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Giovanni Verga maturità, Temi di Italiano

Ecco tutto ciò che c'è da sapere sul positivismo, naturalismo, verismo e Verga in vista della maturità

Tipologia: Temi

2022/2023

Caricato il 10/07/2023

Alessandro_Pattaro
Alessandro_Pattaro 🇮🇹

16 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Giovanni Verga maturità e più Temi in PDF di Italiano solo su Docsity! IL POSITIVISMO A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, successivamente alla seconda rivoluzione industriale e all’avanzamento del progresso tecnologico e scientifico, comincia a diffondersi tra le classi dirigenti, la borghesia e persino tra i ceti popolari una nuova corrente di pensiero: il Positivismo. Essa fonda le sue basi nel capitalismo industriale e sui cambiamenti che esso comporta: l’espansione della produzione e lo sfruttamento delle risorse naturali hanno bisogno dello studio scientifico della realtà e delle sue applicazioni tecnologiche, che diventano quindi motore di questo pensiero; infatti dalla crescente fiducia nelle capacità umane e nelle possibilità del sapere scientifico deriva un ottimismo sempre più direzionato verso il culto della scienza. Il pensiero positivista si articola quindi seguendo determinate convinzioni: 1. quella scientifica è l’unica conoscenza possibile e il metodo scientifico l’unico valido, bisogna basarsi solo su dati “positivi”, ovvero osservabili e dimostrabili; 2. rifiuto di ogni tipo di visione religiosa; 3. il metodo scientifico, poiché unico valido, va esteso a tutti i campi, compresi uomo e società; 4. la scienza ci fornisce gli strumenti per dominare il reale, ponendo quest’ultimo a servizio dell’uomo; 5. fede nel progresso, garantito dalle scoperte scientifiche. LA SCAPIGLIATURA La scapigliatura non è una scuola o un movimento organizzato, bensì un gruppo di scrittori che operano nello stesso periodo, ovvero nella seconda metà dell’Ottocento, principalmente a Milano, accomunati da un’insofferenza per le convenzioni della letteratura contemporanea italiana e da un desiderio di rivolta manifestato tramite l’arte. Per la prima volta appare chiaro, con il gruppo degli scapigliati, il conflitto tra artista e società: esauritosi il ruolo degli intellettuali risorgimentali nascono negli artisti italiani atteggiamenti ribelli, antiborghesi e il mito di una vita dissipata in antitesi alle norme morali e delle convenzioni correnti. Di fronte al nuovo progresso economico e scientifico gli scapigliati hanno un comportamento ambivalente: da una parte provano orrore e repulsione verso la novità, ricercando i valori del passato, tuttavia, consapevoli dell’impossibilità di un ritorno a quegli ideali che il progresso sta distruggendo, si limitano a descrivere il vero, ossia gli aspetti più materiali e turpi della realtà. Questi poeti sono praticamente spaccati tra ideale e vero, virtù e vizio, ed esplorano questa condizione di incertezza. Dal Romanticismo europeo essi invece prendono la tematica dell’irrazionale, il gusto del macabro, anticipando le future soluzioni del decadentismo. NATURALISMO FRANCESE E ZOLA Il naturalismo non è altro che l’espressione del pensiero positivista nella letteratura francese ed è fondato sulla convinzione che la realtà sia regolata da ferree leggi meccaniche, che le scienze possano garantire il progresso sociale e che il metodo scientifico sia applicabile in ogni campo del sapere, compresa la letteratura. A questo si somma l’idea proveniente dal romanzo realista che la natura umana debba essere analizzata minuziosamente e che la narrazione debba avvenire in forma impersonale (“L’artista nella sua opera dev’essere come Dio nella creazione, invisibile e onnipotente, ...”). Lo scrittore che diede la sistemazione più compiuta alle teorie naturalistiche fu Emile Zola, anche lui convinto che il metodo sperimentale delle scienze dovesse essere applicato anche alla sfera spirituale, agli atti intellettuali e passionali dell’uomo e che è compito del romanziere-scienziato individuare quest’ultimi. Il fine del romanzo per lui è impadronirsi dei meccanismi psicologici umani per poi poterli dirigere: solo così sarebbe possibile operare per migliorare le condizioni della società (visione progressista e ottimista). Emile Zola Lo scrittore come operaio del progresso sociale da Il romanzo sperimentale, prefazione Così come nel secolo precedente l’applicazione del metodo sperimentale ha permesso la nascita di della chimica, della fisica e dello studio degli esseri viventi, grazie alla scoperta dell’esistenza di leggi immutabili sarà possibile in futuro studiare e manipolare le manifestazioni passionali ed intellettuali dell’uomo. Questa sarà la conquista decisiva, frutto di una progressione inevitabile di cui è facile prevedere la fine. Da quel momento la scienza entrerà dunque nel terreno che appartiene ai romanzieri, analisti dell’uomo nella sua situazione individuale e sociale. Essi infatti, così come i fisici e i chimici operano su corpi inanimati, lavoreranno sui caratteri, sulle passioni, sui fatti umani, portando avanti il lavoro dei fisiologi. Il romanzo sperimentale costituisce quindi la rappresentazione del meccanismo dei fenomeni umani, che mette in luce gli ingranaggi delle manifestazioni passionali e intellettuali per mostrare l’uomo che vive nell’ambiente sociale che lui stesso ha prodotto e la mutazione che egli subisce insieme ad esso. I romanzieri basano quindi il loro lavoro sulla fisiologia per contribuire alla soluzione del problema e risolvere su basi scientifiche l’interrogativo dei comportamenti umani. Lo scopo è diventare padroni della vita per dirigerla; il giorno in cui ci si impadronirà del meccanismo fondamentale della vita, essa potrà essere curata e placata. Lo scrittore diventa l’incarico più utile e morale: l’operaio del lavoro umano. IL VERISMO ITALIANO Sebbene le idee del naturalismo francese e di Zola arrivarono ben presto in Italia e tra tutte la sinistra milanese fu la prima a recepirne la grande importanza, quest’ultima rimase prigioniera delle sue aspirazioni confuse e dimostrò di non avere la forza e l’altezza intellettuale per costruire una teoria artistica organica e coerente. Tuttavia questa importante influenza spinse numerosi scrittori italiani a cominciare a descrivere sempre più la realtà e il reale, senza tuttavia unirsi effettivamente intorno ad un programma culturale comune. Nulla accomuna realmente questi poeti ed è per questo che non ha alcun senso parlare di un’ipotetica scuola verista. Tra tutti gli scrittori veristi emerge Luigi Capuana che, distaccandosi da Zola, afferma che “Se il romanzo non dovesse far altro che della fisiologia e della patologia, il guadagno non sarebbe ne grande ne bello”. La sua visione della letteratura non corrisponde a quella del Naturalismo e afferma che la scientificità del romanzo, invece che trasformare la narrazione in esperimento per dimostrare tesi scientifiche, debba costituire la tecnica con cui lo scrittore lo rappresenta, ovvero nel principio di impersonalità intesa come eclissi dell’autore. La mano dello scrittore deve essere invisibile, così che l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé e la coesione delle diverse parti sarà così completa che la creazione sembrerà un mistero. Il narratore deve quindi eclissarsi e regredire nel mondo rappresentato. L’ideologia verghiana Ciò che induce Verga a formulare il principio dell’impersonalità e ad applicarlo così rigorosamente è la convinzione che il narratore non abbia il diritto di giudicare la materia rappresentata, in quanto gli è possibile esprimere un giudizio razionale solo perché è esterno ad essa. Alla base del pensiero di Verga inoltre stanno posizioni radicalmente pessimistiche: la società umana è dominata per lui dal meccanismo della lotta per la vita, un meccanismo crudele per cui il più forte schiaccia necessariamente il più debole. La generosità disinteressata, l’altruismo, la pietà sono solo valori ideali che non trovano posto nella realtà effettiva. Gli uomini sono mossi dal solo interesse economico e questa legge di natura non può essere modificata: non si possono dunque dare alternative alla realtà esistente ed è perciò inutile, privo di senso esprimere un giudizio riguardo alla materia rappresentata. La letteratura non può contribuire a modificare la realtà, ma può solo avere la funzione di studiare ciò che è dato una volta per tutte. È chiaro che un simile pessimismo è collegato un rifiuto esplicito e polemico per le ideologie progressiste contemporanee. Tuttavia ciò non implica un’accettazione acritica della realtà, anzi consente a Verga di cogliere con grande lucidità ciò che vi è di negativo. Proprio il pessimismo conservatore assicura a Verga l’immunità da quei miti che trionfano in tanta letteratura contemporanea e la trasformano in mediocre veicolo di grossolana mitologia. Autori a confronto, Verga e Zola Contesto di provenienza Ideologia Finalità della letteratura Tecnica narrativa ZOLA Realtà dinamica della Francia, dove si registra un forte sviluppo economico La società è regolata da leggi spiegabili scientificamente La letteratura ha funzione conoscitiva e la conoscenza può migliorare la società Impersonalità come distacco scientifico della materia analizzata; il narratore commenta le vicende VERGA Realtà arretrata e statica del Meridione La società è regolata da rapporti di sopraffazione immutabili La letteratura ha una funzione conoscitiva, ma non può modificare la realtà Impersonalità intesa come “eclissi” del narratore, che non esprime giudizi e non dà spiegazioni Rosso Malpelo da Vita dei campi In un’arida e profondissima cava di rena rossa in Sicilia lavora un robusto minatore, Misciu Bestia, che riesce a far impiegare in miniera il figlio ancora adolescente così da poter avere un doppio stipendio da poter portare in famiglia. Il ragazzo viene ben presto additato, secondo la credenza superstiziosa siciliana dell’epoca, come Rosso Malpelo, ossia malvagio e foriero di sventure perché rosso di capelli. Oltre lo scherno e l’emarginazione subita dai colleghi, Malpelo non è amato dalla madre, che sospetta che egli rubi lo stipendio che porta a casa. L’unico che mostra affetto verso il povero Malpelo è Misciu Bestia, del resto anche lui emarginato in miniera e spesso destinato agli incarichi più gravosi, come quello che fatalmente lo porta alla morte in una serata in cui è rimasto solo in miniera con il figlio a sistemare un pilastro pericolante per ordine dell’insensibile padrone. Dopo la morte di Misciu, Malpelo accentua ancora di più la sua scontrosità verso gli altri e finisce per restare completamente abbandonato, impartendo lezioni di vita e di violenza a un altro ragazzo venuto a lavorare in miniera, Ranocchio, così detto a causa della sua zoppia. La madre del ragazzo, nel frattempo, si risposa e la sorella va a vivere lontano, cosicché Malpelo inizia a collezionare tutti gli oggetti appartenuti a suo padre, l’unica persona che egli abbia mai amato in vita sua. Quando anche Ranocchio si ammala di tubercolosi e passa a miglior vita, Malpelo decide di inoltrarsi da solo in uno dei cunicoli più oscuri della miniera ammalato d’odio per il mondo intero. Non ne uscirà mai più, diventando agli occhi dei superstiziosi minatori una presenza quasi spettrale da cui sono terrorizzati quando si caleranno verso le oscurità della cava. Rosso Malpelo è un personaggio che ha capito l’essenza del mondo e della legge che lo governa, basata sulla lotta per la vita in cui il debole perisce e il più forte prevale. Egli rappresenta un eroe intellettuale, portatore di una consapevolezza lucida dei meccanismi di una realtà tragica quanto immutabile. In lui si proietta evidentemente il pessimismo dello scrittore stesso. La lotta per la sopravvivenza, Il ciclo dei Vinti Parallelamente alle novelle Verga concepisce anche il disegno di un ciclo di romanzi. che riprende il modello già affermato dai “Rougon-Macquart” di Zola. A differenza di quest’ultimo però Verga non pone al centro del suo ciclo l’intento scientifico di seguire l’ereditarietà, bensì esclusivamente la volontà di tracciare un quadro sociale passando in rassegna tutte le classi, dai ceti popolari alla borghesia all’aristocrazia. Criterio unificante è il principio della lotta per la sopravvivenza, che lo scrittore ricava dalle teorie di Darwin: tutta la società, ad ogni livello, è dominata da conflitti dii interesse, ed il più forte trionfa, schiacciando i più deboli. Al ciclo viene premessa una prefazione, che chiarisce gli intenti dello scrittore: nel primo romanzo, “I Malavoglia”, il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali: si tratta della semplice lotta per i bisogni materiali; in quelle basse sfere il meccanismo sociale è meno complicato e potrà quindi osservarsi con maggiore precisione. Nei romanzi successivi sarà analizzata questa ricerca del meglio. Anche lo stile e il linguaggio si modificheranno gradatamente in questa scala ascendente e a ogni tappa devono avere un carattere proprio, adatto al soggetto. I romanzi avrebbero dovuto essere cinque, “I Malavoglia”, “Mastro-don Gesualdo” (borghesia di provincia), “La duchessa di Leyra” (aristocrazia), “L’onorevole Scipioni” (vita politica) e “L’uomo di lusso” (vita artistica), tuttavia rimarrà incompiuto, poiché Verga lasciò incompleto il terzo e non cominciò nemmeno gli ultimi due. I vinti e la fiumana del progresso da I Malavoglia, prefazione Verga apre la prefazione dei Malavoglia sostenendo che il romanzo, e l’intero ciclo dei vinti, rappresenta lo studio sincero e spassionato di come nascono e si sviluppino le prime irrequietudini per il benessere e a cosa può portare la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene o che si potrebbe stare meglio. Sono proprio questi passioni e questi movimenti dell’anima che determinano la fiumana del progresso, analizzata nei malavoglia come puro desiderio materiale in quanto realtà estremamente semplice. Man mano che questa ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, essa tende anche a dilatarsi, seguendo il moto ascendente delle classi sociali: a misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi. Con esso, inevitabilmente, va arricchendosi anche il linguaggio, capace quindi di rappresentare diverse sfumature e sentimenti. La forma è di vitale importanza allo studio. Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile, che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che diventano virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di questo lavorio universale è legittimato solo dal fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza per benessere, per l’ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo. I Malavoglia → L’intreccio Il primo romanzo del ciclo è “i Malavoglia”, la storia dei Toscano, una famiglia di pescatori di Aci Trezza da tutti soprannominati, appunto, Malavoglia. Questi posseggono una barca, la Provvidenza, e una casa, che consentono loro una vita relativamente felice e tranquilla. Nel 1863 però il giovane ‘Ntoni deve partire per il servizio militare e la famiglia dunque, privata della sua forza lavoro, si trova in difficoltà, dovendo pagare un lavorante. A ciò si aggiunge anche una cattiva annata per la pesca e il fatto che la figlia maggiore, Mena, si debba sposare. Padron ‘Ntoni pensa quindi di intraprendere un piccolo commercio: compera a credito dall’usuraio un carico di lupini, per rivenderli in un porto vicino. La barca purtroppo naufraga nella tempesta, Bastianazzo muore e il carico va perduto. Oltre ad essere colpiti negli affetti, la famiglia deve fare i conti con il debito del carico di lupini e comincia dunque una serie di sventure: la casa viene pignorata, Maruzza è uccisa dal colera, la Provvidenza, una volta riparata, naufraga ancora e i Malavoglia sono costretti a vivere alla giornata. La sventura disgrega anche il nucleo familiare: ‘Ntoni comincia a frequentare l’osteria e le cattive compagnie, è coinvolto nel contrabbando e, sorpreso, finisce per dare una coltellata ad una guardia doganale. Viene successivamente imprigionato. Lia, corteggiata da Don Michele, è costretta a fuggire dalla città per il disonore e finisce in una casa di malaffare. Il vecchio Padron ‘Ntoni, atterrato dalle sventure, va a morire all’ospedale mentre l’ultimo figlio, Alessi, riesce a riscattare la casa del nespolo. ‘Ntoni, uscito di prigione, torna una notte in famiglia ma si rende conto di non poter restare, e si allontana per sempre. durissimi sacrifici. Padron ‘Ntoni muore prima che possano portarlo a casa. Alfio Mosca chiede la mano di Mena ma la ragazza rifiuta perché ormai ha già ventisei anni e la storia di Lia ha fatto sprofondare la famiglia nel disonore. Così Mena si ritira a curare i figli di Alessi e Nunziata. Una notte si presenta a casa ‘Ntoni, da poco uscito dal carcere, Alessi gli propone di restare ma ‘Ntoni sceglie amaramente di andarsene prima del sorgere del sole. (lieto fine?, la celebrazione della casa e della famiglia, rimpianto di un passato perduto per sempre, il distacco definitivo dal passato) Le novelle rusticane Nel 1883 escono le Novelle rusticane, che ripropongono personaggi e ambienti della campagna siciliana, in una prospettiva però più amara e pessimistica, che porta in primo piano il dominio esclusivo dei moventi economici dell’agire umano e rivela come la fame e la miseria soffochino ogni sentimento disinteressato. I racconti più importanti di questa raccolta sono “La roba” e “Libertà”. La roba La roba si apre con un celebre incipit, esempio classico della narrazione impersonale prefigurata da Verga per il suo verismo, in cui la parola viene ceduta ironicamente a un anonimo viaggiatore che osserva il paesaggio siciliano e inizia a domandare in giro a chi appartengano tutti quei terreni ricevendo una risposta unanime da parte di ogni paesano incontrato: “di chi sono quelle terre? “ – “Di Mazzarò”. E allora che il viaggiatore riferisce le proprie impressioni sulle risposte della gente, portando la narrazione alla descrizione fisica e caratteriale del protagonista che dà avvio alla narrazione: “Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo”. Come si può vedere dalla descrizione, Mazzarò è un uomo che, nonostante l’immensa ricchezza accumulata, continua a vivere esattamente come quando faceva il bracciante. Uomo di intelligenza fine e grande forza di volontà, Mazzarò è privo di vizi e dedica la propria vita al lavoro senza curarsi minimamente di tutto quanto altro la vita possa offrirgli. Egli ha infatti sviluppato uno strano tipo di avidità: non è il denaro ad attrarlo, ma la “roba”, ossia i beni materiali, i terreni, i palazzi, gli oggetti e quant’altro. Ciò che non è roba non ha per lui la minima importanza ed egli sa che la sua ascesa sociale è dovuta alla sua indole per il lavoro e per il risparmio. Le cose cominciano per lui a mettersi male con l’avanzare dell’età: comincia a rendersi conto del fatto che tutta la sua “roba” sarebbe rimasta senza padrone. Ma Mazzarò è un uomo che negli anni ha rinunciato a ogni affetto personale e si è guadagnato, con la sua avidità, solo la paura o il disprezzo dei suoi dipendenti e dei suoi fittavoli. L’impossibilità di individuare un erede e la coscienza di non poter avere più tempo per contemplare le sue vigne, oliveti e terreni finiscono per rendere Mazzarò completamente pazzo. La novella si conclude con la follia del protagonista, che fugge sbraitando da casa, ormai in punto di morte, verso i suoi allevamenti, prendendo a bastonate i suoi animali e gridando disperato “roba mia, vientene con me.” Mastro-don Gesualdo → L’intreccio Gesualdo Motta da semplice muratore, con la sua intelligenza e la sua energia infaticabile, è arrivato ad accumulare una fortuna. Quando il racconto ha inizio, la sua ascesa dovrebbe essere coronata dal matrimonio con Bianca Trao, discendente di una famiglia nobile, ma in rovina. Secondo i suoi calcoli questo matrimonio dovrebbe dargli la possibilità di accedere finalmente alla rete di benestanti del paese, ma così non accade. I nobili infatti lo disprezzano per le sue umili origini e continuano ad escluderlo. Il disprezzo è testimoniato dalla formula con cui viene abitualmente chiamato, ovvero Mastro-don, ad indicare la doppia estrazione sociale. Anche la moglie non lo ama, anzi, lo respinge. Nasce una bambina, Isabella, frutto dell’amore di Bianca e un cugino precedente al matrimonio; anch’essa, crescendo, rifiuterà il padre e si vergognerà di lui per le sue origini. Gesualdo sarà condannato a delusioni anche da parte della sua famiglia, in quanto il padre lo invidia e i fratelli non desiderano altro che privarlo di tutti i suoi averi. Durante il ‘48 i nobili di paese dirottano l’odio del popolo nei confronti di Gesualdo, che a stento riesce a scampare alla folla; la figlia Isabella scappa con un cugino di gran lunga più povero e, per rimediare, Gesualdo la destina come sposa del duca di Leyra, dovendo tuttavia pagare una ricchissima dote. Tutte queste amarezze prodotte dal suo successo minano la salute di Gesualdo, che si ammala di cancro al piloro. Verrà accolto nel palazzo della figlia a Palermo, dove verrà tuttavia relegato in disparte a causa delle sue maniere rozze. Morirà in pochi giorni, completamente solo. → L’impianto narrativo Nel Gesualdo Verga resta fedele al principio dell’impersonalità, per cui il narratore dev’essere interno al mondo rappresentato. Tuttavia il livello sociale di questo mondo si è innalzato rispetto ai Malavoglia: non si tratta più di un ambiente popolare, ma di uno borghese e aristocratico. Con la realtà rappresentata si eleva anche il livello del narratore. Non si verificano più, pertanto, le deformazioni e gli effetti di straniamento che caratterizzavano la rappresentazione delle basse sfere della società e che scaturivano dall’ottica “dal basso” del narratore. Il narratore del Gesualdo riprende i suoi diritti, ha uno sguardo lucidamente critico, un sarcasmo impassibilmente corrosivo nel ritrarre ambienti e figure. Ciò non vuol dire che Verga ripristini il narratore onnisciente del primo Ottocento. Il narratore del Gesualdo non dà esaurienti informazioni sugli antefatti: ne parla come se il lettore li conoscesse già da sempre. A differenza dei Malavoglia, che sono un romanzo corale di cui solo i componenti della famiglia sono visti dall’interno, nel Gesualdo invece unico centro della narrazione è il suo protagonista, che si stacca nettamente dallo sfondo popolato di figure. È infatti la storia di un individuo eccezionale, della sua epica ascesa e della sua caduta. Il punto di osservazione dei fatti coincide con la sua visione, cioè noi vediamo i fatti attraverso i suoi occhi, come li vede lui. → L’interiorizzarsi del conflitto valori-economicità Pur dedicando tuta la sua vita e tutte le sue energie alla conquista della roba, Gesualdo conserva tutto sommato in sé un bisogno di relazioni umane autentiche, come il culto della famiglia, l’amore per la moglie e la figlia, da cui vorrebbe essere amato. Tuttavia gli impulsi e i bisogni affettivi sono sempre soverchiati dall’attenzione gelosa all’interesse, dal calcolo cinico, dal gesto privo di scrupoli. La roba è fine primario della sua esistenza, e ciò lo porta ad essere disumano. Non vi è più alcuna tensione idealista: la logica dell’economicità diviene il modello unico di comportamento ed occupa tutto il quadro, respingendo fuori dei suoi confini i valori disinteressati. Verga è approdato ad un verismo conseguente ed il suo pessimismo è divenuto assoluto, al punto da non consentirgli di rappresentare in atto nessuna alternativa ideale ad una realtà dura e disumanizzata. → La critica alla “religione della roba” Il frutto della scelta di Gesualdo in favore della logica della roba è una totale sconfitta umana. Gesualdo è amaramente deluso nelle sua aspirazioni a relazioni umane autentiche; infatti dalla sua lotta epica per la roba, dalla usa energia eroica e dalla sua ascesi, Gesualdo non ha ricavato che odio, amarezza, dolore e, proprio per questa sua esigenza di affetti può capire il suo completo fallimento.Si parla quindi di “religione della roba” come fattore alienante, in cui Gesualdo perde il suo obbiettivo. Verga dipinge tuttavia Gesualdo anche come personaggio positivo, come self-made man che si costruisce da sé il proprio destino, un eroe della dinamicità e dell’intraprendenza. Questa rappresentazione viene tuttavia completamente annullata dal meccanismo del progresso impietoso e negativo, che travolge tutti, anche i migliori. La morte di mastro-don Gesualdo Colpito dalla malattia, Gesualdo è accolto a Palermo nel palazzo nobiliare del genero e della figlia: qui trascorre i suoi ultimi giorni come un intruso, relegato in disparte, circondato da una servitù che lo disprezza per le sue umili origini e angosciato dinanzi allo sperpero del palazzo, che dissipa le ricchezze da lui accumulate a prezzo di tante fatiche e sacrifici. Egli infatti detesta il ceto dei servitori, che ai suoi occhi rappresenta solo una massa di parassiti che ozia e si ingrassa di quella ricchezza sperperata. Il disordine e l’ozio rappresentano la negazione dell’ideale di lavoro accanito, ostinatamente indirizzato a un fine, che è proprio del borghese. Durante la sua permanenza al castello Gesualdo cerca disperatamente un contatto di intimità e affetto con la figlia, comprendendone le sofferenze e cercando di alleviarle. Da parte sua però Isabella rappresenta un muro impenetrabile. Questa incomunicabilità tra padre e figlia è il segno del fallimento di chi, pur ritenendo fondamentale la famiglia, ha finalizzato la sua intera vita alla conquista della roba. Anzi, proprio per il culto della roba Gesualdo ha impedito alla figlia di seguire il suo vero amore, condannandola all’infelicità: la difficoltà del loro rapporto non è altro che frutto delle sue stesse azioni, anche se per il padre è più facile credere dipenda dalla discendenza dalla madre. Dopo aver tentato disperatamente di non arrendersi al male, ormai preda di rimorsi e nostalgie, egli muore solo, sotto lo sguardo infastidito e sprezzante di un servo.
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