna di deviazioni dottrinali, pronunciata da bolle pontificie e decreti conciliari; con la nascita tra duecento e trecento delle università e degli studia, la vigilanza su docenti e studenti (per la maggior parte appartenenti al clero) diviene più stretta e le facoltà di teologia si assumono il compito di condannare l’insegnamento di dottrine filosofiche e teologiche eterodosse e di sorvegliare la pro

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Gigliola Fragnito, Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto gli occhi dei censo e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! Gigliola Fragnito, Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto gli occhi dei censori (secoli XV-XVII) CAPITOLO 1. ORIGINI DELLA CENSURA ECCLESIASTICA: GLI APPARATI Fin dalle origini la Chiesa ha esercitato forme di controllo sull’ortodossia attraverso la condanna di deviazioni dottrinali, pronunciata da bolle pontificie e decreti conciliari; con la nascita tra duecento e trecento delle università e degli studia, la vigilanza su docenti e studenti (per la maggior parte appartenenti al clero) diviene più stretta e le facoltà di teologia si assumono il compito di condannare l’insegnamento di dottrine filosofiche e teologiche eterodosse e di sorvegliare la produzione delle botteghe di copiatura, sempre più numerose. Tuttavia si tratta di un sistema censorio che gode di larga autonomia, e i cui divieti spesso hanno applicazione solo in aree circoscritte. A indurre Roma a prendere provvedimenti è l’invenzione della stampa a caratteri mobili; questi provvedimenti non sono immediati, infatti inizialmente l’atteggiamento della Chiesa è favorevole e si crea una tacita alleanza tra il mondo dei tipografi e quello dei chierici. L’abbassamento dei costi e l’affermazione del volgare italiano a discapito del latino, sempre meno compreso da clero e laicato, consentono una più facile istruzione dei fedeli mediante la diffusione di opere come volgarizzamenti biblici, manuali per la confessione, raccolte di prediche ecc. Di fronte a una produzione editoriale sempre più imponente e al moltiplicarsi di tipografie e botteghe, Roma percepisce i danni che potevano derivare dalla lettura di scritti non sottoposti al vaglio delle autorità ecclesiastiche e inizia a prendere alcuni provvedimenti: il 17 novembre 1487 Innocenzo VIII con la bolla Inter multiplices affida la censura preventiva ai vescovi e, a Roma e nel suo distretto, al vicario papale e al Maestro del Sacro Palazzo. Il 4 maggio 1515 la bolla Inter sollicitudines, emanata durante il V Concilio lateranense, associa ai vescovi gli inquisitori e prevede pesanti sanzioni ai trasgressori. Questa è la normativa in rigore, peraltro largamente disattesa, quando la riforma protestante penetra nella penisola italiana mettendo la Chiesa difronte alle potenzialità eversive della stampa: l’abbattimento di una barriera sociolinguistica, l’allargamento dei confini del sapere a gruppi fino ad allora estranei alla cultura scritta, la caduta degli steccati che separavano modo dei chierici e mondo dei dotto dal comune fedele, non potevano non destare allarmi. Minacciata dalla sottrazione del clero del monopolio della teologia, dal dilagare nei centri urbani e nelle piccole comunità rurali del dibattito su materie di fede, dalla diffusione di scritti dei riformatori d’oltralpe e italiani, Roma è costretta a prendere atto dell’inadeguatezza dei propri apparati a far fronte alla nuova emergenza. Tuttavia reagisce con lentezza e incertezza, condizionata dalla politica di riconciliazione tra cattolici e luterani perseguita da Paolo III Farnese e da Carlo V; di fronte alle difficoltà di riunire un concilio a causa del conflitto franco-imperiale e della minaccia turca nel Mediterraneo, viene percorsa la via dei colloqui di religione tra cattolici e protestanti, e solo dopo il suo definitivo fallimento (alla dieta di Ratisbona, 1541), la lotta al dissenso religioso assunse forme più efficaci. Con la Licet ab initio (21 luglio 1542) viene creata la Congregazione romana del Santo Ufficio, con il compito di coordinare, attraverso tribunali inquisitoriali periferici, la lotta contro individui sospettati o imputati di adesione alle dottrine ereticali. La manifesta rilevanza assunta dal libro quale veicolo di errori dottrinali induce l’Inquisizione a porne sotto la sua sorveglianza la circolazione. Con l’editto Animadvertentes del 12 luglio 1543, per ovviare alla proliferazione e diffusione di opere eretiche impresse e manoscritte, l’Inquisizione incaricava propri delegati a Roma e in tutta Italia di farsi consegnare dai librai gli inventari dei libri in vendita, di vietare a stampatori e tipografi di pubblicare alcunché senza previa licenza, di farsi sottoporre gli elenchi dei libri giunti alla dogane per poterli ispezionare e farsi consegnare dai detentori i libri “eretici, erronei, temerari e sedizioni” posseduti, di vietarne l’acquisto, il prestito, la lettura e l’ascolto. Per poter eseguire questi ordini era indispensabile essere a conoscenza di quali fossero i libri proibiti; diversamente dalla Francia, dove la Facoltà di Teologia, senza attendere pronunciamenti romani o conciliari, nel 1544 aveva emanato un indice dei libri proibiti, Roma attende il pontificato di Paolo IV Carafa 1 largamente condiviso, investendo soprattutto la letteratura devozionale di contenuto biblico e la letteratura di evasione. Un cambiamento di rotta si ha con l’ascesa al soglio pontificio di Sisto V, che nel 1587 rinnova quasi integralmente la composizione della Congregazione dell’indice, chiamandovi prestigiosi e autorevoli ordinari diocesani; i nuovi membri, quasi tutti appartenenti al clero secolare e titolari di importanti diocesi, non ritenendo vincolanti e definitive né le prescrizioni del Sant’Ufficio successive al 1564 né le scelte dei loro predecessori, le rimettono in discussione. Sisto V, che aveva sostenuto la linea del Sirleto, certamente non può condividere l’orientamento sotto molti profili duttile dei cardinali, nonché la loro probabile propensione a favorire un maggiore coinvolgimento dei vescovi nel controllo delle letture dei fedeli. L’insanabile contrasto sulla rielaborazione da parte dei cardinali delle dieci regole tridentine (alla quale il Papa apporta pesanti alterazioni per inasprire la normativa censoria) apre una lunga crisi nei rapporti tra Congregazione e pontefice, che si risolve solo con la morte di quest’ultimo e l’immediato ritiro da parte dell’Inquisizione dell’indice, già stampato in 10mila esemplari. Dopo una lunga pausa, nel 1592 riprende la travagliata elaborazione del catalogo sotto il diretto controllo di Clemente VIII (eletto quello stesso anno); i sette cardinali membri della Congregazione apportano alle precedenti stesure sostanziali modifiche in senso moderato, eliminano le regole sistine e ripristinando l’impianto dell’indice tridentino con le sue dieci regole immodificate, seguiti da una istructio relativa alla censura preventiva e a quella espurgatoria; i lavori procedono a ritmi serrati e nel febbraio 1593, terminata la stampa dell’elenco dei libri proibiti e sospesi, viene affrontato il problema degli indici nazionali, ossia delle opere nelle lingue vernacolari, che avrebbero dovuto figurare in appendice al catalogo universale redatto in latino. Il testo definitivo viene presentato nel luglio del 1593 dall’Inquisizione al pontefice; tuttavia il giorno successivo Clemente VIII ingiunge alla Congregazione di non divulgarlo fino a nuovo ordine. Le ragioni della sospensioni devono essere molteplici, infatti trascorrono altri tre anni prima della divulgazione ufficiale; inizialmente il catalogo dei libri volgari italiani, già presente nell’indice non promulgato del 90, suscita la perplessità del pontefice; inoltre si aggiungono le pressioni dell’oratore veneziano a Roma Paolo Paruta perché venga eliminato questo catalogo, per i danni gravissimi che avrebbe arrecato all’editoria veneziana. La politica di riavvicinamento alla Francia, culminata con l’assoluzione di Enrico IV nel 95, e la crescente influenza sul pontefice degli oratoriani, che occupano posizioni di rilievo alla corte papale si riflettono sull’atteggiamento del Papa; gli orientamenti più moderati modificano nel giro di pochi mesi il suo giudizio sull’indice che si fece più severo, attento e articolato. Al di là della volontà di preservare il patrimonio culturale classico e umanistico latino e volgare, di rimettere in circolazione attraverso un’efficace e decentrata attività espurgatoria opere da anni sospese e salvaguardare la reputazione di scrittori cattolici viventi incorsi in errori che non ne inficiavano l’ortodossia, le obiezioni di Clementi VIII rivelano una radicata avversione nei confronti dell’indice del 58; una critica che si tradusse nella riproposizione dell’indice tridentino nella sua integrità, con l’aggiunta degli autori e titoli proibiti o sospesi dopo il 64. A rallentare la pubblicazione dell’indice clementino non ci sono però solo motivazioni politiche, culturali e religiose; vi contribuisce infatti l’elaborazione della normativa premessa all’indice che, per facilitarne l’accettazione da parte delle autorità civili negli Stati con una fiorente industria tipografica assottiglia l’elenco delle opere esplicitamente sospese, ma allo stesso tempo solleva problemi di competenze tra ordinari diocesani e inquisitori. La nuova normativa attribuisce competenze in materia di censura preventiva ed espurgatoria solo agli ordinari diocesani, estromettendo gli inquisitori sa due momenti fondamentali del procedimento censorio e privandoli di prerogative e competenze cui non intendono rinunciare. Nella stesura definitiva delle regole i termini superior o ordinarius verranno quindi sostituiti con quelli di episcupus et inquisitor (vescovo e inquisitore). Dopo averlo sottoposto a ripetuti esami l’8 marzo 1596 Clemente VIII approva il testo rivisto e corretto dai cardinali e il 27 marzo promulga il terzo indice universale, che viene inoltrato immediatamente a nunzi, vescovi e inquisitori; tuttavia il Santo Ufficio, con un gesto inusuale e clamoroso, ne chiede la sospensione per poter ripristinare i divieti emanati e non recepiti nell’ultima stesura. Segue una lunga trattativa; il pontefice si arrende su alcune fondamentali richieste: il divieto assoluto di traduzioni bibliche e libri d contenuto biblico nelle lingue materne, la trasformazione in proibizione del Talmud e dei Six livres de la Republique di Bodin, l’attribuzione del controllo sui libri di astrologia, divinazione e arti occulte non soltanto ai vescovi ma anche agli inquisitori; ma non cede sul ripristino integrale dell’indice del 1558. Usando il pretesto del ripristino dei propri divieti il Sant’Ufficio intende riaffermare il proprio potere autonomo rispetto a quello del pontefice; cogliendo l’insidia il Papa depenna la clausola (che di fatto avrebbe formalmente consacrato il tribunale come unica istituzione abilitata a definire e tutelare la dottrina e la moralità dei cattolici), che scopare dalla redazione finale della Observatio. Con l’invio a inizio maggio a nunzi, inquisitori e vescovi dei foglio aggiuntivi con l’Observatio, il terzo indice romano è finalmente concluso; la sua lunga, complessa, contrastata redazione, costellata di scontri ai vertici della Chiesa romana dura 25 anni, contro gli otto mesi impiegati per la stesura dell’indice tridentino. CAPITOLO 2. DIETRO GLI INDICI: LISTE SEMIUFFICIALI E “REGOLE” Quale spazio riservano i tre indici del 500 alla letteratura italiana? Anche nel primo indice redatto dall’Inquisizione (il più rigido) gli autori e i testi esplicitamente condannati o sospesi in attesa di emendazione non sono numerosi; alcuni autori vi figurano perché ritenuti eretici o sospetti di eresia, altri per le loro opere giudicate irriverenti nei confronti delle istituzioni della Chiesa o perché giudicate moralmente scabrose, oscene o sconvenienti. Tra questi troviamo l’opera omnia di Pietro Aretino, Petrarca per i tre sonetti avignonesi e le Cento Novelle di Boccaccio. Nell’indice del 1564, che attenua il rigore dell’indice inquisitoriale, molti autori non compaiono più; quanto all’indice clementino (che riproduce integralmente le sospensioni e i divieti tridentini con l’aggiunta di titoli e autori apparsi dopo il 64 o precedentemente ma trascurati), esso registra un’unica opera letteraria, le Maccheronee di Teofilo Folegno, autorizzandone l’espurgazione. Se ci dovessimo affidare quindi solo agli indici dei libri proibiti promulgati ufficialmente non troveremmo molte delle opere intercettate dalla censura. Infatti, sebbene i divieti siano limitanti, sono le regole ad aprire un varco di dimensioni imprevedibili ai testi letterari. Introdotte a partire dall’indice tridentino come cornice della lista degli autori della prima classe (proibita l’opera omnia), della seconda classe (alcune opere proibite e altre sospese in attesa di essere corrette) e della terza (scritti anonimi), le dieci regole disciplinavano la stampa e la lettura di alcune categorie di libri. Nella mente della maggior parte dei redattori dell’indice, ad esempio, solo un esiguo numero di scritti di carattere pornografico rientrava in una categoria soggetta a censura (dalla regola VII); tra gli esempi addussero Aretino, il De arte amandi di Ovidio ecc. Ma già allora erano emerse delle posizioni più restrittive: Gabriele Paleotti (futuro membro della congregazione) aveva chiesto e ottenuto l’eliminazione della menzione esplicita a titolo di esempio di questi autori. Ridotta a una formula assai vaga, la regola VII si sarebbe prestata a un arbitrio interpretativo e avrebbe pesantemente segnato il destino della letteratura. Pochi anni dopo, avviata la confezione del terzo indice romano e nominato Paolo Costabili Maestro del Sacro Palazzo, se ne vedono le conseguenze. Nato a Ferrara nel 1520 in una famiglia dell’antica aristocrazia, era entrato nel convento degli Angeli e aveva fatto la sua professione a Bologna; dopo aver ricoperto varie cariche nell’ordine era tornato alla sua città natale in veste di inquisitore generale nei domini estensi: ricopre questo ruolo per almeno quattro anni, durante i quali lavora con rigore e intransigenza. Trasferito al tribunale inquisitoriale di Milano, presto è chiamato a Roma da Gregorio XIII come Maestro del Sacro Palazzo. Nel momento in cui tutto il settore della censura libraria riceve un nuovo e più razionale assetto, la scelta di un uomo che si era distinto per la sua repressione del dissenso ereticale è indicativa della determinazione da parte dei vertici romani a esercitare una più efficace sorveglianza sulla circolazione del libro. Tra le competenze principali del Maestro del Sacro Palazzo entra il controllo della produzione libraria e, sebbene la sua giurisdizione si estenda solo a Roma e al suo distretto, la partecipazione ex officio alle riunioni della Congregazione del Sant’Ufficio e della Congregazione dell’Indice gli consente di svolgere la funzione di organo di trasmissione delle decisioni prese all’interno del suo ufficio e delle due Congregazioni: egli redige liste di libri proibiti per aggiornare l’ultimo indice universale, quello e del 1564, emana editti e bandi e inoltra gli uni e gli altri agli inquisitori periferici. Durante i sette anni in cui ricopre questa carica contribuisce in maniera rilevante all’irrigidimento degli orientamenti censori e all’accentramento a Roma della vigilanza sulla produzione e circolazione libraria. Questa svolta nella politica culturale della Chiesa, che prende atto della imponente espansione della produzione di testi letterari in volgare grazie a editori a essa specificatamente dediti e dell’incremento delle biblioteche pubbliche e private, ha ripercussioni determinanti sul settore della letteratura. In questo senso è emblematico l’immediato divieto dell’edizione giuntina espurgata del 1573 del Decameron, sebbene approvata dal predecessore e stampata con privilegio di Pio V. Lo scopo di questi interventi non è solo quello di tutelare la moralità dei fedeli tenendoli lontani da letture ritenute perniciose; è anche quello di sottrarre questa categoria di libri alla vigilanza dei vescovi, cui era stata affidata dal concilio. E che questa responsabilità comporti anche la facoltà di determinare quali siano i 13. Argomenti che desunti dalle massime, costumi, esempi dei gentili favoriscono il governo tirannico impropriamente chiamato ragione di stato, contrario alla legge evangelica e cristiana 14. Esempi che ledono e violano i riti ecclesiastici, gli ordini, lo status, la dignità dei religiosi 15. Facezie o battute salaci ai danni o in pregiudizio della fama e reputazione altrui 16. Lascivie che possono corrompere i buoni costumi 17. Immagini oscene, stampate o dipinte nei libri da espurgarsi, anche nelle iniziali dei libri stessi o dei capitoli Si può notare come siano più numerose le prescrizioni che, direttamente o indirettamente, investono la morale rispetto a quelle dedicate alla fede e sottolineare come, ormai, le preoccupazioni della Chiesa di fine secolo si stiano spostando sulla difesa della giurisdizione ecclesiastica nei paesi rimasti cattolici e sull’allontanamento del cattolico da letture perniciose. CAPITOLO 3. ACCERCHIAMENTO DELLA LETTERATURA Il percorso degli organi censori romani verso l’estensione delle proprie competenze dagli scritti conto la fede a quelli contro la morale è lento e incerto; la svolta segnata dalla nomina a Maestro del Sacro Palazzo del Contabili nel 1573 si innesta sugli umori rigoristi che da sempre avevano agitato alcuni settori della Chiesa, ma che l’invenzione della stampa e l’affermazione del volgare, con l’allargarsi della cerchia dei fruitori dei libri a più ampi strati della società, hanno certamente accentuato. Tra la fine del 400 e la prima metà del 500 infatti si intensificano i segnali di una crescente intolleranza nei confronti della letteratura in volgare e della cultura classica. Questo atteggiamento anticlassico e antiumanistico, già mostrato da Savonarola nel 1491, sarà condiviso qualche anno dopo dai camaldolesi Giustiniani e Querini che, nel Libellus per Leone X del 1513, condannano gli studi “dei poeti, degli oratori e degli autori gentili”. Anche il loro amico Contarini nel De officio episcopi del 1517 esprime riserve sulla preferenza accordata agli autori profani nell’istruzione di ecclesiastici e giovani ma consiglia Virgilio e Orazio, opponendosi a un ripudio indiscriminato di tutta la cultura classica. A monte di queste posizioni, per quanto diversificate, si avverte il timore che la riscoperta da parte degli umanisti del patrimonio dell’antichità greco-latina, il dialogo serrato da loro intrattenuto con i grandi testi della cultura antica, l’uso che ne viene fatto in funzione pedagogica, il neoplatonismo che permea gran parte della produzione umanistica, la rinascita delle lettere e degli studi filologici indirizzati ai classici e alla Sacra Scrittura, la valorizzazione del volgare e della sua tradizione letteraria, possano sfociare sia in interpretazioni eterodosse delle fonti pagane e cristiane, sia nella corruzione degli animi in cui vengono iniettati valori etici non conformi alla morale cristiana. Le dispute sull’immortalità dell’anima, sull’unicità dell’intelletto e sull’eternità del mondo che dalla prima metà del 300 animavano le università inducono Leone X a emanare la costituzione Apostolici regiminis (1513) che condanna chi si oppone alla subordinazione delle scienze alla teologia; la successiva costituzione Inter sollecitudines (1515) aggiunge poco rispetto alla precedente se non un riferimento al libri scritti in latino o in volgare che contengono errori contro la fede. D’altro canto è difficile che il figlio di Lorenzo il Magnifico possa avversare le humanae litterae, che aveva nominato segretari ai brevi due celebri umanisti, Jacopo Sadoleto e Pietro Bembo. Se le misure conciliari colpiscono esplicitamente solo la tradizione peripatetica della filosofia universitaria, che rivendica l’autonomia dell’indagine speculativa nei confronti della teologia, e gli scrittori diffamatori, ma non le opere lascive e licenziose, di contenuto diverso sono i decreti del sinodo di Firenze, convocato nel 1516 dall’arcivescovo Giulio de’ Medici: i decreti vietano ai maestri delle scuole di grammatica il De rerum natura di Lucrezio (sostenitore della mortalità dell’anima), le opere di Catullo, gli epigrammi di Marziale e in generale qualsiasi carme con tema amoroso e proibiscono l’uso irriverente e giocoso dei testi biblici, liturgici e agiografici nelle pubbliche rappresentazioni. Già prima dell’apparizione di Lutero quindi era emersa l’esigenza di un controllo ecclesiastico del sapere, ma l’indeterminatezza dei settori sui quali intervenire rivela l’assenza di un disegno preciso volto a colpire l’editoria di grande consuma all’interno della quale la letteratura d’evasione insieme ai volgarizzamenti biblici occupa un posto di primo piano. Tuttavia le crescenti preoccupazioni nei confronti dei peccati della carne e dell’impudicizia delle donne si aggravano con la diffusione delle dottrine luterane che, non riconoscendo il valore meritorio delle opere nel processo di salificazione e le capacità dell’uomo privo della grazia divina di scegliere tra bene e male, avrebbero aperto, secondo la Chiesa, la via di un vivere licenzioso e lascivo. Indipendentemente da questioni dottrinali, l’esigenza di una riforma morale della cristianità avvertita dai due schieramenti, cattolico e protestante, crea talvolta forma di convergenza delle loro posizioni ostili alle opere letterarie più in voga. L’umanista spagnolo Juan Luis Vives, sulla scia di Erasmo, propone un nuovo modello di donna cristiana, valorizzandone il ruolo di educatrice alla pietà e alla cultura: sulla base di questo presupposto condanna gran parte della produzione letteraria contemporanea, seguito da cattolici e protestanti. Nonostante questi scritti fortemente polemici nei confronti dei testi letterari siano oggetto di versioni italiane in più edizioni e nonostante, sia pure sporadicamente, le autorità civili abbiano vietato pere letterarie, Roma, impegnata nella lotta contro l’eresia dogmatica, mostra una sostanziale latitanza censoria nei confronti della letteratura. Solo dagli inizi degli anni 50 su istruzioni romane cominciano a comparire opere letterarie negli indici, ma in numero ridottissimo. Il dotto calabrese Gabriele Barri pubblica il Pro lingua latini libri tres, in cui, intervenendo su una delle questioni di fondo dell’epoca, il rapporto tra latino e italiano, si schiera tra i sostenitori della superiorità del latino in quanto lingua sacra rispetto al volgare; ben introdotto in curia, getta alle ortiche tutta la letteratura tardomedievale e rinascimentale. Al di là della sfida al volgare, Barri aggiunge alle accuse di lascivia e licenziosità dei precedenti detrattori della letteratura il sospetto di eresia, sia proiettando su alcuni scritti risalenti a 300 e 400 la dottrina luterana del servo arbitrio per il peso attribuito al fato nell’agire umano, sia addossando alle critiche devastanti di molti autori contro la corruzione della Chiesa la responsabilità delle origini della Riforma (e in ciò non si discosta dalle posizioni dei riformatori, i quali non esitano a fare di Boccaccio un antesignano di Lutero); denuncia inoltre la mescolanza di sacro e profano nel lessico di poeti e prosatori, in linea con un’ormai antica polemica antiumanistica e anticlassica. I tempi per non sono ancora maturi perché queste critiche si traducano in formali divieti: gli indici del 1558 e del 1564 sfiorano appena la letteratura; si possono ancora accogliere, seppur parzialmente, i suggerimenti formulati da Torelli, auditore alla giurisdizione di Cosimo I. La visione del Torelli, con il richiamo alla coscienza dei singoli lettori (sorprendente per lungimiranza e modernità) è in perfetta sintonia con la strategia di Pio IV tesa a frenare l’avanzata del Sant’Ufficio sul terreno dei comportamenti sessuali avviata dal suo predecessore Paolo IV Carafa; egli infatti ordina che il santo Ufficio si occupi solo di peccati concernenti all’eresia, e che “de le cose fatte sotto le lenzuola non voleva rivederne conto alcuno”. Ma la strategia del Carafa viene ripresa da Pio V (successore Pio IV) e Gregorio XIII con la nomina nel 1571 della commissione cardinalizia per la revisione dell’indice conciliare, dall’anno dopo Congregazione dell’indice. Si tratta di anni in cui, estirpati gli ultimi focolai di dissenso religioso nella penisola, la Chiesa poteva accingersi con rinnovata energia a disciplinare e moralizzare la società italiana. In questo progetto di stretta vigilanza sui costumi e sulla morale, i censori affilano le armi contro settori della produzione editoriali che esulano dal campo strettamente dottrinale e religioso, investendo la letteratura di svago. Con diffidenza e intolleranza crescenti guardano alla secolare, innocua abitudine di poeti e prosatori di dispensare attributi riservati alla divinità e ai santi a comuni esseri mortali; di divinizzare la donna e l’amore; di accordare preminenza nel destino dell’uomo al fato e alla fortuna; di gremire il comune linguaggio di parole. Modi di dire, proverbi tratti da fonti liturgiche e bibliche. Inoltre in anni in cui la Chiesa si adopera all’irrobustimento e alla riforma delle istituzioni ecclesiastiche e a una riqualificazione dell’alto e basso clero, i suoi apparati repressivi non possono non ingaggiare una lotta serrata contro la vena anticlericale e anticuriale che percorre gran parte della letteratura italiana. D’altro canto la creazione della Congregazione dell’Indice richiede un rinnovato impegno sia nell’aggiornamento delle liste dei libri da proibire, sia nell’attuazione dei dettami dell’indice tridentino che prevedevano, in varie regole, l’emendazione di alcune categorie oltre che delle opere esplicitamente sospese fino a espurgazione. Demandata dal concilio agli ordinari diocesani e inquisitori, rivelatisi inerti, la mancata correzione di un patrimonio indispensabile soprattutto ai professionisti (medici, giuristi, docenti universitari ecc.) era già stata oggetto di un motu proprio di Pio V nel 71, che accentrava a Roma nelle mani del Maestro del Sacro Palazzo la correzione di libri che non trattavano ex professo di religione, ma nei quali erano insinuate proposizioni ereticali, nonché il controllo della pubblicazione presso la Stamperia del Popolo Romano delle edizioni corrette. Non è facile per i rassettatori capire e accettare il repentino mutamento degli orientamenti quando diventa Maestro del Sacro Palazzo il Costabili che, evidentemente, nel passaggio dalla funzione di inquisitore a quella di Maestro, trasferisce il so zelo sui libri con tematiche amorose, e dal rogo degli eretici a quello dei libri. Alle critiche del clero regolare e secolare, basso e alto, maschile e femminile, da un lato non più compatibili con l’immagine purificata e disciplinata di sé che la Chiesa postridentina si propone di divulgare e proiettare sul proprio passato, dall’altro sempre più indigeste a censori provenienti prevalentemente dal clero, si assillante; parole come destino, fato, fortuna, precedentemente rifiutate per il loro sapore pagano, ora vengono interpretate come riferimenti alle dottrine protestanti del servo arbitrio e della predestinazione. Ugualmente vengono disseppellite dottrine condannate nei primi secoli del cristianesimo, come priscillianesimo e novazionismo. Viene ance deprecato che un episcopus quidam, mentre era al concilio di Trento, avesse dedicato il proprio tempo a Petrarca: egli è identificabile con Ludovico Beccadelli, grande collezionista di autografi del poeta e autore di una sua biografia, che già negli anni 50 aveva difeso dalle critiche dei moralisti. L’accerchiamento condotto per oltre un secolo da rigoristi di ogni tipo si conclude all’insegna dell’inclusione di gran parte delle opere letterarie tra quelle infette dal contagio ereticale. Quanto esso sia stato influenzato, oltre che dalla temperie politico-religiosa, dall’irrigidimento culturale dovuto ai vincoli normativi della Poetica di Aristotele e dalle polemiche che infuriavano da anni intorno al loro rispetto da parte di autori di poemi epico-cavallereschi, è difficile stabilire. Ma è probabile che, sia pure in diverso grado, le due ortodossie si sommino anella Coltura degl’ingegni in cui il Possevino delinea un compiuto progetto di formazione dei giovani, destinato a lasciare il segno sulla letteratura. Lungi dall’essere un progetto astratto, esso è intimamente legato al sistema di vigilanza sulla stampa elaborato dalla Chiesa: segue il programma pedagogico una puntuale e lunga dissertazione sugli organi deputati alla censura, sull’importanza delle regole tridentine e clementine, sull’imminenza della pubblicazione di un indice espurgatorio su modello di quelli spagnolo e lovaniense. Stampa ed espurgazione diventano due momenti fondamentali di un medesimo processo, processo che, diversamente dai dibattiti sulla liceità delle traduzioni bibliche nelle lingue parlate che avevano lacerato per mezzo secolo i vertici della Chiesa, non trova in seno agli organi censori centrali chi sia disposto a contrastarlo. Fin dall’erezione della Congregazione dell’Indice l’offensiva contro la petulantia di poeti e prosatori aveva infatti incontrato ampi consensi e indotto quanti avevano a cuore la moralità dei fedeli a essere generosi di suggerimenti circa autori e opere da inserire nel nuovo indice. Sebbene non sia facile ricostruire l’attrezzatura concettuale con la quale i censori si erano avvicinati ai testi letterari e individuarne l’evoluzione egli slittamenti subiti lungo un arco di tempo e in un mutevole contesto storico, politico e religioso, e nonostante le non poche ambiguità della generale politica censoria, quella che si intravede a monte di indici ufficiali, di liste semi-ufficiali, di norme suscettibili di essere modificate negli uffici romani senza formale comunicazione alla periferia, è una ferrea volontà degli organi censori di affermare il loro potere governando le menti e le coscienze attraverso il controllo di una produzione editoriale (i “libri per tutti”) dal vasto consumo da parte di tutti i ceti sociali. CAPITOLO 4. SEQUESTRI E ROGHI Le evidenti incongruenze presenti nelle liste diramate da Roma a partire dal 1574, nonché l’assenza di espliciti riferimenti alle opere ivi vietate o sospese nella versione definitiva del clementino, mettono inevitabilmente a dura prova non soltanto gli esecutori più coscienziosi, ma la stessa Congregazione dell’Indice, cui Clemente VIII aveva affidato la responsabilità di sciogliere i dubbi che fossero sorti al momento della sua applicazione e di dirimere le eventuali controversie. Un primo intervento chiarificatore in risposta alle problematiche presentate dagli esecutori si ha nel 1596, quando si decide che debbano essere osservate le liste inoltrate in periferia nel 74; si sottolinea inoltre l’importanza delle regole nell’individuazione delle opere passibili di correzione, essendo un numero ridotto gli autori e le opere espressamente citati nell’Indice. Tuttavia, sebbene i cardinali siano particolarmente solerti nell’indirizzare lettere circolari a vescovi, inquisitori, ordini religiosi e nunzi, non vi è traccia di trasmissione alla periferia di queste determinazioni. Nella pratica, dietro pressioni di ogni genere, le regole vengono spesso alterate, con la dichiarata volontà che le modifiche apportate non vengano rese pubbliche. È indubbio che questi escamotages mirino a contenere la smania di pubblicare opere e, nel caso della letteratura, a frenare la petulantia di poeti e prosatori; ma sono anche un modo di celare importanti decisioni sia per muoversi all’occorrenza con maggiore libertà, sia per accentrare, attraverso inevitabili ricorsi agli uffici romani, la vigilanza degli organi centrali sull’operato della periferia. Non va neanche trascurato il fatto che gli avvicendamenti di cardinali e consultori nella Congregazione potevano rimettere in discussione le precedenti decisioni. È inevitabili in questo contesto che la genericità delle regole, le contraddizioni presenti nelle liste, l’inadeguatezza della comunicazione tra uffici romani e autorità ecclesiastiche locali abbiano gravi ripercussioni sull’opera di rastrellamento dei libri effettuata all’indomani della promulgazione del terzo catalogo. Può essere utile ripercorrere la sorte riservata alle opere letterarie sia negli indici ufficiali e nelle liste, sia al momento dell’esecuzione del clementino, concentrandoci su un singolo letterato, il fiorentino Anton Francesco Doni. Figura poliedrica, dalla vita movimentata, dedita all’attività editoriale e alla collaborazione con stampatori di varie città, il Doni è anche uno scrittore prolifico, nelle cui opere si intrecciano simpatie riformate e interessi per le scienze occulte e la cabala, che non possono non destare i sospetti della censura. Se negli indici del 1558 e del 1564 venivano proibite solo le Lettere, nelle liste inviate a da Roma a partire dal 74 l’elenco va allungandosi, sia pure tra forti contraddizioni: le sue opere vengono condannate in blocco (liste e indice di Parma dell’80), ma nell’1583, in un elenco fatto circolare a Napoli, figurano tra quelle espurgabili, pur se ne viene nuovamente denunciato il contenuto geomantico. Anche gli indici non promulgati del 90 e del 93 contengono diverse oscillazioni: nell’appendice dei Libri volgari italiani del 1590 tutte le opere sono sospese finché “non siano espurgate”, mentre in quello del 93 sono menzionati solo Lettere, Zucca e i Mondi. Infine, nell’ultima e definitiva stesura del terzo indice romano appaiono solo le Lettere e il divieto è fortemente attenuato, trasformato in sospensione donec expurgentur; attenuazione che non si concretizza in un’edizione emendata a causa dell’ostruzionismo degli accademici fiorentini cui era stata affidata la correzione. Queste contraddizioni appaiono immediatamente chiare agli esecutori più scrupolosi. È quindi in una situazione di confusione estrema che si procede all’esecuzione dell’indice clementino, come mostrano le liste che ci sono pervenute dei libri sequestrati in quell’occasione. Liste che, peraltro, risalendo per lo più al 1599, registrano solo in minima parte i libri sequestrati e/o mandati al rogo. Infatti alla richiesta della Congregazione dell’Indice del 97 di inoltrare a Roma le liste dei libri vietati e sospesi depositati negli archivi vescovili o inquisitoriali e d quelli mandati al rogo, la replica quasi unanime è quella che erano già stati bruciati, senza alcun rispetto della normativa che prevedeva la registrazione da parte di un notaio dei titoli dei libri dati alle fiamme e del numero di esemplari. Pur con questi limiti, le liste consentono di illustrare i comportamenti inevitabilmente incoerenti degli esecutori nei confronti delle opere del Doni. Tra i libri confiscati figurano varie sue opere: i Marmi, La moral filosofia, le Lettere, la Zucca, gli Inferni, i Mondi, il Disegno, la Libraria, sono ancora molto presenti nei depositi vescovili o inquisitoriali e nelle biblioteche degli ordini religiosi maschili e femminili. Ma a riprova dell’elasticità o dell’arbitrio nell’interpretazione della normativa basta scorrere gli elenchi pervenutici: alcuni registrano cumulativamente senza specificazione libri proibiti e libri sospesi, considerando probabilmente i sospesi, come effettivamente erano, proibiti fino a quando non fossero stati corretti; altri, pur senza operare distinzioni, precisano che i libri elencati appartengono alle due categorie (proibiti e sospesi); altri ancora indicano quali sono le opere sospese e quali quelle proibite. Ma l’incertezza sul come inventariarli era grande. Le opere del Doni figurano prevalentemente nelle due prime tipologie di elenchi (che non fanno distinzione tra libri proibiti e sospesi); ma in alcuni di essi, come quello dell’Inquisitore di Pisa, le Lettere e La moral filosofia vengono registrate esplicitamente tra i libri proibiti. Solo qualche ecclesiastico particolarmente scrupoloso, come l’inquisitore di Perugia, precisa che la Libraria, i Mondi e la Zucca sono sospesi. Occorre anche sottolineare come, non essendo i titoli corredati di riferimenti bibliografici (contravvenendo alle istruzioni romane), non sia possibile verificare se tra le edizioni sequestrate o tra quelle indicate come in attesa di espurgazione ve ne siano anche di già riedite pesantemente amputate e manipolate. Sarebbe tedioso ricostruire lo statuto delle singole opere confiscate a fine 500, come si è tentato di fare per le opere del Doni, ma un loro pur sommario elenco evidenzia le difficoltà in cui ci si imbatte nel cercare di individuare i criteri, posto che vi siano, che portano a sequestri e roghi di libri che non figurano nell’indice del 1596 né come proibiti né come sospesi donec corrigantur. Ad aggravare la sorte delle opere letterarie contribuiscono editti di pubblicazione dell’indice clementino che equiparano testi dottrinalmente ereticali e testi licenziosi che si tratti di un’innovazione rispetto al passato lo testimonia la resistenza di Carlo Emanuele I di Savoia alla promulgazione dell’indice nei propri territori: ritenendo che recasse pregiudizio alla propria giurisdizione per la presenza di opere che non trattano ex professo di fede e di dogmi, chiede a Roma di fornirgli una nota particolare dei libri da includere. La replica è negativa, in quanto secondo Roma non si può dar conto di tutti i libri visto che sono moltissimi, e che in ogni caso l’autorità della Chiesa era uguale in materia di fede e di buon costume. Queste innovazioni colpiscono, peraltro, anche la giurisdizione ecclesiastica, con screzi tra i diversi organi competenti. In questo clima in cui nessuno si sarebbe azzardato a contestare le pretese romane di controllare, oltre che l’ortodossia dottrinale, la moralità dei fruitori del libro, gli esecutori ritrovano un sicuro argomento e incentivo per scatenarsi contro le opere letterarie, e per non risparmiare nella loro furia alcun genere letterario, sottraendo ai proprietari opere che godevano di grande popolarità presso tutte le fasce della società. Oltre a elencare scritti condannati già negli indici del 1558 e 64, evidentemente sfuggiti o sottratti dai proprietari ai precedenti controlli, le liste registrano, tra gli altri, le Cento novelle scelte da’ più nobili scrittori della lingua volgare edite a cura di Francesco Sansovino, le Rime di Ludovico Ariosto, l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, il Cortegiano di Castiglione nelle edizioni che precedono quella espurgata del - Incertezze sulla priorità da accordare ai testi più richiesti - Pressioni da parte di professionisti, mercanti di libri, docenti universitari di poter correggere in loco le opere sospese o per ottenere da Roma le espurgazioni Alle difficoltà interne di gestione si sommano le sovrapposizioni di competenze tra Indice, Inquisizione e Maestro del Sacro Palazzo, che finiscono col causare l’affossamento dell’indice espurgatorio romano e col proiettare all’esterno un’immagine di totale inefficienza; a pagare lo scotto di tale inefficienza è soprattutto la letteratura italiana. Tuttavia, nel corso della revisione delle regole tridentine, che occupa le prime riunioni della Congregazione, il problema della tutela della moralità si affaccia più volte e sotto varie forme. So discute se vietar i libi si contemplazione e se autorizzare i manuali per confessori nelle lingue materne; quanto alla regola VII (che condannava i libri lasci e osceni ex professo), si suggerisce di elencarli singolarmente e non in maniera generica, suggerimento che si traduce nella compilazione e distribuzione fuori Roma della liste. La regola VII è anche occasione di un importante dibatto che mette in discussione l’estensione della categoria di eresia a questo tipo di libri. L’evidente arbitrarietà maturata in quegli anni dall’equiparazione, sotto il profilo dell’eresia, di libri contro la fede e di libri contro la morale è nuovamente denuncia a proposito della regola X, quando si torna a sottolineare che la scomunica deve essere comminata solo ai lettori di libri eretici, e tra costo solo a chi li legge scienter, mentre i lettori di libri licenziosi avrebbero commesso peccato mortale. Non è un caso che a sostenere queste posizioni sia un consultore spagnolo, Francisco Astudillo, che deve aver presente l’atteggiamento molto diverso dell’Inquisizione spagnola nei confronti della letteratura vernacolare, condannata per la sua irriverenza verso la Chiesa, e non per i contenuti osceni e lascivi; atteggiamento che si concretizza nel rifiuto di accogliere nell’indice del Quiroga (83/84) la regola VII tridentina relativa a libri osceni, che viene introdotta solo nell’indice del Sandoval y Rojas del 1612, ma con la riserva che temi lascivi e osceni debbano intrecciarsi con eresie dottrinali. Né d’altro canto il Consiglio di Castiglia, deputato a esercitare la censura preventiva e a rilasciare i permessi di stampa, si preoccupa della licenziosità dei testi sottoposti al suo vaglio. Di fatto la tutela della moralità viene affidata ai trattati di teologia morale, ai manuali per confessori, alle istruzioni per la donna cristiana, all’azione pastorale di vescovi, parroci e predicatori. Tuttavia negli anni del Sirleto, nonostante questi accesi dibattiti, non sembra esserci alcun diretto impegno per il recupero delle opere letterarie da parte della Congregazione; ne deriva un’anarchica proliferazione di revisori dilettanti che induce i cardinali dell’Indice a porsi il duplice problema del controllo degli organi centrali sull’attività espurgatoria e della formulazione di regole specifiche. Ciò avviene tuttavia solo nel 1587 dopo il rinnovamento della Congregazione da parte di Sisto V: i nuovi membri decidono in una delle oro prime riunioni, che tutte le opere espurgate, prima di poter circolare, debbano essere sottoposte alla loro approvazione. Inoltre si impegnano nella compilazione di norme espurgatorie da inserire nell’indice in preparazione. La rilevanza attribuita ai testi sospesi è testimoniata anche dalla decisione che affida ai consultori della Congregazione, ai procuratori degli ordini religiosi e a uomini dotti e pii dei loro conventi (tutti suddivisi in “classi”), la revisione di una serie di opere; dal potenziamento del numero dei consultori; dall’intensificarsi di riunioni in cui vengono esaminate e discusse le censure prodotte dalle “classi”. Questa accelerazione dei lavoro permette di programmare in maniera più concreta la pubblicazione dell’indice espurgatorio. Su questa nuova impostazione sembra aver inciso il Discorso intorno all’Indice da farsi dei libri prohibiti composto dal segretario della Congregazione, Vincenzo Bonardo, che raccomanda che moltissimi libri sospesi siano affidati a un collegio di teologi a Roma, onde evitare che uno stesso libro venga espurgato in un vescovato da un’inquisizione in un modo, e in un altro da altre istituzioni. Nota inoltre come sia difficile impedire la diffusione di molti libri, i quali “si vendono comunemente e sono tutto il giorno nelle mani di persone idiote e semplici”. La visione realistica del mercato librario lo porta a prevedere che non sarà mai possibile comporre un Indice in grado di eliminare tutti i libri proibiti, perché ogni volta che se ne proibisce uno ne vengono stampati due. Nel corso dell’esame delle regole nelle prime riunioni, a proposito della settima sono in vari a ritenere che le opere oscene ex professo debbano essere esplicitamente elencate. A tutela della moralità si auspica il divieto di alcuni classici (Ovidio, Marziale, Catullo, Tibullo, Properzio) corruttori della gioventù; possono essere concesse deroghe per Cicerone e Virgilio, ma non per autori cristiani, tra cui il Furioso dell’Ariosto, che pur non trattando ex professo oscenità, “tuttavia contiene una grande quantità di sporcizie”. Più articolato il giudizio sui classici: le Metamorfosi di Ovidio devono essere tollerate in latino ma non in volgare: una distinzione che non è soltanto di ordine linguistico, ma anche socioculturale, in quanto tesa a vietarne la lettura al pubblico sprovvisto di educazione classica. Malgrado questa attenzione nei confronti delle opere letterarie, solo pochi testi vengono affidate ai consultori per essere emendati. Nonostante un apparente attivismo, sotto Sisto V l’indice espurgatorio non vede la luce e solo con Clemente VIII, allarmato per le proteste per la sua mancata pubblicazione, che viene dato un nuovo impulso alla sua stesura, valutando addirittura la possibilità di dargli la precedenza rispetto all’indice proibito. La proposta non viene accolta e si ridistribuiscono per classi, secondo il sistema ormai consolidato, le opere di cui la Congregazione possiede già le censure e quelle che saranno espurgate a Roma e fuori Roma. Presto però cominciano a moltiplicarsi i segnali di un imminente rinvio del progetto: da un canto viene proposto che, in attesa della pubblicazione delle censure approvare dalla Congregazione, i proprietari possano correggere i propri libri sulla base dell’indice espurgatorio spagnolo e di quello di Lovanio; dall’altro ci si appella agli ordini religiosi, alle università straniere e italiane e ai nunzi al fine di ottenerne la collaborazione. Non solo: il lento procedere della macchina fa si che non prima dell’estate del 1594 ci si renda conto della necessità di reperire fondi per l’acquisto di importanti libri sospesi non posseduti dalla Congregazione e per compensi a copisti, censori e consultori. Una volta decisa la promulgazione dell’indice proibitorio, si ritiene necessario, in attesa di quello espurgatorio, studiare le modalità con cui autorizzare a leggere e possedere i libri proibiti espurgabili, rendendo di fatto inutili molti provvedimenti presi. Il ricorso all’ampia concessione di licenze di lettura dei libri emendabili è il risultato inevitabile dei ripetuti inceppamenti di ingranaggi censori che girano a vuoto. A denunciare questa situazione di stallo sono molti: tra i più impazienti proprio Girolamo Giovannini di Capugnano, che depreca la poca considerazione in cui vengono tenute le correzioni da lui apportate a numerose opere sospese di cui Roma aveva bloccato la stampa a Venezia. Per superare gli ostacoli chiede di poter far esaminare e approvare a Venezia dall’inquisitore e da alcuni gesuiti i suoi interventi censori. Di fronte alla penuria di espurgatori professionali la Congregazione cede e incarica il patriarca e l’inquisitore di Venezia di far rivedere i libri in questione a uomini dotti e di autorizzarne la stampa, e continua ad avvalersi negli anni seguenti della collaborazione del domenicano. Non è un caso che in questa situazione caotica, all’indomani della promulgazione dell’indice clementino, i cardinali prendendo a modello la Congregazione del Concilio, con abile mossa ottengono dal papa la facoltà di dirimere le controversie e di sciogliere i dubbi nel corso dell’applicazione. Non è, peraltro, l’unico strumento che permette loro di pilotare e coordinare l’attività censoria. La Congregazione infatti cerca di cogliere quell’unica occasione per insediarsi nel territorio alla pari del Sant’Ufficio e per sostituirsi ad esso nella vigilanza sulla produzione e circolazione dei libri; a tal fine progetta una riorganizzazione del sistema di controllo per definire e distinguere chiaramente la sfera d’azione dei due dicasteri. Il nuovo sistema fa perno essenzialmente sui vescovi, invitati a istituire nelle loro diocesi propaggini del dicastero romano; da essi presiedute, queste congregazioni dell’Indice locali, cui avrebbero partecipato consultori laici ed ecclesiastici dalle varie competenze disciplinari, avrebbero dovuto riunirsi con regolarità nel palazzo vescovile per attendere all’esecuzione dell’indice, quindi nell’immediato vagliare le liste dei libri o i libri consegnati distinguendo tra omnio prohibiti e sospesi donec corrigantur, e successivamente provvedere all’emendazione delle opere sospese, alla censura preventiva e alla vigilanza sulla penetrazione di opere sospette o vietate nei territori sotto la loro giurisdizione. Nelle aree dell’Italia centro-settentrionale, dove sono presenti tribunali inquisitoriali, questi nuovi organismi devono essere per composizione e per finalità da essi distinti, mentre l’inquisitore ne deve far parte in subordine all’ordinario diocesano. Nel complesso, grazie all’assiduità e all’accuratezza con la quale i cardinali dell’Indice controllano, giorno dopo giorno, l’operato delle sedi locali e grazie ai frequentissimi interventi del Sant’Ufficio sui propri funzionari periferici, la prima fase dell’esecuzione è sistematica e capillare. Durante la seconda fase, che prevedeva l’espurgazione delle opere sospese, emerge in maniera evidente l’inadeguatezza della Congregazione dell’Indice ad assolvere l’ambizioso compito che si era prefissata. Non si trattava infatti di correggere soltanto i libri espressamente sospesi nell’indice donec corrigantur, bensì una moltitudine di testi che ricadevano sotto le regole tridentine, sotto quelle clementine e sotto condanne generali dell’Indice stesso. Tutto ciò comporta un impegno che le congregazioni locali per svariati motivi non riescono a sostenere; tra le maggiori difficoltà quella più frequentemente denunciata è la carenza di persone capaci di farsi carico dell’espurgazione di opere di varie discipline, soprattutto nei piccoli centri privi di accademie e università. Molte altre cause concorrono a ritardarne o a impedire la creazione, o a renderne il funzionamento stentato: la principale è la perdurante non-residenza dei vescovi nelle loro sedi. L’assenza del vescovo compromette, della terraferma veneta, dove gli stampatori che intendono ristampare possono chiedere che l’emendazione dei libri sospesi che intendono stampare sia eseguita senza mandarli a Roma. Questa clausola consente la stampa di non poche opere letterarie; ma il controllo locale, quando e se è presente, da parte del vescovo e dell’inquisitore non è dei più rigorosi. Tornando al fallimento dell’indice espurgatorio dei testi letterari va comunque osservato che alla rinuncia dell’inquisitore fiorentino si aggiunge l’impazienza di Clemente VIII che, dopo anni di tergiversazioni e rinvii, impone l’immediata pubblicazione dell’indice espurgatorio universale, adottando la drastica soluzione che si dovessero prendere in considerazione solo i libri che possano avere “una qualche utilità” e che si dovesse dare la precedenza alle opere espressamente sospese nell’indice. Non ci si stupirà dunque se testi letterari non figurano nel primo tomo dell’Index expurgatorius predisposto dal Maestro del Sacro Palazzo Giovanni Maria Guanzelli, contenente le correzioni di 53 opere di cinquanta autori. Apparso nel 1607 è però prontamente sospeso e tolto dalla circolazione. Si concludono così anni di attività di espurgazione. L’apparato centrale non ha retto il peso di un progetto che puntava alla disinfestazione di un numero ingestibile di scritti, non avendo per giunta trovato, soprattutto tra i letterati, quella naturale propensione, attribuita loro da alcuni storici, a lasciarsi asservire al progetto di clericalizzazione della cultura e a trasformarsi in collaboratori degli organi censori nella manomissione di opere che avevano goduto e godevano di grande popolarità. Non sappiamo quante siano le opere sospese che, pur pesantemente manipolate, possono circolare, ma certamente rispetto alle grandi ambizioni della Congregazione si tratta di un numero esiguo. Sarebbe peraltro sbagliato vedere nel collasso della macchina censoria una prova della sua inefficacia. Oltre ai danni ingentissimi recati all’industria tipografica dalla sospensione di opere molto richieste e all’imponente riorientamento della produzione libraria verso opere devozionali e liturgiche, il fallimento della politica espurgatoria comporta la definitiva scomparsa non soltanto dal mercato, ma dalle biblioteche pubbliche e private di un’incalcolabile quantità di scritti e di autori che. Sommandosi a quelli espressamente proibiti negli indici e a quelli inutilmente distrutti per ripensamenti degli organi centrali, moltiplicano gli effetti devastanti della censura ecclesiastica. Si potrà obiettare che molti detentori di libri sospesi si siano astenuti dal consegnarli, sicuri che non sarebbero mai stati restituiti corretti, e che la Congregazione dell’Indice, il Maestro del Sacro Palazzo, i vescovi e gli inquisitori, per attenuare i disagi agli studiosi e ai professionisti abbiano largheggiato in licenze di lettura. Ma tali liberalità sono esercitate prevalentemente nei confronti di persone “di qualità”, su sollecitazione di influenti protettori e quasi mai per opere letterarie. Chi di protezioni non gode deve rassegnarsi a consegnare i propri libri, specialmente se non professionali, che vengono relegati negli archivi in attesa dell’indice espurgatorio. È facile intuire quanto questa politica di esclusione, operata soprattutto a danno di un pubblico digiuno di latino (e al suo interno soprattutto delle donne), abbia rallentato il processo di maturazione culturale e di affinamento delle esigenze intellettuali che aveva subito una forte accelerazione a seguito dell’invenzione della stampa e dell’uso crescente nella produzione editoriale del volgare. Sarebbe tuttavia riduttivo attribuire solo alle carenze degli apparati repressivi centrali e periferici il definitivo ritiro dell’indice del Guanzelli. Dietro questa sconfitta si intravede un motivo di fondo: il panico della parola stampata, il timore dell’errore, con gli inquisitori sempre in agguato e i protestanti pronti allo scherno. Sembrano contagiare anche le istituzioni fino a paralizzarle. CAPITOLO 6. IL POEMA EPICO: LA GERUSALEMME LIBERATA E L’ORLANDO FURIOSO DI FRONTE AI CENSORI Appare opportuno prendere in esame, oltre a casi singoli di autori e opere, intere categorie di scritti che vengono a trovarsi nel mirino dei censori; si è scelto di iniziare dalla Gerusalemme Liberata del Tasso per passare all’Orlando Furioso dell’Ariosto perché questo è l’ordine cronologico in cui i due poemi incappano nelle maglie della censura. Il primo poeta vivente a imbattersi nel nuovo clima instaurato dal Maestro del Sacro Palazzo Costabili infatti è Torquato Tasso; è noto che al momento della stesura della Gerusalemme liberata egli si rivolge ad amici letterati residenti a Roma, perché rivedano di volta in volta i canti che va scrivendo. I quesiti che egli pone ai suoi consulenti non riguardano tanto la sostanza del poema, quanto il problema fondamentale dell’adeguamento della creatività artistica alla normalizzazione classicistica, essendo intenzionato a fare del poema un’opera rigorosamente fedele alla Poetica aristotelica. Dallo scambio epistolare con gli interlocutori romani cui viene sottoposto il poema, i quali non investivano alcun ruolo ufficiale negli apparati censori della curia, emergono dati di estremo interesse. È significativo che la prima manifestazione di timori legati alla censura ecclesiastica risalga alla primavera del 1575: da quel momento, coincidente con la diramazione da Roma di liste che registrano un numero sempre più consistente di opere letterarie, si avverte una crescente ansia per le sorti della Gerusalemme. Nei mesi successivi si intensificano le reazioni de Tasso alla revisione; rassegnato a rivedere il poema alla luce dei giudizi romani, che toccano sia la materia amorosa che i rapporti tra vero, verosimile e meraviglioso, tra realtà storica e finzione poetica, resta incredulo di fronte alla rigidità dei suoi corrispondenti, tanto da essere indotto a insinuarsi negli interstizi di una macchina censoria ancora non ben oleata per salvare il poema. Piccole, irritanti astuzie che devono contribuire a fiaccare la fragile mente del poeta e a convincerlo a lasciare nell’autunno del 76 la Gerusalemme incompiuta. È stato giustamente osservato come questo serrato dialogo con gli interlocutori romani in difesa della propria creatività sia il riflesso di un mutato clima culturale, di una sempre più pervasiva vigilanza sulla produzione editoriale. Mutamento sicuramente percepito dai suoi “giudici” i quali erano preoccupati di prevenire eventuali condanne ufficiali del poema. Non si tratta da parte loro di una naturale rigidità, ma della piena consapevolezza che si stesse verificando, proprio in quegli anni, una svolta radicale nella politica censoria romana. È, non a caso, il nobile domenicano ferrarese Costabili, Maestro del Sacro Palazzo, a imprimere a tale politica un indirizzo nuovo, che investe con intransigenza le opere letterarie. Tornato in patria nel momento in cui il dominio estense giungeva al tramonto in mancanza di eredi legittimi, egli deve scorgere nella corte di Alfonso II i segni inequivocabili di una profonda decadenza morale, testimoniata anche dalle torbide vicende amorose del duca e dei suoi cortigiani. Non è improbabile che, nella sua mente esaltata, quella corruzione e quel degrado siano stati interpretati non soltanto come retaggio della “peste” ereticale, ma anche come esito dell’intensa familiarità con una ricchissima produzione letteraria promossa e sostenuta fin dal 400. Certamente ossessionato dall’amore dalla licenziosità, Costabili aveva però sotto agli occhi immagini concrete, riferite anche da testimonianze coeve, della sregolatezza della vita di corte che raggiungeva il culmine a carnevale, quando accorrevano dalle corti vicine principi, gentiluomini e dame, attratti non soltanto da giostre, ma anche da intrattenimenti ispirati alle opere letterarie. Anche Tasso, pur angosciato dagli scrupoli per la revisione della Liberata, interviene a queste feste offrendo versi erotici. Sullo sfondo di questo universo cavalleresco, in cui la corte estense affondava le radici, che occorre collocare il rumore della creazione di liste di libri proibiti, rumore che raggiunge inevitabilmente anche Ferrara, e che non può non allarmare chi, come Tasso, è intento a scrivere un impegnativo poema. I pareri e le censure prodotte in quegli anni, quando all’interno degli uffici romani per volontà dei Costabili veniva passata al setaccio gran parte della letteratura italiana, ci consentono di inserire le obiezioni mosse alla Gerusalemme in un più ampio contesto e progetto di disinfestazione delle opere letterarie. Le critiche dei revisori amici del Tasso sono in effetti pesanti, investendo la sostanza stesa oltre che il linguaggio della Liberata: dalla sensualità e lascivia delle manifestazioni dell’amore, alle sfrenate passioni viste come minaccia all’esercizio del libero arbitrio, all’attribuzione al fato e alla fortuna di un ruolo preminente nelle vicende umane e all’uso del lessico dei classici pagani nella narrazione di storia i cui protagonisti erano cristiani, dagli episodi magici, alla commistione tra sacro e profano. Non sembrano per altro aver toccato problemi di natura strettamente teologica. Se le reazione del “censurato” Tasso e del censore Marco Medici illustrano quanto la riorganizzazione degli apparati repressivi romani stia incidendo sull’editoria, indicano anche come sia difficile da un canto comprendere i nuovi orientamenti diretti a eliminare ogni traccia di contaminazioni pagane, dall’altro anticipare ed eludere i collegamenti tra consolidate forme della creazione artistica e il loro improvviso ripudio. Di qui l’ansia del Tasso per una revisione preventiva del poema, anche sotto il profilo “religioso” e il ricorso a Silvio Antoniano, il quale ha indubbiamente ai suoi occhi il duplice metodo di conoscere “il costume del paese” e di essere ben introdotto nei circoli più influenti della curia romana; accetta il suggerimento di mutare alcune parole o versi e di eliminare non solo alcune stanze giudicate lascive, ma anche alcune parti riguardanti meraviglie e incanti. Tasso finisce con il convincersi dell’ineluttabilità della censura e della necessità di procedere all’elaborazione di scudi, ossia dispositivi tattici di elusione o evasione, per neutralizzare l’opera dei censori. Va tuttavia ricordato come in quel periodo l’Antoniano non rivesta alcuna carica all’interno della Congregazione dell’Indice o di quella dell’Inquisizione, e come la revisione della Liberata non sia passata attraverso gli organi deputati al controllo della stampa. Dai censori ufficiali - Immoralità e lascivia delle donne - Attacchi contro clero alto e basso e vena anticlericale ad essi sottesa - Irriverenza verso i riti e le cerimonie della Chiesa. ESEMPIIIIIIIIIIIII La severità dei censori colpisce non poche ottave; minimi gli interventi su questioni di natura strettamente teologica: dalla dottrina del sonno delle anime ai limiti posti alla misericordia divina. Si impongono ora alcune considerazione: anzitutto per quanto riguarda la distanza cronologica di questi commenti. Barri scrive all’inizio degli anni 70 del 500, quando non erano state ancora formulate le regole de correctione librorum, quando si procedeva guidati dalla foga distruttrice piuttosto che da una serie di norme. A cavallo tra 500 e 600 Galletti e i censori ferraresi dispongono invece della normativa introdotta nell’indice clementino, e cercano di attenervisi. Se ciò spiega il diverso tenore delle critiche al romanzo, non consente però di gettare luce su un elemento che accomuna i loro orientamenti censori, ossia la totale assenza di rilievi nei confronti di chiarire manifestazioni delle inquietudini religiose dell’Ariosto, che non fossero riferimenti anticlericali e anticuriali. I molteplici richiami nel poema a dottrine di matrice evangelica, circolanti già nel 400, su cui si sarebbero innestate in futuro le dottrine riformate nelle loro varie declinazioni, sfuggono allo scandaglio dei censori. Ossessionati dalla salvaguardia dell’onore di frati e monaci, nel canto 14 non prestano attenzione alla preghiera di Carlo Magno durante l’assedio di Parigi, in cui il rifiuto del valore meritorio delle opere nel processo di salvazione e la totale fiducia nella grazie divina, non avrebbero potuto essere più espliciti. Questo canto esprime una convinta adesione da parte di Ariosto alla dottrina della giustificazione per sola fede che era stata largamente condivisa da molti prima della sua formulazione luterana. Non passano però inosservate solo le inclinazioni religiose dell’Ariosto, che al momento dello scandaglio censorio non potevano non risultare eterodosse alla luce dei decreti tridentini. Se Barri e Galletti potevano non essere a conoscenza della profonda penetrazione dell’eresia nei domini estensi e nelle vicine corti pagane, difficilmente i censori ferraresi avrebbero potuto ignorarla; si può quindi avanzare l’ipotesi che l’occultamento delle compromettenti frequentazioni dell’Ariosto fosse dettato dalla volontà di non riaprire un capitolo incandescente della storia estense. Sarebbe pertanto vano ricorrere alle censure del Furioso per attingervi elementi utili alla ricostruzione delle componenti dell’inquietudine religiosa dell’Ariosto. I censori, nel solco dell’antica polemica ei teologi contro le “favole” dei poeti, si concentrano sul problema dei confini tra verità e finzione, sulla permeabilità tra sacro e profano, tra linguaggio cristiano e pagano, incentivato dall’imitazione dei classici. Queste profonde riserve si sommano alla crescente vigilanza ecclesiastica sulla sessualità femminile, con la conseguente attribuzione alla materia amorosa di una forza corrosiva nei confronti della moralità, vigilanza che si manifesta in una più severa condanna di temi ed episodi lascivi e osceni e in una più rigida intransigenza nei confronti di poeti e prosatori, soliti adornare i comuni mortali e le loro azioni con attributi riservati alla divinità e ai santi. Ad alimentare l’intolleranza dei confronti del poema cavalleresco concorrono anche la battaglia anti- astrologica e anti-magica e la conseguente negazione della preminenza nel destino dell’uomo del fato e della fortuna, su cui molti autori indugiavano. Inoltre, in anni nei quali la chiesa si impegna nella catechizzazione e nella moralizzazione dei fedeli, e nel disciplinamento dell’alto e basso clero, i pungenti giudizi sulle istituzioni ecclesiastiche presenti nel Furioso e nei Cinque canti, non possono non allarmare i censori. Sarebbe tuttavia riduttivo ricondurli all’alveo del tradizionale anticlericalismo e anticurialismo o inserirli nell’ambito di una diffusa e profonda ansia di rinnovamento ecclesiale. Gli attacchi agli ordini religiosi, al clero secolare, alla dissolutezza dei vertici della Chiesa, al nepotismo e al clientelismo papale, alle imprese militari dei pontefici tese non alla riconquista della terra santa ma alla creazione di signorie per i propri familiari ai danni della quiete d’Italia, alla prevalenza degli interessi temporali rispetto alla missione spirituale della Chiesa, avrebbero potuto essere convogliati in quell’alveo; ma se scaturivano dalla certezza della preminenza della grazia nel processo salvifico e della centralità del vangelo nella vita del cristiano, potevano condurre verso proposizioni assai più audaci. Restano pertanto da indagare più compiutamente contesti culturali, cittadini e familiari e fonti scritte dei quali Ariosto ha nutrito il suo pensiero religioso; indagine favorita da un crescente interesse della critica. Sul piano della specificità ferrarese è stata evidenziata l’influenza della polemica anti-ecclesiastica del conterraneo Savonarola. È stato messo in luce recentemente come confluiscono nel Furioso intorno alla vittoria contro Venezia degli Este nella battaglia della Polesella (1509) echi di brevi componimenti recitati nelle piazze dai cantimbanca, delle stampe “popolari”, che celebrarono l’evento a Ferrara: materiale che potrebbe essere utilizzato forse anche per notizie relative alla religione cittadina ferrarese. Circa le fonti scritti che poterono alimentare la religiosità dell’Ariosto, al di là delle tracce evidenti di letture ermetiche e neoplatoniche, occorrerà verificare l’incidenza degli scritti di Lorenzo Valla e della sua corrosiva polemica contro la donazione di Costantino. Andrà valutata anche l’estesa presenza di letture erasmiane sottese a molti canti: dalla condanna della proliferazione degli ordini regolari, ala descrizione piena dei sarcasmo dei monasteri e conventi parigini visitati dall’Arcangelo Michele, all’irridente riferimento ai legati pii nel cielo della luna, alla veemente invettiva contro le armi da fuoco, allo sdegno nei confronti della violenta politica anti-estense di Giulio II. Né potrà essere trascurato l’intenso rapporto con la spiritualità degli esiti eterodossi e decisamente ereticali dei benedettini cassinesi di San Benedetto, dove chiede di essere sepolto. Non deve stupire quindi che all’indomani della morte di Ludovico, il Furioso sia stato interpretato in chiave fortemente spirituale come itinerarium a Dio dal benedettino cassinese Teofilo Folengo. Né che nel primo compiuto commento al poema del 1549-1550, il Fornari, dalle indiscutibili inclinazioni calviniste, abbia scorto dietro alle diverse interpretazioni allegoriche, il valore morale o religioso e la funzione educativa del Furioso. Terminato l’esame delle censure del poema dell’Ariosto è lecito chiedersi se i tagli minimi e le estese mutilazioni suggerite trovarono concreta applicazione. Quello che è certo è che quell’edizione auspicata dalla Congregazione dell’Indice, emanata e stampata sulla base delle espurgazioni ferraresi, non appare mai. Il Furioso non era un testo qualsiasi: la revisione non si sarebbe potuta esaurire nelle cancellazioni, occorreva infatti affrontare il problema cruciale della riscrittura, affinché il testo potesse essere comprensibile e scorrevole, impresa che non venne mai tentata. CAPITOLO 7. IL POEMA SACRO La lotta contro la penetrazione in Italia delle dottrine dei riformatori d’oltralpe aveva messo in luce la forte incidenza che l’accesso diretto alla Bibbia, favorito dalle tradizioni in volgare apparse già negli anni 70 del 400, aveva avuto nella diffusione del dissenso religioso tra ampie fasce della società. La reazione delle autorità ecclesiastiche non si fa attendere: il primo indice dei libri proibiti (1558) vietava la lettura, il possesso e la stampa di tradizione dell’antico e del nuovo testamento. Nonostante l’attenuazione del divieto nella regola IV dell’indice tridentino del 64, dagli anni 70 del 500 si infittiscono provvedimenti diretti non soltanto a ripristinare la proibizione del 1558, ma anche a estenderla a una vasta gamma di volgarizzamenti biblici. Contrasti che culminano nella sospensione del già promulgato indice del 1596 imposta dall’inquisizione a Clemente VIII, e che si traducono nella Observatio ad quartam regulam. Nelle liste redatte dal Maestro del Sacro Palazzo e dall’inquisizione negli anni 1574-1580 o localmente su elenchi inoltrati da Roma, le versificazioni della Scrittura erano state ripetutamente vietate, non soltanto in volgare ma anche in latino. Disorientati da queste raffiche di divieti e sospensioni, gli inquisitori locali più cauti chiedono chiarimenti a Roma; le delucidazioni che ricevono dagli uffici centrali contribuiscono ad ampliare lo spettro degli scritti proibiti. Per quanto discordanti, le direttive romane allarmano autori ed editori. Anche gli stampatori, nel timore di sequestri delle loro pubblicazioni e di danni irrimediabili ai loro commerci, si premuniscono: es. nel tradurre in versi toscani il De partu virginis del Sannazzaro, Giovanni Giolito si sforza di attenuare la pericolosa invadenza dei modelli classici e di contenere la continua contaminazione di testo biblico e testi classici, mutandone radicalmente il significato. La gamma delle opere devozionali di contenuto biblico oggetto di divieti va ampliandosi nel corso degli anni successivi; nel 1590 i cardinali del Santo Ufficio decretano che la Bibbia e i compendi dei vangeli e delle epistole in volgare dovessero essere bruciati. È indubbio che l’avversione nei confronti di questa letteratura biblica di largo consumo fosse dettata dalla frequente contaminazione tra sacro e profano, dalle non rare reminiscenze della cultura greco-romana, dalla presenza di formule magiche e superstizione, dall’uso spesso irriverente e giocoso del lessico biblico, dall’inserimento di testi apocrifi, oltre che dalle modalità di fruizione da parte dei lettori, i quali spesso non distinguevano tra testi religiosi e profani. Di fronte all’andamento incerto degli interventi centrali, già in quegli anni i funzionari periferici chiedono lumi per potersi districare in un settore vastissimo della produzione editoriale. Ma sono i dubbi e difficoltà che quasi quotidianamente e da ogni angolo della penisola pervengono alla Congregazione all’indomani della promulgazione dell’indice del 1596 a mettere in luce la scarsa uniformità dell’applicazione dei provvedimenti adottati dagli anni 70. All’assenza di norme generali certe non riescono evidentemente a supplire i divieti contenuti nelle confuse liste aggiuntive o nelle lettere inviate ai singoli inquisitori. L’indice tridentino e la sua regola IV erano ancora formalmente in vigore; in attesa di un nuovo indice universale molti dovevano aver considerato gli interventi alquanto surrettizi del Maestro del Sacro Palazzo e del Santo Ufficio meno vincolanti delle prescrizioni conciliari. Inoltre, si verifica in seguito alla pubblicazione dei due primi indici e dei divieti delle traduzioni integrali della sacra scrittura, una straordinaria fioritura di rime sacre e di traduzione dei salmi, nella quale è stato ravvisato un profondo riorientamento della scrittura lirica volgare da poesia d’amore in poesia sacra. Sebbene l’indice clementino non avesse recepito i divieti circolanti degli successo, facendo sempre più frequentemente ricorso al metro della tradizione epico-cavalleresca o ad altri espedienti. Tuttavia, stando alla scarsa fortuna editoriale di queste iniziative, si può desumere che lo sforzo teso a sostituire con l’epica biblica il romanzo cavalleresco non abbia incontrato il pieno consenso del lettore. D’altro canto, a limitarne ulteriormente la presa sul pubblico contribuisce sia l’avversione per le traduzioni bibliche che la crescente diffidenza delle autorità censorie verso le opere letterarie in generale. È in questo contesto che occorre calare i ricorrenti dibattiti in seno alla Congregazione dell’Indice e valutarne le ripercussioni. Illuminante si rivela la vicenda censoria della Reina Esther di Ansaldo Cebà, scrittore genovese; pubblicata nel 1615 a Genova presso il Pavoni, l’opera tre anni dopo, a seguito di una denuncia anonima, approda negli uffici della congregazione dell’indice. Quel giorno le censure vengono date in esame al cardinale Centini, il quale, avendole riscontrare con il libro in suo possesso, riferisce di condividerle: la Reina contiene multa falsa contro la storia sacra. Tuttavia prima di sospendere o proibire il poema si ritiene di trasmetterle al cardinale Doria; tenendo conto del sospetto che fosse stato proprio lui a denunciare l’opera, era scontato che il poema venisse sospeso donec corrigantur. Tuttavia la pubblicazione della sospensione non è immediata. Vana è la difesa del Cebà, tesa a dimostrare l’infondatezza delle trasgressioni che gli venivano imputate, onde non essere costretto a mutilare pesantemente il componimento e a ristamparlo. Altrettanto vano è il tentativo di aggirare gli interventi espurgatori impostigli offrendosi di correggere i luoghi condannati “per via della prefatione”. Egli si difenderà puntigliosamente dalle accuse di aver mescolato sacro e profano, di aver introdotto nel racconto elementi lascivi e disonesti e di aver alterato la lezione biblica; da un canto insinua maliziosamente che non gli risultava fosse proibito “le cose sacre con le profane”, dall’altro cerca di dimostrare l’alta funzione pedagogica del contrasto tra la risplendente santità della vita di Esther e le perversioni degli idolatri che la circondavano. Ma è sul titolo pretestuosamente falso dato al poema nell’editto di sospensione che il Cebà si sofferma maggiormente individuando lucidamente, in quella falsificazione, l’origine di tutte le accuse che gli venivano mosse. L’accorata difesa, non tanto della Reina quanto della creatività dell’artista, da una parte arricchendo e illuminando i pluriennali dibattiti della Congregazione dell’Indice che la documentazione ci ha restituito in maniera succinta, dà uno spessore più preciso alla lotta ingaggiata dagli organi romani contro la “petulantia” dei poeti e all’opera di sottile dissuasione nei riguardi della “cupiditas imprimendi” esercitata attraverso l’intenzionale occultamento dell’attenuazione della normativa resa pubblica attraverso editti e decreti. Dall’altra essa consente di illustrare come nel giro di poco meno di cinquant’anni Roma sia riuscita a inculcare nei letterati italiani il senso dei confini che delimitavano la loro creatività artistica. Mezzo secolo di censura preventiva e di espurgazione di testi aveva reso i letterati più avvertiti dei margini angusti lasciati dall’ordinanza ecclesiastica alla loro creatività, ma anche più determinati a sfruttarli fino in fondo. Pur consapevole che la bibbia era considerata dalla chiesa e dal comune lettore un libro di storia, Cebà, fermamente convinto che la poesia non dovesse sottostare alle regole della storia, si illude di poter superare gli scogli della censura; un’illusione di breve durata: gli spiragli lasciati aperti dall’ambiguità normativa si sarebbero prontamente chiusi. Ma, pur tra rituali formule di sottomissione, lo scrittore protesta dando voce al malessere di generazioni di poeti. Egli rivendica coraggiosamente per se e per i suoi pari la libertà dell’”invenzione”, di “favoleggiare sulla storia”, anche quella sacra, fondandola sulla netta distinzione tra scrittura poetica e scrittura storica. Per quanto agguerrito, gli sfugge che tale distinzione negli anni bui della Controriforma, veniva sempre più respinta in particolare per le opere di argomento biblico. Obbligato a preparare un’edizione espurgata del poema, muore prima di compiere l’ingrato compito. Al di là di casi singoli, le ripercussioni della censura appaiono per evidenti nel riorientare gli autori su terreni meno minati. Dala fine del 500 si assiste infatti da un canto al progressivo esaurirsi nel teatro gesuitico delle tragedie di soggetto biblico fino alla ripresa di metà 700 e alla loro sostituzione con il dramma martirologico, dall’altro alla ricca fioritura di romanzi di ispirazione biblica in prosa. Ciò non significa un allentamento della vigilanza: la materia biblica continua a occupare i censori, ma non sarà inutile ricordare che la via dell’espurgazione che la chiesa aveva imboccato al concilio di Trento per recuperare un patrimonio indispensabile all’esercizio delle professioni liberali fallisce proprio per la mancata collaborazione tra frati e intellettuali. Rimane quindi tutta da dimostrare la tesi seconda cui la politica espurgatoria della Chiesa avrebbe offerto agli intellettuali una straordinaria palestra per manifestare il loro “entusiasmo per la censura”. Un loro concreto capillare coinvolgimento nel recupero di opere sospese è infatti difficilmente documentabile sia perché quel recupero è avvenuto in misura estremamente esigua, sia perché le poche opere letterarie che si sono salvate, sono state purgate da membri di ordini religiosi. Né d’altro canto sarebbe corretto attribuire a connivenze con gli apparati repressivi il riorientamento di interi settori della produzione editoriale italiana, costretta a conformarsi ai codici della cultura e dell’ideologia della chiesa romana pur di superare i controlli ecclesiastici e andare in stampa. Non sembra in definitiva ci sia stata una loro naturale propensione a lasciarsi asservire al progetto di clericalizzazione della cultura. CAPITOLO 8. ROMA TRA LIBELLI FAMOSI, PASQUINATE, AVVISI E SATIRE Le difficoltà che gli organi censori romani avevano incontrato e cercato di superare per porre sotto controllo una crescente produzione di opere letterarie a stampa, per definirne le tipologie e i generi, per stabilire cosa potesse urtare le “pie orecchie” dei fedeli, sono certamente minori rispetto a quelle nelle quali si imbattono per sorvegliare la comunicazione manoscritta e orale di notizie improvvisate negli spazi pubblici urbani, di Roma in particolare. In effetti, continua a circolare una moltitudine di opuscoletti a stampa di poche carte di infima qualità e di piccolo formato, o scritti a mano, smerciati a basso prezzo. L’attenzione si è spostata su questa “letteratura da strada”, libelli famosi, avvisi, pasquinate, e sul ruolo di cantimbanchi, venditori ambulanti, ciarlatani nel diffonderla fin dalla prima età moderna. Grazie ad essi notizie spesso di ordine politico vengono divulgate in tutti gli strati della società, collegando tra loro livelli culturali e sociali diversi. Le istituzioni ecclesiastiche e civili avevano a lungo convissuto, a quanto pare pacificamente, con questo tipo di scritti che si caratterizzavano soprattutto per la critica mordace e irriverente dei costumi del clero e delle pratiche religiose. Ma, suscitando una fame di notizie e quindi un’imponente e incontrollabile produzione di informazioni sulle “guerre horrende” d’Italia, con il loro seguito di distruzioni sono probabilmente all’origine dei primi provvedimenti ecclesiastici. Le responsabilità dei papi nell’invasione straniera degli stati della penisola, il succedersi sul trono di Pietro di papi indegni, la percezione dell’irreversibilità della crisi italiana e della fine del rinascimento inaspriscono in quegli anni le polemiche contro una chiesa dimentica della sua missione spirituale. Nella costituzione inter sollicitudines, emanata da Leone X nel 1515, nell’ambito del V concilio lateranense e relativa al controllo preventivo di ciò che andava in stampa e al rilascio dell’imprimatur, si faceva riferimento tra gli altri a scritti contenenti affermazioni “lesive della buona fama di persone anche rivestite di dignità”; è possibile intravedere nel materiale incriminato un riferimento a scritti infamanti che recavano ingiuria all’onore e alla reputazione di individui e istituzioni. Come del resto per altri testi, la costituzione non sembra essere stata applicata; occorrerà attendere la circolazione, dopo il 1542, degli anonimi Pasquillus extaticus e Pasquino in estasi e la confezione degli indici dei libri proibiti perché quantomeno il genere pasquillesco a sfondo riformato siano condannati negli indici locali e in quelli universali del 1558 e 1564. È evidente che la particolare attenzione riservata alla pasquinata a partire dagli anni 40 è destata dal carattere decisamente eterodosso dei testi stampati a Venezia e oltralpe che circolavano diffusamente nelle conventicole ereticali della penisola. Ma è anche sollecitata dalla ricchezza degli ingredienti che vi confluiscono (profezia, vituperio, diffamazione, parodia sacra) e dagli usi diversificati che ne vengono fatti sia come strumento di lotta e di propaganda politica e religiosa, sia come strumento di vendetta privata. Di altre tipologie di scritti diffamatori gli indici non fanno esplicita menzione. Di fronte a questa letteratura deperibile, difficilmente intercettabile, ampiamente diffusa tra donne e uomini di tutti gli strati della società urbana e fruita dai più senza la consapevolezza di trovarsi di fronte a testi condannati, e all’impraticabilità e alla scarsa efficacia delle proibizioni degli indici, le autorità ecclesiastiche sono costrette a ricorrere ad altri rimedi. Quantomeno a Roma l’interruzione temporanea della produzione di scritti infamanti è infatti il risultato di provvedimenti presi dai papi nella loro veste di sovrani temporali a tutela dell’ordine pubblico. Si pone tuttavia il problema assai più grave del controllo dell’informazione per le sue ricadute politiche. Non erano più solo i libelli famosi, le pasquinate, i pronostici e vaticini ad allarmare le autorità ecclesiastiche: occorreva vigliare sull’attività dei menanti, autori di quella embrionale forma di giornalismo che erano gli avvisi distribuiti, a partire da metà 500, due volte a settimana a poco prezzo a Roma. Questi fogli manoscritti forniscono infatti notizie spesso tendenziose o decisamente false, attinte perlopiù nelle segreterie dei cardinali sfruttando la centralità di Roma nella circolazione dell’informazione anche grazie a una rete sempre più efficiente di collegamenti postali. È ipotizzabile che a far maturare la decisione di intervenire in una materia che si stava rivelando sempre più incandescente sia la strumentalizzazione da parte del cardinale Farnese, nipote di Paolo III, degli avvisi come cassa di risonanza di un attentato alla sua vita. Sconcertato dall’eco che aveva avuto una vicenda che ai suoi occhi doveva rimanere sepolta, ma determinato a far luce sulla “verità del fatto” Pio V fa trasferire il processo al tribunale del governatore, sottraendo in tal modo all’influenza del Farnese gli imputati. Gli interrogatori mostrano l’infondatezza della responsabilità di Francesco de’ Medici nella congiura farnesiana. Avvedutosi dell’avversione di Pio V alla tesi del complotto, il Farnese si premura di far sapere che scagionava i Medici da ogni responsabilità e fa di tutto per mettere a tacere “li discorsi che servire come vicario della diocesi di Reggio Emilia e poco dopo il cardinale Morone nella legazione di Bologna. Designato da Paolo III precettore del nipote prediletto torna a Padova; ma la vita di studio è presto interrotta dall’ordine di recarsi come segretario del concilio a Trento. Fino al 1550 la sua carriera si era svolta nell’adempimento di compiti subalterni esercitati prevalentemente all’interno di corti cardinalizie, tra segreteria e governo della casa; la designazione come nunzio pontificio a Venezia quello stesso anno è un notevole avanzamento. Si tratta inoltre di una sede prestigiosa e ambitissima. Trascorsi oltre quattro anni a Venezia, rientra a Roma con le funzioni di vicario in spiritualibus della diocesi; nominato arcivescovo di Ragusa in Dalmazia da Paolo IV è costretto ad andarvi a risiedere, ma con la segreta speranza che data l’età avanzata del pontefice, la permanenza sarebbe stata breve; non va tuttavia così. Nel settembre del 71 giunge a Trento per partecipare alla terza fase del concilio, dove fa parte della commissione incaricata di predisporre l’indice dei libri proibiti e dove assume posizioni sull’incandescente questione della residenza episcopale che gli valgono la severa condanna di Roma e l’allontanamento da Trento. Gli viene poi affidata l’educazione del giovane cardinale Ferdinando de’ Medici, incarico accolto come provvidenziale nel 63; rimane in Toscana fino alla sua morte nel 1572. In questa lunga e movimentata esistenza la nunziatura di Venezia rappresenta indubbiamente l’apice della sua carriera; prima di quell’incarico la modesta posizione e gli scarsi mezzi economici non avevano permesso a Ludovico di concepire progetti ambiziosi per sé e per la propria famiglia. Nonostante i pochi ritagli di tempo che riesce a sottrarre alle quotidiane controversie con i magistrati della Serenissima, si dedica all’allestimento dell’edizione delle Epistolae, di due orazioni e di una raccolta di carmi dell’antenato Antonio Beccadelli detto, dalla città nativa, il Panormita, apparsa nel 1553 a Venezia presso Bartolomeo Cesano. Ricostruisce inoltre le vicende del ramo siciliano e di quello bolognese nell’epistola de origine et nobilitate gentis Beccatellae che, sebbene stampata, era destinata a una circolazione privata entro la cerchia ristretta dei discendenti siciliani e bolognesi e degli amici e ciò ne spiega l’assenza negli esemplari superstiti delle Epistolae e il suo tardo recupero. L’iniziativa richiede grande cautela: poteva infatti essere compromettente per un nunzio associare il proprio nome a quello di uno scrittore la cui fama era legata prevalentemente all’Hermaphroiditus, una raccolta di epigrammi che per la loro oscenità era stata oggetto nel quattrocento di severe condanne. L’orgoglio di poter vantare tra i propri antenati uno degli scrittori più eleganti del secolo precedente è pertanto superato dalla preoccupazione per i contenuti delle sue opere sotto il profilo religioso e morale. Letterato indiscutibilmente sensibile alle ragioni della filologia, Beccadelli è anche un uomo di chiesa, anche se lo è diventato, come molti letterati del suo tempo, nella speranza di prolungare nel tempo il culto delle lettere. Una condizione che lo costringe a valutare non solo l’opportunità di attribuirsi la curatela dell’edizione, ma anche di riprodurre con fedeltà gli scritti selezionati in cui abbondano tracce di paganesimo, epicureismo o pura trivialità. Mosso dall’ansia di moralizzare e cristianizzare i testi che si accinge a pubblicare, Beccadelli vi apporta emendamenti e tagli così drastici da travisarne e alterarne completamente il significato. Del resto la riproposta del 700 dell’edizione veneziana senza ulteriori censure da parte dei teatini (tetragoni tutori dell’ortodossia e della morale cattoliche), testimonia il rigore con cui viene condotta l’espurgazione. Sia l’edizione del 1553 che la composizione del De origine fanno parte di un coerente e lungimirante disegno che mira alla restaurazione del prestigio del casato e alla salvaguardia e valorizzazione delle memorie familiari. L’idea di raccogliere glorie e miserie dell’antica famiglia e di comporle in una narrazione è anteriore alla nomina di nunzio, infatti risale al 1545 quando al concilio di Trento incontra il vescovo di Siracusa, Girolamo Beccadelli; duramente colpita durante le lotte comunali e ridotta all’esilio infatti l famiglia si era divisa e un ramo si era impiantato tra la Sicilia e Napoli. Ludovico non intende semplicemente soddisfare il desiderio di Girolamo di conoscere le antiche radici bolognesi della propria famiglia, ha anche altri obiettivi: da un canto un raccordo con il più illustre e potente ramo siciliano poteva tornare utile a chi come Ludovico apparteneva al partito imperiale e contava sull’appoggio di Carlo V per ottenere il titolo di cardinale; dall’altro la narrazione delle traversie del casato poteva servire a ricordare come la sua antica grandezza si fosse estenuata nella difesa dei valori e delle ragioni di parte guelfa. Ma è evidente che questo progetto può essere realizzato solo al prezzo di silenzi, occultamenti e censure: se il coinvolgimento del Beccadelli nell’edizione del Panormita, sia come curatore che come espurgatore, viene celato, la paternità del De origine viene attribuito a Pomponio Beccadelli, prestanome dietro al quale lo zio vuole nascondersi. Egli è un lontano nipote, che ha dodici anni nell’anno in cui avrebbe dovuto comporre l’epistola dedicata al vescovo di Siracusa. L’attribuzione dello scritto al nipote è un accorto espediente mediante il quale Ludovico può da un canto prendere le distanze dal panormita, dall’altro, senza apparire immodesto, tessere l’elogio della propria ascesa ai vertici delle strutture amministrative dello stato pontificio. Se sono chiari i motivi politici, sociali e familiari che ispirano il De origine, non altrettanto se il travestimento devoto dell’epistolario del panormita sia stato determinato dall’esigenza politica di rivendicarne l’incrollabile adesione alla fede e morale cattoliche o dall’intima avversione del prelato verso tematiche ed espressioni non più accette. Vietato nell’indice del 1558 con una formula che preludeva a una eventuale edizione spurgata, il Decameron viene sospeso nell’indice tridentino del 64 in attesa di un’edizione emendata affidata al Beccadelli, al nunzio pontificio a Firenze e a un inquisitore. La decisione di inserire l’opera tra quelle sospese donec corrigantur è però tutt’altro che pacifica. Non vi è dubbio che la scelta del Beccadelli quale revisore dell’opera sia dettata non soltanto dalla sua fama di uomo dotto e colto, ma anche dalle posizioni moderate assunte durante le riunioni conciliari. I padri tridentini non si aspettavano probabilmente che in linea con quanto sostenuto a Trento il Beccadelli finisse con il defilarsi, lasciando ad altri un compito che gli era parso improponibile. I lavori di correzione non vengono avviati prima dell’inverno del 65. Beccadelli ribadisce la convinzione che sia impossibile emendare un testo largamente diffuso e che l’espurgazione avrebbe reso preziosi e più ricercati gli esemplari non sottoposti a censura, e allo stesso tempo mostra di voler prendere le distanze da un compito che gli deve apparire ingrato sotto molteplici aspetti. Beccadelli non esita a ribadire con fermezza il suo scetticismo dei confronti di un’operazione che giudica impossibile, oltre che risibile, limitandosi a fare alcune minime concessioni al rigore moralistico che si sta impadronendo delle autorità censorie romane. Mentre segue a distanza la rassettatura del Decameron, Beccadelli attende a una “riscrittura” personale, quella della propria vita; comporre un epistolario selezionando le lettere da lui scritte, è un antico progetto maturato negli anni della nunziatura di Venezia. Quando vi era giunto infatti non si era ancora spento l’eco della pubblicazione nel 1538 Primo libro delle lettere scritte a Pietro Aretino, iniziatore del genere epistolare in volgare. Pronti a cogliere e a soddisfare le richieste di un pubblico sempre più esigente, desideroso di procurarsi strumenti più adeguati, tipografi e stampatori attivi soprattutto a Venezia, inondano il mercato di raccolte individuali di noti letterati. Alle raccolte individuali cominciano ad affiancarsi antologie di lettere di autori vari: l’archetipo di queste raccolte miscellanee, destinate anch’esse ad avere un’enorme fortuna editoriale, è il primo volume delle Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni edite nel 1542 da Paolo Manuzio, seguito da altri tre volumi nel 1545, 1564, 1567. A questo fervore editoriale il Beccadelli non rimane estraneo: non solo perché l’Aretino, non del tutto in maniera disinteressata, gli dedica nel 1552 il Libro secondo delle Lettere a lui dirette, ma perché durante il suo soggiorno veneziano rinsalda i legami di amicizia con Paolo Manuzio. Non si tratta però solo di un intensificarsi di rapporti familiari precedenti: Beccadelli lo aiuta ad affrontare una situazione di grave indebitamento procurandogli anche la somma non indifferente di circa 1300 scudi, parte in dono e parte in prestito. Di fronte a questi “doni” e prestiti è credibile che la politica editoriale del Manuzio sia influenzata dalle scelte dei suoi “finanziatori” e che si sia proposto di coinvolgerli nei propri progetti culturali. Appare quindi plausibile l’ipotesi che il Manuzio suggerisca al Beccadelli di riflettere su un’eventuale edizione del proprio epistolario. Nella proposta fondata su elementi di varia natura, convergono gli stessi interessi dello stampatore e i gusti dei lettori; Beccadelli cresciuto nella scuola del Bembo, gode della fama di fine letterato capace quindi di offrire modelli di lettere in “buon volgare”. Oltre a essere un prelato illustre è anche un uomo profondamente legato agli ambienti del dissenso religioso, dei quali condivide l’adesione alla dottrina della giustificazione per sola fede e le aspirazioni di riforma della Chiesa: può a buon diritto presentarsi a Manuzio come autore da inserire nel progetto di cauta propaganda religiosa sotteso ai “libri di lettere”. Il possesso di requisiti oggettivi per l’allestimento di un epistolario e nel contempo la produzione dei torchi veneziani che inondano il mercato librario di raccolte epistolari, tutto induce Beccadelli a riflettere su un’eventuale edizione delle sue lettere. Ma è solo verso la fine della sua vita che ha agio di realizzare quel progetto; sebbene di fronte ai tragici avvenimenti romani, l’”esilio” assume un carattere provvidenziale sottraendolo alla frenetica attività del tribunale dell’In quisizione, ritiene più urgente dedicarsi a una difesa estrema dei valori culturali e religiosi dei quali si era nutrito e nei quali continua a riconoscersi. Scrive le biografie del Contarini, del Bembo e del Petrarca, nelle quali rivendica la compatibilità tra humanae litterae e servizio alla chiesa. È solo nel ritiro pratese, dove approda nel 1565, che può finalmente dedicarsi alla selezione e alla revisione delle proprie lettere. Se quantomeno il periodo della costruzione del suo epistolario è accertabile, le finalità non sono esplicitate: fermamente determinato a non dare nulla alle stampe durante la propria vita, Beccadelli pensa probabilmente a una pubblicazione postuma o a un uso familiare del proprio epistolario. È evidente che si tratta di un progetto a lungo meditato: lo testimoniano gli stessi termini cronologici della raccolta, che copre il periodo dal 1550 al 1566. Meditate dunque fin dagli anni veneziani la costruzione di un “libro di lettere” e l’elaborazione di criteri di selezione si rivelano tutt’altro che semplici; innanzitutto deve far fronte alla consistenza numerica delle missive e all’ampiezza della rete delle sue relazioni. La scelta definitiva denuncia la difficoltà di ricomporre in un insieme unitario e coeso una congerie di materiali epistolari risalenti a momenti diversi di una biografia segnata da trionfi e sconfitti e impone un’analisi preliminare per individuare gli orientamenti ad essa sottesi. La consuetudine con i
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