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Giovanni Verga - vita, opere e pensiero, Appunti di Italiano

Vita, opere, pensiero, verismo - riassunto

Tipologia: Appunti

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Caricato il 19/08/2019

chiara-della-torre
chiara-della-torre 🇮🇹

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Scarica Giovanni Verga - vita, opere e pensiero e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! Giovanni Verga La vita Giovanni Verga nacque a Catania nel 1840, da una famiglia di agiati proprietari terrieri. Compì i primi studi presso maestri privati come Antonino Abate, da cui assorbì il patriottismo e il gusto romantico, da cui nacque il primo romanzo scritto a 16 anni e rimasto inedito “Amore e Patria”. Iniziò gli studi di legge all’università di Catania ma li abbandonò per dedicarsi al giornalismo politico e al lavoro letterario (romanzo: I carbonari della montagna). Questa formazione irregolare segna una profonda differenza rispetto agli altri scrittori di profonda cultura umanistica, i testi su cui si fonda il gusto di quel tempo non sono i classici latini e italiani ma gli scrittori francesi moderni di vasta popolarità. E queste letterature di intrigo o sentimentali, insieme con i romanzi storici italiani, influenzano i primi romanzi di Verga (Sulle Lagune). Nel 1865 lascia la provincia e si reca a Firenze, allora capitale del regno. Vi soggiorna a lungo dal 69, convinto che per diventare scrittore autentico dovesse liberarsi dei limiti della sua cultura provinciale e entrare in contatto con la società letteraria italiana. Nel 1872 si trasferisce a Milano, centro culturale più vivo e aperto alle sollecitazioni europee. Qui entra in contatto con gli ambienti della scapigliatura. Frutto di questo periodo tre romanzi: Eva, Eros, Tigre reale; ancora legati a un gusto romantico. Nel 1878 avviene la svolta verso il Verismo con la pubblicazione del racconto Rosso Malpelo. Seguono le novelle di Vita dei campi, il romanzo I Malavoglia (del ciclo dei vinti), le novelle rusticane e Per le vie, il dramma Cavalleria rusticana, le novelle di Vagabondaggio. Mastro-Don Gesualdo il secondo romanzo del ciclo. Tutti tra il 1880-89. Negli anni successivi lavora al terzo La Duchessa de Leyra, ma non lo porta a termine. A Milano soggiorna per lunghi periodi intervallati da ritorni in Sicilia. Dal 1893 torna definitivamente a Catania. Dopo il 1903 con la rappresentazione dell’ultimo dramma Dal tuo al mio, lo scrittore si chiude in un silenzio pressoché totale. Si occupa delle proprietà agricole e si preoccupa per le condizioni economiche. Dalle lettere traspare un periodo di inaridimento assoluto anche per la passione verso la contessa Dina Castellazzi. Le sue posizioni politiche si fanno sempre più chiuse e conservatrici. Allo scoppio della prima guerra è fervente interventista e nel dopoguerra si schiera con i nazionalisti pur però in distacco da ogni interesse politico militante. Muore nel gennaio 1922, l’anno che vedrà la marcia su Roma e la salita al potere del fascismo. I romanzi preveristi La sua produzione significativa ha inizio con i romanzi composti a Firenze e poi a Milano. Ancora a Catania aveva pubblicato il romanzo Una peccatrice (1866), poi ripudiato, fortemente autobiografico, che in toni enfatici e melodrammatici narra la storia di un intellettuale piccolo borghese siciliano, che conquista il successo e la ricchezza ma vede inaridirsi l’amore per la donna sognata e adorata, e ne causa così il suicidio. A Firenze termina Storia di una capinera, romanzo sentimentale e lacrimevole, che narra di un amore impossibile e di una monacazione forzata, che gli assicura successo. A Milano finisce Eva, cominciato a Firenze, storia di un giovane pittore siciliano che, nella Firenze capitale, brucia le sue illusioni e i suoi ideali artistici nell’amore per una ballerinetta, simbolo della corruzione di una società “materialistica”, tutta protesa verso i piaceri, che disprezza l’arte e l’asservisce al suo bisogno di lusso. La protesta per la nuova condizione dell’intellettuale, emarginato e declassato nella società borghese dominata dal principio del profitto, è vicina alla polemica anticapitalistica della scapigliatura. Romanzi che analizzano passioni mondane: Eros, storia del progressivo inaridirsi di un giovane aristocratico, corrotto da una società raffinata e vuota e Tigre reale che segue il traviamento di un giovane innamorato di una donna fatale, divoratrice di uomini. I due romanzi sono considerati esempi di realismo, analisi di piaghe psicologiche e sociali. In realtà si inseriscono ancora in un clima tardo romantico, rappresentando ambienti aristocratici o la bohème artistica, incentrandosi su passioni complesse o violente di anime elevate, in un linguaggio spesso enfatico ed emotivo. Lontani dal modello del naturalismo francese. LA SVOLTA VERISTA In realtà stava maturando in Verga una crisi. Dopo un silenzio di tre anni (interrotto nel 1876), nel 1878 esce un racconto che si discosta fortemente dalla materia e dal linguaggio della sua narrativa anteriore, gli ambienti mondani, le passioni raffinate e artificiose, il soggettivismo esasperato, lirico e melodrammatico: si tratta di Rosso Malpelo, la storia di un garzone di miniera che vive in un ambiente duro e disumano, narrata con un linguaggio nudo e scabro, che riproduce il modo di raccontare di una narrazione popolare. È la prima opera della nuova maniera verista, ispirata ad una rigorosa impersonalità. Nel 1874 Verga aveva pubblicato un bozzetto di ambiente siciliano e rusticano, Nedda, che descriveva la vita di miseria di una bracciante; ma il racconto non può essere considerato un preannuncio della svolta: mutati gli ambienti, vi restavano identici i toni melodrammatici dei romanzi mondani, ancora estranei all’impersonalità verista, con un gusto romantico per una realtà esotica, recuperata nella memoria, insieme ad un umanitarismo generico e sentimentale. Il cambio così vistoso di temi e di linguaggio inaugurato in Rosso Malpelo è stato interpretato come una vera e propria “conversione”. In realtà Verga si proponeva di dipingere il “vero”, pur rifiutando ogni etichetta di scuola, già ai tempi di Eros, Eva, Tigre reale. Infatti possedeva strumenti ancora approssimativi e inadatti, poco personali e inquinati da una convenzionale maniera romantica. L’approdo al verismo è quindi una svolta capitale, ma non una brusca inversione di tendenza, è piuttosto il frutto di una chiarificazione progressiva di propositi già radicati, la conquista di strumenti concettuali e stilistici più maturi: la concezione materialistica della realtà e l’impersonalità. Ma la svolta verista non va interpretata in senso moralistico, come frutto sazietà per gli ambienti eleganti e mondani, che induca a cercare maggiore autenticità di vita tra gli umili. Infatti con la conquista del metodo verista Verga non vuole affatto abbandonare gli ambienti dell’alta società per quelli popolari. Anzi, come afferma nella prefazione ai Malavoglia, si propone di tornare a studiarli proprio con quegli strumenti incisivi di cui si è impadronito. Le “basse sfere” non sono che il punto di partenza del suo studio dei meccanismi della società, poiché in esse tali meccanismi sono meno complicati e possono essere individuati più facilmente. Poi lo scrittore intende applicare il suo metodo via via anche agli strati superiori, sino all’aristocrazia, alla politica. POETICA DELL’IMPERSONALITÀ Diviene indispensabile esaminare il nuovo metodo narrativo dello scrittore e i principi di poetica su cui si fonda. Secondo la sua visione la rappresentazione artistica deve possedere “l’efficacia dell’essere stato”, deve conferire al racconto l’impronta di cosa realmente avvenuta; per far questo deve riportare “documenti umani”. Ma non basta che ciò che viene raccontato sia reale e documentato: deve essere anche raccontato in modo da porre il lettore “faccia a faccia col fatto nudo e schietto”, in modo che non abbia l’impressione di vederlo attraverso la lente dello scrittore. Per questo lo scrittore deve “eclissarsi”, cioè non deve comparire nel narrato con le sue reazioni soggettive, le sue riflessioni, le sue spiegazioni. L’autore deve “mettersi nella pelle dei suoi personaggi”, vedere le cose con i loro occhi ed esprimerlo con le loro parole. In tal modo la sua mano rimarrà totalmente invisibile, tanto che l’opera dovrà sembrare “essersi fatta da sé”. Il lettore avrà l’impressione non di sentire un racconto di fatti, ma di assistere a fatti che si svolgono sotto i suoi occhi. A tal fine il lettore deve essere introdotto nel mezzo degli avvenimenti, senza che nessuno gli spieghi gli antefatti e gli tracci un profilo dei personaggi. Verga ammette che questo può creare un po’ di confusione alle prime pagine: però man mano che gli “attori” si fanno conoscere con le loro azioni e loro parole, attraverso di esse il loro carattere si rivela al lettore: solo così si può creare l’illusione completa della realtà, ed eliminare ogni artificiosità letteraria. La teoria dell’impersonalità non è per Verga una definizione filosofica che pretenda di negare realmente ogni rapporto tra creatore e opera, e tanto meno un’affermazione dell’indifferenza psicologica dell’autore nei confronti della sua materia, ma è solo un suo personale programma di poetica, la definizione di un procedimento tecnico, un modo di dar forma all’opera. Per questo parla di “artificio”, di “illusione”: al lettore deve sembrare come se l’autore fosse scomparso. LA TECNICA NARRATIVA Verga applica coerentemente i principi della sua poetica nelle opere veriste composte dal 1878 in poi, e ciò dà origine a una tecnica narrativa profondamente originale e innovatrice, che si distacca dalla tradizione. Nelle sue opere effettivamente l’autore si eclissa, a raccontare infatti non è il narratore onnisciente tradizionale (Manzoni, Scott, Balzac), che interviene continuamente nel racconto. Nelle opere di Verga il punto di vista dello scrittore non si avverte mai: la voce che racconta si colloca all’interno del mondo rappresentato, è allo stesso livello dei personaggi. Non è qualche personaggio specifico a raccontare, ma il narratore si mimetizza tra i personaggi stessi, adotta il loro modo di pensare e di sentire. È come se a raccontare fosse uno di loro, che però non compare direttamente nella vicenda e resta anonimo. Tutto ciò si pone con grande evidenza nei Malavoglia e nelle novelle, perché Verga rappresenta ambienti popolari e rurali e mette in scena personaggi incolti e primitivi, contadini, pescatori, minatori, la cui visione e il cui linguaggio sono ben diversi da quelli dello scrittore borghese. Un esempio chiarissimo è fornito dall’inizio di Rosso Malpelo, prima novella verista: “Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo”. La logica che sta dietro questa affermazione non è certo quella di un intellettuale borghese come Verga: fa infatti dipendere da una qualità essenzialmente morale un dato fisico, naturale, i capelli rossi; rivela una visione primitiva e superstiziosa della realtà. È come se a raccontare non fosse Verga, ma uno qualunque dei vari minatori della cava in cui lavora Malpelo. dall'esterno e dall'alto; per Verga significa invece immergersi, eclissarsi nell'oggetto. LE DIVERSE IDEOLOGIE Queste tecniche narrative così lontane sono la conseguenza di due ideologie diverse. Zola interviene a commentare e a giudicare perché crede che la scrittura letteraria possa contribuire a cambiare la realtà e ha piena fiducia nella funzione progressiva della letteratura. Dietro la regressione di Verga nella realtà rappresentata vi è invece il pessimismo di chi ritiene che la realtà data sia immodificabile, che la letteratura non possa in alcun modo decidere su di essa e che quindi lo scrittore non abbia il diritto di giudicare, ma debba limitarsi alla riproduzione oggettiva, sincera e spassionata, del dato. Zola è uno scrittore borghese democratico, che ha di fronte a sé una realtà dinamica. Lo scrittore progressista si sente portavoce di esigenze ben vive intorno a lui. Il rifiuto verghiano dell'impegno politico della scrittura, l'affermazione della pura letterarietà dell'opera e la scelta dell'impersonalità come carattere fondamentale della nuova arte realista rimandano invece ho una situazione economica, sociale e culturale ben diversa da quella francese. Verga ha ereditato la visione fatalistica di un mondo agrario arretrato e immobile. Poteva poi trovare la conferma nella realtà attuale dell'Italia e ricavare la convinzione che nulla può mai mutare in assoluto nella storia degli uomini e la letteratura può solo portare a conoscere la realtà, non a modificarla. Era inevitabile che anche gli influssi positivistici assorbiti dal clima culturale europeo non spingessero ad un'interpretazione ottimistica e progressiva della realtà ma anzi fornissero semmai una giustificazione filosofica alla convinzione che la realtà sociale è un prodotto naturale e come tale non potrà mai essere modificata. Osservare questo non significa però esaltare il progressismo di Zola contro il conservatorismo di Verga e ricavarne giudizi di valore sulle rispettive opere. I valori artistici non sono conseguenza immediata e meccanica dell'ideologia di uno scrittore. Proprio la carica progressiva è in buona parte responsabile dei vistosi difetti della narrativa zoliana: la mitologia scientifica rozza, la mitizzazione del popolo come forza selvaggia, la creazione di situazioni melodrammatiche forzate e di simbologie artificiose, la pesantezza dell'intento documentario illustrativo. Mentre il pessimismo, la visione arida e desolata della realtà dalla narrativa verghiana la sua e secchezza ed essenzialità le conferisce il suo valore altamente conoscitivo e critico. VITA DEI CAMPI La brusca svolta fra i romanzi come Eros e Tigre Reale da un lato e un racconto come Rosso Malpelo dall'altro lascia sorpresi e induce a chiedersi quale percorso abbia condotto Verga a quel tipo di approdo. Le tappe di tale percorso non ci sono note ma certamente esercita un influsso determinante la lettura di Zola, soprattutto l'Assommoir dovette giocare un ruolo decisivo nel suggerire a Verga la tecnica della regressione. Ci furono lunghe discussioni su quel romanzo zoliano e sulla possibilità di rendere il colore locale anche nella forma letterale attraverso la mimesi del linguaggio popolare. L’Assommoir fornì a Verga solo uno spuntino iniziale, che gli poi sviluppò con sistematicità ben più rigorosa e in direzione sostanzialmente diversa da quella di Zola. Un'influenza determinante nella chiarificazione dei nuovi principi di Verga esercita pure Capuana che contribuiva a diffondere la conoscenza di Zola. La nuova impostazione narrativa inaugurata nel 1878 con Rosso Malpelo e continuate da Verga in una serie di altri racconti raccolti nel volume Vita dei campi: Cavalleria Rusticana, La lupa, Jeli il pastore, Fantasticheria, L'amante di Gramigna, Guerra di Santi, Pentolaccia. La tecnica narrativa dell'impersonalità che consiste nell'eclisse dell'autore e nella regressione della voce narrante entro il punto di vista del mondo popolare in cui viene applicata. In questo novelle si può trovare ancora traccia di un atteggiamento romantico, di vagheggiamento nostalgico con l'ambiente arcaico come di una sorta di paradiso perduto di autenticità e innocenza. In Verga è ancora in atto una contraddizione tra le tendenze romantiche della sua formazione e le nuove tendenze verifiche, pessimistiche e materialistiche, che lo inducono a studiare scientificamente le leggi del meccanismo sociale. È una contraddizione che troverà presto soluzione nei Malavoglia. LE NOVELLE RUSTICANE, PER LE VIE, CAVALLERIA RUSTICANA Tra il primo e il secondo romanzo del ciclo dei Vinti passano 8 anni. Nel lungo intervallo Verga pubblica un altro romanzo che non rientra nel disegno preannunciato, Il marito di Elena, analisi delle irrequietudini di una moglie piccolo borghese, che con i suoi sogni e le sue ambizioni conduce il marito mite e devoto alla rovina. Nel 1883 escono le Novelle rusticane, che ripropongono personaggi e ambienti della campagna siciliana, in una prospettiva più amara e pessimistica, che porta in primo piano e il dominio esclusivo dei movimenti economici nell'agire umano e rivela come la fame e la miseria soffochino ogni sentimento disinteressato. Un'indagine analoga viene condotta anche sul proletariato cittadino delle novelle Per le vie, pubblicate nello stesso anno. Nel 1884 poi Verga tenta l'esperienza del teatro con il dramma Cavalleria Rusticana, tratto da una novella di Vita dei campi, che ottiene un clamoroso successo di pubblico per la rappresentazione di costumi esotici e di passioni primitive. IL MASTRO-DON GESUALDO L’INTRECCIO Nel 1889 esce il secondo romanzo del ciclo dei Vinti, Mastro-don Gesualdo. Gesualdo Motta da semplice muratore, con la sua intelligenza e la sua energia infaticabile, è arrivato ad accumulare una fortuna. Quando il racconto ha inizio, la sua ascesa sociale dovrebbe essere coronata dal matrimonio con Bianca Trao, discendente da una famiglia nobile, ma in rovina. Nei calcoli di Gesualdo il matrimonio può aprirgli le porte del mondo aristocratico nel paese e consentirgli di stringere legami con tutti quelli che contano. In realtà, nonostante il matrimonio con un'altra, Gesualdo resto escluso dalla società non nobiliare, che lo disprezza per le sue origini. Il disprezzo è testimoniato dalla formula con cui viene abitualmente menzionato: “don” era l'appellativo destinato ai signori, ma ad esso viene accoppiato “mastro”, ad indicare la provenienza umile della ricchezza, che era un semplice muratore. Anche la moglie non lo ama, anzi ha quasi orrore di lui e lo respinge. Nasce una bambina, Isabella, che però è frutto di una relazione di Bianca con un cugino, prima del matrimonio. Isabella, crescendo, respinge a sua volta il padre, vergognandosi delle sue umili origini. Gesualdo subisce altre amarezze da parte del padre, che è geloso della sua fortuna, e dei fratelli, chi mirano a spogliarlo dei suoi averi. Durante il ‘48, i nobili dirottano l'odio popolare contro Gesualdo, che si salva a stento dall'ira della folla. Isabella gli crea un altro dolore innamorandosi di un cugino povero e fuggendo con lui. Per riparare, Gesualdo la dà in moglie al duca de Leyra, nobile squattrinato, ma deve sborsare una dote spropositata. Tutti questi eventi minano la salute di Gesualdo, che si ammala di cancro al Pirolo. Viene accolto a Palermo nel palazzo del genero e della figlia, ma per le sue maniere e rozze viene relegato in disparte. La figlia non lo ama, e vani sono i tentativi di Gesualdo per comunicare con lei. Gesualdo trascorre i suoi ultimi giorni in solitudine, angosciato al vedere lo sperpero del palazzo nobiliare, che ingoia le ricchezze da lui accumulate a prezzo di eroiche fatiche. E muore solo, sotto lo sguardo infastidita e sprezzante di un servo. L'IMPIANTO NARRATIVO Nel Gesualdo Verga resta fedele al principio dell'impersonalità. Il livello sociale di questo mondo si è elevato rispetto ai Malavoglia, un ambiente borghese e aristocratico e di conseguenza anche il livello del narratore si innalza. Il narratore del Gesualdo riprende i suoi diritti, ha uno sguardo lucidamente critico, un sarcasmo impassibilmente corrosivo nel ritrarre ambienti e figure, nel mettere in luce bassezze, meschinità, durezze ciniche del protagonista e degli altri personaggi. Il narratore del Gesualdo non dà esaurienti informazioni sugli antefatti, o ritratti e storie dei personaggi. La storia dell'ascesa sociale del protagonista non è riportata dal narratore, bensì dal personaggio stesso, che in un momento di quiete serale, dopo una giornata di attività frenetica, si abbandona ai ricordi e rievoca il suo passato. È questa una tecnica eminentemente drammatica, che conferma la fedeltà di Verga al suo principio dell'eclisse dell'autore, anche se gli adotta le soluzioni specifiche richieste di volta in volta dalle esigenze della materia. I Malavoglia sono un romanzo corale che vede in scena una folla fittissima di personaggi. Il Gesualdo a invece al centro una figura di protagonista. E infatti la storia di un individuo eccezionale, della sua epica ascesa e della sua caduta, ma questa centralità dell'eroe si adeguano i procedimenti narrativi: la narrazione è focalizzata sul protagonista. Lo strumento per eccellenza di questa focalizzazione interna è il discorso indiretto libero, mediante cui sono riportati i pensieri del protagonista. L’INTERIORIZZARSI DEL CONFLITTO VALORI-ECONOMICITÀ Scompare la bipolarità tra personaggi depositare dei valori e rappresentanti della legge della lotta per la vita. Il conflitto tra i due poli qui si interiorizza, passa all'interno di un unico personaggio, Gesualdo. Pur dedicando tutta la sua vita e tutte le sue energie alla conquista della roba conserva tutto sommato in sé un bisogno di relazioni umane autentiche: ha il culto della famiglia, rispetta il padre e aiuta i fratelli, ama la moglie e la figlia e vorrebbe essere amato da loro. Gli impulsi generosi e i bisogni affettivi sono sempre soverchiati dall'attenzione gelosa all'interesse economico. La roba è il fine primario della sua esistenza, e ciò lo porta ad essere disumano, come quando sfrutta senza pietà i suoi lavoranti, o quando rinuncia Diodata, che lo ama, per sposare Bianca Trao, che può aprirgli le porte della società aristocratica. Ciò fa capire che in Verga non v'è più alcuna tentazione idealistica. La logica dell'economicità, dell'interesse egoistico, della forza diviene il modello unico di comportamento ed occupa tutto il quadro, respingendo fuori dei suoi confini i valori disinteressati. Quei residui di idealismo romantico che si trovavano in vita dei campi pur essendo poi negati dal pessimismo dello scrittore, sono qui del tutto scomparsi. È approdato ad un verismo rigorosamente conseguente ed il suo pessimismo è divenuto assoluto, al punto di non consentirgli di rappresentare in atto nessuna alternativa ideale ad una realtà dura disumanizzata. LA CRITICA ALLA RELIGIONE DELLA ROBA Il frutto della scelta di Gesualdo in favore della logica della roba è una totale sconfitta umana. Gesualdo e amaramente deluso nelle sue aspirazioni a relazioni umane autentiche: il padre invidia la sua fortuna e nutre rancore per lui, tanto da voltargli le spalle sul letto di morte, i fratelli mirano solo a depredarlo delle sue ricchezze, la moglie non lo ama e lo tiene lontano con freddezza, la figlia si vergogna di lui e gli è estranea, anche quando egli è vicino alla morte, i figli naturali avuti da Diodata lo odiano, come lo odia e lo invidia tutto il paese. Dalla sua lotta epica per la roba, dalla sua energia eroica e dalla sua scesi non ha ricavato che odio, amarezza e dolore, questo frutto amaro si somatizza nel cancro allo stomaco, che lo corrode lo porta alla morte. È proprio perché conserva in sé un'esigenza gli affetti autentici di moti generosi, può assumere coscienza di questo totale fallimento e del suo ambizioso disegno e di tutta la sua esistenza, e trarre alla fine un desolato bilancio. Con una formula che ha goduto di molta fortuna, Russo, ha parlato di celebrazione di una nuova religione: la religione della roba. Ma la critica attuale ha messo bene in luce come tale religione sia di Gesualdo e non di Verga. Lo scrittore non celebra affatto l’accanimento del suo eroe nell’accumulare ricchezza, ma al contrario lo presenta in una luce duramente critica e negativa. Verga non ha un atteggiamento moralistico schematico e univoco, ma si colloca in modo problematico dinanzi alla materia. Egli riconosce quanto vi è di eroico nello sforzo di Gesualdo: il personaggio ha qualcosa di faustiano, nel suo tendere costantemente ad obiettivi più vasti, nella sua determinazione a dannarsi l’anima pur di raggiungere i fini del suo ambizioso disegno; dimostra una volontà ferrea e una capacità di sacrificio personale degna di un asceta. Però Verga rappresenta soprattutto il rovescio negativo di tutto ciò: l’alienazione nella roba, la durezza disumana, le sofferenza provocate, l’insensatezza di una fatica che attira solo odio e dolore e ha come unico sbocco la morte. Gesualdo è un vincitore materialmente ma un vinto sul piano umano. Verga rappresenta nel Gesualdo un eroe tipico di quel progresso, un self-made man che si costruisce da sé il proprio destino, un eroe della dinamicità e dell’intraprendenza. Nella sua onestà rigorosa, mette in evidenza anche quanto vi è di grande in questa figura moderna: ma il suo giudizio sul meccanismo del progresso è impietosamente negativo, come lo era già nei Malavoglia. Con questo, nel suo pessimismo, riconosce che il processo che lo porta alla modernità è inevitabile, fatale e necessario, e non indica alternative alla sua negatività rifugiandosi nella nostalgia di un passato precapitalistico mitizzato, o in utopie di una rigenerazione futura dell’umanità: si limita ad analizzare ciò che è dato, con occhio fermo e lucido. L’ULTIMO VERGA Dopo il Gesualdo Verga lavora a lungo al terzo romanzo del ciclo, La Duchessa de Leyra, ma il lavoro non sarà mai portato a compimento. Ci resta solo il primo capitolo, che appare scialbo. Gli ultimi due romanzi del progetto iniziale non saranno mai affrontati. Le ragioni dell’interruzione non sono facili da definire, dovettero combinarsi tra loro l’inaridimento dell’ispirazione e la stanchezza dello scrittore ormai vecchio, le difficoltà di affrontare con il metodo prescelto gli ambienti dell’alta società e le psicologie complesse e raffinate e infine lo stesso logoramento dei moduli veristi. Dal 1893 Verga è tornato a vivere definitivamente a Catania, lasciando Milano. Questo è un dato significativo, che testimonia una sostanziale rinuncia alla letteratura: tutte le opere importanti erano state ideate a Milano. Verga aveva sempre sentito come fosse impossibile per lui scrivere nell’ambiente della provincia. Pubblica ancora raccolte di novelle, I ricordi del capitano d’Arce, di ambiente mondano e Don Candeloro & C., sul mondo degli attori girovaghi. Lavora ancora per il teatro, riducendo per le scene La Lupa e facendo rappresentare Dal tuo al mio, dramma incentrato su uno sciopero di solfatari e sulla figura di un operaio che, sposata la figlia del padrone, tradisce i suoi compagni in sciopero per difendere i suoi interessi: ma si tratta di opere stanche, che non aggiungono nulla di nuovo alla sua produzione, o testimoniano semmai un’involuzione.
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