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GIOVANNI PASCOLI- VITA, PENSIERO E OPERE, Appunti di Italiano

Appunti sulla biografia, sul pensiero e sulle opere di Giovanni Pascoli

Tipologia: Appunti

2020/2021
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Caricato il 13/07/2021

Lidia1204
Lidia1204 🇮🇹

4.4

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34 documenti

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Scarica GIOVANNI PASCOLI- VITA, PENSIERO E OPERE e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! GIOVANNI PASCOLI Giovanni Pascoli nasce a San Mauro di Romagna (Forlì) il 31 dicembre 1855, quarto di dieci figli. Trascorre setenamente e in modo agiato gli anni della fanciullezza nel “dolce paese natio” (quest’affermazione la troviamo anche con Leopardi, ma il paese in questione, qui è Recanati). Nel 1862 entra insieme ai fratelli Giacomo e Luigi nel collegio dei padri Scolopi di Urbino, dove rimane nove anni, compiendo gli studi elementari, medi e ginnasiali e ricevendo una severa e solida formazione classica. Alla serenità della fanciullezza e dei primi cinque anni di collegio subentra improvvisamente un periodo di luttuosi episodi. Il 10 agosto del 1867, il giorno di San Lorenzo, il padre viene ucciso a tradimento da ignoti ( forse per una questione di rivalità, per il posto di amministratore di Tolonia), mentre torna in calesse dalla fiera di Cesena. L'assassinio lascia un segno indelebile nella sensibilità di Pascoli che indaga per anni sulle cause e sui mandanti del delitto, rimasti sempre ufficialmente ignoti e impuniti. Primo lutto dal quale, Pascoli non riesce più a emergere. Ha così inizio per la famiglia Pascoli, costretta a ritirarsi nella casa materna a San Mauro, paese natio, un periodo di gravi ristrettezze economiche, di lutti e sventure. Muoiono la madre, la sorella Margherita e il fratello che è anche il compagno di collegio, Luigi. Questa dolorosa e precoce esperienza di morte, che crea un modo di poetare talvolta ossessivo, e alimenta nel poeta il sentimento del male e dell’ingiustizia. Il poeta è talvolta tormentato dal destino di morte che diventa un tarlo nell'orecchio del poeta. Lasciato il collegio di Urbino, Giovanni completa gli studi liceali prima a Rimini, poi a Firenze ottiene una borsa di studio per l’università di Bologna. Nel 1876 muore il fratello Giacomo. Iscrittosi all’Internazionale, Giovanni Pascoli partecipa ai primi moti socialisti e in seguito una dimostrazione in favore degli anarchici, viene arrestato e condotto in carcere, dove resta per 4 mesi. Ma dove quest’accaduto non rinuncerà mai al concetto di “SOCIALISMO UMANITARIO” che diventa una sorta di “RELIGIONE DELL’UMANITA’” e da questa esperienza ne esce rafforzato. Ripresi gli studi universitari si laurea in Lettere. Durante il lungo soggiorno livornese, si applica alla stesura della maggior parte dei versi confluiti nella prima raccolta poetica, Myricae (termine latino che indica le semplici tamerici, piante). L’opera Myricae subisce delle ripercussioni da Virgilio. Nell’estate del 1895 Pascoli vive come evento traumatico il matrimonio della sorella Ida, a causa del distacco del nido familiare. Pascoli ha sempre cercatori tutelare da sollecitazioni esterne. È come se man mano stesse perdendo pezzi di cuore. Lasciata Livorno, si trasferisce con la fedele sorella Maria a Castelvecchio di Barga, in Garfagnana, dove prende in affitto una villa in campagna, acquistata più tardi con le medaglie d’oro vinte al concorso di poesia latina. Nella casa di Castelvecchio prendono forma i poemetti georgici (i cui argomenti principali sono: coltivazione dei terreni, animali, natura), e alcuni versi dei versi poi raccolti con il titolo Canti di Castelvecchio. Nel 1895 gli viene conferito l’atteso incarico universitario. Gli anni dell’insegnamento universitario corrisponde un’intensa produzione, in cui l’attività poetica in italiano e latino si alterna con il lavoro critico e saggistico. Egli infatti studia i testi di altri autori e ne compone dei saggi; questi critici sono De Sanctis, Croce, Di Benedetti e studiavano dai testi greci e latini fino a quelle contemporanee. Nel 1891 il famoso scritto di poetica “Il fanciullino” appare nella rivista fiorentina “II Marzocco”; nello stesso anno, sono raccolti in volumi e successivamente dati alla stampa i “Poemetti” e i “Canti di Castelvecchio”. I “Poemi conviviali” ci collegano a Virgilio; infatti egli affronta il motto virgiliano “non omnes arbusto iuvant” (non a tutti piacciono gli arboscelli), che segnala il proposito di una poesia più alta nel tono e nei contenuti, rispetto alle umili myricae. Anche Virgilio è un poeta un pò lezioso, riesce a comporre in maniera aulica e non in maniera grezza, così fa anche Pascoli. Si tratta di poemetti ispirati a una concezione pessimistica e e si rifà al mondo classico, rivisitato con moderna e inquieta sensibilità: da Salone a Omero, Esiodo, Ulisse alla filosofia platonica e spiritualistica, ad Alessandro Magno dalla storia romana al cristianesimo. Nell’ambiente messinese il poeta tiene anche discorsi celebrativi o d'occasione. Nel 1905 la nomina come successore di Carducci nella cattedra di letteratura italiana all'università di Bologna rafforza in Pascoli la volontà d’impegno ideologico, orientandolo verso una poesia d’intonazione più alta, di carattere politico, civile, sociale. Nel 1906 dà alle stampe Odi e Inni, una raccolta di tono civile. Le prose letterarie e politiche nel volume Pensieri e discorsi. L'impegno ideologico e il culto dell’erudizione corrisponde un ampliarsi della produzione latina. Sono di questi anni alcuni capolavori dei “Carmina” pascolani a cui si rifà anche Leopardi, in particolar modo nelle pagine dello Zibaldone che scinde il mondo antico da quello moderno, e canta l’antichità dei poeti latini e greci, e si riallaccia ad essi evidenziandone un senso di felicità perenne. Il mondo moderno (contemporaneo a Leopardi) invece è dominabile come pensiero, ragione e quindi gli uomini si affannavano alla continua ricerca del vero, piuttosto che del bello. Nel “Carmina” traspone le inquietudini e i sogni del presente in un mondo classico denso di emozioni estetizzanti. Nonostante i successi e i riconoscimenti, amarezza e incomprensioni segnano gli ultimi anni del poeta. Pascoli muore il 6 aprile a Bologna ed è sepolto, secondo il suo desiderio, nella casa di Casteelvecchio. Sulla fitta corrispondenza epistolare con gli amici, emerge l’immagine di un uomo ombroso e suscettibile, incline all’invidia, con improvvise gelosie, e manie persecutorie che lo portano a scorgere nemici ovunque. Pascoli ha creato una sorta di velo per proteggersi dal male. Il poeta ha difficili rapporti con la vita, che è tutta permeata sui lutti familiari. Il senso di amarezza, di esclusione, di angoscia esistenziale, il vittimismo non esente dal senso di colpa trovano la loro motivazione inconscia nel trauma infantile della perdita del padre e della madre. Un pò simile a Leopardi che è un si vive in un mondo ovattato). Per l'elaborazione di queste pagine, che hanno per tema la psicologia infantile, Pascoli si è valso degli "Etudes sur l’enfance” (studi sull’infanzia) dello psicologo inglese James Sully. La teoria pascoliana si sviluppa intorno all'immagine del “fanciullino” come metafora del poeta. Egli ha una disposizione infantile nei confronti della realtà, prestando voce a quel “fanciullino interiore”che ognuno continua a portare dentro di sé; poeta è chi sa cogliere nell'esperienza comune le impressioni meno percettibili; chi sa guardare le solite cose con occhi nuovi. LA POETICA DEL FRAMMENTO: MYRICAE La prima raccolta pascoliana presenta un lento processo di stratificazione interna, che abbraccia circa un trentennio, tra gli ultimi anni Settanta. Dalla prima edizione che comprende ventidue poesie, la raccolta via via si arricchisce fino a giungere alle 156 della prima edizione. Il significato del titolo, derivato da un verso della quarta egloga di Virgilio (egli riprende la letteratura Virgiliana), posto a epigrafe dell'intera raccolta (arbusto iuvant humilesque myricae “si addicono gli arboscelli e le umili tamerici”), Pascoli spiega all'amico Pietro Guidi, in una lettera dell’11 settembre 1892: “Myricae, che letteralmente vuol dire tamerici, è la parola che usa Virgilio per indicare i suoi carmi bucolici, poesia che si eleva poco da terra: humilis”. La scelta del titolo Myricae indica quindi la volontà di una poesia umile, legata a oggetti comuni e modesti, a situazioni quotidiane tratte dalla vita di tutti i giorni che si ricollega al trauma familiare. Dopo una prefazione abbiamo la lunga poesia “Il giorno dei morti”, quindi carie sezioni: “Ultimo sogno”. Ma soffermiamoci su “spero trovar perdono”, evidente citazione dal sonetto proemiale del Canzoniere di Petrarca. Pascoli chiede perdono per aver intriso la natura del suo dolore, ma egli alo tempo stesso ama la natura e le celebra in tutti i suoi aspetti. Eppure non siamo di fronte a semplici idilli campestri: dietro a queste descrizioni si nascondono inquietudini e suggestioni, al di là dell'apparenza, di trovare simmetrie e analogie misteriose tra le cose, in un costante dialogo con il passato: Pascoli parla con i propri morti, si potrebbe addirittura dire che parla con loro. In Pascoli non ci sono illusioni, perché egli continua a parlare con i propri morti, come se stessero ancora in vita. L'uomo si rifugia nella natura. Pascoli è senza dubbio un poeta rurale, ed apre le porte all’aspetto più moderno dell’opera, la tendenza onirica e simbolica che comunica angoscia e inquietudine di fronte alle incognite dell’esistenza. Una delle caratteristiche più innovative della raccolta è la cosiddetta “poetica del frammento”, dell’illuminazione improvvisa e intensa, restituita nella misura breve e intensa del “quadretto”, perlopiù affidato a metri a loro volta brevi (senari, settenari, novenari), con quasi totale assenza di spunti narrativi. Il tessuto poetico è un susseguirsi di impressioni e sensazioni, restittuite con rapide notazioni, attraverso una tecnica detta “impressionistica”. Si distacca da tutto ciò che è reale. Il paesaggio offre immagini che riconducono a unità dal superiore sguardo onnicomprensivo del poeta. È presente già in Myricae il tipico intreccio tra determinato e indeterminato, tra dato concreto e cenno allusivo, tra fedeltà descrittiva (descrive il tutto) e oggetti concerto e quotidiani. Queste immagini reali sfumano e si dissolvono attraverso l'adozione della tecnica fonosimbolica e di particolari soluzioni sintattiche, in uno sfondo indefinito, in un clima di sospeso e indecifrabile mistero, che si collega al concetto di morte. Per Pascoli quest’ultima è ancora sconosciuta. Crea questo paesaggio di inconoscibile: la vita che è un mistero. Sono frequenti in Myricae i tratti caratteristici dello stile pascoliano: sintassi paratattica, massima estensione dello stile nominale, con periodi brevi, pausai e sincopati, con parallelismi, iterazioni, incisi, forme dubitative (come l’avverbio “forse”), sospensioni, esclamazioni di dolore, di meraviglia, di sdegno. LAVANDARE Nel campo mezzo grigio e mezzo nero resta un aratro senza buoi che pare dimenticato, tra il vapor leggero. E cadenzato dalla gora viene lo sciabordare delle lavandare con tonfi spessi e lunghe cantilene: Il vento soffia e nevica la frasca, e tu non torni ancora al tuo paese! quando partisti, come son rimasta! come l’aratro in mezzo alla maggese. IN SINTESI Passeggiando tra i campi in una giornata autunnale, appena appannata di una nebbia leggera, il poeta ode in lontananza il canto di un gruppo di lavandaie e sente una segreta corrispondenza tra quella triste canzone d’amore e la malinconica solitudine del paesaggio autunnale, sintetizzata n aratro dimenticatoio in mezzo alla campagna. LA STRUTTURA Il testo si presenta diviso in tre sezioni distinte. Nella prima terzina, l’immagine del paesaggio autunnale è affidata a impressioni di carattere visivo (vapor leggero), mentre nella seconda prevalgono le sensazioni uditive (i tonfi spessi). La quartina finale è occupata dal canto delle lavandaie. L'immagine dell’aratro apre e chiude circolarmente la lirica. La lirica è quindi circolare: si apre e si chiude con l'immagine- simbolo dell'aratro abbandonato che rappresenta la solitudine. La lirica “Lavandare” di Giovanni Pascoli fa parte della raccolta Myricae e presenta, a livello metrico, la struttura del madrigale, cioè di una forma poetica di origine popolare. I versi sono endecasillabi, raggruppati in due terzine e una quartina rimati secondo lo schema ABAB CBC DEDE. Il lessico utilizzato è tipico della vita contadina e di una realtà rurale vissuta in prima persona dal Pascoli. La poesia si apre con il drammatico contrasto tra i tristi colori del grigio e del nero di un campo arato a metà; a questo punto si crea un’atmosfera vaporosa che sfuma i contorni del paesaggio e dietro alla quale si intravede l’immagine di un aratro senza buoi e abbandonato nel mezzo della campagna. Questo semplice e rozzo strumento da lavoro ha il grande potere di richiamare l’attenzione del lettore: i versi descrivono con incredibile melanconia i suoni e i coloro dell’abbandono e della nostalgia. A tutto ciò si aggiunge il lavoro cadenzato e solenne delle lavandaie che sbattono i panni con colpi frequenti sulla riva del canale per cavarne il sapone, mentre cantano lunghe cantilene. Questi monotoni canti vengono collegati al fruscio del vento e al rumore delle foglie che si staccano dai rami e, volteggiando nell’aria, cadono a terra. Questa triste armonia è spezzata alla fine solo dall'immagine suggestiva di una donna, lasciata dall’amato proprio come “l’aratro in mezzo alla maggese”. Vediamo quindi come la lirica, che si era aperta con la figura dell’aratro dimenticato, si chiude recuperando la stessa immagine, unita a percezioni visive e uditive. E’ interessante notare come la poesia pascoliana sia ricca di simboli, perlopiù nostalgici, di fenomeni fonetici e visivi allusivi: il “fumare” mattutino della nebbia, il cadere delle foglie, lo sciabordare delle lavandaie, gli oggetti semplici legati al mondo agricolo producono una sorta di “rivelazione”, perché la COSA diventa SIMBOLO, colto per la prima volta da un poeta fanciullino che scandaglia a fondo, asporta e suggerisce al lettore l’essenza vera di tutto ciò che lo circonda. IL SOGNO Per un attimo fui nel mio villaggio, nella mia casa. Nulla era mutato. Stanco tornavo, come da un viaggio; stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato. Sentivo una gran gioia, una gran pena; una dolcezza ed un'angoscia muta. - Mamma? - è là che ti scalda un po' di cena - motivo del “il nido familiare” distrutto, che rappresenta per il poeta un mezzo di ricongiungimento con il “fanciullino” racchiuso nel suo io più profondo. 2) Lo schema delle rime è A BCBCCA ed è tipico di componimenti poetici cm “Il Lampo” ed “Il Temporale” che sono intesi come la naturale prosecuzione de ”Il Tuono”. 3)Il componimento si fonda sull’opposizione Nulla-Culla, dove il Il nulla evoca l'oscurità, il male che è presente nel mondo, mentre la culla simboleggia la vita e la sua bellezza. 4)L’autore isola l’espressione”la notte nera come il nulla” proprio per sottolinearne l’importanza all’interno del componimento, l’obiettivo che si prefigge non è altro che incutere una paura quasi reverenziale nel lettore che di fronte ad una sensazione di mistero e di vuoto si dovrebbe trovare smarrito, rendendo l’atmosfera oscura, lugubre e terrorizzante. 5)Con il rimbombante schianto, il rimareggiare rinfranto e l’improvviso silenzio che subito dopo sembra pervadere l’atmosfera..l suoni prevalenti sono:ll rimbombo ed il rimareggiare. 6)1Il fragore di uno scosceso precipizio che frana, il rimbalzare e rotolare e l'improvvisa sparizione. TEMPORALE Un bubbolìo lontano... Rosseggia l’orizzonte, come affocato, a mare: nero di pece, a monte, stracci di nubi chiare: tra il nero un casolare: un’ala di gabbiano. IN SINTESI Sembra un quadretto naturalistico: l’inizio di un temporale. Le immagini rimandano non alla realtà tangibile della rappresentazione ma alle sensazioni dell'io. nel 1891, Temporale è uno dei più celebri componimenti di Giovanni Pascoli. La lirica, tratta dalla raccolta poetica Myricae, pur essendo esttemamente breve - solo 7 versi - è capace di contenere molte delle tematiche ricorrenti in tutta la poetica di Pascoli. Ad essere descritto è, come fa presupporre il titolo, l’arrivo di un temporale: la scena è completamente filtrata dalle sensazioni del poeta che coinvolgono la sfera sensoriale uditiva e quella visiva. Il temporale descritto nel testo fa ovviamente riferimento al tormentato stato d’animo del Pascoli. L'unico conforto offerto al poeta - e, con lui, all'umanità intera - è un bianco casolare che si intravede all'orizzonte. Intrtoducendo nel testo una forte analogia, tipica del movimento simbolico, il casolare è correlato all’ala di gabbiano: entrambi rappresentano il nido familiare, tema cruciale nella poetica del Pascoli. X AGOSTO San Lorenzo, io lo so perché tanto di stelle per l’aria tranquilla arde e cade, perché si gran pianto nel concavo cielo sfavilla. Ritornava una rondine al tetto: l’uccisero: cadde tra i spini; ella aveva nel becco un insetto: la cena dei suoi rondinini. Ora è là, come in croce, che tende quel verme a quel cielo lontano; e il suo nido è nell’ombra, che attende, che pigola sempre più piano. Anche un uomo tornava al suo nido: l’uccisero: disse: Perdono; e restò negli aperti occhi un grido: portava due bambole in dono... Ora là, nella casa romita, lo aspettano, aspettano in vano: egli immobile, attonito, addita le bambole al cielo lontano. E tu, Cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale, oh! d’un pianto di stelle lo inondi quest’atomo opaco del Male! IN SINTESI Il poeta rievoca l'assassinio del padre, ucciso il 10 agosto 1867 il giorno di San Lorenzo. Una rondine viene uccisa mentre torna al nido con la cena peri suoi piccoli, che aspettano invano. Allo stesso modo è stato ucciso il padre di Pascoli, che tornava a casa con due bambole in dono, mentre nella casa solitaria lo aspettano. La tragedia domestica il dolore personale diventano vicenda universale. Il cielo infinito inonda d’un pianto di stelle la Terra, dominata dal dolore e dalla sofferenza per la malvagità degli esseri umani. La famosissima poesia “X Agosto” è una delle opere più celebri del poeta italiano Giovanni Pascoli, grande esponente della corrente del simbolismo e del movimento letterario del Decadentismo. Tratta dalla raccolta Myricae, essa è dedicata alla morte del padre, assassinato in condizioni misteriose il 10 agosto del 1867. La poesia è una fitta rete di simboli, che richiamano la sua visione pessimistica della vita e il suo frequentemente citato concetto del “ inteso sia come dimora che come nucleo famigliare. Il primo vero simbolo si può ritrovare già nel titolo: il 10 agosto, rappresenta, oltre al giorno della morte del padre di Pascoli, la notte di San Lorenzo, famosa per le sue stelle cadenti. Il poeta vede questo particolare e splendido fenomeno naturale in modo completamente diverso e con gli occhi di un uomo sofferente e rattristato, che riconosce nelle comete le lacrime di un grande pianto, quello di un cielo disperato e deluso, proprio come Pascoli. Questo concetto viene evidenziato molto nella prima strofa, quando il poeta, evocando proprio San Lorenzo, spiega come vede la notte delle stelle cadenti: non come un particolarissimo fenomeno astronomico, ma come un grandioso pianto divino che interessa tutto il cielo e che in un certo senso fa compagnia al poeta che appare come un uomo deluso, tradito dal destino che ha agito in modo veramente crudele. Proprio in questa strofa riusciamo a percepire quale fu la cultura impartita al poeta: con le parole “tanto di stelle”, intravediamo una costruzione latina, il che presuppone un corso di studi classici, percorso che Pascoli effettivamente scelse. Con la strofa successiva, comincia la sua complessa rete di allegorie e di metafore: egli paragona alla morte del padre, quella di una rondine che doveva tornare al nido per nutrire i suoi piccoli, ma che essendo stata uccisa durante il tragitto, lascia i suoi “rondinini” affamati e purtroppo, morenti. Oltre a questa prima metafora superficiale, il poeta introduce altri elementi rilevanti in questa strofa: nel verso 5 utilizza la parola “tetto” per descrivere il nido, questa volta in senso letterale e non come metafora dell'ambiente famigliare; evidentemente questa espressione è collegata a quella della fine del verso 13, in cui invece utilizza il vocabolo “nido” proprio nel modo appena citato, volendo cioè esprimere il senso di protezione che la dimora umana trasmette e soprattutto il concetto di “nucleo famigliare” che in questo caso sta attendendo con ansia il ritorno del padre. AI verso 6 invece è presente una importante e precisa allegoria: quando la rondine viene uccisa, ci viene detto che “cadde tra spini”: questo pare essere un preciso richiamo all'idea di un omicidio ingiustamente, la rondine viene infatti profondamente collegata all'immagine del Cristo in croce, simbolo della vittima sacrificale per eccellenza. Questa immagine viene anche richiamata al verso 7 nell’espressione “ora è là, come in croce”, momento nel quale l’allegoria appena citata viene esplicitata in modo più nido”, Nella terza strofa, poco prima di congedarsi, Rachele confessa il suo peccato all’amica chiamata da una voce magica e irreale, avanza verso il proprio destino tra ansia di trasgressione e turbamento dei sensi, la ragazza assapora il profumo inebriante del fiore, così dolce da rischiare di morirne. L'AQUILONE La lirica di Giovanni Pascoli, L'aquilone viene pubblicata nella seconda edizione dei Poemetti, per essere inserita poi nei Primi poemetti. Il titolo della poesia, tanto cara all’autore da venir dedicata a coloro che furono i suoi compagni di collegio ad Urbino, va anche a denominare la sezione della raccolta in cui è contenuta: Il bordone - L’aquilone. Nel testo, composta da ventuno terzine dantesche, il poeta utilizza come pretesto uno stimolo olfattivo, l'odore di viole, per ricordare il passato. In particolare, il ricordo di Pascoli si focalizza su due momenti: il volo degli aquiloni in una giornata ventosa e la morte di un compagno del collegio. Nasce così, nel poeta ormai adulto, un’amara riflessione sulla vita. La lirica L'aquilone comincia con un forte stimolo presente, ovvero il profumo delle viole che al termine dell’inverno tornano a fiorite: questa sensazione (in maniera analoga a quanto accade in Digitale purpurea sempre nei Poemetti) rievoca il tempo passato, che, almeno inizialmente, è una sensazione vaga, seppur descritta con immagini naturali caratterizzata dalla consueta precisione terminologica pascoliana. I CANTI DI CASTELVECCHIO AI pari di Myricae, i Canti di Castelvecchio conoscono numerose edizioni. Il legame tra queste due raccolte non si esaurisce nel carattere di opere in fieri, ma risulta ancora più profondo: lo stesso Pascoli lo pone idealmente sulla stessa linea, nel momento in cui, nella Prefazione alla prima edizione, definisce i Canti “myricae”. | canti si chiamano cosi' perché prendono il nome dal luogo dove vengono generati. Da questa ritrovata serenità, nascono i canti di Castelvecchio che sono ispirati all'ambiente romagnolo. La natura è la stessa, dal punto di vista paesaggistico è un po’ diversa ma come habitat le caratteristiche sono le stesse. Il poeta fanciullo è capace di ascoltare, ciò che ritorna nella sua mente è ciò che ha vissuto a San Mauro durante l'infanzia. Questi componimenti propongono nuovamente al lettore un'immersione tutta lirica ed emozionale nella campagna. In una misura di versi più ampia e distesa rispetto alle poesie di Myricae, l’autore si abbandona alla descrizione dei paesaggi di Castelvecchio, che si intreccia e si mescola continuamente con la rievocazione della realtà romagnola vissuta nell'infanzia. È la dimensione della memoria, del doloroso passato, dei cari perduti che permea interamente i Canti; la raffigurazione della natura si carica così delle ansie, delle inquietudini e delle angosce del poeta. Egli ha tentato di ricostruire un “nido” che potesse sostituirsi a quello della sua infanzia, distrutto tanto precocemente e atrocemente. Questo bisogno intimamente sentito dall'autore nei versi dei Canti si traduce in immagini | simboliche quali il “nido” o la “siepe”, confine che separa quel mondo chiuso e accogliente, in cui il poeta si è rifugiato, dalla realtà esterna inquietante e minacciosa; ciò che il poeta ha cercato di creare intorno a se è un universo fatto di piccole cose, di affetti sinceri e di emozioni semplici. IL GELSOMINO NOTTURNO Questa poesia è considerata il frutto più maturo della poesia pascoliana. E' scritta per le nozze dell'amico Gabriele Briganti ed uscì in forma di opuscolo nel 1901. Fu poi raccolta nei Canti di Castelvecchio (1904).La poesia viene definita istantanea, poiché si riferisce a momenti e istanti precisi nella prima notte degli sposi, collegati tramite simbolismi. Innanzi tutto, il titolo fa subito pensare ad una poesia centralizzata nella sfera dell’eros, simboleggiata per Pascoli dal riferimento al fiore (il gelsomino). L’erotismo presente è sicuramente celato dalle ripetute analogie con il mondo della natura, se non drammatizzato quando il poeta riconsidera nelle strofe le proprie esperienze di vita.Infatti si può notare come, già dai primi versi, sia messo in risalto l'atto sessuale dei coniugi e relazionato alla tristezza del poeta, che si sente indotto a pensare ai suoi cari morti. Quest'idea si mette meglio a fuoco con la seconda strofa: si intravede l'angolo di intimità personale e protetta dei due che per il Pascoli non fu; non si riesce ad osservare direttamente la scena, ma la si può solo vedere da lontano. Nella quarta strofa, l'ape tardiva è il modo in cui Pascoli si presenta in maniera netta nella scena, come interessato ma distaccato, tardiva poichè si pensa che il poeta non sia riuscito ad arrivare al contatto con la donna in tempo. Quivi è presente il paragone tra l'immagine della chioccia e i suoi pulcini nell'aia e la costellazione del cielo chiamata con il termine popolare di chioccietta. Per tutta la notte si ripete la scena sessuale dei coniugi, segnalata dall'apertura del fiore che allude alla fecondazione, e che termina addirittura con una violenza inferta alla carne. Infine, è presente l'idea di nascita di una nuova vita, che il Pascoli vive in maniera turbata e non serena. ALEXANDROS “Poemi conviviali” è una raccolta di componimenti poetici che si ispirano al mondo antico greco e latino. Tra questi componimenti, uno dei più noti è “Alexandros.” (come si evince dal titolo, il poeta mantiene il nome greco). Il componimento poetico è una riflessione su Alessandro Magno: non descrive un episodio in cui lui risulta vincente bensì un momento in cui deve affrontare una scelta e si trova davanti a un ostacolo: è il discorso che Alessandro fa ai suoi uomini una volta che crede di essere giunto davanti al fiume Indo. Il motivo per il quale si ferma davanti all’Indo cambia: non è più perchè i suoi soldati non volevano proseguire, ma perché egli crede di essere giunto davanti all'Oceano, oltre al quale non si può andare. All’inizio nella 1° strofa vi è il discorso che Alessandro fa ai suoi uomini una volta che crede di essere giunto davanti alla Fine. Nella 2° strofa c’è l’antitesi tra il movimento continuo del fiume e l’immobilità della foresta. Nelle tre strofe successive, viene ricordato il viaggio fatto: Alessandro compie questi viaggi e si rammarica di aver compiuto tutte le sue conquiste invece di essersi fermato a sognare solamente; il sogno infatti ha una caratteristica che il vero non ha: l'infinito e l'immaginazione. Era, infatti, più felice all’inizio del viaggio perché aveva davanti a sé questa nuova avventura cosi come ricorda non la battaglia, ma la vigilia della battaglia di Isso, oppure ricorda quando a Pella, in Macedonia, a cavallo di Bucefalo rincorreva il Sole. Nella 4° strofa egli rievoca il padre Filippo di Macedonia, figlio di Amynta, e la cerimonia propiziatorio svoltasi prima della sua partenza: Timoteo, che propizia il suo viaggio suonava il flauto, come un inno sacro, e questo suono gli ha provocato il desiderio di andare oltre i limiti umani. Alessandro, però, ora si deve fermare e questo suono continua ad andare avanti verso l’ignoto e l’infinito. Questa fermata forzata fa piangere Alessandro che è preso dal desidero occhio azzurro e la perdita della speranza di realizzarlo occhio nero. Nella 5° strofa viene fatto un accostamento tra la madre di Alessandro, Olimpiade, e Alessandro: Olimpiade si accontenta di sognerà ed è più appagata del figlio, entrambi ricercano il mistero della natura, ma Alessandro ha voluto impadronirsi nella realtà di questo mistero, conoscerlo e si sente inadeguato - questo rappresenta la delusione dell’uomo moderno che non ha ancora capito tutto, come il mistero dell’esistenza. L'universo è in movimento, passa il vento, passano le stelle, non è un universo statico come quello di Leopardi.
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