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Giulio Ferroni, Storia della letteratura Italiana 800-900/900 e nuovo millennio, Appunti di Letteratura Italiana

Riassunti integrati con appunti delle lezioni della prof.ssa Costa per l'esame di Istituzioni di letteratura italiana contemporanea.

Tipologia: Appunti

2016/2017

Caricato il 30/11/2017

chiara45
chiara45 🇮🇹

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Scarica Giulio Ferroni, Storia della letteratura Italiana 800-900/900 e nuovo millennio e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana. Epoca 7 La rivoluzione in Europa, 1789-1815. • Moltissimi autori italiani svolsero la loro attività intellettuale e poetica durante due eventi storici di importanza primaria: la rivoluzione americana e la rivoluzione francese. 1. La rivoluzione americana avvenne nel 1776 e fu spinta dalla necessità dei coloni americani di esercitare la propria indipendenza riguardo alla politica oppressiva e vessatoria della madrepatria inglese. Ottenuta l’indipendenza si formò qui una Repubblica confederata fondata sull’uguaglianza individuale, sulla dignità del lavoro, sul libero mercato e sulla libera concorrenza economica e commerciale. 2. La rivoluzione francese (1789), comportò conseguenze nell’immediato estremamente più drastiche. Infatti la necessità da parte della classe della Borghesia di esercitare i propri diritti alla pari della Nobiltà e del Clero sfociò in un radicale cambiamento politico e nel nascere di nuove tendenze intellettuali chiamate “illuministiche”. I privilegi dei Nobili e della Chiesa schiacciavano la Borghesia: il loro potere maggiore era giustificato e retto su legittimità astratte, e questo non poteva più essere tollerato. Con violenza e rabbia quindi, prima vennero schiacciati e distrutti ideologicamente i falsi presupposti su cui si basavano i poteri di Chiesa e Nobiltà, e poi questi poteri furono vinti praticamente con una coraggiosa lotta da parte delle classi minori contro il governo francese. Quindi si fondava una società, una Repubblica, fondata su 3 valori illuministici: uguaglianza, fratellanza, e libertà tra gli uomini, che sono tutti uguali davanti al proprio stato. Il crollo dell’Antico Regime, così violento e drastico, che toccò il suo apice con la condanna alla ghigliottina di Luigi XVI nel 1793, venne a volte portato a termine con politiche estremiste e fondate sul Terrore: sto parlando dei cosiddetti Giacobini, un gruppo politico di tendenze repubblicane ed estremiste,fondati nel Convento francese di San Jacques. Nella Rivoluzione francese con il termine Giacobino si intendevano specificamente tutti coloro che appartenevano a questo gruppo politico estremista, perfettamente localizzato, con obiettivi precisi, e cioè la distruzione del vecchio ordinamento, per far spazio però ad un nuovo regime basato sul Terrore e fondato su nuovi dogmi indeclinabili. L’aspetto estremo e rigoroso di questa fazione politica si rivelò un fallimento totale nell’atto pratico, il 27 Luglio del 1794, con il colpo di stato del 9 Termidoro, nel quale i giacobini furono sconfitti e così fu la Borghesia a prendere le redini del nuovo stato. Dal 1794 in poi l’uso del termine Giacobino fu esteso a intendere ogni forma di estremismo intellettuale e politico, solitamente di carattere rigoroso e repubblicano. Ci saremmo aspettati dunque che la conseguenza della rivoluzione francese sarebbe stata l’affermazione di un nuovo governo fondato su uguaglianza, libertà, e principi di indipendenza, e invece avvenne l’esatto contrario: a partire dal 10 Novembre 1779, anno del colpo di Stato di Napoleone, il comandante assunse le redini della nuova Repubblica appoggiato sia dalla vinente classe della Borghesia sia dai vecchi e nuovi aristocratici. Il suo obiettivo era tutt’altro da quello della Rivoluzione Francese: voleva solo impadronirsi del potente stato della Francia per intraprendere pesanti campagne militari espansionistiche in Europa. Ed è quello che fece, annettendo paesi vicini alla Francia, parte in Germania e parte in Italia. L’incoronazione nel ruolo di Imperatore nel 1804 conferma gli obiettivi individualistici e assolutistici, che tornavano ad esaltare un individuo più di un altro. Ma dopo non troppo tempo il predominio francese in Europa si affievolì: la campagna in Russia nel 1812 da parte di Napoleone, pretesa ardua, si rivelò un fallimento, subito seguito dalla sconfitta a Lipsia nel 1813. quando pi l’acerrima rivale della Francia, l’Inghilterra, impose un blocco economico allo stato avversario, Napoleone non mantenne più il controllo della situazione e venne prima sconfitto, poi rinchiuso in esilio all’Isola d’Elba (1814). Riuscito a fuggire e tornato in Francia Napoleone ri ottiene il potere nel 1815 ( i famosi 100 giorni) in cui continuo di continuare quello che aveva iniziato ma fu fermato da una congregazione di tutti gli stati Europei a lui ostili e venne definitivamente sconfitto a Waterloo nel 1815. Il secondo esilio nella più lontana isola di Sant’Elena pose fine ai suoi istinti politici e individualistici. La conseguenza più diretta dell’esperienza Napoleonica fu istituzionalmente, nell’immediato, un ritorno ai vecchi regimi con il Congresso di Vienna: ma i presupposti su cui si basava erano crollati per sempre e lo spettro della rivoluzione aleggiava in tutte le città più importanti degli altri centri Europei… La fase Napoleonica, dopo la Rivoluzione francese, non aveva fatto altro che spronare gli altri cittadini d’Europa a conquistarsi ed esercitare quei valori tanto esaltati nella rivoluzione, ad allontanarsi dai governi del passato… • Le conseguenze della Rivoluzione ed il Libertinismo. La rivoluzione francese è sempre stata considerata come la rivoluzione della Borghesia. Effettivamente questa classe sociale, che deteneva il potere economico già da un po’, prende il controllo anche del potere politico. In realtà non dobbiamo dimenticarci che non avrebbe mai potuto la Borghesia da sola ribaltare completamente l’ordine esistente distruggendolo e prendendone il posto: non senza le classi sociali ad essa alleate, dal punto di vista pratico, sul campo di battaglia, che fu il Popolo di Parigi, principalmente piccoli artigiani, il proletariato, e parte della popolazione contadina. Solo dopo la vittoria di questo intero blocco di fazioni politiche e sociali la Borghesia emerse e prese il controllo del nuovo regime. Ed ora nel nuovo stato la partecipazione politica delle masse popolari fu manovrata e diretta da personaggi che spiccarono, all’interno della stessa Borghesia alta, configurandosi ben presto come i nuovi poteri forti. Lo stato però ora non era più un conglomerato di persone che detenevano il potere illegittimamente, e che opprimevano le restanti affinché non glielo togliessero: ora lo stato era un’organizzazione civile e razionale che aveva la responsabilità di curarsi dei propri cittadini, dei loro diritti. Si può ben immaginare come le menti dei più grandi pensatori fossero più che spronate i questo periodo a dire la propria, senza preoccuparsi di scardinare dogmi del passato, visto che in Francia, nel 1789, già erano stati distrutti. Il risultato più importante, proprio a livello di documenti si ebbe proprio nel 1789: risale a questa data la famosa “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” che scardinava totalmente i principi ideologici su cui basavano i governi del passato, cioé il Privilegio Nobiliare e il Diritto Divino, e fondava una società basata su valori sociali, delle persone e quindi del reale, l’Uguaglianza, la Fratellanza, e la Libertà. E la prova che i valori del Vecchio Regime caddero in questo periodo ce la offrono coloro che si immedesimavano nel filone detto “Libertino”, ora vedremo perché. Libertinismo inizialmente indicava una situazione politica, un tipo di atteggiamento etico che si riversa sulla politica. Ma dopo la rivoluzione e nel corso del XVIII secolo cominciò ad indicare uno “stile di esistenza sociale”, un modo di vivere, diciamo un filosofia anche se radicata, vedremo, sul perseguire i beni terreni. Libertino fu infatti, specie dopo che la Borghesia divenne la nuova Aristocrazia, colui che pur accetta l’ordine sociale esistente,l’assolutismo e l’aristocrazia, ma rifiuta ogni credo religioso, e cerca con ogni suo mezzo di muoversi tra le possibilità che questo ordine gli offre, cercando emozioni forti, sensazioni raffinate, e ogni tipo di bene terreno. Per questo la loro sfera d’azione principale sembra essere quella Nel Maggio 1860 si imbarca con i Mille al fianco di Garibaldi e combatte a Palermo. La difficile situazione creatasi tra l’esercito Garibaldino e i contadini siciliani, che verranno poi traditi, ispirò Nievo alla composizione di un’altra opera politica, il Saggio rimasto inedito fino al 1929, chiamato “Frammento sulla Rivoluzione Nazionale”. Nel Saggio Nievo si preoccupa al riguardo del problema che si era reso manifesto al momento in cui il Meridione venne annesso al Piemonte: le masse popolari, soprattutto contadine, appoggiavano la rivoluzione perché non ne potevano più dei privilegi e dello strapotere delle classi dominanti. Ma quando i fautori della rivoluzione divennero la nuova classe dominante, in realtà il rapporto tra contadini e poteri forti risultò essere lo stesso di inferiorità: erano solo cambiati i potenti. Nievo allora offre la sua soluzione: è necessaria la fusione del volgo nel gran partito liberale, è determinante l’educazione di questo volgo. Nel suo laicismo da agli intellettuali borghesi il compito di guidare le iniziative preziose della classe contadina, e nonostante sia laico afferma con realismo e umiltà che può tornare utile l’aiuto del clero più umile, vicino e interessato alle esigenze quotidiane del popolo. Dopo l’esperienza Garibaldina viaggiò per motivi politici e trovatosi a Palermo si imbarcò per arrivare a Napoli: nel 1861 il piroscafo Ercole, nel quale era imbarcato, naufragò in una tempesta. Sempre al 1860 risalgono i due racconti filosofici Il Barone di Nicastro e Storia filosofica dei secoli futuri. Il primo, sula scie dei modelli di Don Chiscotte, del Candide di Voltaire parladei viaggi che un colto Barone compie per tutta la Terra, alla vana ricerca della virtù: l’unica cosa che riesce ad ottenere è la consapevolezza che tutta la realtà è costantemente dominata dal numero 2, sulla dualità, sulla dialettica, in base alla quale si dovrebbe fondare un nuovo tipo di Democrazia senza troppi compromessi. Storia filosofica dei secoli futuri è invece filosofia applicata alla fantascienza, poiché narra dell’evoluzione del mondo dal 1859 al 2222, futuro che Nievo vede pervaso dalla pace universale, da omuncoli robotici, dalla distruzione dei libri del passato e dal superamento delle classi sociali. • Le Confessioni di un Italiano, impostazione e modelli. Il Capolavoro di Nievo, le Confessioni di un Italiano, furono scritte tra il 1857 ed il 1858, ma a causa della difficoltà dei temi trattati, e degli squilibri politici del ‘59-60, l’autore non ebbe mai il tempo di pubblicarlo. Il Romanzo fu pubblicato solo postumo nel 1867 da Emilia Fusinato. Il romanzo è composto da 23 capitoli, ciascuno intitolato con una rubrica. La Storia narra le avventure e la crescita del giovane Carlo Altoviti “nato” Veneziano nel 1775, dice Nievo: le avventure personali del giovane protagonista si mescolano agli eventi politici che caratterizzano gli anni della vita di Nievo, quindi la Caduta della Repubblica di Venezia con la dominazione francese, le prime battaglie del Rinascimento. Infatti nella narrazione si mescolano molteplici modelli precedenti e contemporanei a Nievo: il romanzo storico, il romanzo di formazione, ed il romanzo moderno. 1. Il modello del Romanzo storico di Manzoni è palesemente ripreso, visto che le esperienze dell’immaginario protagonista Carlo sono ambientate in città e luoghi reali, durante eventi realmente esistiti: il cambiamento rispetto al modello però è l’attualizzazione della narrazione, ovvero l’ambientazione del romanzo storico non più nel passato, ma nella contemporaneità. Accanto ai canoni del Romanzo storico però si alternano situazioni ed esperienze personali del giovane Carlo, che trasportano l’opera più nei generi che stavano dilagando in quel momento in Europa, il romanzo moderno, ed il romanzo di Formazione. 2. Il Romanzo Moderno cominciò a svilupparsi nel 700 in Europa in concomitanza con la formazione di ampio strato di pubblico Borghese: essendosi la borghesia intellettualizzata, necessitava di un genere che fosse vicino ai propri gusti, appunto, il Romanzo Moderno. Perché infatti questo genere è incentrato sul tema della ricerca dell’io: il protagonista, che mai è un eroe, bensì una personalità problematica, va alla ricerca di se stesso relazionandosi con il mondo, il nuovo mondo che si stava creando in questo periodo. Caratteristica essenziale di questo genere è la duttilità linguistica, ovvero la disponibilità di dotarsi di ogni linguaggio, dei tipi di forma più sperimentali. In questo senso l’aspetto del privato e del personale è curato nel Romanzo, un ambiente che è solo del protagonista, ed ha ovviamente risvolti autobiografici. 3. Ma la contrapposizione non è solo tra Romanzo Storico, e Romanzo Moderno: no, perché le Confessioni sono la storia di un bambino che cresce, e che lo fa in ambienti diversi, e riprende dunque il Romanzo di Formazione, di matrice inglese. In questo genere il tema centrale è la crescita del protagonista, e per questo si possono ricondurre i modelli addirittura alla Vita Nova di Dante, anche se i più percepibili sono il Candide di Voltaire e i Dolori del Giovane Werther di Goethe. In Nievo, attraverso le relazioni con persone e ambienti, il giovane Carlo acquista consapevolezza di se, si prepara alle esperienze che lo aspettano nel corso della narrazione: il romanzo diventa così anche di Formazione, oltre che moderno, perché nella ricerca di se stesso, c’è anche una crescita interiore e filosofica del ragazzo, che plasma se stesso grazie alle sue esperienze. Tutto questo complesso quadro, formato di più riferimenti, di più modelli, è pervaso dallo spettro della Provvidenza: la memoria del passato come un valore positivo è giustificata da una sorta di Provvidenza che governa misteriosamente il mondo. • La Trama. I 23 Capitoli delle Confessioni possono essere suddivisi in due blocchi cronologici che rappresentano due distinte fasi della vita di Carlo Altoviti: il primo blocco, contenente l’infanzia e l’adolescenza di Carlino, è costituito da 10 Capitoli, mentre i restanti 13 narrano le vicende del protagonista per l’Italia e per il mondo. 1. Nel primo blocco Carlino, orfano di madre e non avente più notizie del padre, viene preso in custodia dalla zia, contessa Friulana che possiede un castello, a Fratta. Qui Carlino entra in contatto con l’ambiente feudale e rurale del possedimento di famiglia. E’ attraverso le relazioni con il paesaggio campestre e con i personaggi della vita feudale che Carlino cresce e prende consapevolezza di se. Nella descrizione della prima fase della vita del protagonista Nievo riprende lo stile usato nella letteratura campagnola: l’ambiente rurale del castello di Fratta è quasi idealizzato, è visto che gli occhi di meraviglia e stupore, di curiosità, di un bambino che ha la sfrenata voglia di conoscere. In questa fase tutto è calmo e tranquillo, l’ambientazione rurale è quasi mitica, ma non solo positiva: questo mondo feudale e campestre infatti, è continuamente pervaso da una deformazione grottesca, dall’incapacità di rinnovarsi, dalla sicurezza che le sue istituzioni su cui è basato sono destinati a tramontare. Ed è quello che succede infatti nella narrazione: i passaggi storici della decadenza della Repubblica di Venezia dell’invasione francese e poi del trattao di Campoformio, sono visti dagli occhi del giovane Carlo, che vede crollare dinnanzi a se il mondo feudale e rurale. Ma l’autore non guarda il vecchio ordinamento feudale come malvagio, o con odio, ma anzi con simpatia e nostalgia, anche se mai con piena partecipazione, perché sa che i valori che ne sono fondamenta sono crollati. E questo nella vita di Carlino è un’esperienza che gli serve per affrontare le vicende del futuro: in questo si comprende l’aspetto formativo del romanzo, perché Carlino è dentro se stesso che cresce, mentre tutto intorno a lui cambia. Ma la formazione di Carlino non si articola solo attraverso il rapporto con il mondo feudale, bensì anche con i rapporti interpersonali: specialmente quello con la cugina Pisana, bambina dalla femminilità precoce, capace di donare amore al giovane tanto quanto di scartarlo per trovare nuovi amici con cui giocare. Il ritmo lento della prima fase rurale è accelerato quindi dai rapporti con i personaggi del Feudo, che li inseriscono in avventure scoppiettanti. Queste avventure le vive principalmente con la Pisana, ed è insieme a lei che Carlo cresce, maturandone l’amore precoce. Questi aspetti di interiorità della psiche infantile sono trattati in Italia per la prima volta da Nievo, che con le Confessioni scrive infatti il primo romanzo di formazione italiano. Tutte le vicende sono però indirizzate verso la via che ha scelto il destino: tutte le esperienze che Carlino vive lo portano a distanziarsi dal mondo rurale (vecchio ordinamento) per tuffarsi nel nuovo mondo contemporaneo, sulla spinta della rivoluzione. E’ la Provvidenza che vuole la rivoluzione, lui non può farci nulla. Ed è la Provvidenza che lo porta a viaggiare per il mondo,a vivere nuove esperienze che continuino a forgiarlo, come la morte di Pisana in Inghilterra o come quella del figlio di Carlo, Giulio, nell’America del Sud. 2. Nella seconda parte, che vede Carlino più cresciuto, si comprende come ogni evento della sua vita in realtà non è determinato da una sua decisione, ma dalla decisione del destino, o imprevedibilità del caso. Infatti crescendo in Carlino si forma quel sentimento patriottico, appartenenza a una nazione, che era tema centrale nella cultura del momento, nonché si solidificano i suoi sentimenti: ma le decisioni che Carlino prende riguardo al patriottismo e riguardo all’amore in realtà sono passive, sono conseguenze delle cose che accadono, non prende mai posizione, non segue mai un’idea anche a costo di infrangere gli schemi. Gli schemi infatti sono tendenzialmente rispettati, e il suo comportamento è tutt’altro che eroico e romantico, ma razionale, non si lascia trasportare dalle passioni. Questo perché a prendere le decisioni è il caso, è lui che fa avvenire le cose. E questo aspetto Nievo lo esaspera, perché spesso gli effetti del caso sono ingigantiti con espedienti del romanzo popolare e del melodramma: personaggi che appaiono all’improvviso, irrompono nelle situazioni sia politiche sia sentimentali, in maniera estremamente teatrale. Anche nei momenti più seri e drammatici del Romanzo Nievo svela in realtà l’artificialità della narrazione, il fatto di non doverla mai prendere troppo sul serio, di non rapportarla troppo al reale. Il fatto che Carlino non prenda mai realmente decisioni con vigore non significa che egli non provi le passioni: non c’è sentimentalismo romantico, ma la situazione amorosa tra Pisana e Carlino logora entrambi. L’impossibilità di consumare il proprio amore in una relazione quotidiana e normale, dovuta al rapporto di parentela tra i due, non provoca risultati scoppiettanti e romantici, ma piuttosto interiori e dismessi: Carlino sposa passivamente l’Aquilina, Pisana resta inafferrabile, lo tradisce, gli sfugge. Ma in realtà entrambi si amano, e il picco massimo della crescita interiore dei due personaggi si ottiene quando passano del tempo insieme: la fase conclusiva dell’opera è il coronamento di questo aspetto, perché la Pisana si piega ad una totale dedizione per Carlino malato, in Inghilterra, finendo per ammalarsi anche lei di Tisi e morire. Ma solo ora Pisana trova la sua sublime purificazione, solo in Carlino vede ordinarsi eternamente il suo mondo, e Carlino solo con lei. Dopo la sua morte infatti Carlino diventerà finalmente maturo e consapevole di se stesso. Dal punto di vista linguistico il Romanzo è caratterizzato dall’uso di molteplici registri, dall’aulico, al colloquiale, al dialettale, nonché dall’uso variegato di più dialetti diversi, principalmente quello Veneto e Lombardo. il re controllasse tutta la Penisola: Carducci si rivelò in questa fase della sua vita fortemente anti-monarchico, repubblicano, quasi giacobino. La sua idea infatti è che i valori più alti raggiunti nel Risorgimento furono quelli rivoluzionari di Garibaldi che riprendevano gli aspetti radicali e innovativi del giacobinismo della Rivoluzione Francese. Una posizione forte, vigorosa e vicina alla sensibilità delle classi più povere: in questa fase della sua vita maturò quindi un discreto socialismo, e dimostrò simpatie per la sinistra e per la fascia democratica. Le sue tendenze violentemente giacobine provocarono la sospensione al suo insegnamento per due mesi del 1868. 2. Ma risale allo stesso 1868 la pubblicazione in quattro libri della sua prima organica raccolta di poesie, il “Levia Gravia”,titolo latino, ripreso da Ovidio, che indicava un’insieme di poesie leggere e gravi. 3. Nel 1870 la sua vita però fu costellata da gravi disgrazie: prima la perdita della madre, e poi anche del suo unico figlio maschio, Dante. Nel 1871 scrisse la sua produzione poetica più impegnata, le Poesie, divise in tre parti, la prima detta Decennalia, comprendente le poesie politiche degli anni 60-70, la seconda ancora Levia Gravia, e la terza Juvenalia, ovvero le poesie giovanili. Quando infatti nel 1872 inizia la sua relazione con Carolina Cristofori Piva, che durerà fino al 1878, la sua produzione poetica e letteraria di moltiplicò: in onore della donna è lo scritto Primavere Elleniche, seguite, nel 1873 dalle nuove Poesie di Enotrio Romano. A partire dal 1876 poi, avviene un suo radicale e repentino cambiamento di pensiero politico: candidatosi per il partito democratico alle elezioni parlamentari, rimase deluso dall’atteggiamento corruttibile ed egoista della sinistra del tempo, e cambiò da un sicuro socialismo, giacobinismo e atteggiamento rivoluzionario, ad appoggiare la monarchia, quella monarchia che in questo periodo era la soluzione da adottare secondo Crispi. Un cambiamento di pensiero sconvolgente, seguito anche da tantissime altre figure della massoneria del Tempo, a cui Carducci apparteneva, che vedevano nella monarchia, tutto d’un tratto, la soluzione ai problemi d’Italia, e venivano rappresentati da Crispi. 4. Nel ‘77 scrive le prime Odi Barbare. Al ‘78 risale il suo incontro con i sovrani d’Italia, ormai simpatizzante delle classi alte della politica italiana, a Bologna, e scrive per l’occasione l’ode “Alla Regina d’Italia”. Aderito ufficialmente alla forte politica di Crispi, nel 1878 si confermò il “vate” della nuova Italia, ovvero il poeta, il letterato, il simbolo culturale del nuovo organismo nazionale, obiettivo raggiunto grazie alla sua adesione alla politica delle classi alte, al suo capovolgimento di ideologia. 5. Al 1882 risale la raccolta “Giambi ed Epodi”, titolo di ripresa classica, perché nel mondo latino e greco il giambo e l’epodo erano versi e poesie tipicamente moralistiche e polemiche, di attacco etico, ed infatti la raccolta racchiude tutte le poesie di polemica socialistica e giacobina. 6. Nel 1887 pubblica la prima raccolta di “Rime nuove”, ovvero di quelle poesie non barbare, che non riprendono la metrica dei classici ma usano la metrica romanza. Nel 1892 pubblicò la raccolta definitiva delle Odi Barbare e nel 1906 vide consacrato il suo ruolo di poeta Vate d’Italia attraverso la vittoria del Premio Nobel per la letteratura. Morì a Bologna nel 1907, a causa di una broncopolmonite. • Svolgimento e caratteri della poesia Carducciana. La poesia di Carducci potrebbe essere suddivisa in quattro fasi che corrispondono ai cambiamenti nella propria filosofia, etica e politica di vita. Ma Carducci usa degli ideali, delle concezioni, che mai tradisce, e che porta avanti sempre saldamente: il classicismo, il realismo, e uno spirito aspro e polemico. Queste tre caratteristiche sono Carducci, e vengono da lui indirizzate sempre verso territori diversi, vengono scagliate, quando le brandisce come un’arma, sempre contro avversari diversi. 1. Classicismo: La sua poesia è sempre permeata da un forte gusto classico, dalla ripresa del mondo greco e latino: da qui lui riprende il concetto di equilibrio, di armonia, di “aurea mediocritas”, la concezione per cui in ogni cosa non vadano mai cercati gli estremi, gli eccessi, ma si debba rimanere nel giusto mezzo. Ed il classicismo lo inserisce in una visione tutta moderna, i miti e le forme dell’antichità vengono riproposte nel presente per viverlo nel modo giusto: insomma, riprende i modelli del passato per vivere bene il presente. 2. Realismo: A Carducci preme sempre molto andare contro ogni romanticismo, contro ogni idealizzazione esagerata, contro quel senso di “vapore”, di “incantamento” che appartiene ai romantici, che cercano sì emozioni forti ma si discostano dalla realtà tanto da non capire più ciò che sta avvenendo attorno a loro. 3. Spirito polemico: Accanto al Realismo, ed al Classicismo, Carducci era dotato di un animo forte e selvaggio, aspro, sempre concentrato nel vedere ciò che per lui non va: probabilmente ispirato dalla forte campagna della Maremma, dove passò l’infanzia, l’animo di Carducci si scagliò con vigore e come fosse un arma ogni volta contro un nemico ideologico diverso, a differenza della fase della vita che trascorse. Nella prima fase della sua vita, quella compresa negli anni giovanili, Carducci brandisce l’arma del suo aspro animo polemico contro le tendenze e le mode della nuova società contemporanea: attacca il lassismo e la ricerca sfrenata dei soldi, la mancanza di etica e di morale, della nuova popolazione mondiale, in confronto al modello giusto e rigoroso degli antichi, dei classici, che invece mettevano al primo posto etica e morale. Nella seconda fase, che parte dal 1860, e si identifica poeticamente con i Levia Gravia e l’Inno a Satana (1863), Giosuè Carducci indirizza le sue aspre polemiche contro la monarchia, contro l’assolutismo, contro i dogmi della Chiesa ed il suo fanatismo, che opprime e schiaccia il progresso delle nuove scienze, della tecnica, del libero pensiero degli uomini: insomma, a partire dal 1860 aderisce alle nuove ideologie nate in Europa sulla scia delle rivoluzioni francese e industriale, accetta un forte anticlericalismo, vedendo la Chiesa come limitante per il libero pensiero scientifico, e si dimostra giacobino e repubblicano. Nel suo giacobinismo sogna la distruzione dell’ordinamento monarchico in favore della nascita di una nuova Repubblica, basata sul socialismo, sull’uguaglianza tra le classi sociali, e sul libero pensiero. Simbolo dell’ideologia Carducciana tra gli anni ‘60 e ‘70 è l’Inno a Satana, del 1863, ultimo componimento dei Levia Gravia. L’Inno ha la forma di un’Ode Classicheggiante, sulla ripresa delle Odi di Monti, e suscitò polemiche e scandali. Carducci raffigura Satana come un treno in corsa, che chiama “Bello e Orribile mostro”. Che cosa significa? Carducci identifica qui con la figura di Satana il concetto di progresso della Scienza, e lo fa per sottolineare il suo anticlericalismo:i nuovi progressi tecnologici e scientifici non potranno essere oppressi dal fanatismo religioso, e così Satana diventa lo stemma della scienza, diventa il nuovo bene, del mondo contemporaneo. Non solo unisce Satana e la scienza nell’unica figura del treno, ma lancia questo treno in corsa: significa che i valori religiosi e monarchici dell’Anciet Regime sono morti, non potranno fermare i nuovi precetti di libero pensiero, del progresso della scienza, di repubblica, perché sono ormai già avviati nel mondo, sono come un treno in corsa. Nell’Inno a Satana dimostra quindi una ferrea mentalità liberista, amante del progresso, anticlericale e di rottura col passato, ma riesce anche qui a inserire il classico: per raffigurare Satana, che in questo caso è il nuovo bene, si riallaccia alla tradizione del paganesimo antico, e parla di Dei fenici e iranici. Insomma, l’Inno a Satana è importante perché è l’esempio massimo della sua poesia tra gli anni 60 e 70: un realismo classicistico, in cui il lessico classico si mescola con quello presente, in cui la materia così reale come quella della lotta tra progresso scientifico e dogmi religiosi viene arricchita e impreziosita da riferimenti classici. Passiamo quindi alla quarta fase, in cui Carducci esprime una poesia meno violenta, meno aggressiva, più distaccata ed elegante: ora il classicismo si impone con piùù autorità, con più solennità. Infatti l’operazione che Carducci cerca di fare è quella di riproporre la bellezza e l’estetica del mondo classico in confronto alla volgarità e alla pochezza del mondo che si stava creando, inserisce un classicismo prezioso e celebrativo, che a volte guarda con malinconia i tempi antichi e suoi valori ormai persi. L’esempio massimo di poesia classicheggiante lo offre nel ‘77, quando scrive le Odi Barbare. Con le odi Barbare volle Carducci riproporre in lingua italiana, o meglio ancora volgare, schemi e forme della metrica latina e greca: il tentativo già era stato fatto molti anni prima, nell’Umanesimo, ma ora con Carducci viene riproposto e chiamato “barbaro”, perché, a suo avviso, agli occhi di un cittadino romano o greco questo tentativo sarebbe apparso di un barbaro, di uno che cerca di avvicinarsi alla loro cultura e al loro stile, ma non riesce ad imitarlo. Il tentativo di avvicinarsi ai modelli classici infatti è già nel titolo non pienamente compiuto, visto che ci si avvicina all’imitazione senza mai raggiungerla. Stavamo dicendo che un tentativo di incorporare la metrica latina e greca nella lingua volgare, che in realtà già era stata provata nell’Umanesimo: 1. Prima con Leon Battista Alberti, che provò a riproporre in volgare la metrica latina dal punto di vista quantitativo, ovvero riproducendo il sistema di sillabe lunghe e corte, tipico latino, in volgare, per ricreare quelli che erano i “piedi” dei componimenti lirici latini. 2. Poi ci provò Chiabrera, non dal punto di vista quantitativo, ma cercando di riprodurre il “ritmo” dei versi latini, attraverso parole e artifici in volgare che ne rispettassero la scadenza metrica. Carducci invece cercò di riprodurre i due versi più importanti della poesia latina, il pentametro e l’esametro. Così rese in italiano i due metri latini: 1. Esametro: formato da sei piedi in latino, quindi riprodotto in Italiano con un quinario, o senario o settenario oppure un ottonario+ un ottonario o novenario o decasillabo. 2. Pentametro: formato da cinque piedi in latino, riprodotto con un quinario o senario o settenario+ senario o settenario. • Il tentativo stravagante di Carducci lo portò ad un risultato mai desiderato: ruppe infatti, con la tradizione metrica dei modelli italiani, di Leopardi o Monti ad esempio, aprendo la strada, inconsapevolmente, alle nuove forme del verso libero. Come che sia, nelle Odi Barbare cercò di riproporre la bellezza dell’antico, una bellezza perduta mai pienamente raggiungibile nei corrotti tempi moderni. precetti di classicismo estremo vengono uniti con quelli del Parnassianesimo: questo filone di pensiero può essere considerato “classicismo estetizzante”, perché esalta il valore dell’arte e della bellezza. L’arte classica, e la bellezza che ha prodotto, specialmente nella statuaria greca, viene dai Parnassiani esaltata come valore assoluto: l’arte è immutabile, e supera ogni evento storico, rimane viva per sempre, assoluta ed impassibile, e viene dai Parnassiani messa a confronto con la mediocrità ed il materialismo della società borghese, che ha perso ogni valore assoluto e ideale in favore di quelli economici e materiali. L’arte e la bellezza classica vengono prese dai Parnassiani come modelli di perfezione ideale, come valori che superano persino la vita stessa, per questo si parla di classicismo estetizzante. Il nome Parnassianesimo proviene da una raccolta poetica del 1866, “La Parnase Contemporaine”, che riprendeva a sua volta il nome Parnaso dalla mitologia, in cui stava ad indicare il Monte di Apollo e delle sue Muse. I “Parnassiani” si rifacevano agli insegnamenti filosofici di Theophile Gautier che già dal 1835 aveva propugnato il concetto de “l’art pour l’art”, l’arte per l’arte, esaltandone la totale autonomia e il distacco dalla banalità del presente e del reale, la sua immortalità. Nella quarta ed ultima fase della sua vita Carducci cambia radicalmente il suo modo di far poesia, perché cambia radicalmente anche il suo pensiero politico: da un’anticlericale, giacobino, irruento e veemente satiro dei poteri forti, finisce per allearsi con essi, e per lavorare per essi. Ora infatti Carducci da Repubblicano diventa Monarchico, entra nei piani alti della società Umbertina e della sua Massoneria, di cui viene nominato Vate, e perde così gli aspetti più energici e polemici della sua poesia. Il classicismo resta, ma viene inserito in • Luigi Capuana, vita e opere. Luigi Capuana nacque nel 1839 a Mineo, e fu il “verista” siciliano forse più moderato, meno radicale. Nato da una famiglia di borghesia agraria, compì gli studi di Giurisprudenza e senza finirli, si trasferì dal 1864 al 1868 a Firenze. Qui assunse i le qualità di letterato e critico più importanti, e sviluppò le tematiche più profonde. Stretti qui i rapporti con Verga, si cominciò ad interessare alla letteratura del vero, alla possibilità di realizzarla ancor più approfonditamente. Egli formulò una sorta di sintesi tra le posizioni critiche di De Sanctis, che vedeva l’arte come una forma di vita a se, immortale, e quelle positivistiche di De Meis, che vedeva l’autore letterato come uno scienziato che si interroga sulla natura delle cose. La sua visione riguardo l’arte consiste dunque nel vederla sia come una forma di vita a se, sia come il prodotto dell’analisi dell’artista, un’analisi che è per certi versi scientifica, psicologica e sociale, sull’entità della natura, su quale sono le sue leggi. Un grande aiuto in questo senso può aver dato Verga, che gli suggerisce l’ideale di impersonalità: vedere la realtà in maniera impersonale, senza analizzarla dalla propria ottica personale, permette di descrivere gli eventi oggettivamente, in maniera imparziale, e quindi di descrivere il vero. Nel 1868 va via da Firenze e torna a Mineo dove viene nominato sindaco. Dopo un soggiorno a Roma nel ‘72 e dal ‘77 al ‘78 a Milano, dove scrive per il Corriere della Sera, dal ‘92 in poi si trasferisce all’Università di Catania, dove rimarrà fino alla sua morte nel 1915. Qui stringe una relazione con Adelaide Bernardini, a partire dal 1905, e che sposerà nel 1908. 1. Giacinta: La prima grande opera di Capuana è il Romanzo “Giacinta”, scritto nel 75 e pubblicato nel 79. Avvicinatosi al modello del naturalismo francese, con metodo scientifico, già usato da Zola, Capuana analizza la psicologia della protagonista Giacinta, personaggio femminile posto al centro dell’attenzione. L’atteggiamento scientifico con cui analizza la psicologia di Giacinta fa emergere i suoi problemi più profondi e la rende di fatto un caso di “patologia morale”. Il Romanzo si apre infatti con Giacinta rappresentata in un salotto borghese, segnata dall’evento che ha sconvolto la sua psiche: l’abuso sessuale subito nell’infanzia. Da questo momento in poi il racconto fa passi a ritroso nella storia di Giacinta arrivando alla sua infanzia vissuta in ambiente malsano. La sua psiche turbata la porta a sposare un vecchio nobile in decadimento e a prendere come amante lo squallido impiegato Andrea. L’odio che Giacinta cova dentro di se, e che la porta a vivere una vita squallida e degradata, è dovuto dalla società: Giacinta odia la società perché le ha inferto una cattiveria simile. Il personaggio infatti è stato paragonato alla Madame Bovary di Flaubert, dal naturalista Felice Cameroni: entrabi i personaggi sono femminili e ne viene approfondito scientificamente l’aspetto psicologico. Ed anche l’esito di entrambi i personaggi è lo stesso: il suicidio. Giacinta infatti dopo essere stata analizzata da un “medico-filosofo” sente su di se il peso del suo dramma e finisce per avvelenarsi con una dose di veleno. Ma il suicidio di Giacinta è diverso da quello di Madame Bovary: la prima infatti si uccide perché sa che l’ingiustizia che ha subito da Bambina rimarrà impunita, e quindi si suicida per la crudeltà della società (ripresa di Saffo, che si uccide per la crudeltà della natura). Il suicidio di Madame Bovary invece è determinato dalla scoperta che i suoi desideri, le sue voglie, i suoi sogni romantici e sentimentali sono solo illusioni, e quindi il peso schiacciante del “vero” la porta ad uccidersi. Il Romanzo ha due pecche: la prima è la posizione “di mezzo” di Capuana che a volte si fa coinvolgere dalla vita di Giacinta e altre tende ad analizzare gli eventi in maniera distaccata e scientifica, come fosse un rapporto medico. Poi si denota un linguaggio ancora acerbo, indeciso, visto che in una prima redazione costella il romanzo di schemi francesizzanti, che poi in seconda redazione elimina tutti. 2. Una vastissima produzione novellistica: le circa 300 novelle di Capuana parlano di situazioni irregolari, delle contraddizioni che sorgono all’interno degli animi dei personaggi. Molti di questi personaggi sono femminili, specie nelle raccolte che si intitolano “Profili di donne” dell’87 e “Le appassionate” del 1893. Questi personaggi femminili sono di solito eleganti donne che si muovono all’interno della raffinata realtà borghese: la focalizzazione sulle donne cela il malizioso compiacimento del classico uomo di campagna nei confronti della donna borghese. L’estetica, l’atteggiamento, i modi di fare delle donne di città sono infatti ammirati e divengono oggetto di curiosità dell’uomo di campagna che non riesce a comprenderli, ma ne percepisce l’eleganza. Ma al di là di questo, l’autore indaga con sottigliezza tutti gli aspetti della psiche di queste donne, i motivi che hanno scaturito in loro tremendi malesseri, specialmente in “Ribrezzo” del 1885 e in “Tortura” del 1888. Caratteristica della novellistica di Capuana è poi la capacità di non “drammatizzare” anche nelle novelle più tragiche, in cui piuttosto preferisce parlare di situazioni singolari, locali della Sicilia del tempo, colorate da personaggi strambi e grotteschi tipici del folclore Siciliano. Folclore siciliano che è proprio modello di tutte quelle novelle che sono fiabe per bambini: spesso infatti Capuana riprende la tradizione fiabesca, e con lei la sua schematicità e i suoi ritmi ripetitivi, a mo di filastrocca, in cui inserisce però un’ironia e un’allegra invenzione fantastica che rende le sue fiabe capolavori. Tra esse ricordiamo “Scurpiddu” del ‘98. 3. Il Marchese di Roccaverdina. L’esito sicuramente più alto è il romanzo “Il Marchese di Roccaverdina”, del 1901, dove Capuana attribuisce una “purezza classica” ai principi di oggettività, di verismo e di natura della psiche dei personaggi. Si parla di un Marchese che vive egoisticamente in un paesino Siciliano, che schiaccia senza scrupoli chi si mette fra i suoi affari. L’amore per la popolana Agrippina Solmo lo porterà però pian piano a impazzire: tenendola come amante per tanti anni decide di farla sposare ad un suo dipendente, che lui stesso però, colmo di gelosia, uccide in un “delitto perfetto”. La sua coscienza non riesce a cancellare dalle mani il sangue del delitto, e pian piano nella sua testa risuonano voci malefiche che lo portano a impazzire. Un mondo nudo e crudo, narrato oggettivamente, privo totalmente degli illusori sogni del romanticismo, dei vaghi desideri: oggettivamente è però trattata anche la psiche del personaggio, che rivela una soerta di rancore, di inquietudine, di sconforto, dello steso autore Capuana, che evidentemente ha vissuto negli anni della giovinezza siciliana. Giovanni Verga. • Vita e opere. Giovanni Verga nacque nel 1840 a Catania, da una famiglia di piccola nobiltà agraria. Potremmo suddividere la sua vita in una fase letteraria pre-verista e una fase letteraria post- verista. Iscrittosi alla scuola del patriota e letterato Catanese Antonio Abate, fu spinto in questo ambiente intellettuale alla scrittura del suo primo romanzo, precocissimo all’età di 17 anni, “Amore e Patria”, nel 1857. Ma sotto spinta di un suo altro maestro preferì non pubblicare l’opera. Dopo aver avviato nel 58 gli studi in legge all’Università di Catania aderì nel 60 all’impresa di Garibaldi, iscrivendosi alla guardia nazionale fino al 1864. Nel 1865 parte per Firenze, dove rimarrà fino al ‘69: qui entra a contatto con i salotti fiorentini, ambienti intellettuali a cui approda grazie a una lettera di partecipazione richiesta a Francesco dell’Ongaro. E’ proprio a Firenze, centro lontano dalla sua Sicilia, che comincia a ascrivere opere di colore locale catanese, prima “Una Peccatrice”, nel 1866,e poi “Storia di una Capinera”, nel 1870, che ebbe maggior fortuna. Conosciuta la giovane Giselda Foianesi, nel 1869 ritornarono insieme a Catania, dove Giselda incontrò e sposò il collega di Verga, Rapisardi, nel 1872 ( in futuro nascerà un amore tra Verga e Giselda che verrà scopero da Rapisardi nell’83 e scaccerà Giselda da casa). Nello stesso 1872 Verga si trasferisce a Milano, attratto dall’ambiente giornalistico e culturale del luogo. Sono questi ambienti e salotti borghesi di Milano che ispirano Verga alla stesura delle sue due opere ancora non veriste nel ‘75, “Tigre reale” ed “Eros”. Ma già dal 1874 la sua conversione ideologica al verismo, legata all’interesse per i suoi luoghi nativi, aveva preso forma, perché al ‘74 risale il romanzo “Nedda”. Di qui in poi si apre una serie di novelle e romanzi veristi: “Vita nei Campi” 1880, “I Malavoglia” 1881,“Novelle Rusticane” 1882, nonché anche opere di ambientazione non siciliana, “Il Marito di Elena” dell’82 e “Per le vie” del 1883. Dunque paradossalmente è a Milano, un centro lontano dalla sua amata isola, che Verga sviluppa i primi scritti veristi e locali, ambientati in Sicilia. Subito dopo il 1883 intraprende quindi viaggi al fine di propagandare e diffondere le sue • nuove opere veriste: nel 1882 è a Parigi, dove incontra Zola, mentre nell’83 è a Londra. Scese poi a Torino, nell’84, perché qui stava per essere rappresentato a teatro il suo nuovo e freschissimo dramma “Cavalleria Rusticana”, datato appunto ‘84: il dramma ebbe enorme successo, tanto che sulla scia dell’entusiasmo Verga ripartì per l’Europa in cerca di fama e Gloria, e incontrò a Parigi ancora una volta Zola, ma anche lo scrittore svizzero Eduard Rod, che nell’87 pubblicò la traduzione francese dei Malavoglia. Conosciuta la contessa Paolina Greppi, tra l’86 e l’89 partì per Roma: dopo aver abbandonato il progetto del ciclo dei vinti per problemi psicologici ed economici, viaggiò tra Roma e Sicilia più volte, sviluppando e pubblicando, nell’89 la redazione definitiva del Mastro Don Gesualdo. Tornò per l’ultima volta a Milano, pubblicando “I ricordi del Capitano d’Arce” e “Don Candeloro” rispettivamente nel ‘91 e nel ‘94 . Avvenne poi una curiosa situazione: Pietro Mascagni, musicista al servizio dell’Edizione Sonzogno, effettuò la riduzione musicale della Cavalleria Rusticana, che tra l’altro ebbe grandioso successo. Verga fece causa allora al Musicista, per valere giustamente i suoi diritti economici sul componimento: causa che vinse, nel ‘93, guadagnando la grande somma di 143.000 lire. A partire dal 1893 in poi inizia la fase discendente della produzione letteraria di Verga: chiuso nel suo testardo conservatorismo, rimase dal ‘93 in poi a Catania angosciato di fronte a ogni mutamento della vita sociale e delle tendenze culturali. Motivo della sua chiusura fu anche la sua avidità, la sua ossessiva preoccupazione di mantenere integro il patrimonio economico che si era costruito. A parte la scrittura, senza pubblicazione, della “Duchessa di fatale” dell’umanità verso il progresso, in cui alcuni ne escono vincenti, e altri vinti. Il suo interesse si focalizza quindi proprio sui vinti, travolti dal meccanismo dell’economia e del movimento sociale, sui quali narra delle storie senza intervenirvi, si pone come “lontano osservatore”, senza mai giudicarli. L’incompatibilità tra il mondo “alto”, quello dei precedenti romanzi, borghese, fatto di desideri sottili e frivoli, materialisti, e quello basso, dei “poveri diavoli”, è tutto raccontato nella novella del 1879 “Fantasticheria”, in cui lo scrittore rivendica i saldi e preziosi valori della vita contadina, e della famiglia: si esalta qui infatti un modo per rimanere vivi in questo tornado, cioè seguire la “religione familiare”, i piccoli e semplici dogmi che si rispettano in famiglia. E’ il cosiddetto “ideale dell’ostrica”, la concezione cioè, che per sopravvivere, per non venire schiacciati dal nemico vicino, in questo mondo di libera concorrenza e libero mercato, bisogna rimanere chiusi e impenetrabili nella propria devozione familiare, che mai si tradisce, così come fa l’ostrica nel suo guscio, per non venire “divorata” dal “pesce vorace”. L’obiettivo di Verga era quello di rendere il “vero” con quanta più sincerità possibile, di creare un romanzo che sembrerà “essersi fatto da se”, senza lasciare nulla della sua personalità dentro di esso. Per farlo adotta delle specifiche tecniche narrative: 1. Impersonalità. Verga desiderava che il romanzo sembrasse scritto dalla “gente” che abitava il mondo che stava rappresentando: retrogradi contadini, popolani. Decise quindi di rimanere imparziale agli eventi narrati, di non giudicare moralmente le azioni dei personaggi, far si che il romanzo sembrasse fatto dai personaggi stessi. Per ottenere questo effetto fece un’operazione linguistica sottilissima: scelse appositamente di utilizzare un linguaggio, un gergo, volgare e ignorante, basso e locale, popolare e siciliano, come spiega nella prefazione della novella “L’amante di Gramigna”, del 1880. Se avesse scritto in Italiano perfetto non avrebbe rappresentato fino in fondo i comportamenti, i modi di pensare e di parlare di quella gente, che è realmente ignorante: quindi decise di abbassare il livello del suo linguaggio. Esempio lampante di questo modo di scrivere è l’uso, tipico nel gergo siciliano dei tempi, del cosiddetto “Che polivalente”: i contadini siciliani non conoscevano bene la grammatica italiana, per tanto tendevano utilizzare, al posto di qualsiasi tipo di congiunzione, la parola “che”: così “che” veniva usata per ogni tipo di funzione logica, per introdurre relative, causali, temporali e finali. Si comprende qui quanto Verga fosse attento a voler rappresentare le cose come stanno, disposto a scrivere in un italiano scorretto, pur di dimostrare qual è il linguaggio usato in Sicilia nella seconda metà dell’800. 2. Straniamento. Altra tecnica utilizzata è quella dello straniamento: concetti a noi lettori comprensibilissimi vengono, nel ciclo dei Vinti, spiegati dai personaggi in maniera strana, errata, come di chi non riesce a comprenderli. In realtà Verga conosce benissimo il significato di quei concetti, e sa che anche il lettore medio riuscirà a comprenderli: l’operazione di farli spiegare in maniera errata è quindi intenzionale, direzionata a descrivere i personaggi del Romanzo come persone ignoranti, o comunque estranee al mondo borghese più alto, in cui quei concetti sono da tutti comprensibili. 3. Discorso indiretto libero. All’interno dei Romanzi spesso (specie nei Malavoglia) irrompe nella narrazione una voce che parla, che riflette sulle cose che stanno avvenendo. Chi è che parla? Solitamente gli interventi sono del narratore, ma non è questo il caso, perché manca il verbo reggente (disse che, pensò che): Verga vuole infatti rimanere lontano e nascosto, allora fa intraprendere discorsi a questa voce, che non è di un personaggio singolo ma è la “voce della gente locale”. Sì, Verga inserisce anche le “dicerie” che vengono spettegolate all’interno di un paesino siciliano, fa vedere il punto di vista della gente del posto, al riguardo delle azioni dei personaggi. Quindi in realtà commenti e giudizi su ciò avviene vengono fatti, ma non dal narratore! Sono i pensieri che direbbe la gente a proposito degli eventi narrati, a proposito delle azioni e dei comportamenti dei personaggi. La tecnica è finalizzata a far sembrare il romanzo “autonomo”, scritto da sé, come se prendesse vita da solo, visto che Verga non si rivela neanche un secondo. • Verga Novelliere: Vita dei Campi. Tutte queste caratteristiche si vedono nelle novelle che Verga scrisse tra il ‘78 e l’80, e che unì nella raccolta “Vita dei Campi”: sono Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Cavalleria Rusticana, La Lupa, L’amante di Gramigna, Guerra di Santi, Pentolaccia. In queste novelle si percepiscono a pieno le tecniche dell’impersonalità e del discorso indiretto libero: il narratore che parla non è Verga, ma è il popolo siciliano, la gente comune di quei paesini in cui si svolgono le novelle. La materia narrativa non è più filtrata attraverso le conoscenza linguistiche e narrative dell’autore, ma l’obiettivo è sembrare che sia fatta da un ignorante. Per questo si parla di “insurrezione lirica dei primitivi”: a descrivere l’ambiente in cui tutto si svolge sembrano essere dei primitivi personaggi estranei alla vita sociale comune, dominati da passioni elementari e comuni. E la voce del “narratore popolare” non delinea i personaggi con particolare simpatia, anzi, spesso gioca sarcasticamente sul tragico destino che li attende, ride delle loro disgrazie, non sembra provare sentimento o minima compassione nel momento in cui la lotta per la vita sta per schiacciare qualcuno. Questo perché Verga vuole far incarnare nella voce del naratore popolare la cruda mentalità retrograda del posto, non incline a tanti sentimentalismi, ma tosta, di chi soffre la fame: l’intento è far vedere quanto in realtà siano forti d’animo le persone che appartengono a questo basso mondo popolare, quanto sappiamo di più cosa sia la sofferenza rispetto alle frivole personalità borghesi, quanto sappiamo stare duramente al gioco della lotta per la vita. E così personaggi disgraziati e colpiti dalle cattiverie della voce della gente diventano eroi come il Garzone di Miniera Rosso malpelo, il quale, rosso di capelli, viene visto dalla gente come strano, come uno che vale poco, secondo superstizioni e mentalità retrograde di gente ignorante. • I Malavoglia. I Malavoglia, pubblicato nel 1880, è il primo dei cinque Romanzi che dovevano comporre la raccolta del Ciclo dei Vinti, e deriva da un bozzetto del ‘75 chiamato “Padron ‘Ntoni”. Secondo il programma del ciclo, si parla della storia dei vinti, partendo da quelli di ceto sociale più basso: si parla così dei Toscano, arcaica e tradizionale famiglia siciliana del piccolo paesino di Aci Trezza: si narra del suo graduale avvicinamento alla rovina, causato dal contatto del suo mondo arcaico e rurale, con le nuove trasformazioni del mondo borghese. La famiglia Toscano, chiamata Malavoglia in tono dispregiativo, secondo un uso popolare del tempo, è guidata dal vecchio padron ‘Ntoni: è lui che prende le decisioni più importanti, e che ne gestisce i beni, la loro casa detta “del nespolo”, e il loro peschereccio, “La Provvidenza”. La casa patriarcale e la barca da pesca sono i soli mezzi per Padron ‘Ntoni di mantenere in vita la famiglia, ma pian piano finirà per perderli: l’operazione imprenditoriale del commercio di un cargo di lupini, non propria del suo mondo rurale, finisce in una disgrazia. Una tempesta infatti fa naufragare la Provvidenza facendo così perdere ai Malavoglia sia il carico di lupini sia il mezzo della loro attività commerciale. A partire da questo evento una serie di sciagure colpiscono la famiglia di Aci Trezza. Padron N’toni finisce nella morsa dell’usuraio zio Crocifisso, che gli fa perdere la casa “del nespolo”. Il nipote ‘Ntoni, tornato dalla leva militare, si da ad una vita di dissipazione e contrabbando, rifiutando i valori tradizionali della sua famiglia basati sul lavoro e la dedizione, e finisce in carcere. La nipote Lia fugge a Catania e finisce per prostituirsi, mentre il nipote Luca muore nella battaglia di Lissa, del 1866. Il giovane ‘Ntoni, uscito di carcere, non riesce più ad immedesimarsi nei valori della “religione di famiglia”, e abbandona tristemente il suo paese. Il solo che riesce ad ottenere qualcosa di positivo è il nipote Alessi, l’unico che rimane sempre testardamente legato ai valori della famiglia e del lavoro, e con grande fatica, riesce a ricostruire la casa “del nespolo”. Per rappresentare questo mondo in maniera realistica ed obiettiva Verga si è attrezzato di una rigorosa documentazione al riguardo della vita dei pescatori siciliani, dei loro usi comportamentali e linguistici. Inoltre ha riproposto il principio dell’impersonalità e del discorso indiretto libero, mai intervenendo e giudicando nel romanzo, mantenendosi nascosto e lontano, e lasciando parlare un “coro”, un narratore popolare che finisce per identificarsi direttamente con la voce del paese di Aci Trezza, che commenta a giudica gli avvenimenti dei Malavoglia. Il coro di Aci Trezza si dimostra superstizioso e retrogrado, popolare e ignorante: e così commenta e giudica spesso con cattiveria e crudeltà, con aggressività e mancanza di commiserazione le sventure dei personaggi dei Malavoglia, che vede come artefici del loro tragico destino. Ma la vera morale dei malavoglia si scorge, visto che il narratore non si espone mai per dichiararla personalmente, attraverso i comportamenti dei personaggi e le conseguenze di essi. Tema centrale del romanzo è infatti il contatto del mondo rurale, immutabile e arcaico del paesino Siciliano, con in nuovo mondo Borghese, incarnato dallo stato unitario, fatto di libero commercio e libera concorrenza, della corsa ai soldi. In questo nuovo mondo capitalistico bisogna sbrigarsi, secondo Verga, a perseverare i propri affari, prima di finire schiacciati dai concorrenti vicini. I tentativi dei personaggi di avvicinarsi al nuovo mondo capitalistico e borghese si rivelano totalmente fallimentari: quelli del vecchio Padron ‘Ntoni, che finisce per perdere prima la Barca, con il commercio dei lupini finito nel naufragio, e poi la propria casa, schiacciato dai debiti, chiedendo un prestito all’usuraio Zio Crocifisso. Questo personaggio è tremendamente privo di scrupoli, agisce secondo le più crudeli e spietate leggi dell’economia e della convenienza, che finiscono per vincere contro il comportamento etico e morale di padron ‘Ntoni, che si comporta sempre seguendo il suo codice d’onore. Altrettanto fallimentare è il tentativo del giovane ‘Ntoni di trovare soluzioni al di fuori dei valori e della “religione” della famiglia, intraprendendo una parabola che lo porta prima alla dissipazione, poi al carcere, poi all’abbandono di Aci Trezza. L’unico che riesce a trovare una soluzione è il nipote Alessi: ci riesce perché rimane sempre testardamente attaccato ai valori della famiglia e della vecchia società arcaica. E’ proprio nell’esito di questa storia che troviamo la morale di Verga: chiunque ha cercato di passare dal vecchio mondo rurale e arcaico al nuovo mondo borghese e capitalistico ha fallito, ha trovato solo drammi e sciagure. Questo perché da questo nuovo mondo di libera concorrenza e mercato bisogna stare alla larga, coltivare e perseverare i propri beni e affetti familiari, per non venire schiacciati dal nemico che è dietro l’angolo. E’ l’ideale dell’ostrica, portato avanti dal solo Alessi, che infatti si dimostra l’unico, se pur con fatica, in grado di ricostruire l’importante casa patriarcale della famiglia Malavoglia. La bravura di Verga è stata proprio nel mettere sempre a confronto storia e mito: il mito è sempre velato dalla sua disgregazione, è consapevole che quel mondo che pur lui tanto ama, quello rurale e siciliano, è irreversibilmente inserito in un processo di disgregazione e trasformazione. Da questa tragica consapevolezza deriva la durezza del racconto, il realismo crudo e impassibile, che dichiara la morte della letteratura rusticana e villanesca. • Tra mondo contadino e cittadino, Le Novelle Rusticane, Per le Vie, il Marito di Elena. Le due raccolte novellistiche del 1883, Le Novelle Rusticane e Per le Vie, trattano rispettivamente del mondo contadino siciliano e di quello cittadino milanese. 1. Le Novelle Rusticane. In questa raccolta di 12 novelle datata 1883 Giovanni verga intende raffigurare il curdo e terribile mondo contadino catanese: la campagna è rappresentata con toni vivaci e potenti, crudi e selvaggi. La focalizzazione qui è tutta sul paesaggio e sul mondo sociale arcaico e tradizionale, che sta subendo una distruzione irreversibile. Si parla Federico De Roberto. • Vita e opere. Federico De Roberto nace a Napoli nel 1861 da padre ufficiale Napoletano e da madre nobile siciliana. Morto il padre quando aveva sette anni, Federico si stabilisce praticamente per tutta la vita a Catania, presso la madre, figura oppressiva autoritaria ed invadente. Subito attratto dal lavoro giornalistico, scrive per alcuni giornali locali e conosce nell’ambiente Capuana e Verga. Li segue quindi a Milano, città di maggior spessore culturale dell’Italia del tempo e qui viene inserito negli ambienti dei salotti borghesi e lussuosi milanesi. E’ qui che sviluppa il suo personale modo di fare narrativa e saggistica: la sua letteratura si compone di tre caratteristiche fondamentali, positivismo, autobiografia e analisi psicologica. E’ a Milano infatti che inizia a coltivare la sua passione per il positivismo e per una letteratura costantemente oggettiva, che analizza scientificamente la realtà ponendosi come scienziato positivo. D’altra parte però il tema che più tratta è quello dell’analisi psicologica dei suoi personaggi, ricerca come uno scienziato le causa dei turbamenti e dei drammi che li affliggono, drammi che sono il riflesso delle sue esperienze di vita, dunque inserisce in tutto questo quadro elementi autobiografici. Esordì in primis come narratore, pubblicando nel 1887 la raccolta novellistica “La Sorte”, subito seguita nel 1888 da “Documenti Umani”, in cui analizza sperimentalmente personalità particolari, “casi umani”. Continua sulla scia del positivismo fino al 1890 quando pubblica le due raccolte “Albero della scienza” e “Processi Verbali”: in quest’ultima raccolta spiega l’importanza della tecnica dell’impersonalità per raccontare in maniera oggettiva e imparziale gli eventi del reale. Per quanto riguarda la saggistica e il giornalismo pubblica le sue prime opere nel genere nel 1895, con “L’Amore. Fisiologia. Psicologia. Morale.” e poi nel 1890 con “Come si ama.” In questi scritti si comprende come l’analisi psicologica dei drammi interiori dei personaggi siano il riflesso del suo trauma più grande: il rapporto difficile e oppresso, quasi vampirico, con la madre, tutto analizzato sotto l’ottica positivistica. Ma gli scritti più importanti rimangono i romanzi: il primo, pubblicato nell’89, è “Ermanno Reali”, e tratta di un protagonista maschile che deve fare i conti con la propria immaturità sentimentale, fitto di riferimenti autobiografici. Maggior successo riscosse il secondo romanzo “L’illusione”, del 1891, che parla delle illusioni che prova la protagonista femminile nei suoi rapporti umani: corrosa da un’incessante analisi psicologica, il personaggio viene catturato e vinto dalle illusioni. • Senza dubbio il suo romanzo più importante è però “I Vicerè”, del 1894: Il romanzo ebbe una prima redazione nel 1892, poi corretta nel ‘93 e trovò la pubblicazione finale solo nel 1920. Viene trattata la storia della famiglia Catanese degli Uzenda, l’antica famiglia nobiliare di origine spagnola che comprendeva gli antichi Vicerè di Sicilia. Il romanzo è ambientato dal 1855 al 1882 e nonostante personaggi e fatti siano pura invenzione dell’autore, racconta con estrema attenzione tutti i fatti realmente accaduti nell’isola siciliana durante la dominazione borbonica. Il romanzo è dotato di un forte naturalismo: i fatti vengono infatti narrati da un punto di vista interno,e non quello particolare di una “fazione”, o di un personaggio, sono piuttosto le immagini che vedono e di cui chiacchierano le voci e le presenze del posto. Il luogo dove si ambienta il tutto è estremamente grande: dalla campagna Catanese alla città, al Palazzo sfarzoso degli Uzenda. La vita privata degli Uzenda si ripercuote così sul sociale, si riflette in scene di massa, e De Roberto delinea la “duttilità” di questa famiglia pronta a qualsiasi compromesso pur di riuscire a mantenere il potere che ha sempre esercitato nonostante le grandi trasformazioni in atto. Esempio massimo di ciò è la diversità delle due scene, socialmente e politicamente parlando, iniziali e finali del libro: all’inizio viene descritta la cerimonia funebre della vecchia principessa Teresa, il cui rituale rappresenta a pieno le modalità solenni dell’Antico Regime, alla fine il comizio, nell’ex convento di San Nicola, del giovane principe Consalvo, alla fine della campagna elettorale che lo farà diventare “deputato progressista” nel parlamento italiano. De Roberto raffigura un mondo crudo e privo di scrupoli, rappresenta la mentalità egoista di chi è abituato ad esercitare il potere ed è disposto a tutto pur di non perderlo. I componenti dell’Uzenda sono pronti a combattersi l’un l’altro, usano commettere prepotenze reciproche, ma al tempo stesso sono prontissimi ad unirsi contro un nemico comune, non per compassione o benevolenza, ma perché il potere di uno dipende da quello di tutti. E questa tendenza a contendere si manifesta anche dal punto di vista linguistico: la lingua della famiglia di spezzetta in tanti diversi linguaggi particolari dei singoli personaggi, che finiscono per farsi la “guerra” anche verbale tra loro. Ne deriva una forte “polifonia”, che non cela libertà e abilità di linguaggio, ma violenza e opportunismo. I personaggi-maschere, pronti a combattersi l’un l’altro ed unirsi contro un nemico comune, sono tutti particolareggiati nelle caratteristiche: il principe Giacomo, meticoloso e glaciale, esegue ogni azione molto razionalmente, mentre l’altro candidato all’eredità, Raimondo, è un cinico e senza cuore torturatore di esistenze femminili. Chiara, figlia della contessa, è ossessionata dalla ricerca della maternità, mentre Lucrezia desidera a tutti i costi un agiato borghese in ascesa, e una volta ottenuto, finisce per odiarlo ostinatamente. Lo zio, Don Blasco, è un benedettino e borbonico, pronto però a cambiare orientamento politico all’occorrenza: il suo opportunismo è dovuto al fatto che la fazione liberale gli avrebbe portato ingenti guadagni economici, e finisce quindi per inoltrarcisi esultando addirittura alla presa di Roma del 1870. Il Duca d’Oragua, liberale della famiglia, finisce per entrare in politica, non perché gli stia a cuore un sentimento nazionale, ma per fare carriera sociale e guadagnare: cinicamente si costruisce una grande fortuna infatti, attraverso una sistematica corruzione amministrativa. Esempio massimo dell’opportunismo degli Uzenda, è Consalvo, giovane rampollo che intraprende la carriera politica prima come sindaco e poi come deputato progressista, vincendo, usando ogni manipolazione per mantenere il potere che la sua famiglia ha sempre avuto. La trama tratta tremende trasformazioni storiche, narrate minuziosamente, ma le cose sembrano in realtà restare sempre le stesse: è far che cambi tutto senza che niente cambi. Rimangono sempre infatti un potere incentrato sulle classi agiate e quelle più basse che lavorano per loro. L’ossessiva lotta, quasi fole degli Uzenda, in realtà dà i suoi frutti: ed è proprio per questo che I Vicerè rivela una mentalità di De Roberto estremamente pessimista e rassegnata. Seguendo nozioni positivistiche De Roberto riprende la tesi dell’evoluzione della “Razza”: vede negli Uzenda il degenerare fino alla follia di una razza antica, l’aristocrazia, quella di chi è abituato a possedere il potere ed è pronto ad usare ogni mezzo per mantenerlo nelle sue mani. Dunque il pessimismo di De Roberto sta nel fatto che, nonostante la pazzia della famiglia, essa riesca alla fine a conservarlo il potere! La nuova politica non fa che riadattare i vecchi squilibri sociali nel nuovo mondo trasformato, non fa che ristabilire un padrone e i suoi sudditi, sotto nuovi falsi ideali e parole menzognere. Non c’è quindi nessun modello positivo, nessun personaggio che incarni valori giusti (come poteva fare il modello del romanzo, il Mastro Don Gesualdo): nel delineare i sotterfugi con cui mantenere il potere De Roberto dipinge un bislacco inferno fatto di momenti di follia e comicità scatenata. La caratteristica veramente rassegnata è il fatto che l’autore guardi questo mondo senza una soluzione, ridendo ironicamente sulla distruttiva demenza della gente, che non capisce cosa sta per avvenire. Siamo di fronte ad una delle prove di naturalismo critico e negativo più crude di fine ‘800: De Roberto non vede ottimismo nel nuovo mondo borghese. • De Roberto, dopo un viaggio a Roma tra il 1908 ed il 1913, in cui comincia il romanzo Imperio senza finirlo, passa l’ultima fae della sua vita vicino alla madre, ormai vecchia, morendo poco dopo di lei, nello stesso 1927. Antonio Fogazzaro, un rinnovatore del cattolicesimo. • Vita e opere. Antonio Fogazzaro nasce nel 1842 da famiglia borghese e aristocratica, ricca e altolocata. Cresciuto con un’educazione cattolica, dovuta a membri religiosi della sua famiglia, Fogazzaro passa i primi ani della sua vita tra Vicenza e un paesino sul lago di Lugano, Valsolda, terra nativa della madre. Iniziati gli studi di legge nell’università di Padova, la famiglia Fogazzaro si trasferisce a Torino in seguito agli eventi del 1859-60 che non garantivano a primo impatti la liberazione del Veneto dagli austriaci. Nel 1866 Antonio sposa la ricca contessa Margherita di Valmarana e con lei si stabilisce a Vicenza praticamente per tutta la vita. La sua storia matrimoniale è continuamente turbata da rapporti passionali e segreti con nobili donne intellettuali, delle quali l’eco è presente in molte delle sue opere. Ma prima di parlare della sua produzione letteraria parliamo in generale del suo pensiero Fogazzaro nacque e crebbe in un ambiente altolocato, ricco, borghese e aristocratico, con tendenze cattoliche. Ma lui fu anche un grande uomo di cultura a 360°, e venne a contatto con i grandi precetti nati dalla nuova letteratura europea: aderì al positivismo ed al naturalismo. Il suo intento letterario era quindi trovare una “convivenza”, una conciliazione tra il cattolicesimo e le nuove scoperte della scienza. Obiettivo difficile da raggiungere visto che la scienza contraddiceva gran parte del dogmatismo religioso cristiano: prese quindi dal cattolicesimo solo gli aspetti meno retrogradi e radicali, puntando ad un cattolicesimo moderato e non “clericale”, quindi non legato all’istituzione della Chiesa che lo rappresenta. La grande formazione intellettuale di Fogazzaro gli permise di sviluppare anche un pensiero politico: era incline alla democrazia, e nonostante appartenesse alle classi alte, si interessò di parlare dei diritti di quelle più umili, specie dei contadini. Politicamente e ideologicamente Fogazzaro propendeva quindi per un rinnovamento del cattolicesimo, un cattolicesimo che doveva essere moderato e democratico, ideale che poteva essere rappresentato da un partito politico (come dice nel “Daniele Cortis”). Tutto questo mondo lo inserì nella sua attività letteraria, che inizia a partire dal 1874,quando pubblica la novella in versi “Miranda”. A seguire il genere che più amò, il romanzo, prima con “Malombra”, nel 1881, poi con “Daniele Cortis” nell’85, e poi “Il mistero del poeta”, dell’88. Ma il successo più grande lo raggiunse con il romanzo “Piccolo mondo antico”, del 1895, scritto in seguito alla morte del figlio Mariano. Il suo modo di raccontare è estremamente naturalistico, ma nel ritrarre la realtà lui si attacca spesso al pathos, al sentimentalismo e spesso si dimostra lievemente romantico: il naturalismo e la realtà è tutta descritta in relazione agli stati d’animo e alla psicologia controversa dei suoi personaggi. Un passo successivo nei suoi romanzi lo ottiene con l’adesione al modernismo: la voglia di conciliare scienza e cattolicesimo si traduce in una visione del tutto nuova, moderata e improntata al futuro. Questa è la linea di pensiero che lo porta a scrivere prima “Piccolo mondo moderno”, nel 1900 e poi “Il Santo” nel 1905. Quest’ultimo romanzo fu messo all’indice dalla Chiesa, così come il suo ultimo scritto, del 1911, “Leila”. Nello stesso 1911 Fogazzaro muore in seguito ad una malriuscita operazione chirurgica. internazionale, Jeane Dessalle. Pietro rappresenta l’ennesimo prototipo di personaggio maschile di Fogazzaro: è dotato di una psicologia contraddittoria, è turbato, perché tenta di dimostrare e divulgare ideali e valori etici, in questo caso per il bene della Chiesa, senza riuscirci mai soddisfacentemente. Ideali che assumono più importanza, nella vita di Piero, alla morte della moglie, dopo la quale il protagonista si chiude in una vita ascetica e religiosa, mirando a una riforma “moderata” della Chiesa. 2. “Il Santo” (1905) è il secondo romanzo del ciclo, che punta a riformare “moderatamente” la Chiesa. Protagonista infatti, è sempre Pietro Maironi, che ha seguito fino in fondo la strada dell’ascesi e della vita religiosa, facendosi monaco, sotto il nome di Benedetto, all’Abbazia Benedettina di Subiaco. Lì è in contatto con alcuni religiosi dell’Abbazia, in particolare Giovanni Selva, con il quale condivide idee “moderniste” al riguardo della riforma della Chiesa. Prendendo importanza nell’ambiente, è inviato a Roma, dove ha un incontro direttamente col Papa e i massimi esponenti del Clero: spiega loro la sua idea di progetto di riforma religiosa, improntata sul futuro, sul filtrare dal cattolicesimo gli aspetti che vanno maggiormente contro alla cultura del tempo. Ma l’idea non è per niente condivisa, ed anzi viene duramente ostacolato dai cattolici più retrivi e dalle stesse autorità dello Stato Laico. Quindi finisce per morire ammalato, durante una simbolica febbre, durante la quale gli appare l’amata Jeanne, in un supremo scambio spirituale. Il tono del romanzo è estremamente alto e rarefatto, quasi sublimato: segno del fatto che lo stile rispecchia il tema impegnato, appesantendolo spesso. Si delinea qui la figura del “Santo”, prototipo e modello di vita che si contrappone legittimamente al superuomo di D’Annunzio, imponendosi comunque come figura autoritaria e dotata dei suoi valori, ma per niente aggressiva e superba. Le figure femminili sono invece contraddittorie e schive, vivono nel dubbio e nell’incertezza. 3. “Leila” (1907) è l’ultimo di questo ciclo di romanzi, e presenta stavolta un protagonista femminile: di lei è innamorato Massimo Alberti, discepolo dell’ormai defunto Pietro Maironi. La fede del discepolo Benedettino Massimo sta passando però un momento di crisi e come se non bastasse le sue idee riformiste e moderniste del cattolicesimo gli hanno garantito l’inimicizia del clero più retrivo e conservatore. Anche Massimo è prototipo di personaggio maschile ambiguo, mai soddisfatto, ispirato a dire la verità e questo senso di contraddizione psicologica, di aspirazione all’impossibile non svanisce neanche durante il lieto fine, in cui Massimo ritrova la fede e si sposa con Leila. I Romanzi di Fogazzaro volevano dar voce all’insoddisfazione ed al malessere della nuova civiltà post unitaria, che si trovava in bilico tra le estreme ideologie conservatrici cattoliche e le nuove idee della scienza, del positivismo e le conseguenze dell’illuminismo. Grazia Deledda. • La Sardegna di Grazia Deledda. Grazia Deledda nasce a Nuoro nel 1871, da una famiglia benestante borghese. Qui inizia a interessarsi subito di letteratura e già nel 1888 pubblica alcuni romanzi, alla precoce età di diciassette anni. Trasferitosi a Roma nel 1900, pubblica qui il primo di una lunga serie di Romanzi, “Elias Portolu”. Ma il successo maggiore lo trovò prima con “Edera”, del 1906, e poi con “Canne al vento” del 1913, il quale parla di una tragica storia di una famiglia baronale ridotta in povertà e del cammino di espiazione del servitore Efis il quale ha involontariamente ucciso il vecchio barone capostipite della famiglia. Il grande successo riscosso dai suoi romanzi le garantì il Premio Nobel per la letteratura nel 1926. Morì a Roma nel 1936. Le ambientazioni dei romanzi di Deledda sono quasi tutte sarde: le piaceva tantissimo raffiugurare la brulla e selvaggia campagna sarda, un mondo duro, ruvido, rurale e improntato sul lavoro: vigevano qui millenari ideali e valori contadini e arcaici, conservatori e spesso ignoranti. L’incontro di questo mondo con le nuove ideologie della mentalità borgehse è uno dei temi centrali delle sue opere. Questa ambientazione, che finisce per riguardare le classi più povere come i contadini, avvicina i romanzi di Deledda al verismo: c’è la raffigurazione naturalistica, ovvero si segue la logica della natura, ma manca l’esigenza di oggettività, non viene tutto analizzato scientificamente come l’autrice fosse una scienziata positiva. Deledda desiderava semplicemente ridurre le distanze tra la logica del nuovo mondo borghese e dei nuovi ideali della letteratura europea e quella del suo nativo mondo rurale e contadino. Questo contrasto è reso spesso, nei suoi romanzi, in situazioni in cui i personaggi finiscono per assumersi una “colpa” e per scontare una pena: lo sconto di una pena è secondo Deledda necessario. E parla di scardinare ideali arcaici, grandi tabù della tradizione, quasi ossessivamente. I personaggi in questa ancestrale Sardegna vivono un dramma affettivo ed etico, sentono il malessere scaturito dai nuovi cambiamenti, e l’ambientazione diventa così teatro dell’anima. La sua narrazione si svolge infatti quasi “ fuori dal tempo” , come se la sua Sardegna fosse un ideale isola lontana. Tutto questo mondo è tinto da forti toni patetici, che avvicinano Deledda al polo opposto del verismo, il Romanticismo. Gabriele D’Annunzio e l’Estetismo. • Il tempo dell’estetismo. Negli anni ‘80, accanto al positivismo ed al naturalismo, si sviluppò in Italia anche quel filone avviato in Europa che ci configurava come “decadentismo”. Questo filone andava contro la materiale e utilitaria società borghese, voleva rivendicare il valore dell’arte come bene assoluto. Sulla scia di queste convinzioni un nutrito gruppo di intellettuali dichiara guerra all’utilitarismo della società borghese e rivendica, in chiave classicista, l’importanza e il valore dell’arte. L’Estetismo si configura così, grazie a Gabriele D’Annunzio, il suo esponente italiano più importante, come filone della ricerca continua della bellezza, significa vivere la vita come se fosse un’opera d’arte, inseguendo i piaceri, gli sfarzi i lussi, un’esistenza frivola e capricciosa. L’esteta ama consumare i beni dissipandoli senza ricavarne niente che non sia piacere carnale: è una lotta contro l’utilitarismo borghese, che vedeva ogni bene materiale come utile, come merce da vendere, capitale, soldi da investire, mentre l’esteta preferisce ricoprirsi di beni inutili e fini a se stessi, da consumare, dissipare, godersi. Si spoglia inoltre delle tendenze anarchiche ed autodistruttive degli Scapigliati, che nella loro rivendicazione dell’arte come bene supremo, finivano per negare loro stessi nel ruolo di artisti. Accanto alla componente filosofica ed ideologica l’estetismo si avvicina a precisi orientamenti politici: si esalta il patriottismo, la potenza militare e virile della nazione, si attacca la mollezza d’animo e la corruzione della politica, si disprezzano le masse e si cerca un’elìte aristocratica che imponga la forza della propria nazione. L’estetismo si propone poi di impadronirsi di un una fetta di mercato, che la borghesia sta prendendo tutto per se. Grandi collaboratori per lo sviluppo dell’Estetismo a Roma furono le due riviste “Cronache Bizantine” di Angelo Sommaruga e “Il Convito” di De Bosis, che prima ripresero precetti del classicismo Carducciano, e poi si dedicarono alla divulgazione dell’estetismo, che voleva restaurare i fasti di Roma, la sua potenza arcaica, una città ora sospesa tra memoria della sua mitica potenza e decadenza di fronte alle nuove trasformazioni borghesi, tanto che fu paragonata a Bisanzio, capitale del declino imperiale. • Vita e opere di Gabriele D’Annunzio. Gabriele D’annunzio nasce a Pescara nel 1863 da una famiglia di benestante borghesia. Il cognome D’Annunzio lo eredita dal suo ricchissimo zio, il quale, nella giovinezza, aveva adottato il padre del futuro poeta. Durante gli studi liceali presso Prato, nel 1879 pubblica la sua precocissima raccolta poetica, “Primo Vere”, in cui già si denotano i caratteri della sua esuberante personalità: dimostra una certa smania di primeggiare, di imporsi, di distinguersi e farsi valere per le proprie qualità. Diplomatosi nel 1881, si trasferisce a Roma per studiare lettere, ma non finirà mai gli studi: qui comincia a collaborare con nuove e importanti testate giornalistiche, tra cui “Cronaca Bizantina”. Mentre acquisisce sempre maggiore popolarità, impronta già dalla giovinezza la sua vita sulla ricerca del lusso, del piacere, sommerso dagli sfarzi, comincia già a praticare l’estetismo vivendo la sua vita all’insegna della bellezza, come se fosse un’opera d’arte. Impegnato tra giornalismo e letteratura, nel 1883 sposa la duchessina Maria di Gallese, con cui scappa viste le opposizioni della famiglia di lei. Il concentrato di tute le glorie, le passioni, i piaceri e gli sfarzi della sua giovinezza romana li inserisce poi nel suo primo romanzo importante, “Il Piacere”, che pubblica nel 1889 e che è pieno di risvolti autobiografici. Tra l’89 ed il 90 si iscrive alla leva militare e apre un rapporto passionale con Barbara Leoni, ma nel ‘91 sommerso dai debiti è costretto a fuggire da Roma e si stabilisce a Napoli. Qui, dopo aver lasciato la sua sposa Maria di Gallese, intraprende una relazione con Maria Gravina: la donna lascia il marito, ufficiale della marina, e partorisce un figlio di Gabriele, che costerà ai due nel 1893 una condanna per adulterio. A Napoli mentre lavora per la rivista “Il mattino”, prima pubblica la raccolta poetica “Poema Paradisiaco”, nel 1893 e poi tocca il culmine massimo del suo impegno nel genere del romanzo, pubblicando “Il Trionfo della Morte”, nel 1894. Ormai acquistata la fama di più importante letterato emergente in Italia, ambizioso di proiettare la sua vita sfarzosa e all’insegna dell’arte e del bello oltre la dimensione mondana, sposa nel 1885 la famosissima attrice Eleonora Duse. La relazione dei due, sempre sotto i riflettori, è compromessa dal secondo figlio che Gabriele ha con Gravina. Ma fino al 1903 i due consumeranno un passionale amore: a questo anno risale l’apice del successo D’Annunziano nella poesia, con la pubblicazione delle “Laudi”, e poi anche nel teatro, con la sua più fortunata tragedia, “La figlia di Iorio”. Nello stesso anno lascerà Eleonora Duse per consumare altre due relazioni con donne dell’alta aristocrazia. Abbandona poi, nel 1910, anche queste relazioni per fuggire a Parigi con una nobile russa: qui, mentre vive il periodo della Belle Epoque Internazionale, pubblica il romanzo “Forse che si forse che no”, nello stesso 1910. Ma poco dopo scoppiò la guerra mondiale, evento che lo rivitalizzò e lo ispirò in un ruolo di protagonista. L’autore vide l’occasione perfetta per dimostrare e praticare quei valori e modelli di vita di cui aveva parlato nelle sue opere: imporsi in quanto uomo più grande degli altri, il concetto del “superuomo” che riprese dal filosofo Nietzsche, l’abilità di distinugersi e sopraelevarsi, della razza italiana rispetto alle altre, quindi tutti concetti di esaltazione 4. La raccolta “Isotta Guttadauro, e altre poesie” del 1883, venne smembrata nel 1890 in due raccolte, “Isotteo” e “Chimera”. Entrambe le raccolte riprendono dai modelli più disparati della tradizione sia italiana sia classica: vengono riproposti modi di fare degli autori del passato, nel presente, temi e forme che convergono tutti in una rappresentazione erotico- mondana della realtà. Isotteo è una splendida ripresa tutta particolare dei modelli medievali. D’Annunzio ripropone forme dello stilnovo, e degli autori trecenteschi e quattrocenteschi, (specie ballate) per rappresentare l’erotismo cortigiano del mondo feudale: l’obiettivo è rappresentare il lusso e la tendenza all’erotico sfarzo degli ambienti altolocati dell’aristocrazia italiana, che sono rimasti molto simili nel tempo. Chimera tratta invece figure e forme estremamente ambigue, anticonvenzionali, innovative e ricercate: figure-simboli come amore e morte, ma anche figure vere e proprie come pantere e levrieri, mostri che raffigurano valori opposti, come il fascinoso ed il deforme. Tutto ciò a delineare con Chimera la rappresentazione poetica dell’arte figurativa, della “forma”, più che del contenuto, in un modo di fare che sembra quasi riprendere il Marino del Barocco. Infatti qui c’è un forte compiacimento per le parole insolite, e per le eleganti ricercatezze di stile, che compongono l’opera: i significati non vengono infatti da veri e propri discorsi, ma da figure opposte, da emblematiche parole-simbolo. 5. “Elegie Romane”, del 1892, sono invece una raccolta poetica estremamente classicista, più normale e conforme alla tradizione. Sul modello delle elegie di Ghoete, D’annunzio ripropone il classicismo carducciano usando ancora uno schema metrico barbaro: durante un elegante colloquio amoroso, vengono descritti vaporosi e passionali paesaggi, in un alone quasi rarefatto. 6. Al 1893 risalgono invece le “Odi Navali” esaltazione eroica della potenza italiana tutta incentrata nella descrizione di oggetti industriali: in questo caso le navi da guerra, immagini della grande potenza distruttrice della Marina Italiana. 7. Poema Paradisiaco, del 1893, consiste in un grande cambiamento poetico di D’Annunzio: nella raccolta infatti il poeta parla con toni meno aggressivi, più smorzati e dolci, più affettuosi e intimi, come se stesse parlando all’interno di un ambiente sicuro e familiare. Anche il metro rispecchia la dolcezza e tranquillità dei toni: si usa ora un lentissimo endecasillabo sciolto, dalla scadenza lunghissima, quasi prosastica: cosa è cambiato? D’annunzio vuole ora rappresentare le nuove ideologie che gli provenivano dalla letteratura contemporanea, specialmente dal Pascoli: il simbolismo. Questa pacatezza e doclezza delle forme è utilizzata infatti perché ora il poeta desidera raggiungere realtà segrete, nascoste, “paradisi inaccessi”, vuole superare il mero limite dei sensi, il muro di ciò che è visibile e tangibile, per arrivare a significati e simboli più profondi. E’ un po’ quello che stava compiendo Pascoli con la poetica del fanciullino, e ora D’Annunzio sembra accostarsi a lui, nella ricerca simbolica di echi più profondi della realtà materiale. • Il Romanzo della Roma Bizantina, Il Piacere. Il Piacere fu il primo romanzo di D’Annunzio, in quattro libri, e lo pubblicò nel 1889. Al centro del romanzo c’è il protagonista Andrea Sperelli: nonostante il romanzo sia narrato in terza persona, Sperelli è con tutta probabilità l’alter ego di D’Annunzio, vista la miriade di risvolti autobiografici nel libro. Andrea Sperelli è un uomo affascinante, ricco e aristocratico, che ama circondarsi di lussi e piaceri. Questo atteggiamento gli viene dal padre e dall’ambiente nobile dove è cresciuto: l’educazione del padre si incentrava infatti nel far vivere il figlio come un’opera d’arte, sempre dominando e prendendo decisioni, essendo il solo artefice del suo destino. Ed è quello che Andrea Sperelli compie, circondandosi di lussi e sfarzi, piaceri e consumi di voglie: questi comportamenti, assunti con una certa altezzosità, ricoprivano Andrea di un alone di fascino, di gusto e carattere. E’ come se tutto gli fosse dovuto, perché da sempre il protagonista è abituato a quei piaceri, e dunque la mondanità di D’Annunzio si riflette in Andrea in pura eccezionalità, in un modello di distinzione e potenza. Anche il suo ambiente riflette il suo modo di vivere: Sperelli vive nel lussuosissimo palazzo Zuccardi, Cinquecentesco , a Roma, dove possiede una miriade di opere d’arte e di oggetti raffinati e preziosi. Nonostante la sua volontà sia quella di di progettare un’opera d’arte singola e assoluta, è continuamente attratto da tutte le altre piccole bellezze,prime fra tutte le donne, esempio di bellezza massima. A proposito di donne, passiamo alla trama: il romanzo si apre con Andrea che incontra un suo vecchio amore giovanile, Elena Muti, la quale ora è sposata con un ricco e vizioso nobile Inglese: alla sua vista, Andrea ripensa alla passata relazione con lei (ritorno al passato che D’Annunzio rende con un flashback, dirompente tecnica per l’epoca) e gode nel ripensare ai passionali momenti passati con questa donna, aggressiva e femminile, erotica e potente. Al ricordo di Elena, Andrea Sperelli prova a riallacciare un rapporto con la donna che però lo rifiuta: sdegnato, Andrea si rifugia allora nella sua solita vita di lussi, di sfarzi e capricci, di mondano consumo di bellezza e piaceri. Ma un giorno, dopo essere stato ferito in un duello, viene ricoverato presso un castelli nobiliare di una sua cugina, palazzo chiamato allegoricamente “Schifanoia” ( ritrae la vita nobiliare). In questo Palazzo incontra la giovane Maria Ferres, donna dolcissima, elegante ma minuta, raffinata e timida, dotata di una femminilità estremamente gentile e graziosa, l’esatto contrario di Elena Muti. Intrapresa una relazione con lei, Andrea si ritrova pervaso però dalla voglia di avere anche Elena, che nel frattempo si è concessa ad un altro amante: ottenebrato dalla gelosia, mentre sta per salutare Maria prima di un lungo viaggio, pronuncia spontaneamente (in un lapsus Freudiano) il nome della più amata Elena. Il Romanzo si chiude quindi nella tragica scena dello scambio di persona, che può essere anche però inteso come scambio di piaceri: Elena e Maria sono infatti per Andrea piaceri da consumare, e vuole consumarli entrambi, essendo abituato nella sua vita da esteta a dominare e possedere tutto. D’Annunzio raffigura infatti lo Sperelli come una figura priva di freni inibitori, incapace di dar freno alle sue tentazioni, una persona che non ci pensa due volte a commettere azioni anti-etiche, o vili moralmente, pur di consumare i suoi piaceri, di dar soddisfazione alle sue voglie. E le due donne si configurano proprio come soddisfazioni, come voglie, che il protagonista vuole entrambe, nell’arrendevolezza del suo animo, nel suo essere qualcuno che si abbandona alle “fantasmagorie del suo io”: le fantasmagorie del suo io non sono altro che le voglie, le sue perversioni al riguardo delle donne, che sono contemporaneamente di possessione ed erotismo. Andrea vuole possederle entrambe infatti sia per piacere fisico, consumandone rapporti sessuali, sia per piacere psicologico, affermando il suo atteggiamento di dominio e superiorità, di comando, tipico della società nobiliare. In tutto questo quadro l’estetismo ottiene il risultato sperato: è piena critica dell’utilitarismo borghese, è rifiuto dell’arte come merce, come capitale economico, è rifiuto del prezzo attribuito a ogni tipo di bellezza figurativa. E questa rivincita viene effettuata consumando ogni bene, senza mai rivenderlo, conservando ogni opera nel proprio piccolo museo: la galleria di immagini di lusso attacca con aggressività il capitalismo borghese e l’arte della “Kitsch”, parola tedesca, che letteralmente significa “spazzatura”, utilizzata nel 1860 per definire tutte le forme d’arte mercificate, ridotte a capitale, prodotte industrialmente e prive di ogni ricamo o abbellimento artigianale, e in quanto tali finalizzate solo al mercato e alla vendita. E’ contro tutto ciò che D’Annunzio lotta, esaltando il suo eroe Sperelli,e dotando la materia narrativa di una sintassi facile, lineare e dominata dalla paratassi, ma impreziosendo il suo lessico con parole raffinate, rare e ricche. • La novella di Giovanni Episcopo, L’Innocente e Il Trionfo della morte. Il successo ottenuto con il piacere spinse D’Annunzio a scrivere altri romanzi: 1. Il secondo tentativo fu un romanzo, ideato già a partire dall’89, che doveva essere nominato “L’Invincibile”, e che trattasse delle turbe psicologiche di un protagonista. Aspetti che lo spinsero a continuare la via del romanzo furono le idee ricavate dal romanzo psicologico francese e dalla narrativa russa: temi che voleva approfondire ora erano i turbamenti e i drammi della psiche dovuti alla conformazione della nuova società borghese. E su questa linea si mosse nella prima stesura dell’Invincibile, che ritraeva lo spunto autobiografico dell’amore per Barbara Leoni, ma il romanzo non fu pubblicato: difficoltà interruppero il lavoro, e allora D’Annunzio scrisse e pubblicò una novella, nel ‘92, con un protagonista molto simile a quelli del sottosuolo di Dostoevskij. Ora il personaggio è una figura delittuosa, Giovanni Episcopo incarnazione dell’invidia, che racconta come ha ucciso un suo amico che lo umiliava e dominava. 2. Sulla scia del personaggio delittuoso russo, nel 1892 pubblica il suo secondo romanzo, “L’Innocente”, presso il Corriere di Napoli. Il personaggio delittuoso ora è Tullio Hermil, nobile e lussuoso intellettuale romano, che in questa città vive una vita frivola ma è sempre estremamente conscio delle sue passioni, e delle sue potenzialità intellettuali. D’Annunzio analizza di Tullio i processi della psiche, il consolidarsi di turbamenti relativi a ciò che gli accade nella vita. Dopo essersi sposato, trascurò e tradì la moglie Giuliana, allontanandosi dal lei. Ma quando si riavvicina a lei la trova incinta di un altro uomo. Tullio prova con tutti gli sforzi ad accettare la situazione e a ricreare un ambiente familiare con Giuliana: si trasferisce con lei in una villa in campagna dove nasce il figlio. Ma in realtà nel suo subconscio Tullio Hermil cova una risentimento enorme per l’azione commessa dalla moglie, e non riesce ad amare il figlio, anzi anzi comincia a provare un odio sempre più incontenibile verso l’innocente neonato. Convinto del rifiuto per quel mondo familiare ricostruito, che mai sarà pienamente amato da Tullio, il protagonista si fa infanticida: lascia il morire il figlioletto al freddo durante una notte d’inverno. Il sentimento qui analizzato è il rancore, che emerge dalle situazioni sociali e che se anche si cerca di combattere, pensando sia ormai passato, finisce per manifestarsi inesorabilmente, essendo segretamente custodito nelle parti nascoste della psiche. Si svolge così la tematica della doppiezza: da una parte il buon senso di un grande intellettuale che mai commetterebbe questa nefasta azione, dall’altra la forza inarrestabile della volontà, del sentimento, l’impetuosità del carattere, che finisce per imporsi sul primo. 3. “Trionfo della Morte” è il suo terzo romanzo, pubblicato nel ‘94 e articolato in sei libri. In realtà il Tironfo della morte è solo il titolo alternativo che D’Annunzio utilizzò per il già prodotto romanzo “L’Invincibile”: con il cambio del titolo avvennero anche numerosi cambiamenti testuali. Ora si parla infatti del nobile abbruzzese Giorgio Aruspa, che si trova sempre in bilico tra grandi aspirazioni di vita, grandi potenzialità creative e intellettuali, e la continua ed incessante ansia della sua morte, il cui pensiero lo sgomenta, ne blocca le aspirazioni e la vitalità artistica. Questa analisi della psicologia del personaggio ricorda molto il protagonista-tipo del Fogazzaro, sempre insoddisfatto perché non riesce a raggiungere i suoi sogni. Qui infatti Giorgio Aruspa è comunque un esteta molto simile ad Andrea Sperelli, ma è privo da qui del suo gusto della conquista, della sua forze irrefrenabile. La donna di Giorgio è Ippolita , erotica e mondana, che corrisponde al riferimento autobiografico di Barbara Leoni. Con Ippolita Giorgio pensa di poter soddisfare il suo intellettuale desiderio di assoluto, ma non ci riesce: in lei vede solo una sensuale divoratrice dei suoi sforzi e della sua “linfa artistica”, una “nemica” che blocca e insterilisce la sua attività costruttiva. Tentando di risolver la situazione si trasferisce con lei nel suo paese natale dove stare con la famiglia: ma si rivela un fallimento, anche qui le sue aspirazioni sono irrealizzabili, nessuno percepisce il valore dell’intellettuale, e ricorda solo il malsano rapporto con il padre. Scappato anche da qui dunque, durante una vacanza a San Vito percepisce tutta l’estraneità e l’avversità del mondo popolare, ai suoi occhi intellettuali: definisce il mondo contadino come “cieca superstizione” e “rude semplicità”. ispirazione offre al poeta anche l’ambiente Veneziano: il romanzo è suddiviso in due parti proprio relative alla descrizione del paesaggio. Nella prima parte trova ispirazione dai colori di Venezia, dalle sfumature dei suoi bagliori autunnali, nella seconda invece, la trova ne “l’Impero del Silenzio”: qui si rappresenta infatti la pace, l’infinito, l’eternità che domina il silenzio dei giardini chiusi, degli ambienti abbandonati della Venezia dell’800. Gli echi musicali che rende attraverso la prosa poetica si instaurano tra Stelio e Foscarina, tra Stelio e Venezia, lasciando trasparire angoscia solo nella rappresentazione delle sensazioni interne della donna: in lei c’è aggressività sorda e risentita, specchio della figura di Eleonora Duse. 3. “Forse che si forse che no”, pubblicato nel 1907, proveniva dal progetto originario di una lunga novella, divenuta Romanzo. Il protagonista, Paolo Tarsis, è ancora alter ego di D’Annunzio, nonostante la narrazione sia in terza persona. L’innovazione ora nella figura di esteta D’Annunziano è il risvolto eroico e sportivo: ora Paolo cerca autoaffermazione eroica di se non nell’arte bensì nei nuovi mezzi della tecnica, l’aeroplano e l’automobile. Abile pilota, Paolo è incarnazione dell’uomo superiore che sa cavalcare le scoperte della scienza, che sa stare ai ritmi della nuova velocità estrema, folle, sovra umana. Nel suo saper utilizzare questi nuovi mezzi tecnici, Paolo eleva se stesso a una condizione mitica ed eroica: nella sua abilità si scorge un eroismo antico, classico, latino, ora rivitalizzato nel presente. Paolo è però ostacolato dai limiti sociali che pian piano cercano di ridurre la sua esistenza al malsano, all’insoddisfazione: il riferimento chiaro qui è all’autore inglese Swimburne, decadente. Le manifestazioni concrete di questi ostacoli sono i personaggi che costellano le scorribande ambientate a Mantova e nel paesino di Volterra: prima fra tutte le personalità dissipatrici e deleterie è l’amante Isabella Inghirami, senhal della sua vera donna Giuseppina Mancini. Isabella è come Giuseppina sadica e perversa, estremamente priva di freni emotivi e quindi molto erotica, ma comunque estrema: la sua tendenza a lasciar senza freni il suo erotismo la porta a un rapporto incestuoso con il turbato fratello, e infine alla follia (così come folle divenne Giuseppina Mancini). Il ripetersi di situazioni nefaste e di scorribande che consumino le energie dei personaggi tocca all’inizio anche Paolo, che sembra perdere vitalità, essere trascinato nel turbamento e nell’insoddisfazione. Ma il superuomo devoto alla tecnica e alla velocità riesce a distanziarsi da tutti coloro che lo frenano, che lo peggiorano, che ne risucchiano la linfa vitale, in primis l’amante Isabella, così da potersi cimentare completamente nelle sue eroiche imprese. Il mondo industriale qui è velato da erotismo e eroismo, da descrizioni sacrali e solenni. • Il teatro di D’Annunzio. Ispirato dal progetto del personaggio principale del Fuoco, di creare una forma d’arte massima, D’annunzio si impegnò realmente nel teatro: il suo obiettivo era fare un teatro nuovo, potente della musica e della parola, in cui spiccassero le nuove idee del superuomo, dello schiacciamento dei deboli e dell’innalzamento del vigore dei latini, stirpe nobile, superiore, destinata a governare. L’immagine di questo suo nuovo vigoroso teatro la evoca Fuoco, in cui Stelio parla dell0impetuoso gesto di Perseo, che taglia la testa della gorgone Medusa, innalzandola come fosse un trofeo: è quella vittoriosa immagine che D’Annunzio vuole inserire indelebile nella mente del lettore, che vuole incitare a salire sempre più sulla vetta, a non avere ostacoli, a diventare “superuomo”. 1. La prima opera teatrale di successo fu “Città morta”, scritta nel ‘96 e rappresentata per la prima volta a Parigi nel ‘98: il ruolo femminile nella vicenda doveva essere di Eleonora Duse, ma i rapporti con l’amante-attrice andarono spezzandosi e così affidò la parte alla più celebre attrice francese dei tempi, Sarah Bernhardt. Città morta è ambientata nella Grecia moderna, presso le rovine di Micene: qui l’archeologo Leonardo scopre le tombe degli Atridi (scoperta effettuata veramente nel 1876), ma prova un incestuoso amore per la sorella Bianca. Accecato dalla gelosia, uccide Bianca per sottrarla all’amore dell’amico Alessandro, e alla scena assiste inerme e patetica la povera Anna, personaggio cieco. In Città morta, in 5 atti in prosa, si mischiano le caratteristiche del teatro classico con quelle del teatro Borghese: nella Grecia che già di per se ha riferimenti enormi nel teatro, D’Annunzio ambienta una situazione contemporanea, ma la permea di stereotipi e di motivi tipici del teatro classico greco, come la cecità e l’incesto, entrambi presenti per esempio in Edipo Re. Lo scenario di fondo è arido e desertico: questa aridità sta a rappresentare l’inesistenza del cambiamento, la ciclicità della storia e della vita, rappresenta un misteriosa forza che costringe i personaggi a ripetere le nefandezze e i drammatici gesti delle tragedie greche classiche. 2. “La Gloria”, del ‘99, rappresenta al meglio le nuove aspirazioni politiche di D’annunzio aderenti alla filosofia del superuomo. La vicenda narra del programma politico rivoluzionario del Superuomo Ruggero Flamma: dopo aver animato bande armate, nella Roma moderna Flamma fa combattere la sua organizzazione paramilitare per un cambiamento radicale dei poteri forti. Ma la conoscenza di una donna satanica e fatale, la Bizantina “Comnea”, lo portano ad esagerare nell’uso della violenza: finisce così per essere rinnegato dalla sua stessa gente, a cui verrà esibita la sua testa mozzata. 3. “Francesca Da Rimini” del 1901, assume le forme della tragedia storica romantica e tratta infatti con vocabolario estremamente ricercato le vicende di donne lussuose e sensuali all’interno della fase di transizione tra Medioevo e Rinascimento. Tra istinti barbarici e passioni fortissime, in un mondo dove la razionalità del superuomo ancora non aveva preso il sopravvento, si dava totale sfoggio alle emozioni forti, alle passioni, senza freni in un’ossessiva retorica dell’erotismo che sfociava nella violenza: violenza spogliata della sua tragicità e votata totalmente alla sua componente spettacolare ed emozionante. 4. “La Figlia di Iorio” del 1904, è forse la tragedia migliore di D’Annunzio. Ambientata in un Abruzzo naturale, selvaggio, aspro e violento, nella tragedia in tre atti si narrano le vicende di Mila di Codro, giovane affascinante fanciulla, che provoca l’innamoramento del giovane Aligi. Il problema è che della giovane si innamora anche il Padre di Aligi, Lazzaro, che il figlio per gelosia finisce per assassinare. La giovane Mila allora, auto addossandosi le colpe di aver stregato Aligi, decide di ardersi viva sul rogo, urlando “La fiamma è bella. La fiamma è bella.” L’intento dell’autore qui è rappresentare nel presente tutte le superstizioni e gli atteggiamenti ignoranti del mondo popolare nel presente, facendo assumere ai personaggi un ruolo epico, mitico, e quindi fittizio, poco intriso di realtà. L’effetto che provoca è una poco sentita partecipazione del pubblico, che non si affeziona alla storia dei personaggi, visto che appaiono come “marionette” di carta pesta, pronte ad essere utilizzate al fine morale scelto dall’autore. • Le Laudi: Maya, Elettra e Alcyone. Nella fase finale della sua produzione letteraria D’Annunzio volle creare un’opera lirica che incentrasse tutte le sue convinzioni sul superuomo e sulla restaurazione nel presente del mito classico. Per farlo, ideò e pubblicò il progetto delle Laudi. Riprendendo il titolo delle Laudes Creaturarum francescane, D’Annunzio ne ripropose il significato tutto in chiave laica e anticristiana: ora Gabriele è eroe-sacerdote per tutta l’umanità, è esempio di superuomo che si addossa la grande responsabilità di riportare in vita la grandezza del mito classico, per scardinare la mediocrità del presente e renderlo splendente come una volta. Il progetto originario era un’opera lirica in 7 libri, ma ne uscirono solamente 4: “Maya” nel 1903, “Elettra” e “Alcyone” nel 1904, “Merope” nel 1912 e infine “Canti della guerra latina” nel 1934. In realtà solo i primi due libri, comprendenti Maya Elettra e Alcyone parlano della “rinascenza eroica” del passato, perché Merope e Canti della Guerra Latina sono tutti improntati su un’ottica nazionalistica che è distante completamente dal progetto delle Laudi. 1. Maya (1903): il primo libro, scritto tra l’altro dopo Elettra e Alcyone, si configura come premessa ideologica di tutta la raccolta poetica. Infatti il libro è composto da 2 canti introduttivi, e poi da un “Laus Vitae”, lode della vita, in 21 canti, tutti suddivisi in 21 versi: perché il numero 21? Perché 21 equivale a tre volte 7, il numero che secondo la mitologia classica indicava le canne del flauto del Dio Pan. La ripresa di questa antica divinità è tutta in chiave moderna: il Dio Pan era il Dio della felicità, della bellezza della natura, e indicava il rapporto tra uomo e natura. Ed è proprio questo il tema centrale di D’Annunzio, che unisce alle teorie del superuomo di Nietzche: l’autore vuole sottolineare il rapporto dell’uomo con la natura in un’ottica tutta nuova, di dominio, di possessione di essa al fine di esaltare il valore e la virtù del superuomo invincibile. E’ la celebrazione dell’incontenibile forza del superuomo, che è ora, nel presente, in grado di sottomettere la natura e tutti gli altri inferiori per raggiungere virtù sempre più alte. Accanto a questa esaltazione di solo poche elette personalità c’è la ripresa del mito: l’occasione che spinge D’Annunzio a comporre le Laudi è il viaggio che l’autore intraprende nel 1895 in Grecia. E questo viaggio è direttamente inserito all’interno di Maya, in cui il poeta, che è esplicitamente eroe- protagonista del poema, si presenta come “nuovo Ulisse”: è lui il prescelto che deve guidare l’umanità verso nuove conoscenze, e così il suo viaggio assume valenza mitica, eroica e D’Annunzio diventa incarnazione di conoscenza e nuovo sapere. Qui l’importanza del mito classico, della sua forza rigeneratrice che deve ispirare i contemporanei ad uscire dalla mediocrità del presente. Subito dopo passa alla descrizione della grigia vita di città del presente, ancora non restaurato dal suo sapere, dominato dalla folla e dalla volgarità. L’ultima poesia di Maya è dedicata al grande ispiratore e modello di D’Annunzio , Giosuè Carducci, in accezione tutta pagana a anticristiana (così come era il suo idolo), e termina annunciando nuovi fuuri viaggi del superuomo, alla ricerca di nuove conoscenze. 2. Elettra (1904), è formata invece da componimenti di metro diverso, già scritti e pubblicati tra il 1899 ed il 1902. Tuttavia la poesia di D’annunzio si fa ora commemorativa e celebrativa, in particolare di quelle personalità della storia che lui sente siano state specchio di sé, della sua personalità superiore, e che quindi siano state prima di lui “guide” per l’umanità: si tratta di Victor Hugo, Garibaldi, Nietzsche, e Verdi. Dopo una prima fase commemorativa dei superuomini del passato, D’annunzio preferisce dedicare metà libro al concetto di “silenzio”: è dal silenzio che nascerà l’eroe più importante, il nuovo superuomo che guiderà l’umanità. E si passa dunque alla descrizione di storiche città Italiane, spopolate e silenziose, “antiche regine cadute”, come Ferrara e Ravenna, dal cui silenzio si percepisce l’eco del mito passato. 3. Alcyone (1904), è l’opera più bella e raffinata della sua intera produzione lirica. L’Alcyone è infatti il testo in cui Gabriele ha fuso meglio l’eleganza del lessico, la raffinatezza del linguaggio, e i temi per cui questa raffinatezza è dovuta. Con trionfante sensualità, Alcyone parla dell’ultima fase della vita del superuomo, il quale, stanco del suo impegno etico e morale, si abbandona al riposo e lo fa immergendosi nella natura. E’ la fase di “tregua” del superuomo nella sua missione universale ed eroica, e si concentra nell’immersione nella natura. Il tema centrale infatti, è lo stesso della poesia giovanile D’annunziana del “Canto Novo”: la felicità e la vitalità che l’uomo percepisce con l’arrivo dell’estate, e del riposo che in essa si gode. La poesia dell’estate e della vacanza assume qua però un atteggiamento non più ingenuamente giovanile, ma quello di un “sacerdote” del benessere, che sa come godersi questa estiva vitalità. I concetti filosofici alla base dell’Alcyone infatti non sono pochi: con la natura D’Annunzio intende qui operare una vera e propria fusione, in ripresa della pagana religione del Panismo, in cui il Dio Pan era modello di fusione tra uomo e natura. Ma questa fusione, che viene descritta quasi fisicamente, con l’unione delle cellule umane e quelle animali o vegetali, non possono raggiungerla tutti: solo pochi eletti infatti, solo gli aristocratici uomini superiori, riescono a diventare “tutto”, “Pan”, con la natura. Tuttavia il grigio e artificiale mondo moderno ha corrotto la natura del presente: essa è priva della vitalità e del vigore del passato, dunque deve essere rigenerata. Per farlo l’autore ritorna al cose umili, per un mondo “basso” e semplice ha quindi un risvolto classico: il suo classicismo non è però, come quello Carducciano, solenne a aulico, bensì libero e multiforme, aperto a ogni tipo di metro e intento a ricreare soprattutto musicalità, come in una rapsodia. I metri utilizzati sono infatti tra i più inusuali e liberi della tradizione poetica, compreso il poco utilizzato novenario. Ma è soprattutto il linguaggio e il lessico a conferire questa dimensione di privata intimità, di calda semplicità: Pascoli usa parole dolci e semplici, levigate ma per niente ricercate, viaggia in direzione dell’accoglienza, della solidarietà, in una “democrazia linguistica” che si articola sopratutto attraverso le figure di suono. Caratteristica Pascoliana infatti è l’uso linguistico di figure retoriche di suono, le cosiddette “onomatopee”: dal greco “onomatos+ poitein”, cioè “fare il nome”, L’onomatopea è una figura retorica di suono, un modo cioè, di rendere con le parole dei significati e dei suoni, o rumori, naturali e artificiali, che non per forza corrispondano ad una nota parola del vocabolario italiano. L’intento è evocare immagini, e significati attraverso i suoi o naturali, spesso animali come il “gre gre” che corrisponde al gracchiare delle rane, o altre volte attraverso le allitterazioni, figure di suono che consistono nella ripetizione delle stesse lettere in parole diverse, come in “un cocco, ecco un cocco, un cocco per te”. L’uso delle onomatopee è tutto finalizzato al senso e al significato che Pascoli vuole dare alla sua poesia: in tutta la raccolta la materia poetica sembra come continuamente velata, offuscata, da un alone di mistero, è come se le cose descritte fossero un sogno di Pascoli, come se tutto non fosse reale, ma fuggevolmente ideale. Questo perché Pascoli è continuamente ossessionato e tormentato dal trauma della morte del padre, dei fratelli e della madre, lo perseguita. E questo si ripercuote sulla poesia, che descrive dunque ambienti misteriosi,immagini campestri naturali e umane, dotate di significati nascosti, che ricreano l’ideale ambiente del nido: è quel mondo intimo e affettuoso, privo di affanni e turbamenti, che si configura come la sua infanzia, rovinata dalle morti dei suoi cari. La poesia diventa dunque mezzo per Pascoli per riportare in vita, seppur idealmente, la sua vita infantile, il dolce nido in cui viveva felicemente da piccolo. Perché diciamo che questo nido è velato dal mistero, da significati nascosti? Perché in realtà Pascoli non descrive mai figure o ambienti tangibili, toccabili con mano, è come se riportasse simbolicamente in vita il passato avendo tuttavia la consapevolezza che quello è ormai morto,e non si potrò mai riaverlo fisicamente davanti a se. E’ l’ossessivo tentativo di evocare i suoi cari morti, in un mondo ideale, soffuso, immutabile, sapendo però che ormai non possono più essere, sapendo che non saranno mai più reali. Le immagini del passato appaiono così vicinissime ma allo stesso tempo intangibili, allo stesso tempo lontane in un’irraggiungibile distanza. E’ il linguaggio che gli permette di ottenere questo poetico risultato, e le onomatopee sono figure perfette per evocare suoni indeterminati, che non rispettino necessariamente principi di realismo. Dopo una poesia introduttiva, “Il giorno dei morti”, in terzine, che fa da introduzione, la raccolta poetica procede alternando immagini di vita naturale, e di morte: è il caso del “X Agosto”, (1896) che parla della tomba del padre. Gli annunci di morte vengono evocati anche dalle onomatopee, come ne “L’Assiuolo”, in cui è il dolce uccellino a svelare l’irraggiungibilità dei morti. Tutto ciò si configura come la poesia del non sapere: il poeta è infatti il solo che riesce a evocare queste immagini, è il solo che ha la capacità sensoriale di percepire questi significati nascosti. I sensi del poeta sono come affinati da una ricettività infantile… • La poetica del Fanciullino. Inconsapevolmente Pascoli stava inserendo nella sua poesia precetti di “Simbolismo”: il simbolismo era una tematica trattata dalla poesia contemporanea, di cui lui però non aveva grande conoscenza. Dotato di una grande formazione classica, Pascoli infatti finì per professare Simbolismo per pura vocazione interiore, per dare sfogo alle sue turbe personali ed esistenziali. Intendeva infatti raffigurare immagini che celassero significati nascosti, ineffabili, difficili da esprimere a parole. L’ideologia che sta alla base del suo parlare di cose “soffuse e nascoste”, ciò che c’è dietro ai simboli della sua poesia, lo teorizza per la prima volta, nel 1903, in un suo volume chiamato “Miei pensieri di varia umanità”. In questo scritto parla infatti della “poetica del fanciullino”: secondo Pascoli in ognuno di noi c’è un “fanciullino”, c’è una componente irrazionale e interiore, nascosta, che rivela gli aspetti più sinceri e autentici del nostro animo. Il poeta dunque, è colui che riesce a dar voce a questo fanciullino, a fargli dire ciò che non riesce a essere detto, le nostre sensazioni ineffabili. E accanto a ciò ci sono basi di sensismo: solo alcuni uomini infatti, dotati di particolari ed affinati sensi, riescono a tirar fuori il fanciullino che è in loro, solo i poeti. Così il poeta- fanciullino si rivela anche benefattore per tutta l’umanità: tirando fuori ciò che è più intimo, profondo e nascosto nel suo animo, da’ voce a quell’amore di cui tanti uomini non riescono a parlare, un amore fatto di solidarietà e fratellanza,di bene puro verso le persone, che riesce a fuoriuscire solo se evocato dalla loro mancanza, visto che nel caso di Pascoli, quelle persone sono ormai morte. La sofferenza del poeta fanciullino lo porta a far eruttare i suoi sentimenti, e questo è beneficio per gli uomini: il poeta si rivela così anche eroe, ispiratore di buoni e civili costumi, cosa che erano riusciti a fare i poeti classici, in primo luogo Omero. La lingua del poeta è “lingua morta”, perché serve a riportare in vita il passato, a riportare in vita l’amore che nel passato il poeta ha provato per le persone morte. Così Pascoli offre un modello poetico positivo che si contrappone come opposto al superuomo D’annunziano, vigoroso ed aggressivo: ora il modello positivo è pacato e dolce, parla della sua intimità, da’ sfogo alla bontà e alla solidarietà dei suoi sentimenti. • I Poemetti. A differenza di Myricae, I poemetti rappresentano un quadro naturale sempre filtrato attraverso rapporti umani, ambientati nel mondo contadino più umile e semplice, e si svolgono in maniera più omogenea: il metro usato è quello dell’endecasillabo. I componimenti sono di più e più lunghi, e tutti pervasi dalla poetica del fanciullino: si parla dei gesti più genuini e semplici della vita contadina, umili e sinceri, con cui il poeta fanciullino riesce a trasmettere gioie autentiche, genuine. Ci riesce perché l’ambiente creato qui da Pascoli è sempre il Nido, intimo e ideale, all’interno del quale possono nascere conversazioni educative e morali. Seppur semplici infatti, i pochi ed essenziali valori pratici e concreti della vita contadina offrono secondo Pascoli un ottimo modello di vita, etico e didascalico. Pascoli vuole individuare così nel mondo contadino un modello etico valido, vuole offrire una rappresentazione del tutto opposta del mondo contadino rispetto al verismo ed al naturalismo: la vita campestre viene qui spogliata di tutti i suoi lati negativi, non ne viene calcolata la durezza, e viene rappresentata solo come luogo di intima serenità, di valori sinceri e pacati. Nel rappresentare la natura in questo modo Pascoli intende riprende in chiave classicistica il concetto della vita campestre trattato da Virgilio nelle Georgiche: un ambiente tranquillo, lontano dagli affanni della città, dove vivere serenamente. E il protagonista è quasi sempre un contadino proletario, infatti, umile e dedito all’etica del lavoro, incarna valori positivi. Nei “Nuovi Poemetti”, inserisce questa visione pragmatica dei valori contadini, fondati sul lavoro e sul sacrificio, per ottenere “ciò che basta”, in un progetto nazionalistico: grazie all’etica del lavoro contadina, ferrea e invincibile, potrà così la razza italiana liberarsi del problema dell’emigrazione, conquistando altre terre e permettendo alla prole italiana di coltivarle. Tutta la fluidità con cui si rappresenta il lento mondo contadino è perfettamente esercitata dall’endecasillabo, dalla scadenza dolce e pacata, che conferisce calma al lettore, lo fa sentire nell’ambiente tranquillo del nido. Ma non mancano anche qui offuscate presenze e sensazioni di morte, angosce simboliche dietro alle cose, come si vede nelle tre poesie migliori del componimento: “La Calandra”, del 1897, che parla di una natura misteriosa, offuscata, che cela qualcosa di terribile. Poi due poesie dedicate alla sorella Maria: “Digitale Purpurea”, del 1898, che parla di un fiore misterioso e nascosto, il quale, visto da una suora educanda, ella ne scorge simbolo di morte e sofferenza, e “Suor Virginia” (1900), che parla della triste storia di una suora educanda colpita dalla morte nel pieno “nido” del collegio. • I Canti di Castelvecchio. I Canti di Castelvecchio sono considerati dalla lirica una continuazione di Myricae. Effettivamente in quanto a materia trattata, Pascoli parla ora della sua immersione nella vita contadina di Castelvecchio: la descrizione dell’ambiente naturale del presente, lo riporta con la mente al passato, le sensazioni di ora evocano quelle di prima. Parlando di Castelvecchio pascoli ricorda San Mauro, ricorda il fatto che la fatalità è un eterno divenire, e concepisce che neanche qui riuscirà a ricostruire il suo sereno nido familiare: l’angoscia della morte, il fatto inaccettabile che il passato non può più ritornare presente, che i morti non possono più essere vivi, lo tormenta ancora, e queste immagini gliele percepisce ancora la natura, e i suoi gesti, come i richiami degli uccelli o il gracchiare delle rane. Il fatalismo angosciante e inevitabile della morte viene percepito in particolare nel poema cosmico “Il ciocco”, prodotto nel 1902. E in questo mischiarsi di presente e passato Pascoli ne scorge la ciclicità dell’Universo, l’opprimente consapevolezza che la morte arriverà, e al contempo la voglia di appartenere al mondo dei morti, perché solo lì riconosce il suo nido, è li che sta la sua famiglia. Così nella visione Pascoliana la tomba del futuro coincide con la culla del passato, il poeta non riesce a ricostruire un nuovo nido nel presente, perché il suo posto lo sente nella culla con i suoi familiari defunti, come si vede ne “La mia sera”, del 1900. Tutto questo microcosmo di tranquillità lo articola attraverso vari metri, attitudine che avvicina i Canti di Castelvecchio a Myriace, eppure i componimenti qui sono più ampi, tanto che la poesia diventa narrativa, allacciandosi alla maniera dei “Poemetti”. Nel suo scorgere significati nascosti, voglie impossibili e pericolose, brividi di potenza dietro alla natura Pascoli ritrae anche il sesso e la femminilità: da lui visti come fantasie sessuali, ignoti affascinanti, divieti ossessionanti. Tuttavia come ci dice la sua biografia non è mai il poeta diretto inerprete di un’esperienza sessuale, ma la vede dal suo ideale nido come attraente e pericolosa esperienza, che lo rinvigorisce in maniera frizzante ma al contempo non riesce a rapportarcisi, chiuso nel suo habitat tranquillo. Ciò si denota in “La figlia maggiore”, del 1902, in cui la fanciulla che dorme nella tomba è simbolo contrapposto dello sbocciare della natura in primavera: qui è la maternità il tema centrale, mai raggiunto dalla fanciulla, che ormai fa parte del passato. Anche “Il sogno della Vergine” tratta il tema di una verginità mancata e impossibile, da parte di una fanciulla, che con la sua mente fa apparire e svanire l’immagine di un bambino. Nella raccolta c’è il massimo dell’abilità Pascoliana, si scorge la sua paura a prendersi i rischi di amare, il blocco a ricreare, continuamente angosciato dal senso della morte, dalla ripetizione del dolore, ciclica e inevitabile. • La poesia Latina, i Poemi Conviviali, Odi e Inni. 1. Abbiamo parlato di una portentosa formazione classica di pascoli, che durante la sua produzione in italiano lo portò a comporre poesie anche in latino: nel 1915, postumi, vennero pubblicati i 30 poemetti latini in esametri. L’utilizzo della “lingua morta” latina corrisponde in pascoli all’esigenza di tornare al passato, a una fanciullezza personale, alla fase bella dell’educazione a Urbino dai padri scolopi , priva di drammi e caratterizzata Nello stesso anno intraprende un insano rapporto con Amalia Guglielmetti, con cui scambia un’interessante produzione epistolare. 3. Nel 1911 appare poi il suo libro più importante, “I Colloqui” , divisi in tre sezioni: nella prima parla di suoi “vagabondaggi sentimentali”, nella seconda “della schiacciante consapevolezza della fatalità della morte”, e nella terza, unisce le due tematiche, riflettendo malinconicamente su quanto sia illusorio il desiderio di amore, visto che la morte arriverà, e così l’esistenza si rivela vana e senza speranza. 4. Nel 1912 intraprende poi un viaggio in India, alla ricerca di climi che possano tranquillizzare il suo stato di malattia. Qui al contempo va alla ricerca della natura primordiale, dello stato di tranquillità umana più originario, in stretto contatto con la natura, lontano dai veloci affanni della città. Ma a contatto con questa primordiale tranquillità scopre una triste consapevolezza: l’uomo occidentale è ormai segnato dal suo mondo materialista, non riesce più a ritornare a quella serenità primigenia, perché avviato a schemi frenetici senza possibilità di ritorno. Questo fondo segreto e indecifrabile di felicità d’animo si rivela quindi irraggiungibile all’autore, che sfocia nello sconforto e nel pessimismo, trattato con astuta ironia, all’interno dell’opera del 1917, che parla proprio delle sue esperienze indiane, “Verso la Cuna del Mondo”. 5. Nello stesso anno della sua morte poi, Gozzano si dedica ad un’opera che si distanzia dalle sue precedenti esperienze letterarie: lontano dal crepuscolare pessimismo ironico, si inoltra ora in una nuova “religione della natura”, che possa calmare i suoi turbamenti. Ed ecco che nel 1916, sulla scia dei poemi didascalici fiamminghi, pubblica un ampio poema in endecasillabi sciolti, “Farfalle. Epistole Entomologiche”. Inoltrandosi nel microcosmo della natura, Gozzano vedeva in questo mondo un approdo di Salvezza dell’umanità dalla schiacciante oppressione del mondo borghese. Nell’animale della farfalla incarna il concetto di arte e di poesia: la farfalla, così delicata, debole e fragile, rappresenta l’arte e la poesia nella nuova società moderna, continuamente minacciata dall’artificialità del mondo borghese, dal suo grigiore economico, e finisce per essere schiacciata da questo mondo. • La poesia dei Colloqui. I Colloqui vennero pubblicati nel 1911 e comprendono 24 componimenti poetici in diversi metri. La poesia dei colloqui è intensa e profonda, fatta d chi conosce bene la tradizione e volontariamente rinuncia ad appartenerci. Gozzano infatti parla qui dell’amore, delle passioni giovanili che lo spinsero con vitalità ad inoltrarsi nel mondo femminile. Grande modello di Gozzano fu infatti D’annunzio, con cui l’autore cercò sempre di confrontarsi: la sua formazione era basata sull’estetismo dannunziano, sul suo vitalismo, sulla forza irrefrenabile dell’eros, sull’invincibile eroicità. Ma pian piano gozzano comincia a distaccarsi dal mondo eroico e invincibile del prototipo di superuomo d’annunziano, e offre un opposto modello di poeta: lui, dotato di sottile sensibilità proprio come D’annunzio, percepisce ora anche gli aspetti negativi della vita, sente la malattia, le debolezze, l’incombenza della morte, e il senso di futilità dell’arte. Si interessa cioè agli aspetti più grigi e incolori della nuova società borghese, in cui non vuole primeggiare alla maniera del Vate Dannunziano, ma solo constatarne le difficoltà. Il poeta Gozzano è quindi conscio del fatto che la vita non è così bella e vitale, non è fatta solo di gioie, non è possibile prevaricare ogni dolore, perché i dolori ci sono, e come la morte, sono irrefrenabili. Così Gozzano offre un modello di poeta ripiegato su se stesso (“Dannunzianesimo rientrato” dice Sanguineti), incline ora a parlare degli aspetti più minuti e grigi della società borghese: ambienti scontatamente quotidiani, gesti semplici e mai eroici, vite offuscate e grige, per niente spiccanti all’interno della società, nascoste e malinconicamente inutili, appiattite. Anche le donne descritte assumono allora tutto il negativo grigiore del mondo borghese: non sono più come in Dannunzio principesse, intellettuali o attrici, che si amano alla follia, ma cameriere, cuoche, impiegate, stanche e malinconiche come il poeta, che non le ama e anzi le sfrutta nella sua perenne insoddisfazione: un esempio ne è il poemetto in sestine di endecasillabi “Felicita ovvero La Felicità”. In quest’opera Gozzano parla del suo rapporto con una domestica, che è talmente basso, privo di pathos, che l’amore diventa incomunicabile. Nella sua incomunicabilità Gozzano perde il senso della sua stessa vita, si sente solitario nelle sue angosce. Così l’arte perde di senso, non ha valore etico, la sua poesia non è finalizzata a portar bene all’umanità, ma a farle costatare che se stessa è debole, è malata, è schiacciata dal materialismo degli ignoranti intorno a lei. L’ambiguità di Gozzano sta poi tutta nel fatto che il poeta non riesce a immedesimarsi neanche nel mondo del grigiore e dell’omologazione: anche qui sente un senso di inappartenenza, si sente sempre altrove, e perde così di senso la sua intera esistenza, la sua intera vita diventa vana, non è sicuro neanche di ciò che parla. Il poeta-modello che offre è dunque l’opposto del vate dannunziano: è un poeta rassegnato all’incombenza della morte, un poeta perso nella società, privo di scopi, la cui poesia è debolezza. Così si creano due poli opposti nella poesia Gozzaniana che producono un’eterna dialettica: in un momento si parla del sentimentalismo, dell’abbandono felice al pathos, l’adesione alla vitalità D’annunziana, ci si prende il rischio di amare, e subito dopo si percepisce l’illusione di quei desideri, la caducità di quell’amore, il senso di perdita e di morte di ogni cosa, sfociando nel pessimismo. Anche linguisticamente e metricamente Gozzano riproduce questa eterna dualità, identificando il sentimentalismo con la ripresa delle formule classiche, belle e auliche, dotate di potenza, e la perdita di tutto con formule quotidiane e banali. L’accostamento di parole, forme e metri banali e aulici, classico-tradizionali e squallidamente moderni, è proprio il cavallo di battaglia dell’autore: riprende linguisticamente frasi e formule di Dante e Petrarca e le accosta a frasi della più grigia e banale conversazione di tutti i giorni. Anche metricamente, riprende schemi metrici tradizionali, aulici e pieni di pathos, e subito dopo ne accosta altri privi di tutto, persi e semplici, squallidi e bassi, come nell’eccezionale uso della “scadenza della rima”, cioè della sua svalutazione ( esempio più celebre la rima camicie- Nietzsche). La soluzione finale di Gozzano si intravede proprio nell’ultimo componimento dei colloqui, “Totò Merumeni”, in cui questo protagonista incarna la desolata e rassegnata reazione a queste consapevolezze: è un reduce del malessere, è rassegnato, è la rinuncia in persona, è un vecchio uomo che sa che la vita è amara, sa che la morte arriverà e sta li fermo ad aspettarla, sa che non riesce ad essere compreso, e allora riesce quasi “stoicamente” a non amare e a non legarsi a nulla. Il Futurismo. • L’avanguardia futurista. Il Futurismo venne proclamato e ne vennero esplicitamente dichiarate le forme da Filippo Tommaso Marinetti nel 1909, con la pubblicazione del “Manifesto del futurismo” redatto in francese sul giornale “Figaro” di Parigi. Qui si spiega come il futurismo incarni un nuovo modo di vedere l’arte e il ruolo dell’artista, in chiave tutta antitradizionale, dedita al progresso industriale, ed eroica. Il futurismo rinnega e si distacca totalmente dall’interno blocco della tradizione: si rinnega l’immutabilità, la fermezza, l’assolutezza senza tempo dei modelli classici e dei grandi valori fissi del passato, ma lo si fa con aggressività! Intento pratico del futurismo era infatti non solo negare la tradizione, ma proprio distruggerla, distruggere tutto ciò che è cristallizzato e perenne. Ora tutto è in movimento, siamo (ai primi del ‘900) dinnanzi ad una società in continuo sviluppo sia industriale sia eugenetico, e l’arte, per il futurismo, deve stare al passo di questo andamento sfrenato verso il futuro. L’arte, e con essa la letteratura, non potrà più fermarsi al presente, o guardare al passato, ma dovrà essere guida eroica per l’umanità verso il futuro, raggiungerlo attraverso il prezioso progresso industriale. Cardini ideologici del futurismo sono dunque le innumerevoli innovazioni della scienza e della tecnica del periodo, che spinsero i futuristi a sostenere che l’uomo non ha limiti, la scienza non ha limiti, visto che ogni ostacolo è apparente e va superato con forza eroica. E’ un’esaltazione della personalità, singola e collettiva insieme dell’umanità contro l’impossibile e a cavallo dello sviluppo. Dunque dal punto di vista pratico, queste convinzioni si riverberano nell’arte abbandonando i ragionamenti pacatamente razionali, i concetti, l’astrattezza dei pensieri,e diventando gesti immediati, fulmini di parole, èè come se la materia artistica fosse proiettata verso il futuro, come il presente fosse già passato. Così vennero usati “shoc”, forme lampo, intuizioni geniali, parole e dipinti che fanno ora parte del flusso continuo e ininterrotto del tempo che è sviluppo, e arricchite da spettacolarizzazioni. Questo portò i futuristi ad interessarsi più alla forma che al contenuto: e di qui l’interesse per la propaganda, per la comunicazione istantanea, per la cura di come i messaggi venivano recepiti a primo impatto, più che dei contenuti stessi che i messaggi portavano. Dal punto di vista ideologico l’arte, essendo eroica guida per l’umanità, divenne anche il mezzo per distinguere i “forti” dai deboli, in un’ottica nazionalistica e esaltatrice della personalità singola: i futuristi esaltarono la guerra, lo sviluppo industriale bellico e tecnico, con il quale cavalcare il progresso e affermarsi come razza più forte di un ‘altra. Inizialmente il futurismo assunse anche caratteri anti-borghesi, di rivolta all’atteggiamento omologatore e appiattente della borghesia, che mirava a rendere tutti uguali per farla guadagnare: loro si rivoltavano in chiave eroica, cavalcando il progresso, ed affermando la forza di chi sapesse distinguersi. Ma alla fine si rivelarono una realtà subalterna alla borghesia, esaltando lo stesso progresso bellico che era gestito dalle industrie dell’alta borghesia, ed acclamando la stessa guerra che l’avrebbe fatta arricchire: molti futuristi aderirono al fascismo. • I Manifesti di Filippo Tommaso Marinetti. Con grande esaltazione Marinetti scrisse una serie di “manifesti” che fornivano le linee guida ideologiche e pratiche del nuovo movimento, organizzava inoltre serate ed eventi spesso finiti in rissa in cui si esaltava la potenza fisica e servivano a fare propaganda. 1. “Il Manifesto del Futurismo” è il primo, pubblicato nel 1909, e scandiva i caratteri aggressivi ed eroici del futurismo: per esaltare il movimento si doveva agevolare la guerra, “sola igiene del mondo”, che potesse ripulire il globo dai più deboli; si dovevano incendiare e distruggere le biblioteche, i musei, i centri di cultura, che contenevano dogmi fissi, ideologiem immutabili; i libri stessi fissavano concetti che non potevano essere cambiati, rendevano l’arte assoluta e immortale, e questo non rispettavano i principi di progresso dell’umanità. Esaltando la guerra i futuristi vedevano di buon occhio l’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale, e incitavano il fascismo. L’arte doveva essere ora continuamente in rinnovamento, sulla scia del progresso, fluida e malleabile man mano che il mondo cambiava. 2. “Contro Venezia Passatista”, il secondo manifesto, inneggiava la distruzione della città d’arte per eccellenza, Venezia, una città storica e intrisa di arti figurative fisse e immutabili: al suo posto sarebbe dovuta sorgere la capitale dell’industria, una città del tutto devota al progresso e all’arricchimento economico, capace di fornire i mezzi alla razza Italiana per primeggiare nel mondo. 3. “Il manifesto tecnico della letteratura futurista” (1912), prelude a una totale trasformazione della letteratura e della grammatica italiana: si doveva con ciò abolire tutto ciò che nella lingue era fisso e immobile, fermo e dogmatico, tutto ciò che era schema. E così si inneggia all’abolizione della punteggiatura in generale, delle forme cristallizzate della sintassi, e addirittura dell’aggettivo. Così i dogmi e gli schemi fissi andavano sostituiti con l’uso più libero della parola, inserita in maniera disordinata e irrazionale nella frase, spinta solo dall’istinto, si doveva sviluppare ora un’immaginazione senza fili, che spaziasse nel tempo e rendesse già futuro il presente. non va presa in considerazione. Ma in realtà non lo fa e finisce per esalare verso il nulla, per evaporare nel cielo, divenendo così apoteosi e allegoria, personificazione di leggerezza (la stessa leggerezza della sua poesia). Nelle novelle “Re bello” e “Il Palio dei Buffi” del 1937, contengono tutto il contrasto tra l’omologazione, la normalità, il senso del “medio” della società Borghese, e la stranezza, le situazioni inusuali e folli, comiche e imprevedibili. Qui infatti personaggi della òiù grigia e semplice vita di città, come garzoni, scapoli e vecchie zitelle, sconvolgono la loro normalissima vita borghese di lavoro e piatto andamento con situazioni folli e particolari, che li rendono vivi, proprio perché sfociano nella follia e nel gioco: così la più banale normalità diventa “buffa” e imprevedibile, originale e mai sentita. Ma il romanzo più importante di Palazzeschi è “Sorelle Materassi”, del 1934, in cui si parla di un giovane scapolo che si inserisce nella vita di due vecchie zitelle. Appesantito da un tono “toscano” forse troppo cordiale e misurato, il romanzo si rivela comunque originale per lo sconvolgimento che subisce la vita delle due vecchie donne, quando il giovane comincia a far parte di essa. Federigo Tozzi • Vita opere e modelli. Federigo Tozzi nacque nel 1883 a Siena da una famiglia benestante. Il padre era di origini contadine e possedeva una trattoria a Siena, e un podere: era un uomo violento, retrogrado e ignorante, improntato sull’etica del lavoro pratico e manuale, l’unico secondo lui in grado di garantire la sopravvivenza. Questo portò a un rapporto tormentato e violento con il figlio Federigo, che desiderava dedicarsi alle letture e al mondo culturale della letteratura, evento che segnò molto la psicologia del nostro poeta. Alla morte della madre, nel 1895, Federigo si abbandonò alla ita degli studi, e aderì al socialismo. Ma presto condusse una vita artistica e mondana, disordinata, erotica, in cui conobbe la giovane Emma Palagi e con la quale nel 1907 si trasferì a Roma. Qui trovò lavoro, nel 1908, presso le Ferrovie di Stato, e fu trasferito alla stazione di Firenze. Nel 1909 morì il padre lasciandogli un’ingente eredità con cui poté pagare il suo matrimonio con Emma. Ma ben presto aderì a politiche e ideologie di stampo fortemente cattolico-reazionario, propugnando ad una sua interiore vocazione alla religiosità: il suo cattolicesimo violentemente reazionario sfocia con foga nella rivista che lui stesso fondò, “La Torre”, nel 1913. L’anno successivo l’Italia entra in guerra e Federigo si arruola alla Croce Rossa. Nel 1917 pubblica la sua prima e più importante opera, “Bestie”, a cui seguono “Con gli occhi chiusi” del 1919 e “Tre Croci”, nel 1920. Nello stesso 1920 Federigo si spense a Roma per una polmonite. Per quanto riguarda i modelli dobbiamo dire innanzitutto che Tozzi scrisse tantissimi tipi di opere, e i modelli vennero inseriti man mano che esse venivano revisionate e riscritte. 1. Palese ed evidente è il suo modo di rappresentare la narrazione in chiave “naturalista”: altrettanto chiara la ripresa del maggiore modello italiano del genere, Verga, rispetto al quale però Tozzi sa di non saper spiegare, e quindi lascia alle veritiere immagini che evoca il fatto in se, più che alla sua narrazione. 2. Ma questo naturalismo dobbiamo ricordarci che è spinto dal suo bisogno di manifestare il suo “io autobiografico”: la sua psicologia, i suoi traumi infantili lo rincorrono sempre, e si manifestano nella narrazione. Così si crea una “Voce” che non è mai lineare e cronologica, ma varia e frammentata, e la narrazione non va avanti per cause ed effetti, ma per suggestive “illuminazioni lampo”, immagini repentine e imprevedibili, raffigurate naturalisticamente, che svelano tutta la sua inquietudine; Tozzi è infatti tormentato da pericoli e immagini che gli piombano nel suo campo visivo senza che lui possa fermarle, sono veleni, sono angosce, che celano i drammi interiori che il ragazzi che subito da giovane con il padre. Questo particolare modo di esprimere la sua psicologia lo riprende dal modello narrativo americano William James. 3. Accanto all’interiorità, c’è il grande studio della Letteratura Medievale Toscana, un modo che gli fornì le migliori suggestioni espressionistiche, gli fece apprezzare l’opposto della purezza dei classici. Il suo modo di scrivere si rivela infatti estremamente espressionistico, aggressivo, antiidealista, e anticlassicista. • Le opere di Tozzi. 1. “Ricordi di un impiegato”, romanzo scritto nel 1910 e pubblicato nel 1920, è la sua prima opera. Qui Tozzi parla della sua esperienza come impiegato presso le Ferrovie di stato: la comune e banale vita impiegatizia nella società borghese gli fa vedere tutta la realtà come estremamente nulla e priva di senso. Più le cose vanno come dovrebbero andare, pi Tozzi scorge in questa normalità una irrefrenabile follia, insensatezza, anormalità. E questa realtà tanto più priva di senso quanto più normale è anche determinata dal rapporto sempre ostile e concorrenziale, sempre ostico e violento, che il mondo e gli uomini instaurano con lui. La sua grigia esistenza perde così di senso, intrisa dei suoi drammi esistenziali personali (il padre), e l’impiegato non riesce a riconoscersi in nessuna cosa, in nessun uomo, neanche nella natura. Sulla scia di questo romanzo scrisse poi delle opere rimaste inedite fino al 1981, il romanzo “Paolo”, che migliora il rapporto tra io narratore e cose del mondo in chiave mistica e religiosa, e il frammento di Romanzo “Adele”, che parla in maniera meticolosamente ossessiva della psicologia di una donna pazza. 2. “Con gli occhi Chiusi” è il romanzo che scrisse nel 1913 e pubblicò nel 1919: è il suo capolavoro. Intriso di intensissimi risvolti autobiografici, “Con gli occhi chiusi” parla della storia di Pietro Rosi, figlio del proprietario di una trattoria, il quale, cresciuto nel rurale mondo campagnolo, ha un rapporto difficile e ostico con il violento padre. La madre è invece dolce e affettuosa, ma muore presto, e così si completa a pieno il quadro della biografia di Tozzi. Sul mondo contadino compare la storia d’amore, tra Pietro e Ghisola: è in questa vicenda che si incentra il concetto-fulcro degli “occhi chiusi”. Pietro infatti è continuamente oppresso e schiacciato dalle persone che lo circondano e anche dalle cose: ognuno si rapporta con lui in maniera astiosa e opprimente, in primo luogo il padre, senza che lui possa fare niente. Ne deriva una visione pessimistica e violenta, opprimente e inabitabile del mondo, nel quale infatti Pietro preferisce non stare: la sua soluzione, o reazione a questo attacco incessante è la chiusura in se stesso, la “chiusura degli occhi”, la scelta di non accettare più la realtà. Così questa “chiusura” si riverbera anche sulla sua storia sentimentale, e Piero finisce per non rendersi più conto di quale sia la vita della sua amata Ghisola: mentre stanno insieme, lui è totalmente ignaro del fatto, finché non lo scopre, che la donna è gravida di qualcun altro. In tutto quel tempo Piero ha preferito neanche considerare l’idea di un dramma esterno, visto quello già brutale del rapporto con il padre, ha preferito “chiudere gli occhi” per non constatare l’insensatezza del mondo. Chiuso e oppresso da tutti, non finisce per annullarsi solo l’io di Piero, ma anche tutto il mondo intorno a se gli sembra perdere di senso, svuotarsi, morire. Questo perché Piero non si sente di essere un caso singolo, l’unico a soffrire, anzi, pensa che la sofferenza e la crudeltà permei ogni parte del mondo, e così ogni esistenza: nella sua visione non esiste felicità, e l’inetto Pietro è solo uno che resiste in mezzo a questa disumana realtà. L’unica cosa ad essere del tutto personale è il suo modo di reagire alla violenza del mondo: chiudere gli occhi. 3. Novelle, scritti brevi e teatro. Tozzi si impegnò anche alla stesura di novelle, a partire dal 1910 pubblicate in varie riviste e infine nel 1920 sotto il nome di due raccolte, “Giovani” e “L’Amore”. Si tratta di testi che spaziano dalla rappresentazione naturalistica della realtà, in maniera cruda e sincera, realistica fino alla crudeltà, per passare a simbolismi e analogie nascoste dietro l’apparenza delle cose, fino a significati profondi. Anche nel teatro ebbe buon impiego, pubblicando varie commedie, tra cui spicca quella del 1919, “Le due mogli”, ripresa da una novella di Boccaccio. Ma tra gli scritti brevi spiccano nettamente i piccoli testi delle “Bestie”, pubblicati tra il 15 ed il ‘17: qui il poeta riprende la tradizione dei Bestiari medievali, e la ribalta. Perché quando infatti i bestiari medievali volevano allegorizzare i sentimenti e le sensazioni del mondo all’interno di figure animali, proponendo un’ordine delle cose intriso di Natura, Tozzi con il suo bestiario fa l’esatto contrario, fa incarnare alle figure animali l’insensatezza e il senso di vuoto, di dispersione, del cosmo, che in realtà è riflesso del suo punto di vista, di chi come lui è solo, senza amicizie, e incompreso. 4. “Il Podere”, scritto nel 1918 e pubblicato postumo nel 1921, ha molte caratteristiche in comune con “Con gli occhi Chiusi”. Si parla qui della vita di Remiglio Selmi, figlio del proprietario di una trattoria, il quale, alla morte del padre, lascia il suo posto di impiegato alla Stazione statale per curarsi del podere, preso in eredità: in questo mondo rurale e contadino, ostico e violento, Remiglio è ancora una volta un inetto, un incapace di relazionarsi con la realtà. Lui non riesce ad accettare le comuni e banali leggi della natura e delle persone, e finisce per essere schiacciato da tutto ciò che c’è intorno a se. Prima tutte le persone gli vanno contro, cercano di opprimerlo e mangiarlo in quella lotta borghese per i soldi, sia l’amante del padre, che i contadini, che i servitori. Poi, totalmente schiacciato dagli umani, finisce per riverberarsi su di lui anche la crudeltà della Natura: dopo aver ricevuto ingiustamente tutte le colpe e le responsabilità per stortezze e disgrazie dalla gente che lo circonda, ad un certo punto è lui stesso a subire una quantità enorme di disgrazie in pochissimo tempo, in un vortice velocissimo e iperbolico. Così la sua esistenza termina grazie alla rabbia incontrollata di un contadino che lo uccide con una accetta. Il mondo contadino, borghese, umano e naturale, appare agli occhi di Remiglio come dominato da leggi in cui lui non si riconosce, dalle “normali” leggi della concorrenza e della brutalità: lui è buono, è quello il suo problema, e più dimostra la sua bontà, più si comporta onestamente, più il mondo gli scaglia contro ingiustizie e nefandezze. Ma Remiglio non tradisce mai la sua visione, la sua etica buona, e preferisce rimanere nelle sue di leggi anche a rischio di morirci. E così la figura di Remiglio diventa quella di martire, del capro espiatorio, della vittima sacrificale del male del mondo e della natura contro gli uomini: l’elevazione quasi mitica di questo personaggio assume così simboli nascosti, che alcuni hanno addirittura accostato ad un nuovo “Messia”, ad un Cristo involgarito dal mondo borghese, e caricato di valenze distorte e deboli. Come che sia, Remiglio è simbolo stesso della bontà che nel mondo non ha senso, è nulla come la sua esistenza, e come lui destinata a morire sola. Tutta questa visione si riverbera nel linguaggio non alla maniera puramente “naturalista”: Tozzi non rappresenta il mondo in maniera oggettiva, come Verga, ma lo filtra per la sua personale esperienza di rinnegato, e così anche nel pratico “Il Podere” è dominato dalla paratassi e da brevi folgorazioni, da veloci immagini, e non da schietta narrazione. 5. “Tre Croci” è il suo ultimo romanzo, pubblicato nel 1920 poco prima della sua morte. In questa opera il protagonista-tipo Tozziano è ancora martire ma stavolta con risvolto esplicitamente religioso. Questa volta infatti, i protagonisti sono 3, tre fratelli di Sieni possidenti di una libreria d’antiquariato. La triade che incarna un solo modo di vivere è l’allegoria perfetta per rappresentare il martirio della bontà e degli schemi logici di Tozzi. I tre fratelli infatti finiscono in un vortice minaccioso e distruttivo, che li porta prima a perdere tutto e poi a morire. Così coloro che incarnano il caprio espiatorio del male ora sono tre, così come la Triade cattolica, in una visione tutta pessimistica del mondo sociale, posta in chiave religiosa. Nelle opere di Tozzi possiamo notare al massimo l’impossibilità, il limite invalicabile, il freno, che l’uomo dei primi del ‘900 provava dinnanzi ai cambiamenti sociali: tozzi raffigura la Siena in pieno passaggio dal mondo rurale e contadino, fondato sul sudore e sul lavoro agricolo, verso la nuova società borghese fatta di soldi e astrattezze. In questo cambiamento radicale del mondo l’uomo non sempre ha saputo adagiarsi, e lui raffigura estetica, che nasconde i reali e autentici comportamenti interni, le sensazioni e le voglie vere del proprio animo. Così ogni uomo è senza via di scampo schiacciato e costretto a dipendere dal proprio volto: la maschera è l’impatto primo delle relazioni sociali, e così, tra gli uomini, si fa finta di conoscersi profondamente, perché in realtà entrano a contatto solo le maschere di ognuno di noi. L’interesse per l’argomento gli proviene da diversi campi del sapere e da diverse realtà geografiche: già dalla vita rurale di Agrigento il concetto di maschera era ben chiaro a Pirandello, in un mondo dove ognuno lotta contro se stesso per rispettare tradizioni, superstizioni, credenze e miti popolari che non si sa bene se siano giusti. Passando er il mondo borghese, in cui ognuno si conforma al “buon costume”, Pirandello trae spunto per la raffigurazione del concetto di maschera anche dalla contemporanea psicologia sociale europea, che studiava il convivere di più personalità, o più maschere, in una sola persona. Ma la maggior parte delle informazioni al riguardo le riprende dalle recenti “filosofie della vita” europee: queste correnti vedevano l’esistenza di ogni uomo suddivisa in vita e forma. La vita è il carattere interiore, il comportamento più spontaneo e autentico, più vero, che rappresenta essenzialmente come ogni uomo è fatto realmente. La forma è invece il carattere esterno, “la maschera”, il modo con cui ognuno appare e inconsciamente vuole apparire. Queste filosofie parlavano di come la forma finisce sempre a schiacciare, bloccare la vita, impedendone la manifestazione nel pratico: così la forma si fa manifestazione illusoria e bugiarda della vita, è la sua concretizzazione non veritiera, corrotta dalle influenze sociali, dai condizionamenti che la società porta agli uomini. In tutta la sua produzione letteraria Pirandello parla sempre di questa inesauribile dialettica tra vita e forma, tra essenza vera di se e apparenza esteriore. E la sua visione, la conclusione finale che raggiunge ogni volta, opera dopo opera, è che anche cercando di manifestare la vita nella maniera più autentica e vera, senza contaminazioni, in realtà si sta solamente creando una nuova maschera, una nuova finzione: la forma finisce cioè per esistere sempre, per accompagnare sempre gli uomini, rendendoli perennemente insoddisfatti, perché perennemente non si potranno auto-affermare nella realtà. Di qui ne scaturisce il concetto di “fantasma” interiore: ci sono comportamenti, passioni, sensazioni e voglie che dovrebbero essere manifestate e concretizzate dagli uomini, ma non si riesce a farlo. Così ogni uomo è sempre inseguito dai suoi fantasmi, dagli autentici istinti della “vita” che non si riesce a far emergere. Su questa linea Pirandello riprende fantasmi provenienti dalle vecchie letterature, dagli altri personaggi delle opere del passato e ne crea di nuovi. Questi nuovi personaggi sono “Personaggi autonomi” o “Personaggi fantasma”: entità che fanno parte delle opere, o delle scene, che sembrano in ogni modo auto affermare se stessi, apparentemente andando persino contro la volontà stessa dell’autore che li raffigura. Sono personaggi dotati di vita propria, autonoma, di cui il massimo esempio ne è “Il fu Mattia Pascal” nel romanzo e “Sei personaggi in cerca di autore” nel teatro. Così, sono loro a incarnare l’insoddisfazione di Pirandello: essi cercano sempre di auto affermarsi, di manifestare il loro io più interiore, di dar sfogo alla “vita” e non alla forma. Ma non fanno che creare così altre maschere, altre forme, illusorie oasi della vita, che in realtà vita non sono, lasciando trasparire l’estremo pessimismo di Pirandello, lasciando al lettore la consapevolezza che mai si sarà soddisfatti, perché mai pienamente auto affermati, mai se stessi, mai a casa. • Le opere in versi. Pirandello in letteratura esordisce come poeta, pubblicando a partire dall’età giovanile diverse raccolte. Più che manifestazioni di un linguaggio particolare e unico di Pirandello, le raccolte poetiche sono repertori di temi e suggestioni, visto che linguisticamente Pirandello non fu proprio impeccabile: la sua lingua appare infatti informe, non originale, e piuttosto appare come un linguaggio standard che fosse capace di accogliere echi e suggestioni di Romanticismo, Realismo, e Classicismo. 1. Così su questa linea pubblica per prima la raccolta “Mal Giocondo”, del 1889, 2. a cui segue nel 1891 “Pasqua di Gea”, dedicata a Jenny Schultz Lander. 3. Nel 1895 pubblica poi le “Elegie Romane”, poesie in metro barbaroi, probabilmente quelle di stampo più classico, che nascono dalla ripresa delle “Elegie Romane” di Goethe, che Pirandello tradusse nel ‘96. 4. Segue “Fuori di Chiave” nel 1912, forse la raccolta più interessante dell’autore: le poesie parlano di come sia inesorabile l’eterno girare della “Stupida macchina del mondo”. Pirandello manifesta qui tutto il distaccato ed umoristico pessimismo, di fronte all’inesorabilità della vita, all’arrivo inevitabile della morte, e alla consapevolezza che il processo di aggregazione e disgregazione delle cose è infinito e ripetitivo. 5. Per finire scrisse anche poemetti incompiuti, come “Belfagor”, in cui riprende un personaggio di Machiavelli, il diavolo Belfagor, salito sulla Terra ad osservare quanto i mortali siano infelici. • I Primi Romanzi. 1. “L’Esclusa”: Fin dal suo arrivo a Roma Pirandello si cimentò nella stesura di narrativa in prosa, sulle orme della sua guida e mentore, che conobbe proprio a Roma, Luigi Capuana: così sulla ripresa della “Giacinta” di Capuana, Pirandello scrive un romanzo incentrato su una figura femminile, libertina e moderna, che non sa inserirsi nel vecchio mondo siciliano. La protagonista ora si chiama Marta Ajala, e questo era anche il titolo originario dell’opera, che invece fu cambiato in “L’Esclusa” e così fu pubblicato in volume nel 1908. Marta Ajala è una donna moderna e libera, che subisce il trauma della sua maschera sociale: accusata di adulterio da un deputato, nonostante sia innocente, su di lei pesano lo sguardo e i pensieri della Gente di Agrigento, dove è ambientato il romanzo. Si descrive infatti proprio la reazione psicologica allo sguardo e ai pensieri degli altri, cioè a come appare la nostra immagine. La maschera di Marta blocca e nasconde il suo vero carattere, e l’imbarazzo della sua apparenza non le permette di sfogarsi ed urlare la sua innocenza. Così l’adulterio viene creduto da tutti reale, ed il marito Rocco Pentagora la caccia di casa. Il padre di Marta, soffre del suo stesso trauma, visto che muore di crepacuore a causa del disonore che è ricaduto sulla sua famiglia, o meglio, sulle maschere della sua famiglia. Così Marta, sola e senza soldi, finisce a Palermo, dove incontra veramente il deputato: e concretizza, quasi con indifferenza, e senza apparente motivo, quell’adulterio di cui era stata ingiustamente accusata. Così, dopo non essere riuscita, di fronte a chi l’ha rovinata, ad esprimere veramente ciò che dentro desiderava, viene riaccolta dal marito, che la crede veramente innocente. Il Romanzo procede per step paradossali, finalizzati solamente a rappresentare quanto le persone non facciano quello che realmente desiderano: tutto il romanzo parla di comportamenti che non vogliono essere fatti veramente, parla di come i caratteri più originali, veri e autentici di ogni uomo siano schiacciati dalla propria maschera. Di come, inoltre, pesi sulla gente il macigno del proprio volto, del quale, una volta macchiato dalle maldicenze, non possiamo liberarcene. 2. Ne “Il Turno” poi, del 1902, raffigura una Agrigento grottesca e paradossale, crudele e quasi diabolica: in un gioco del tutto fantasioso, si susseguono ad Agrigento le morti dei pretendenti alla mano della bella Stellina. Ogni uomo che riesce ad ottenerla muore, e viene sostituito, in un gioco malefico e senza scrupoli del caso, dal prossimo contendente. Così solo l’ultimo di essi riesce a tenersi Stellina, Pepè Aletto, l’unico che ha saputo pacatamente aspettare il suo turno. Così la realtà di Agrigento viene allegoricamente dominata da quelle superstizioni e dalle dicerie sul “caso”, a cui veramente credeva la gente dell’epoca: e il “caso” viene raffigurato qui in tutta la sua misteriosa crudeltà, che mette paura, ripresa di stampo dal concetto di “Fato” greco, essendo le origini di Agrigento proprio greche. • Il Fu Mattia Pascal. Pirandello scrisse il Fu Mattia Pascal nel difficoltoso momento di soccorso alla moglie molto malata, e lo pubblicò prima nel 1904 e poi, con alcune modificazioni, nel 1910. La vicenda parla della storia del giovane Mattia Pascal, cittadino di un paesino ligure il quale vive la prima fase della sua vita in un susseguirsi di scambi interpersonali ambigui, a contatto con esistenze grigie e “false”, con le quali non riesce a comunicare veramente. Questo lo porta a scambi sessuali privi di sentimento, dai quali ne scaturisce il matrimonio con una donna che non ama. Estremamente insoddisfatto, e non auto-affermato, al susseguirsi di tre disgrazie familiari, la morte di due sue bambine e della madre, Mattia sceglie di abbandonare la casa in Liguria e la moglie e tentare la fortuna al Casinò di Montecarlo. Inverosimilmente ci riesce, ricavando una fortuna enorme dalla vincita nel Casinò. Quando sta però sul treno di ritorno in Liguria, legge su un giornale la notizia della morte per suicidio di una persona proprio nel suo paesino: nell’articolo legge anche la sua moglie ha identificato quel corpo come il suo. Decide così di accettare la sua falsa morte, e usarla come pretesto per liberarsi di tutti i vincoli sociali e anagrafici, per cambiare vita, l’unica opportunità di non indossare più il volto di “Mattia Pascal”. Si trasferisce così a Roma sotto il nuovo nome fittizio di Adriano Meis: qui vive in una pensione frequentata da personaggi incuriositi dalle discipline e scienze occulte. In questo tenebroso ambiente, e grigia città, si innamora della giovane figlia del proprietario di casa: vorrebbe ricostruire una famiglia con lei, perché al contrario di sua moglie è quella giusta, ma non può farlo, perché incarna un nome ed un personaggio inesistenti nello stato civile e all’anagrafe. Deluso dalle false speranze che ha riposto nel rivestire un nuovo volto, decide così di tornare in Liguria, e “reincarnarsi” nel nuovo Mattia Pascal, cioè “Il Fu Mattia Pascal”. Tornato in Liguria scopre che sua moglie si è costruita una nuova vita con un altro uomo, e sceglie così di dedicare gli ultimi momenti della sua esistenza scrivendo la storia di se stesso: avviene qui la fusione tra narratore e protagonista, che ora cerca di auto-affermarsi nella scrittura, non essendoci riuscito semplicemente vivendo. Pascal aspetta così la sua morte parlando di se. Il Romanzo è scritto in prima persona e la narrazione distrugge completamente gli schemi della narrazione naturalistica: l’oggettività e la verosimiglianza. I personaggi qui, e in generale tutto il mondo evocato, appare come fittizio, sembrano quasi tutte marionette filtrate attraverso gli occhi di Mattia Pascal, che incarna la situazione esistenziale di Pirandello. Non solo, ma coloro che narrano in prima persona cambiano, perché l’identità dello stesso protagonista cambia e con essa il suo modo di vedere le cose: ecco così che ci sono tre diversi narratori in prima persona, Mattia Pascal, Adriano Meis, e il “Fu Mattia Pascal”. In tutto ciò Pirandello narra la storia di un uomo che non riesce mai a sentirsi se stesso, a manifestare o essere ciò che vuole veramente, continuamente schiacciato e oppresso dai limiti sociali. La soddisfazione, la piena auto-affermazione di se non viene mai raggiunta nelle vesti di Mattia Pascal, che è continuamente schiacciato dal suo volto: diventa così Adriano Meis per scelta, pensando, illudendo se stesso, di poter “rinascere” in un nuovo uomo libero da tutti i condizionamenti della vita di Mattia Pascal, libero dalla sua faccia e dal modo con cui gli altri la vedono. Ma la sua, è solo una sottilissima illusione: divenuto Meis è infatti libero dalla sua prima maschera, ma si ritrova costretto a indossarne un altra, in cui è costretto continuamente a recitare, per non rivelare la sua vera storia, una in cui non può sposare la donna che desidera, per nuovi condizionamenti sociali. Il terzo passaggio di personalità è così la totale rassegnazione, rinuncia, impossibilità ad auto-affermarsi nella vita: è consapevole ora che non c’è modo di essere veramente se stessi, nel pratico, non è possibile manifestare senza corruzioni o condizionamenti quelli che siamo veramente. Così, Questo perché nella mentalità della nuova società capitalistica tutto è meglio che sia merce, capitale, possibile denaro. Così viene mercificata qualsiasi cosa, e con lo sviluppo e l’utilizzo sfrenato delle macchine, in questo caso il cinema, diventa prodotto e merce anche la “maschera”, la forma esteriore delle persone. In questa visione radicalmente pessimistica dello sviluppo industriale e meccanico, Pirandello ritrae un mondo in cui la “vita” è già sconfitta. Serafino è infatti un operatore cinematografico che lavora in maniera alienante, riproducendo incessantemente i film con la sua manovella: il carattere ripetitivo e robotico del suo lavoro finisce per farlo “fondere” con la macchina. Diventa così un operatore cinematografico fortissimo, dedicandosi in maniera alienante e disumana alla meccanica riproduzione di una realtà tutta finalizzata al guadagno. La mercificazione di se stessi poi, o meglio della propria maschera, della propria immagine esteriore, è incarnata dall’attrice Varia Nestoroff. Ella è infatti esempio di “divismo”, la mercificazione massima della propria immagine, mettere il proprio volto al servizio della finzione sociale e dello spettacolo. E infatti questa attrice attira nel vortice del materialismo e della forma tutti coloro con cui entra a contatto: l’amico di Serafino, Giorgio Mirelli, si suicida per lei. Nell’ultima scena inoltre, Varia Nestoroff incarna la vittoria della “forma” contro la “vita”: in una scena di un film una tigre sarebbe dovuta essere uccisa dal protagonista. Ma la tigre, che rappresenta qui la rivolta dell’ultimo rimasuglio di natura in questo mondo ormai artificiale, finisce per sbranare l’attore, il quale ha puntato il fucile invece che sulla bestia, proprio sulla Nestoroff, accecato dalla gelosia. Così sembrerebbe che la “vita”, la natura autentica e non artificiale, avesse vinto, si fosse presa la sua rivincita: in realtà non è così, perché l’operatore Serafino, nel frattempo, ha ripreso tutta la scena, facendo della rivolta della natura, l’ennesimo trionfo della forma, l’ennesimo prodotto industriale, l’ennesima merce di consumo. In questa scena è presente tutta la morale di Pirandello riguardo al capitalismo e al consumo, alle macchine e alla mercificazione: nella nuova società non c’è vittoria della vita. • Novelle per un anno. La produzione novellistica di Pirandello lo accompagnò per tutta la vita e possiamo considerarla la sua attività letteraria più continua e piena di tematiche. Raccolte a partire dal 1922 in “Novelle per un anno”, Pirandello intendette raccogliere gran parte delle sue novelle in 24 volumi, ma finì per pubblicarne solo 14. Il corpus di Novelle per un anno è ora formato da 15 volumi, essendo stata aggiunta postuma l’ultima raccolta “Una giornata”. Il titolo stesso del corpus allude al suo carattere vago e ampio: così intendeva inserire una novella per ogni giorno dell’anno, sulla ripresa di Petrarca e del suo Canzoniere, che ne conteneva uno per ogni giorno dell’anno bisestile, di 366 giorni. In questa sistemazione le novelle sono estremamente interscambiabili e atemporali, sono inserite in un intenzionale caos narrativo dell’autore. Perché fare questo caos? Perché il volere dell’autore era rompere con la tradizione: solitamente le novelle si proponevano di fornire un modello etico di comportamento alla fine della storia, che traesse le sue fondamenta etiche dalla conclusione. Ma qui non c’è conclusione, non c’è esito finale, non c’è morale: la frammentarietà e la contraddizione delle esistenze moderne permea ogni personaggio, che finisce così per sbagliare ed essere divorato dal nuovo mondo capitalistico, in cui non c’è modo di uscirne, non c’è modo di manifestare se stessi e dimostrare il proprio carattere autentico. Nel suo pessimismo dunque, la “forma” vincerà sempre sulla “vita”, e così le novelle appaiono più come una continua conferma di questa convinzione. Le novelle di Pirandello trattano principalmente l’ambiente agricolo-Siciliano e quello impiegatizio-Romano: in entrambi i casi i personaggi che popolano questi mondi lottano per conformarsi ad essi, alle loro credenze, ai loro miti folkloristici, o alle regole grige ed economiche. Nel mondo Siciliano prevalgono credenze retrograde e superstiziose, ignoranti e stupide, alle quali le maschere dei personaggi si adeguano. Nel mondo urbano della nuova Roma borghese invece professori e impiegati cercano di conformare le proprie maschere al “buon senso” del consumo, del lavoro e della serietà professionale. Gli ideali di seria professionalità e burocrazia sono incarnati da personaggi autoritari e supponenti, ormai macchine al servizio del consumo. Su questi sfondi Pirandello inserisce poi sia situazione scherzosamente comiche, sia pesantemente tragiche: 1. Il tema del “Doppio”, è uno dei motivi che aggiungono comicità e leggerezza ai racconti, che li rendono più incalzanti. Molto spesso infatti su questi sfondi pessimisticamente raffigurati si instaurano bizzarre situazioni di scambi di personalità, di ripetizioni di eventi uguali, dejaavù e fraintendimenti. Uno dei motivi più ricorrenti e simpatici Pirandello lo riprende dalla tradizione classica del teatro: il tema del Doppio. Già nel teatro antico infatti venivano usati a scopi comici scambi di personalità, fraintendimenti tra persone o situazioni simili o uguali: il romano Plauto aveva inserito questo tema nelle storie di due Gemelli, nella commedia “Menaechmi”, e nella storia di un sosia, che prende il nome proprio dalla sua Commedia “Amphitruo”. In quest’ultima commedia il Dio Mercurio scende sulla Terra per possedere la moglie del Re di Tebe mentre li è in guerra: per farlo prende le sembianze del servo Sosia, motivo per il quale la parola “sosia” ha il significato che intendiamo noi. Il motivo del doppio garantisce grande curiosità psicologica, insieme stupore e sgomento di fronte ad una situazione così paradossale, di due cose apparentemente uguali nel mondo. Così originariamente era usato solo nel comico ma presto venne utilizzato anche in maniera più seria e misteriosa, come in “Dottor Jeckill e Mister Hide” di Stevenson. In Pirandello il tema del doppio appare in “Ninì e Nenè” e in “La disdetta di Pitagora”. 2. Il tema della “morte”. Molto spesso nelle sue novelle appaiono anche misteriosi richiami di figure morte: lo spettro della morte segue sempre i personaggi di Pirandello, perché ossessionati dal suo arrivo senza che essi si siano realmente auto-affermati. In un nuovo mondo in cui l’uomo non riesce a manifestare e concretizzare la sua “vita”, l’attesa della morte si fa più ansiosa, perché su di essa grava il peso di non accettarla con felicità. In generale le novelle di Pirandello raffigurano esistenze che si sentono sempre altrove, e offre un quadro completo della vita contadina Siciliana e impiegatizia Romana. Il lessico è singolare, misto fra caratteri colti e dialettali, il linguaggio mai prezioso, perché finalizzato a rappresentare le situazioni più quotidiane: Pirandello usa così un italiano borghese e piccolo- borghese, che mira a rappresentare la realtà nella maniera più piatta e banale, per lasciarne percepire il grigiore, il silenzio, l’estraneità, con il fine di svuotarla di ogni soddisfazione. • Il primo teatro Pirandelliano. L’approccio di Pirandello col teatro ha origini molto remote nella sua storia, da quando si cimentò alla composizione del “Nibbio” nel 1895. Ma il vero successo nel genere teatrale lo ottiene solo nel 1915, con la rivisitazione del vecchio “Nibbio”, e la sua pubblicazione, col nuovo titolo di “Se non così..” A partire dal successo ottenuto con quest’opera Pirandello si cimentò quasi solo nel teatro: fu una “conversione” dal genere della narrativa a quello teatrale. Così iniziò ad inserire i suoi principi, le sue convinzioni, e teorie sull’umorismo e sul contrasto tra vita e forma anche nel teatro. Qui queste convinzioni si traducono in una eterna lotta tra i personaggi, che sono sempre personaggi-maschere: obiettivo del teatro Pirandelliano è sottolineare la perenne dualità che c’è in ogni persona, il suo aspetto interiore, o vita, e quello esteriore, o forma. Così nel teatro finiscono per cozzare e scontrarsi tra loro le forme, o maschere dei più paradossali e grotteschi personaggi: ognuno cerca di giustificare la propria maschera, ognuno nasconde chi è veramente cercando di giustificare che è ciò che appare. Ma in questa continua lotta tra maschere ogni personaggio finisce per corrdere l’altro, ottenendo alla fine nient’altro che una grigia disgregazione: si ottiene infatti, senza emersione della personalità, solamente insensatezza. Così a questo tipo di teatro Pirandelliano viene attribuito l’aggettivo “grottesco”: ognuno non riesce a realizzarsi, così si crea quel clima di insopportabilità e di “tortura”, che già permeava la narrativa di Pirandello. Inizialmente cominciò a comporre opere teatrali sia tragiche che comiche, sia in un atto che in tre, sia in dialetto che in lingua italiana. Per quanto riguarda le commedie in tre atti, esse sono quasi sempre incentrare sul contrasto del “triangolo”: amante, coniuge, coniuge. 1. “Pensaci Giacomino”, ad esempio, pubblicata nel 1916, è una commedia che narra la vicenda del vecchio professore Giacomino: per beffare lo stato, il professore sposa una giovane donna, che ha già amante e figlio, col solo obiettivo di garantire al piccolo la sua pensione. 2. “Così è”, del 1917, è invece un capolavoro di estrema aggressività. Parla della storia di Ponza, marito di una donna la cui madre è la suocera Frola. Alla morte della moglie, Ponza viene accerchiato dall’intera popolazione della sua cittadina, che lo interroga quasi giuridicamente se abbia o meno una nuova donna. Ponza difende la sua risposta,”no, non ho un’altra donna”, giustificandola fino alla follia, e lo stesso fa Frola, giustificando la verità delle accuse contro Ponza. L’opera termina con la comparizione della fatidica amante, la quale incarna l’immagine stessa di maschera: ella incarna l’immagine stessa di “volto”, e appare come quella che è esattamente ciò che gli altri pensavano fosse. 3. “Il Giuoco delle parti”, del 1918, è il capolavoro di questa prima fase del teatro Pirandelliano. Leone Gala, separato dalla sua Silia, incarna un uomo privo di turbamenti, perché ormai distaccato da ogni affetto e ideale, totalmente devoto alla crudele impassibilità. Mantenendo ancora il ruolo di marito, è chiamato a duellare con un tale che avrebbe importunato Silia: la donna non può che giovare del fatto, perché odia il marito, e spera muoia nel duello. Ma Leone, imperturbabile e crudele, lascia che sia il nuovo amante di Silia a combattere, il quale muore nel duello. Il contrasto che Pirandello vuole qui sottolineare non ha scopi morali o didattici, ed è quello tra la “celebrità” del marito, mai presente, mai toccabile, crudele e distaccato, e la “corporeità” di Silia, sempre coinvolta negli eventi, animata da sentimenti vendicativi e aggressivi, che la portano solo al dolore. • Il teatro dialettale. Subito Pirandello si cimentò nella composizione di un teatro puramente dialettale, attratto dal singolare effetto grottesco e folle che poteva evocare quel mondo: il grottesco proviene sia dalle forme linguistiche, sia dallo strato di convinzioni e credenze folcloriche che caratterizzava quel mondo. Così si creano personaggi estremamente selvaggi, potenti e scatenati, che ignari si immergono in un mondo estremamente diabolico, perché non gli permette di realizzarsi, nonostante loro neanche lo sappiano. L’opera sicuramente più importante del teatro dialettale Pirandelliano è “Liolà” del 1916: basata sulla ripresa del primo capitolo del Fu Mattia Pascal, Liolà narra la storia di un protagonista dotato di esuberante vitalità, di una forza talmente fuori dal comune, talmente selvaggia, che si impone e trionfa sulle esistenze grige e omologate, ottuse e passive che incontra. La potenza del personaggio incarna la potenza di un mondo ormai perduto, che Pirandello evoca dal passato: sta parlando delle origini Greche e pagane di Agrigento e in generale della Sicilia, un posto ancora incontaminato dal peso della modernità, in cui la natura più autentica e vitale spinge il protagonista a primeggiare. Baviera, tedesco e studi aziendali, avendo il padre Francesco una buona attività imprenditoriale. Qui andò con due suoi fratelli di cui uno, Elio, morto precocemente nel 1886, ci lasciò un diario che ritrae anche Svevo nella sua giovinezza. Tornato a Trieste si iscrisse all’istituto di economia di Revoltella, mentre partecipava sempre di più alla vita intellettuale, andando a teatro e nutrendo principi di irredentismo e socialismo. Ettore visse in una Trieste ancora austriaca, città industrializzata, all’avanguardia e partecipe del progetto della MittelEuropa, la grande Europa cosmopolita. Nel 1880 viene assunto alla filiale Triestina della banca Union di Vienna, e così si guadagna da vivere. Nel frattempo però frequenta la biblioteca di Trieste, dove nutre interesse verso la narrativa francese e specialmente verso la filosofia di Schopenhauer. 1. A partire dall’88 si interessò di narrativa e dopo alcune novelle, pubblicò nel 1892 il suo primo romanzo: “Una Vita”. 2. Nello stesso 1892 intraprende una relazione con la giovane popolana Giuseppina Zergol, la quale compare nel suo successivo romanzo, “La Senilità”, del 1888, sotto il senhal di “Angiolina”. Nel 1893 si laurea presso l’istituto Revoltella e qui comincia ad insegnare, mentre nel 1895 inizia una relazione con la borghese Livia Veneziani. Con la donna legò molto, ma avvertì anche una distanza tra lui e lei: lei era estremamente attaccata ai principi familiari, religiosi e borghesi, pensava al guadagno, era schietta ed economica. Lui era invece un intellettuale, angosciato e pensoso, e così intraprese il tentativo di ridurre questa distanza sollecitando Livia alle turbe della sua mente intellettuale, di cui parla ne “Diario per una fidanzata”, del 1996. Il tentativo si rivela fallimentare come spiega Svevo ne “Cronaca di una famiglia”. Nel ‘97 nasce la loro unica figlia, Letizia, mentre nel ‘99, sollecitato dalla famiglia di Livia a produrre di più e pensare di meno alle frivolezze letterarie, abbandonò la sua attività di intellettuale, il lavoro in banca, e l’insegnamento, e si cimentò solamente nel lavoro presso l’azienda familiare Veneziani. Nel 1905 incontra James Joyce a Triste come insegnante di inglese, e con lui stringe una forte amicizia. Ma quando nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale, gli Austriaci sequestrarono l’azienda, lasciando a picco gli introiti dei Veneziani. 3. Per fortuna la guerra finì e l’azienda non fallì: dal 1919 in poi Svevo ritornò all’attività letteraria, scrivendo il testo di “La coscienza di Zeno”, pubblicata nel 1923. L’opera inizialmente riscosse scarso successo, ma quando Joyce, che a Parigi nel ‘22 aveva pubblicato Ulixes, cominciò a parlarne bene alla critica francese e a Thomas Sterne, “La coscienza di Zeno” assunse sempre più importanza, supportata anche da Montale in Italia. Ettore Schmitz, alias Italo Svevo, morì in seguito ad un incidente d’auto avvenuto tra Venezia e Trieste, nel 1928. Possiamo dire in generale che la Vita di Svevo si differenzia da quella degli altri intellettuali italiani del suo tempo: lui pratica attività letteraria, ma in maniera discontinua e senza mai farne una professione per la vita. La sua vocazione letteraria era più ricerca interna del suo io, analisi della sua psiche, sollecitato anche dalla conoscenza di Freud, e si configura come l’aspetto secondario, opposto, ombroso e riflessivo, della sua attività principale, quella industriale e di uomo d’affari. • Modelli e scritti minori. Nella sua educazione Ettore Schmitz si discostò da ogni tendenza classicista ed estetizzante. Fondamentali e formativi per la sua letteratura furono diversi modelli europei: 1. La narrativa realistica francese, di Flaubert e Stendhal, i quali si preoccuparono di scavare a fondo nelle personalità, di scorgere le contraddizioni e i turbamenti, superando il limite dell’apparenza. 2. L’umoristica romantica tedesca. 3. Il teatro e la Musica di Wagner, i quali riuscivano a parlare degli aspetti più profondi e nascosti della soggettività, le cose più simbolicamente impercepibili dell’io. 4. Ma soprattutto la filosofia di Schopenhauer, specie nella sua analisi della “volontà”. Svevo si interessò infatti al contrasto tra volontà e razionalità, azione, di cui parlava Scopenhauer: il filosofo diceva infatti che gli uomini sono spinti a fare le cose principalmente dalla loro “volontà”, e non c’è razionalità che possa fermarla, ogni auto imposizione contro la volontà non è altro che illusione e inganno di se stessi. 5. Leopardi ed il suo pessimismo. 6. Nietzsche solo nel suo lato pessimistico e cosciente del male che c’è nel mondo. Sulla base di questi modelli Svevo, o Ettore, edificò una sua poetica tutta singolare: Svevo era materialista, ateo, pessimista, ma al contempo ironicamente distaccato, guardava con riso gli aspetti più sbagliati e contraddittori della società borghese a cui tuttavia partecipava. Così la sua poetica si riversa nei primi scritti, che furono inizialmente solo teatrali, e poi anche narrativi. Dopo la novella “Una lotta”, del 1888, pubblicò nel 1890 il breve racconto “L’assassinio di Via Belpoggio”, in cui, sulla ripresa di Scopenhauer, si parla delle contraddizioni interne di un assassino il quale, dopo aver ucciso, nonostante la sua razionalità lo porti a nascondere i suoi delitti, la sua volontà inevitabilmente lo porta a parlare di essi: argomento centrale è proprio lo scontro tra razionalità e volontà. • “Una Vita” Il primo romanzo di Svevo, “Una Vita”, fu scritto nell’88 e pubblicato solo nel ‘92, con il cambiamento dell’originario titolo “Un inetto”. Il titolo originario era dovuto proprio alla storia di Alfonso, intellettuale fallito che dalla campagna si è trasferito in città, a Trieste. Diciamo subito che l’Alfonso di Svevo rappresenta un personaggio fallito, destinato a perdere, per niente eroico: Alfonso incarna la negazione di tutte le sopravvalutazioni dell’intellettuale, operate dal decadentismo e dalle correnti dell’800 che si opponevano al mondo borghese. Solitamente alla concreta schiettezza, all’economica mente senza scrupoli e valori del nuovo mondo borghese, le correnti intellettuali più orgogliose rivendicavano l’assolutezza dell’arte, l’importanza di essa e dell’artista. Svevo fa esattamente il contrario: neanche a lui piace il mondo Borghese, lo odia, sa che è dominato da una logica crudele e senza scrupoli, ma è anche conscio che è quella logica a comandare, e a vincere su quella astratta e passiva degli intellettuali. Alfonso incarna così la svalutazione dell’intellettuale, la sconfitta degli ideali seppur giusti e assoluti della mente colta, contro quelli vili e materialistici della società borghese, basati sulla forza bruta e sui rapporti di potere. Infatti “Una vita” parla proprio della vita di Alfonso, che arrivato a Triste viene assunto alla banca Maller: continuamente pervaso da aspirazioni e sogni intellettuali, illuso di essere superiore agli altri uomini, nel momento in cui deve realizzarli finisce per rimanere fermo, passivo, impassibile, di fronte alla consapevolezza che concretizzarli è impossibile. C’è così un continuo scompenso tra quello che Alfonso vorrebbe fare e quello che veramente fa: in questo si può trovare un modello nel Corrado Silla di Fogazzaro. Neanche quando finisce per possedere Annetta, figlia del padrone della banca, concretizza il sogno di lei di fuggire insieme e scrivere un romanzo a quattro mani: nel momento dei fatti, Alfonso insensibilmente e insensatamente lascia stare tutto e ritorna al suo paesino di origine dove vede morire la madre e perde ogni possedimento. Tornato a Triste continua a lavorare ancor più alienato e inappagato presso la Maller: ma una lettera inviata ad Annetta viene fraintesa dal suo nuovo fidanzato, meno intelligente ma forte e vigoroso, perfettamente inserito nella logica del denaro. Così pensando fosse un ricatto verso Annetta il nuovo fidanzato sfida a duello Alfonso: anche qui, nel momento dei fatti, Alfonso abbandona tutto, conscio del fatto che nessuno potrà comprenderlo, che la sua più giusta logica intellettuale, è comunque debole e perdente nei confronti di quella capitalistica fondata sul potere e sui soldi. Rassegnato, rifiuta di combattere e si suicida, incarnando la morte degli ideali intellettuali contro quelli borghesi. • Senilità. Pubblicato nel ‘98, Senilità è il secondo romanzo di Svevo, e ha come protagonista un uomo simile all’Alfonso della vita. Emilio Brentani è infatti ancora una volta un intellettuale fallito, di trentacinque anni, nel quale questa volta la sua “inettitudine” si manifesta attrvwrso un senso di “senilità”: per senilità si intende una distanza stanca tra Emilio e le cose, tra Emilio e le persone, come quella che si prova nella vecchiaia. Figure cardini del romanzo sono Emilio ed altri tre personaggi, che con lui formano un quartetto perfetto: l’amico scultore Balli, generoso e sicuro, spregiudicato e paterno nei suoi confronti, la sorella di Emilio, Amalia, e la sua donna amata, Angiolina. In tutto il romanzo si percepisce una contraddizione interna in Emilio: il protagonista è continuamente combattuto tra i suoi propositi, le sue aspirazioni, i suoi desideri, e la loro realizzazione. Ancora una volta infatti,sullo sfondo della vita impiegatizia, grigia e piatta di Emilio, sprazzi di luce arrivano solamente nel suo cervello, che si sopravvaluta, pensando di poter raggiungere grandi obiettivi intellettuali, di realizzare sogni e concretizzare iniziative. Ma Emilio in realtà si illude solamente, pensando troppo e agendo poco o per niente: è in questo carattere che si trova tutto il fallimento di Emilio, che si sopravvaluta troppo, e quando deve agire, non fa altro che monitorarsi ossessivamente, auto-analizzarsi vivendo nell’ansia continua dell’errore. Questa analisi della sua interiorità lo blocca, lo fa essere pauroso ed estremamente cauto al limite dell’inerzia. Così Svevo inserisce in Emilio tutto il fallimento dell’intellettuale decadente: i decadenti rivendicavano la produzione degli intellettuali come arte assoluta, non mercificabile, esaltavano il loro valore interno e astratto, assoluto e ideale, contro quelli materiali, schietti, economici e vili del mondo borghese. Qui Svevo fa incarnare a Emilio, ancora una volta, il fallimento di questa rivendicazione decadente, la sconfitta di ogni proposito intellettuale, e un modello di ascetismo negativo: troppo impegnato a riflettere su se stesso, Emilio finisce per essere passivo e schiacciato. In tutto ciò si inserisce la figura di Amalia, sua sorella, tremendamente innamorata di Balli: vista l’impossibilità dell’amore con lui la donna si strugge,fino a morire per una polmonite. Nel frattempo Emilio è spinto a proteggere sua sorella, vuole aiutarla, e spende molto più tempo con lei che con la sua amata Angiolina, senza ottenere risultati. Finisce così per trascurarla, nonostante la ami alla follia: da intellettuale sognatore quale è, vede in Angiolina il mezzo verso cui indirizzare tutti i suoi vagheggiamenti e desideri, la immagina come un angelo, , pensa che possa incarnare ideali assoluti, addirittura cerca di educarla pedagogicamente provando a inculcarle desideri di rivolta dalla sua situazione di popolana. Ma Angiolina incarna proprio l’essenza del fallimento dell’intellettuale: lei è materialista e vitale, insensibile e indifferente a questi sogni, a queste richieste. Così semplicemente ignorando muoiono tutti i propositi di Emilio, viene sancita l’impossibilità di realizzarli. • La Coscienza di Zeno. Pubblicato nel 1923, La Coscienza di Zeno si svolge in prima persona dal punto di vista del protagonista fittizio Zeno Cosini. Il personaggio non è un alter ego diretto di Svevo ma incarna solo alcuni caratteri dell’autore. La trama è incentrata sulla storia di Zeno, ricco industriale Triestino che è affetto da una snervante nevrosi, dovuta alla sua debolezza di non riuscire a smettere con il vizio del fumo. Per ovviare al problema, si reca dal dottor S. (pseudonimo di Sigmund Freud), al fine di ricevere una cura psicoanalitica che possa curarlo dalla sua nevrosi. Il dottore gli prescrive il compito di mettere per iscritto il suo passato in tedesco, e significa “la tragedia dell’ultimo Germano in Italia”. Aderito totalmente al simbolismo e alla ricerca di tutto ciò che è nascosto dietro le cose, Campana ritrae tutto il suo mondo fantastico e folle con aggressivo impressionismo: parla di Chimere, mitiche guardiane dell’universo perverso, di paesaggi spettrali e notturni, selvaggi e crudeli, e città industriali, come Firenze, che celano il fantasma della morte e della distruzione. Umberto Saba. • Vita e opere. Umberto Poli nacque a Trieste nel 1883 da madre ebrea e da padre che assunse la fede ebraica solamente per permettersi il matrimonio, dopodiché alla nascita di Umberto abbandonò sia l’ebraismo sia la sua famiglia. Assumerà lo pseudonimo Saba solamente più tardi, al suo esordio letterario, riprendendolo dal nome della balia slovena, La Peppa, presso la quale visse nella sua infanzia. Umberto ha un ricordo paradisiaco della casa della balia, tutt’altro invece di quella della madre dove andò a vivere a circa otto anni. Sua madre, donna bisbetica e ossessivamente preoccupata da mancanze economiche, potrebbe essere uno dei motivi che scaturì nell’interiorità di Umberto forti drammi infantili, provocando con la crescita una tremenda nevrosi psichica. Umberto Poli, o Umberto Saba, si trasferì a Pisa nel 1903 per studiare letteratura. Frequentando ambienti letterari di Firenze non se ne sentì parte e tornò allora nel 1909 a Triste dove creò il suo nido familiare: sposò qui Carolina Wolfer, con cui ebbe l’unica figlia Linuccia. Nel 1910 pubblica la sua prima raccolta in versi, “Poesie”, che ebbero scarso successo inizialmente. Entrato in crisi con la moglie nel 1913 è a Bologna, nel ‘14 a Milano e poi con lo scoppio della guerra si arruola, svolgendo il ruolo di funzionario amministrativo a Roma. Alla fine della guerra può finalmente stabilirsi con tranquillità a Trieste, dove prende in gestione una libreria di antiquariato. Qui nel 1921 pubblica la prima edizione del “Canzoniere”. A partire dal 1929 entra in cura psicoanalitica dovuta alla sua nevrosi, e si interessa così maggiormente delle opere di Freud e Nietzsche, indispensabili per conoscere il mondo a suo parere. Ma alla sanzione delle leggi razziali fu costretto a scappare da Trieste e girovagare senza fissa dimore per l’Italia, passando da Firenze a Roma a Milano: qui strinse un’amicizia inquieta e complicata con Federico Almansi. Alla fine della seconda guerra, nel 1945, si trasferì a Roma, entusiasta della liberazione dal fascismo, e aderendo ora al partito comunista. Ma le elezioni del 1848 che videro perdere il Fronte popolare lo fecero rimanere estremamente deluso, tanto che tornò a Trieste e qui vide ammalarsi la sua nevrosi. Neanche i meriti per la letteratura ricevuti con la laurea “honoris causa” nel 1953 dall’università di Roma lo aiutarono a guarire. Così passò la fase finale della sua vita negli ospedali tra Trieste, Roma e Gorizia, e qui, uscito solo una volta per assistere ai funerali della moglie nel 1957,l morì nello stesso anno. • Poesia e cultura di Saba: Sincerità impulsiva e segretezza. La poesia di Saba è considerare come un’entità a parte, del tutto lontana dalle mode dell’avanguardia del tempo: Saba vuole infatti con la poesia semplicemente manifestare la “vita”, intesa con il significato di autentico comportamento, di reale essenza interiore, di come si è veramente, di cui parlavamo con Pirandello. Si discosta così da ogni funzione assoluta e morale, etica e didascalica della poesia: lui non vuole dare modelli di vita, e neanche “abbellire” la sua poesia con spettacolarizzazioni e solennità, non gli interessa. Per lui la poesia è mezzo per manifestare il carattere più autentico della vita, più semplice e profondo. Così, controcorrente , nella sua lirica si trovano sprazzi della trama della sua vita, quasi a formare un “racconto” lirico. Per lui il poeta non è dunque né un vate, né un sacerdote, né un grande intrattenitore, che deve fare spettacolari performance: no, la Poesia è solo espressione della nostra essenza più vera. Così tutte queste considerazoni sulla poesia e sul ruolo del poeta le inserisce in un articolo del 1911 chiamato “Ciò che resta da fare ai poeti”. Nella sua espressione del vero interiore, Saba riprende dai grandi della letteratura italiana, specialmente del ‘700 e ‘800: in primo luogo Leopardi, ma poi anche il melodramma di Verdi. Per non parlare di quello che per lui divennero, ad un certo punto della sua vita, i suoi due “numi tutelari”: Freud e Nietzsche. In questi due autori Saba vedeva coloro che riuscirono di più a far parlare le cose nascoste dell’animo, i comportamenti più sinceri, nascosti nell’abisso del nostro cuore. Così riesce a esprimersi con toni alti e sublimi, degni di una poesia di alto livello: ma tutta la grandezza di Saba sta nella sua capacità di passare dai toni alti e sublimi a quelli semplici e quotidiani, un abbassamento verso la normalità e la semplicità che sa di infantile, di sincero, come farebbero i bambini. Aspetto fondante della sua poetica è proprio infatti “l’infantilità”: Saba per comunicare le cose più vere del suo animo, le parti più nascoste dentro il suo cuore sempre delicatamente aperto, sceglie a volte di parlare in maniera talmente semplice e diretta da sembrare un bambino. Ritornare al suo fanciullino interno (abilità che deve a Freud e Nietzsche) non significa, come con Pascoli, tirarne fuori i drammi, ma ritornare ad un piccolo paradiso interno, di calda gioia, da contrapporre al mondo crudele del presente, angoscioso e tassativo, di cui per un momento non sente il peso. In tutta questa esaltazione della semplicità e dell’infantilità della “gioia”, c’è però anche una parte negativa: in lui riaffiorano spesso dolori e sofferenze che risalgono ai traumi della sua infanzia. Così l’angoscia del nuovo dolore è sempre accostata alla gioia di ritornare bambini, in un connubio di sincerità impulsiva e segretezza. L’angoscia più opprimente in Saba sta nella visione di un continuo “abisso” di fronte a lui: è il nuovo dolore, che teme, ma di cui ne parla con disarmante leggerezza, come farebbe un bambino, con il tono di chi è “femminilmente” indifeso di fronte alla sofferenza. • Genesi e struttura del Canzoniere. Saba volle inserire tutta la sua esperienza poetica in un’opera unitaria, che formasse una sorta di “romanzo” della propria esistenza, essendo per lui la poesia manifestazione del suo io più sincero e autentico. Nel farlo scelse il titolo di “Canzoniere” per la raccolta delle sue poesie: il titolo è dovuto sia alla ripresa di un’opera del poeta tedesco romantico Heine, che Saba amò molto, sia specialmente, ad un ribaltamento del significato della raccolta poetica cardine di tutta la tradizione letteraria italiana, il Canzoniere di Petrarca. Petrarca infatti attribuiva al suo Canzoniere il ruolo di modello poetico per l’intera tradizione successiva, impostandolo come poesia dell’assoluto, forma poetica e artistica dalla bellezza ideale e sovra reale, mezzo di comunicazione fuori dagli schemi umani e quasi ancestrale. Saba riprende questi temi e li ribalta totalmente: la sua è una poesia per niente assoluta, per niente ideale, ed anzi del tutto inerente alla realtà. Saba non vuole parlare di una bellezza assoluta e trascendentale, ma della bellezza che ricava dalle occasioni più concrete della vita quotidiana, che sia espressione del suo io più autentico e reale. Così pubblicò il Canzoniere in varie edizioni, tutte sconvolte da continui cambiamenti e rimaneggiamenti, in un movimento incessante dell’opera. La prima edizione risale al 1921, ed ha praticamente pochissimo a che fare con quella del 1945. Rispetto a quella del 1921, l’edizione del 45 e poi la successiva del ‘48 presentano tre grandi partizioni, chiamate volumi, che rispecchiano fasi cronologiche della sua vita: il primo volume corrisponde a tutte le poesie del Canzoniere del 1921, il secondo volume contiene tutte le poesie scritte e rielaborate dal ‘22 al ‘30, mentre il terzo volume quelle dal 1933 dal 1948, ultima fase poetica della sua vita. Possiamo dire che la sua spinta a cambiare e rimettere le mani sulle sue poesie, talvolta sconvolgendole totalmente, non da considerare come consueta tensione verso la perfezione della forma: non vuole abbellire le sue poesie fino a renderle perfette, il suo non è labor limae di stile, ma piuttosto il suo obiettivo è avvicinare sempre di più le sue poesie alla sua essenza più vera, al suo carattere più autentico, alla sua “vita” più sincera. Il lavoro di rimaneggiamento è dunque continua ricerca del se stesso più spontaneo, e così Saba non trova mai un reale punto di arrivo: spesso si promette che quelle sono le ultime sue poesie, ma poi finisce per scrivere e ritoccarne altre, come dimostra la raccolta, che non è l’ultima, intitolata “Ultime cose”. Al riguardo delle giustificazioni e dei motivi per cui ritoccò il Canzoniere Saba ne parla all’interno di una sua opera di auto commento scritta tra il ‘44 ed il ‘47: Storia e Cronistoria del Canzoniere. Qui spiega i motivi dei cambiamenti ed esplica le poesia, configurando l’opera come ambigua e strana, ma affascinante. E’ l’esempio di auto commento poetico più importante della nostra letteratura del ‘900. • Fasi e temi del Canzoniere. Secondo Saba stesso il Canzoniere va letto come opera unitaria. Se così facciamo, scopriremo che tutta la poesia di Saba per quanto scritta in momenti diversi della sua vita appare pervasa continuamente dallo stesso effetto: un continuo ritorno al passato. L’alternarsi di toni sublimi e infantili infatti provoca “cadute” continue: è l’effetto di “ciclico ritorno” che Saba vuole attribuire alla sua poesia, disponendo prima i temi cronologicamente, prima l’infanzia, poi la giovinezza, l’adolescenza la maturità, la senitlità, prima l’amore e poi l’odio, e infine spezzando il tempo e tornando al passato. Con queste cadute torna bambino, ritorna a vedere il mondo con gli occhi della sua infanzia, evocando una singolare “Odissea” del ritorno, che fonde così la nascita e la morte. Per fare ciò si arma delle forme più classiche e convenzionali, quelle che ha imparato a scuola. Parliamo ora singolarmente delle raccolte del Canzoniere: Primo volume: 1. Casa e Campagna. La prima raccolta sprizza una gioia genuina e calda, di intima protezione familiare: raffigurando un paesaggio campestre e familiare, Saba ritrae sua moglie come esempio di sicura affidabilità, salute e dolcezza. In lei vede una naturale gioia e amore, tanto che la paragona agli animali della natura, spontanei e sinceri. Ma questo accostamento, dice la critica, svela in realtà problemi e angosce risalenti ai suoi traumi infantili. 2. Trieste e una donna. La seconda raccolta ritrae esattamente l’opposto: siamo nella Triste industriale, sempre viva e attiva, in cui sua moglie è invece il simbolo dell’inganno e del tradimento, che angoscia e turba il poeta fino a innervosirlo. Ma quanto più Lina, sua moglie, si rivela abilmente ingannatrice e menzognera, tanto più si vela di inafferrabile fascino, che esplode nel cuore del poeta, che la ama ancor di più. Più sa mentire, più il poeta rimane affascinato dalla donna, che incarna paradossalmente una “Santità”, nei suoi inganni. 3. La serena disperazione\ Poesie scritte durante la guerra. Nella terza e nella quarta raccolta si distacca dalla angosciosa disperazione di “Triste e una donna”, ricercando la “gioia” e la “leggerezza” perduta in questo periodo di devastazione di morte della guerra mondiale. 4. Cose leggere e Vaganti. Stessa “leggerezza” che è tema fondante di Cose leggere e vaganti: è la leggerezza delle figure infantili che Saba ritrae, prima di tutte sua figlia, ma poi anche altre bambine e l’immagine di se stesso da piccolo. 5. L’Amorosa Spina. Così anche le poesie dell’Amorosa Spina, che ritraggono l’amore per l’inafferrabile e fascinosa adolescente Chiaretta, sono scritte sotto il segno della “leggerezza”, valore supremo della vita e del fascino. Secondo Volume: 6. Autobiografia. Con l’Amorosa Spina si chiude il primo volume, e nel secondo subito Saba passa a ripercorrere tutta la sua vita: ma ritornando al passato dell’infanzia è come sempre solo il secondo termine, che è astratto e metaforico, simbolico e artistico. Raggiunge così Ungaretti spesso direttamente il significato più profondo delle cose, senza neanche passare per il loro aspetto esterno e materiale. Ma l’uso della analogia per Ungaretti si distingue in due periodi diversi: 1. Dal 1910 al 1920, ovvero gli anni 10, in cui scrisse “Allegria di Naufragi”: periodo caratterizzato da una forte cura dell’impaginazione del foglio, dell’aspetto impressionistico della sua poesia. Infatti la caratteristica principale di questo periodo poetico è l’essenzialità e la concentrazione dei significati in poche e ristette parole. Ungaretti vuole ora inserire quanti più simboli e significati possibili in una forma quanto più essenziale possibile, ovvero in pochissime parole. Esempio massimo ne è la poesia “La mattina”, composta solo dai due versi “M’illumino d’immenso”. Qui l’analogia è tutta concentrata in due parole, e i il poeta si fa voce dell’umanità sintetica e diretta, essenziale alla sopravvivenza (rispecchiando la guerra, che spoglia gli uomini fino a ridurli al minimo). 2. Dal 1920 al 1930, anni della scrittura di Sentimento del tempo: periodo caratterizzato invece sempre dal simbolismo e dall’analogia ma inseriti in componimenti molto più ampi e intrecciati. Qui Ungaretti vuole riprendere le forme più belle e auliche possibili, che non potevano che essere quelle della tradizione dei modelli più importanti: Leopardi e Petrarca. Così accanto alla ripresa del contenuto del simbolismo, così moderno, così all’avanguardia, accosta la forma della tradizione, conservativa e già sentita. Tutto ciò porta Ungaretti alla riscoperta del Barocco: rifacendosi alla tradizione, aderì alla maniera Barocca, guardando l’intero repertorio tradizionale come un’insieme di simboli, valori, forme, parole e caratteristiche da mischiare e combinare tra loro, per creare effetti e artifici retorici spettacolari. Ecco che gli si apre davanti tutto il panorama della tradizione italiana, da cui riprende con libertà, e incastra e mescola, perché si sente, alla maniera Barocca, un interminabile manipolatore magico delle parole, in una gara di stile con tutti. Durante tutta la sua attività Ungaretti scrisse e riscrisse le sue opere, le corresse in continuazione, non però spinto dalla stessa voglia di Saba. Quando il lavoro di labor limae di Saba era finalizzato ad avvicinare la poesia all’autenticità del suo carattere, ora quello di Ungaretti è proprio avvicinamento alla perfezione, perché il suo obiettivo era proprio raggiungere i significati nascosti nelle cose: non sempre si trovavano nei risultati finali, a volte nel percorso che ha portato ad essi. Così la poesia di Ungaretti ha suscitato molti spunti alla critica delle varianti, che vede come spunti della sua opera anche quelle parti che lui stesso ha rimosso. • L’Allegria dei Naufragi: la prima fase di Ungaretti. Le prime produzioni poetiche di Ungaretti confluirono nel 1919 nella raccolta che Chiamò l’Allegria dei Naufragi. In essa ci sono: 1. Le poesie apparse su Lacerba nel 1915, chiamate successivamente “Ultime”, proprio a rappresentare le ultime poesie della prima fase letteraria del poeta. 2. “Il Porto Sepolto”, poesie scritte nel 1915 durante l’esperienza di guerra in trincea nel Carso. 3. Le poesie successive, alcune delle quali vennero successivamente chiamate “Prime”, proprio a intendere l’inizio di una nuova fase poetica di Ungaretti. In questa prima produzione Ungaretti inserisce il simbolismo e la ricerca, attraverso la parola, di significati nascosti nel mondo proprio perché quelli apparenti sono solo distruzione, morte, nulla. Infatti l’ambientazione durante la quale scrive è la prima guerra mondiale, scenario di distruzione all’ennesima potenza, dell’annullamento delle persone di fronte alla schiacciante forza delle macchine belliche, alle quali la natura sembra indifferente. Così in questo status di devastazione quasi “lecita” della natura, l’uomo si ritrova perso e spogliato di ogni arma: le esistenze sono denudate, ridotte al minimo, all’essenziale. Ma il titolo “Allegria”sta proprio a rappresentare la vitalità, la forza di voler sopravvivere, che l’uomo riesce a ricavare proprio quando tutto intorno a lui sta morendo, sta divenendo nulla: è dal nulla che ne trae la forza, e questa è anche una metafora della condizione dell’uomo moderno il quale, nel mondo borghese materialistico e svuotato di ogni valore, riesce ad affermare se stesso, a dire quali sono i suoi di valori, assoluti, per niente concreti e legati ad una logica tutta personale. Così anche la poesia è spogliata di tutto, è resa essenziale e nuda così come l’uomo di fronte alla guerra: le parole allora in questa prima fase sono poche e concentratissime di significati, proprio per rappresentare la funzione universale della poesia, unico mezzo in grado di superare il confine apparente di questa distruzione e, attraverso l’analogia, raggiungere significati nascosti e misteriosi nella vita, unico appiglio per la gente di sopravvivere. Lo stesso titolo “Il Porto Sepolto”, rifacendosi ad una leggenda Egiziana che parlava di un porto sepolto dalla Sabbia, sembra ritrarre l’illusoria visione di un porto di salvezza dietro l’apparenza delle cose: a prima vista il mondo è ora morte e sangue, nulla e devastazione, ma attraverso la poesia si può scavare più a fondo e trovare un porto sepolto, ultimo appiglio di salvezza e sopravvivenza. • L’ultimo Ungaretti, sentimento nel tempo. Nei componimenti del dopoguerra Ungaretti si conformò e allineò alle tendenze di tutta la cultura Europea post bellica: un riavvicinamento alla tradizioni, alle convenzioni, all’ordine, dopo tutto quel caos distruttivo. Così si riavvicinò a classici come Leopardi e Petrarca, modelli stilistici di perfezione, e utilizzò metri classici della tradizione, come l’endecasillabo, nonché ritornò all’uso della punteggiatura. In questo risvolto verso la tradizione però Ungaretti non smise di parlare delle cose segrete del mondo e delle vita, di ricercare quei significati non percepibili a primo impatto. Tutto questo tipo di poesia confluisce nella raccolta pubblicata nel 1933 che chiamò “Il Sentimento del tempo”, in cui emergono due caratteristiche principali: 1. la ripresa del Barocco, 2. e una nuova visione religiosa, dovuta alla sua conversione. Così riprese non solo dai grandi classici poetici, ma da tutto il Repertorio della tradizione italiana per poterne mescolare i temi, le suggestioni le caratteristiche, in una funzione di poeta universalmente Barocca, di artificio di stile: ma il suo intento ora non è come i vecchi Barocchi, fare una gara di stile, ma ricercare nel presente significati e simboli nascosti appartenenti anche al passato. Ecco allora che quel presente apparentemente così devastato, denudato, distrutto e ridotto a nulla nasconde misteriosi e importanti simboli, che Ungaretti ritrova nelle figure della tradizione, anche mitiche: ne risulta una valorizzazione e nobilitazione del presente, grazie al ritorno al passato. Così col suo lavoro di accostamento simbolico di passato e presente, di esistenza e mito, Ungaretti rende Barocco anche il tempo: è il minaccioso riproporsi di nuove lacerazioni che celano gli stessi significati del passato. Nonostante ciò i migliori risultati li ottiene quando non esagera con le analogie e il simbolismo, e quando si cimenta propriamente a rappresentare il dolore degli uomini di fronte alla morte: ne sono esempio massimo “La Pietà (1928) e “La Madre” (1930). Salvatore Quasimodo. • Vita opere e poetica. Salvatore Quasimodo nacque a Modica, in Sicilia, nel 1901. viaggiò per molte città Italiane, tra cui Firenze, in cui conobbe i direttori di Solaria e presso cui pubblicò degli scritti, e poi dal 1934 fu a Milano, dove insegnò al conservatorio della musica dal ‘39 e qui assunse posizioni politiche democratiche e di sinistra, ottenendo nel frattempo fama letteraria, fino al Premio Nobel per la letteratura del 1959. Morì a Napoli nel 1968. La sua prima opera si deve al 1932, e si chiama “Oboe sommerso”, parte della raccolta delle opere giovanili chiamata “Ed è subito sera”: sin dalla sua prima esperienza lirica si comprende subito come Quasimodo si allinei alla tendenza ermetica del tempo, alla volontà cioè di raffigurare significati e realtà nascoste e difficili da vedere, sotterranee e profonde al primo impatto delle cose. Questi significati li trova spesso nella natura, sempre presente nelle sue opere: l’io lirico finisce infatti per partecipare al vorticoso ciclo di vita e di morte della natura, quasi si fonde con essa, percepisce il suo nascere ed il suo morire. Così è dal mondo naturale che scorge la profondità e il mistero delle cose nascoste, un mondo naturale che è però anche mitico ed arcaico: ed ecco che si riallaccia al mondo classico, alla tradizione, evocando le origini Greche della Sicilia, e la consapevolezza che quei segreti, indecifrabili e nascosti non sono cosa odierna, ma sono stati sempre presenti nella natura che ora è mito. Così attribuisce alla poesia quasi vita propria, facendola sentire parte della natura: l’essenza poetica diventa ora “quintessenza”, entità assoluta e autonoma, astratta ed immortale. Nella fase finale della sua vita assume anche il compito di aiutare l’umanità ad uscire dal dramma della recente guerra e si fa scultore del nuovo uomo, si pone l’obiettivo di “rifare l’uomo”: da così una via assoluta da seguire nella poesia, attraverso i componimenti “La vita non è un sogno” e “La Terra impareggiabile” del 1959. Con Quasimodo prende sempre più forma quel movimento che verrà chiamato Ermetismo: purtroppo a volte esteso ad autori non esattamente inerenti, l’ermetismo è manifestazione poetica di cose nascoste, indecifrabili, direttamente non raggiungibili. La voglia di raffigurare le parti più difficili da raggiungere dell’esistenza, di evitare ogni comunicazione diretta, ogni amore o sentimento plateale ed evidente, si configura proprio con l’Ermetismo, la ricerca di significati nascosti e difficili, così come difficile e chiuso si rivela questo stile. Delio Tessa. dell’aridità dell’esistenza, della siccità dei cuori delle persone. Continua è l’identificazione della condizione umana nel paesaggio: riprendendo da “The Waste Land” di Sterne, Montale ritrae l’aridità dell’esistenza, messa a nudo di fronte al mondo, spogliata dalla propria maschera, rivelata nel suo carattere più vero e autentico. Gli Ossi di Seppia si fanno immagine e metafora esempio dell’essenzialità e della nudità degli elementi naturali e umani di fronte al mondo: levitati e sballottati dal mare, gli ossi di seppia si depositano su questo arido paesaggio, e simboleggino l’uomo spogliato di ogni finzione artificiale, di ogni “maschera sociale”, rivelando la propria entità vera, che di fronte alla natura e all’arrivo del tempo è inerme e desolata. Con evidente ripresa di Pirandello e Svevo, che parlavano di maschere e vita autentica, questa vita autentica raffigurata da Montale appare tremendamente inerme, senza prospettive o soluzioni, di fronte all’angoscia della vita. Angoscia, aridità, mancanza di soluzioni simboleggiata dal paesaggio desertico, che viene descritto nelle sue molteplici forme: in Meriggio e Ombre, ne viene analizzata la fase pomeridiana, così solare e apparentemente immobile, turbata solo dal movimento delle onde, che ricordano al poeta l’esistenza del tempo,schiacciante e opprimente. In “Mediterraneo” invece, viene rappresentata la paternità e insieme maternità del Mare, che invita il poeta a far parte di lui. Ma anche nel momento in cui lo fa, anche quando il poeta si immerge in questa desolata natura, sceglie di farne parte, non percepisce altro che un senso di partecipazione alla caducità del tempo, un senso di immedesimazione in quegli ossi di seppia che un tempo erano vivi e ora morti, come sarà lui. Neanche l’unione con la natura offre insomma positività alla raccolta: anzi ne accelera il senso minaccioso e nascosto, è esempio massimo del solidale “male di vivere” dell’uomo. Dal punto di vista linguistico, Ossi di Seppia entra nella letteratura italiana come caso totalmente singolare: evitando ogni eccesso, Montale rifiuta sia l’aggressività e la distruzione delle avanguardie, cercando forme libere ma moderate, sia aderisce a forme classiche e tradizionali, come l’endecasillabo, ma senza riutilizzare temi e concetti della classicità. Riprende dai modelli aulici e importanti di Pascoli e D’annunzio, ma li spoglia di ogni connotato eroico, così come spoglia la poesia di ogni funzione o valenza superiore: ed anzi ironizza il fine celebrativo ed eroico della poesia, riprendo dal crepuscolarismo di Gozzano l’abilità di ridere del ruolo stesso del poeta e del suo prodotto. Si configura così come un libro armato di tutta la letteratura del tempo, ma mai sbilanciato verso una posizione rispetto ad un’altra, intento solo a descrivere il male di vivere dell’uomo. La sintassi è relativamente facile, il lessico estremamente particolareggiato e spesso tecnico: la nomenclatura degli aspetti naturali e vegetali arricchisce la precisione estrema con cui Montale vuole raffigurare un paesaggio così indefinito e arido, scarno ed essenziale, per esaltarne l’angoscia, la crudeltà. • Le Occasioni: oggetti, barlumi di luce, nel buio dell’esistenza. Le Occasioni vennero pubblicate nel 1939 e sono composte di un componimento iniziale, “Il Barlume”,e da quattro sezioni: 1. una sezione senza nome con 17 liriche. 2. “Mottetti”, si tratta di 20 brevi componimenti che riprendono il metro classico dei “mottetti” nato nel XIII secolo. 3. “Tempo di Bellosguardo”, titolo di tutti e tre i testi poetici di questa sezione. 4. Una sezione conclusiva senza nome con 15 liriche. Nelle “Occasioni” l’atteggiamento indagatore, riflessivo e meditativo del poeta al riguardo del “mal di vivere”, proprio degli Ossi di Seppia, non è presente e anzi si trasforma in una relativa reazione a quel mondo. Facendo da sfondo comunque la consapevolezza di un orizzonte e di un mondo cupo, buio, dominato dalla morte e dal nulla, Montale qui offre rapidi “bagliori” di luce in questa oscurità rappresentati con dei netti e semplici oggetti: riprendendo il concetto di “correlativo oggettivo” di Sterne, Montale rappresenta degli evidenti e precisi oggetti, che significano fantasmi di salvezza, di luce, di speranza, all’interno del mondo buio e oscuro che anche qui fa da sfondo. Questi oggetti sono rappresentati nella maniera più precisa e nitida possibile, senza vagheggiamenti o indeterminatezza: ma essi simboleggiano significati nascosti, consapevolezze profonde della vita e delle cose, che potrebbero essere quell’appiglio di salvezza nel buio più totale. Così si passa dal radicale pessimismo di Ossi di Seppia ad un relativo positivismo: un illusorio e lontano barlume di speranza ora esiste, ma solo nei significati nascosti degli oggetti che Montale fa balenare sulla dimensione poetica. E in questa ricerca difficile della salvezza, in questo doppiofondo di ogni oggetto, che si configura l’ermetismo delle Occasioni: sono forse il testo più ermetico degli anni Trenta. Tuttavia Montale raggiunge il risultato più alto del genere senza neanche entrarci più di tanto dentro: infatti l’ermetismo presuppone non solo la ricerca del mistero, ma anche l’uso di forme indeterminate e duplici, celanti verità nascoste. Così infatti Ungaretti era solito usare l’analogia, figura retorica che accostava l’io lirico direttamente a questi significati nascosti senza passare per quelli immediati e apparenti: Montale no. Montale fa esattamente il contrario, non ritrae immagini fosche e senza linee, significati indecifrabili e lontani, ma disegna oggetti nitidi e concreti, focalizzati con estrema precisione, ed è proprio partendo da questi elementi “reali”, definiti, che lascia al lettore scorgerne i significati profondi, misteriosi e nascosti. Siamo agli antipodi del simbolismo Ungarettiano, ma siamo comunque nell’ermetismo. Questi “oggetti” compaiono sulla scena con estrema potenza fonica e onomatopeica, spesso sotto forma di suoni, altre volte come scatti improvvisi, apparizioni inafferrabili. Tendenzialmente queste immagini, o oggetti rappresentano un passato indecifrabile, un qualcosa che una volta era, ed ora non può più essere. Molto spesso una donna, che appartiene al passato dell’autore, e nella quale vede riflesso di speranza, angelo salvatore del passato in quel mondo mediocre e squallido del presente. Così ecco che spesso è la donna a simboleggiare la speranza, è donna-angelo salvatrice del poeta non tanto dall’angoscia e dal male di vivere, ma quantomeno dalla mediocrità del presente, attraverso la sua lucentezza inafferrabile, passata. Quasi sempre la donna corrisponde a conoscenze che Montale ebbe davvero nella vita, e che, come tali, rappresentano qui un passato ormai irraggiungibile, un “allora” ormai finito. Nelle ultime liriche il presente mediocre è direttamente a contatto con la donna del passato: ecco che l’incontro tra il poeta e l’angelo salvatore si svolge nel bel mezzo della società di massa, tra la volgarità della gente, la mediocre artificialità del paesaggio. Cesare Pavese. • Vita e opere. Cesare Pavese nacque nel 1908 nelle Langhe in Piemonte, da una famiglia di piccola borghesia imprenditoriale. Subito si iscrisse al liceo D’Azeglio, fondamentale per la sua educazione grazie al maestro Monti, e nel ‘32 si laurea in lettere con la tesi sull’autore Americano Walt Whitman. Interessato all’ermetismo reale americano, compie lavori editoriali e si avvicina all’antifascismo. Ma nel ‘35 viene arrestato per propaganda antifascista e inviato al confino a Brancaleone Calabro. Qui rimane un anno e prima di uscire nel 1936, pubblica le poesie di Lavorare Stanca. Uscito torna a Torino, ma la madre muore e lui subisce altri fallimenti amorosi, inizia così a scrivere della sua esistenza angosciata e estranea alla logica comune nel diario “Mestiere di vivere”.Nel ‘41 esce il romanzo “Paesi Tuoi”, nel ‘42 viene assunto all’Einaudi e nel ‘45, alla liberazione d’Italia, si iscrive al partito comunista italiano (PCI). Nel 1950 riceve a Roma il premio Strega per il volume “La Bella Estate”, e subisce altri fallimenti amorosi nella relazione con un’attrice americana. Stanco e inappagato, sempre insoddisfatto e mai realizzato, mai vivo in questa società grigia e materialista, sceglie la via nel suicidio, nel 1950, avvelenandosi con un eccesso di dose di sonnifero. • Temi dell’Opera di Pavese. Tema centrale e ricorrente dell’opera di Pavese è il ritorno al passato, all’infanzia e in particolare all’ambiente rurale,contadino e arcaico della sua campagna Piemontese. Qui trova i valori tradizionali su cui basare la sua esistenza, vede nel ciclo del lavoro contadino l’inesorabile ciclicità della vita e della morte. Accanto ala campagna acosta però sempre l’ambiente cittadino: alla selvaggia inesorabilità della morte e degli eventi nefasti della natura, all’interno della campagna, seppure più vera e autentica, si contrappone l’angoscia e la minaccia di una continua riduzione all’inganno e alla maschera nella città. In tutto ciò l’elemento persistente è l’io del poeta e del narratore, che cerca con insistenza una propria “umanità”, un proprio stile, una propria autenticità in questo mondo grigio e vile. E più l’autore trova valori autentici più ci si immedesima, più si sente angosciato dall’ansia di sbagliare, di convincersi in valori menzogneri, di cadere nell’inganno e nella finzione. E’ una continua analisi di se stesso,c he culmina nel diario “Il mestiere di Vivere”. • Lavorare Stanca. La prima esperienza di scrittura di Pavese avviene nel 1936 con la Pubblicazione delle poesie di Lavorare Stanca. Il poeta articola con uno stile “oggettivo”, delle liriche che sembrano riprodurre un ritmo narrativo: Pavese parla della storia delle esistenze dei suoi personaggi, dei loro “io” interiori in relazione con il mondo. Le poesie appaiono da una parte realistiche e da una parte ermetiche. Perché? Perché realistica è la rappresentazione dei paesaggi, che si alternano tra quelli campestri e rurali delle Longhe, selvaggi e impressionistici, dominati dalla natura, e quelli urbani e lavorativi delle città d’Italia. Così sull’alternarsi di paesaggi diversi le esistenze dei personaggi cercano di creare se stesse, di trovare valori autentici e giusti, ma finiscono per trovare solo un cupo grigiore, sia nella pericolosità della natura, sia nell’artificialità delle città. In tutto ciò l’ermetismo proviene dalla metrica, e dall’uso del tutto singolare della liricità di Pavese: il poeta crea versi nuovi, lenti e ripetitivi, che creano un vortice che ritorna a se stesso. L’intento, raggiunto, di Pavese, era di creare un’atmosfera cantilenante e ripetitiva che alludesse simbolicamente all’inesorabile ripetitività e ciclicità degli eventi della storia. Così ogni singolo evento quotidiano allude e simboleggia eventi già avvenuti in passato e che avverranno in futuro: la maggior parte sono tristi e nefasti, sanciscono la mancata auto affermazione dei personaggi, bloccandoli e opprimendoli in una eterna insoddisfazione, in un mancato raggiungimento di se, i una perenne condizione di “estraneità” dal mondo. • I Romanzi: Paesi Tuoi, Feria D’Agosto e I Dialoghi di Leucò. Alla narrativa Pavese aderì fin dagli anni 30-31: da qui proviene il suo interesse per il metodo naturalistico e quello veristico di Verga, che puntava a mettere a crudo gli istinti e le voglie più viscerali e nascosti degli uomini, più selvagge ed istintive, non per forza legate alla razionalità. Così il suo interesse per il Selvaggio si tradusse in primo luogo nel breve romanzo “Paesi Tuoi”, pubblicato nel 1941. Il Romanzo tratta della storia d’amore incestuosa tra due fratelli in una realtà agricola, dura, cruda, selvaggia: qui gli istinti più animaleschi non sono frenati dalla società, e così trovano estremo sfogo nella vita della campagna. Il Romanzo termina infatti con l’assassinio della donna da parte del protagonista Talino, omicidio non visto con il filtro sociale della città, cioè come reato e azione nefasta, ma attraverso gli occhi del folclore contadino, delle superstizioni ignoranti dei lavoratori, attraverso lo spettro del mito: così l’omicidio diventa sacrificio lecito alla natura, al fine di propiziare il lavoro nei campi, e si ritorna a sinistre origini mitiche. Subito dopo il successo di “Paesi tuoi” Pavese, in parallelo con lo sviluppo del terribile scenario della guerra, che dava spazio alla realizzazione delle azioni più nefaste, folli, cattive e crudeli degli uomini, il poeta si interessò al carattere “selvaggio” degli uomini: alle loro voglie più viscerali, ai loro istinti naturali e animaleschi, sottratti dal freno della razionalità. Così, approfondito l’argomento con letture sulla psicoanalisi di Freud e Jung, Pavese scrisse la raccolte di saggi, racconti e brevi scritti “Feria D’agosto”, in cui una una solidale posizione di aiuto verso la nazione. Nel suo atteggiamento verso al guerra si scorge un certo “Vitalismo”: nella guerra vede il realizzarsi della sua coscienza, l’autoaffermazione di se, il trascorrere il tempo nella maniera più utile e importante, più necessaria, con una voglia di ottenere risultati. Ma quando viene poi imprigionato dai tedeschi, si sente torturato non tanto per la condizione di prigionia in se, ma per lo status di “inattività”, improduttività, e arginamento a cui la prigionia lo costringe. Si sentiva inutile e sconfitto, pieno di sensi di colpa, e quando alla fine della guerra, tornato a Milano, scopre della morte del fratello in trincea, i suoi sensi di colpa si moltiplicano, si chiede perché è vivo lui da sconfitto e perdente, e non suo fratello, essere superiore, che meritava di vivere al suo posto. • Filosofia, scienza, e teorie della conoscenza di Gadda. Per capire l’entità e l’origine della vocazione letteraria di Gadda dobbiamo analizzare il suo percorso di vita, sia nella sua educazione letteraria e umanistica, sia in quella scientifica e analitica. Fin dal suo primo romanzo, mai pubblicato, risalente agli anni ‘24-25, Gadda voleva rappresentare realtà sociali, eventi reali, accaduti veramente alla fine della prima guerra mondiale. Così ritraeva il panorama politico diviso dalle fazioni che si contendevano l’Italia, i fascisti e i socialisti. Nella rappresentazione di queste due entità politiche, Gadda ritraeva semplicemente la diversità di tante esistenze umane, ne approfondiva la psicologia, tutto in maniera estremamente reale. Per capire da dove nasce in Gadda la voglia di fare letteratura dobbiamo pensare ai suoi modelli, o “ispiratori”: Gadda voleva fare una letteratura da una parte realistica, creda e veritiera, dall’altra analitica, scientifica, che minuziosamente analizzasse la realtà in ogni minimo particolare. Ed ecco che accanto alla ripresa di Manzoni e di Caravaggio per quanto riguarda l’uso del realismo crudo, Gadda accosta un grande interesse verso lo studio della scienza e della tecnica: secondo lui per essere veramente realisti occorreva al metodo letterario accostare sempre quello scientifico, che analizzasse la realtà ossessivamente, in ogni dettaglio. Così per quanto riguarda il suo accostamento metodo letterario e scientifico, riprese dal grande modello austriaco Robert Musil. Ma tutta l’essenza dell’esperienza letteraria di Gadda è contenuta nel suo saggio filosofico del 1929, “Meditazione milanese”. Qui si comprende come il reale obiettivo di Gadda è analizzare il percorso della conoscenza umana riguardo al reale, e più in generale fare una “teoria della conoscenza”: avvicinandosi all’epistemologia e alla gnoseologia, Gadda voleva dire come il mondo fosse fatto di tanti eventi che si intrecciano, tutti “mutati”, in qualche modo “contaminati” dall’intervento umano. Così anche lui faceva epistemologia, cioè filosofia della scienza, perché analizzava il reale, narrandolo letterariamente, ma in maniera scientifica. Ed ecco che i due cardini della sua poetica si identificano nelle formule latine che gli attribuì Roscioni: “singula enumerare“ (enunciare i singoli elementi) ed “omnia circumspicere“ (avvolgere tutto con lo sguardo). Si perché i due principi cardine della riflessione sulla conoscenza, sul rapporto tra l’uomo e la sua conoscenza del mondo, erano proprio l’analisi dei singoli elementi, dei singoli dettagli (singula enumerare), e guardare alla realtà in maniera totale, universale, enciclopedica, considerandone ogni aspetto contemporaneamente (omnia circumspicere). Così la letteratura diventava studio del tutto, di ogni dettaglio del reale, filtrato da ogni sua disciplina, facendo diventare la letteratura enciclopedica, materia a 360°, tensione fra il frammento singolo e la costruzione di un universo totale. • La Madonna dei Filosofi ed Il Castello di Udine. La Madonna dei Filosofi fu pubblicata da Gadda nel 1931 e presenta testi già usciti in pubblicazione precedentemente. Tra questi, quelli intitolati “Cinema” e “Teatro”, parlano dell’analisi di Gadda, minuziosa e scientifica, delle finzioni, delle maschere, della meschina falsità del mondo borghese, inserito nel vortice della comunicazione di massa, che non fa altro che alzare un polverone di dicerie inutili in cui gli uomini si perdono e non ritrovano più se stessi. La particolarità di Gadda sta nel descrivere questo mondo con un misto fra liriche descrizioni e aspro umorismo: il suo tono quello di chi ride di chi sa, di chi conosce, degli eruditi e dei grandi che come lui sanno che quello della borghesia è un mondo finto e artificiale. E ne ride perché non c’è rimedio a quel mondo, non c’è via di uscita, è così e così rimarrà, per questo metteva in ridicolo il metodo di conoscenza di chi capisce questa consapevolezza. Così il linguaggio diventa propriamente “barocco”, bizzarro, di chi percepisce la negatività, il dramma, l’impossibilità di vivere in questo mondo di finzione, ma allo stesso tempo ne ride in maniera bislacca. Il Castello di Udine, del 1934, si allontana dal mondo del romanzo e raccoglie vari scritti precedenti che vanno da liriche a racconti a “prose liriche”. Il libro è ordinato in tre parti: 1. Il Castello di Udine, che narra vicende e situazioni relative alla guerra in atto. 2. Crociera Mediterranea, che parla della Crociera effettuata dall’autore nel 1931. 3. Polemiche e Pace, che tratta delle situazioni del dopoguerra. Nella prima parte, Il Castello di Udine, Gadda parla con sentita sofferenza degli eventi della guerra e della situazione psicologica dell’io all’interno di essa: se da una parte è frustrato, spaventato, stanco e dolente, dall’altra la guerra è motivo di auto affermazione di se stessi, e così Gadda va contro ogni mollezza, contro chi si rassegna, contro ogni forma di vittimismo che deve essere schiacciata dal vitalismo di chi fa il bene di tutti. Negli altri scritti raffigurare le situazioni più propriamente cittadine e sociali, tra le loro finzioni e le loro particolarità , tra aspetti strambi e analisi dei particolari. Così accanto alla raffigurazione del mondo romano e laziale (esemplare la gita ai Castelli romani alla sagra dell’Uva a Marino), inserisce in ogni capitolo un enorme commento di autocritica e auto analisi della situazione, effettuato dal personaggio fittizio del dottore Averrois: il dottore incarna la parodia di Gadda stesso, perché se da una parte è colui che analizza i particolari più minimi, i dettagli più sottilmente nascosti nella realtà, dall’altra ride e ridicolizza il suo metodo scientifico ed erudito, è come se prendesse in giro chi sa, chi conosce ed è sapiente, perché la sua sapienza è inutile. Il pessimismo relativo alla sua posizione di poeta e intellettuale è scandito tutto nell’introduzione dell’opera, “Tendo al mio fine”: qui Gadda si presenta come colui che raffigurerà la realtà negli aspetti più concreti e minimi, ne scandirà co puntigliosa precisione ogni aspetto, per far capire a tutti, che è una realtà beffarda e finta e in relazione ad essa la sua poesia, la sua scrittura, vale zero. E’ un discorso che da una parte scandisce il suo metodo letterario, dall’altra annuncia l’inutilità della sua letteratura, l’inutilità del suo ruolo di scrittore, l’annullamento, la fine, la morte di ogni esito morale, eroico, o didascalico della letteratura. Ne “Il Castello di Udine” si percepisce già il tipo di linguaggio che avrebbe contraddistinto Gadda ne “La cognizione del dolore” ne “Il Pasticciaccio”. Il tipo di lingua che usa infatti, come dice Contini , è un miscuglio di plurilinguismo ed espressionismo. Da una parte l’uso sfrenato delle forme più varie del linguaggio, da quelle basse e dialettali (romanesco, milanese, napoletano), dalle forme più popolari e ignoranti a quelle più auliche e erudite, parodisticamente elevate a un tono sublime, che viene sempre svalutato dalla sua ironia. Dall’altra la voglia di esprimere la realtà in tutte le sue facce, tutte insieme in realtà inafferrabili, la voglia di arrivare alla più profonda espressione del mondo, superando l’impressione interna. Si ha dunque un singolare connubio di plurilinguismo ed espressionismo. • La Cognizione del Dolore. Il Romanzo pubblicato su “Letteratura” nel 1941, col titolo “Cognizione del dolore”, è diviso in due parti e formato da nove tratti. Nel romanzo Gadda ambienta le sue vicende autobiografiche di sofferenza e traumi infantili, quali la morte del padre, del fratello e della madre, in un mondo inventato e fittizio che è specchio dell’Italia del Dopoguerra. Il titolo “cognizione” sta a significare il tipo di letteratura che Gadda intende fare: cognizione significa viaggio di conoscenza, è il protagonista che fa un itinerario verso la conoscenza del suo dolore attuale e infantile . Così già dal titolo si scorgono le suggestioni di Freud e della Psicoanalisi: “La cognizione del dolore” è un viaggio alla ricerca del dolore infantile di Gadda, è itinerario verso il fulcro dei suoi drammi. Così Gadda lascia incarnare se stesso a Gonzalo, ingegnere che abita in un paese esotico del Sud America, totalmente inventato, il “Maradagal”, da poco uscito vincitore nella guerra col suo vicino paese, il “Paradagal”: ecco subito che il paese fittizio inventato da Gadda è specchio dell’Italia borghese del dopoguerra. Si ritrae un paesaggio campestre e cittadino, popolato da villette di borghesi (esattamente come quelle che c’erano in Lombardia), estremamente intriso di schemi falsi borghesi, di maschere, di illusioni e artificialità, di volti di cemento, di menzogne. Insomma il mondo è in realtà quello Italiano del dopoguerra, che però trasposto nell’espediente di un mondo esotico fittizio, Gadda si permette di rappresentarlo in tutto il suo carattere grottesco e caricaturale: gli uomini, le persone qui sono totalmente incivili ed egoista, si ritraggono gli scontri delle fazioni politiche del dopoguerra, tra fascisti e socialisti. E in nessuna delle due fazioni Gadda vede barlume di speranza verso la civiltà: i primi sono cavalcatori della scia borghese, coloro che si ricoprono più di tutti di menzogne e falsità e di beni materiali con cui esercitare la logica del potere e del possesso. I socialisti, ed in generale le classi povere, sono altrettanto inette e incivili, sognano anche la metà dei possedimenti borghesi perché anche loro pateticamente inseriti nella logica del possesso e del materialismo. Così lo specchio dell’Italia è un mondo fatto di persone stupide, false, materialiste e ingrate: ed è da qui che scaturisce la misantropia, il suo odio irrefrenabile verso l’umanità che ha davanti agli occhi. Gli unici degni destinatari del suo amore, della sua grazia, sarebbero potuti essere i suoi genitori: lui vorrebbe dimostrargli affetto, ma loro provocano in Gonzalo una rabbia estrema, un odio pazzesco perché si rivelano estremamente gentili e accondiscendenti con quel mondo di stupidi inetti borghesi. Così se l’intento è mostrare amore e tenerezza alla madre, Gonzalo finisce per odiarla e trattarla malissimo, per scaturire nella violenza psicologica contro di lei (suggestiva è la scena della distruzione del ritratto del padre). Analogamente anche al padre morto avrebbe voluto dimostrare affetto, se solo non fosse stato così misericordioso col paesino dove viveva e con la sua gente: l’aspirazione fuori dalla portata economica del padre di costruire una villa in campagna, dove ora Gonzalo vive, è vista dal protagonista come l’esempio massimo di ingratitudine verso di lui. Avrebbe potuto darli a lui quei soldi, concedere a lui le attenzioni maggiori, e invece le indirizzò per la villa e per la costruzione delle campane del paese, delle quali ogni rintocco fa impazzire Gonzalo di rabbia. Così la misericordia e la gentilezza che la madre e il padre dimostrano alla gente sono l’origine del suo odio, sono la “cognizione del suo dolore”, di chi vorrebbe avere i genitori tutti per lui. Ed ecco che la mancata dimostrazione e fuoriuscita dell’amore per la madre si traduce in senso di colpa, quando alla fine del romanzo, viene chiesto a Gonzalo se sia meglio dotare la vecchia signora di una guardia notturna: Gonzalo risponde di no, ed ecco che durante una notte, in cui lui è assente, viene misteriosamente ritrovata la madre morta. Alla vista del cadavere della madre, in Gonzalo esplode il senso di colpa, trasformando la sua vita in cupo annullamento. •
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