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Gomorra, Appunti di Lingua Italiana

gomoraa II parte

Tipologia: Appunti

2014/2015
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Caricato il 29/11/2015

giovy227
giovy227 🇮🇹

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Scarica Gomorra e più Appunti in PDF di Lingua Italiana solo su Docsity! Roberto Saviano Gomorra Viaggio nell'impero economico e nel sogno della camorra (2006) a S., maledizione Comprendere cosa significa l'atroce, non negarne l'esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà. HANNAH ARENDT Coloro che vincono, in qualunque modo vincano, mai non ne riportano vergogna. NICCOLÒ MACCHIAVELLI La gente sono vermi e devono rimanere vermi. da un'intercettazione telefonica Il mondo è tuo. Scarface, 1983 PRIMA PARTE merci cinesi sforano. Spietatamente veloci. Qui ogni minuto sembra ammazzato. Una strage di minuti, un massacro di secondi rapiti dalle documentazioni, rincorsi dagli acceleratori dei camion, spinti dalle gru, accompagnati dai muletti che scompongono le interiora dei container. Nel porto di Napoli opera il più grande armatore di Stato cinese, la COSCO, che possiede la terza flotta più grande al mondo e ha preso in gestione il più grande terminal per container, consorziandosi con la MSC, che possiede la seconda flotta più grande al mondo con sede a Ginevra. Svizzeri e cinesi si sono consorziati e a Napoli hanno deciso di investire la parte maggiore dei loro affari. Qui dispongono di oltre novecentocinquanta metri di banchina, centotrentamila metri quadri di terminal container e trentamila metri quadri esterni, assorbendo la quasi totalità del traffico in transito a Napoli. Bisogna rifondare la propria immaginazione per cercare di comprendere come l'immensità della produzione cinese possa poggiare sullo scalino del porto napoletano. L'immagine evangelica sembra appropriata, la cruna dell'ago somiglia al porto e il cammello che l'attraverserà sono le navi. Prue che si scontrano, file indiane di enormi bastimenti fuori dal golfo che aspettano la loro entrata tra confusione di poppe che beccheggiano, rumoreggiando con languori di ferri, lamiere e bulloni che lentamente entrano nel piccolo foro napoletano. Come un ano di mare che si allarga con grande dolore degli sfinteri. Eppure no. Non è così. Nessuna confusione apparente. Tutte le navi entrano ed escono con regolare ordine o almeno così sembra a osservare dalla terra ferma. Eppure centocinquantamila container transitano da qui. Intere città di merci si edificano sul porto per poi essere trasportate via. La qualità del porto è la velocità, ogni lentezza burocratica, ogni controllo meticoloso mutano il ghepardo del trasporto in un bradipo lento e pesante. Mi perdo sempre al molo. Il molo Bausan è identico alle costruzioni Lego. Una struttura immensa, ma che sembra non avere spazio, piuttosto pare inventarselo. C'è un angolo del molo che sembra un reticolo di vespai. Arnie bastarde che riempiono una parete. Sono migliaia di prese elettriche per l'alimentazione dei contenitori reefer, i container con i cibi surgelati e le code attaccate a questo vespaio. Tutti i sofficini e i bastoncini di pesce della terra sono stipati in quei contenitori ghiacciati. Quando vado al molo Bausan ho la sensazione di vedere da dove passano tutte le merci prodotte per l'umana specie. Dove trascorrono l'ultima notte prima di essere vendute. Come fissare l'origine del mondo. In poche ore transitano per il porto i vestiti che indosseranno i ragazzini parigini per un mese, i bastoncini di pesce che mangeranno a Brescia per un anno, gli orologi che copriranno i polsi dei catalani, la seta di tutti i vestiti inglesi d'una stagione. Sarebbe interessante poter leggere da qualche parte non soltanto dove la merce viene prodotta, ma persino che tragitto ha fatto per giungere nelle mani dell'acquirente. I prodotti hanno cittadinanze molteplici, ibride e bastarde. Nascono per metà nel centro della Cina, poi si completano in qualche periferia slava, si perfezionano nel nord est d'Italia, si confezionano in Puglia o a nord di Tirana, per poi finire in chissà quale magazzino d'Europa. La merce ha in sé tutti i diritti di spostamento che nessun essere umano potrà mai avere. Tutti i frammenti di strada, i percorsi accidentali e ufficiali trovano punto fermo a Napoli. Quando al molo attraccano le navi, gli enormi fullcontainers sembrano animali leggeri, ma appena entrano nel golfo lentamente, avvicinandosi al molo, divengono pesanti mammut di lamiere e catene con nei fianchi suture arrugginite che colano acqua. Navi su cui ti immagini vivano equipaggi numerosissimi, e invece scaricano manipoli di ometti che pensi incapaci di domare quei bestioni in pieno oceano. La prima volta che ho visto attraccare una nave cinese mi pareva di stare dinanzi a tutta la produzione del mondo. Gli occhi non riuscivano a contare, quantificare, il numero di container presenti. Non riuscivo a tenerne il conto. Può apparire impossibile non riuscire a procedere con i numeri, eppure il conto si perdeva, le cifre diventavano troppo elevate, si mescolavano. A Napoli ormai si scarica quasi esclusivamente merce proveniente dalla Cina, 1.600.000 tonnellate. Quella registrata. Almeno un altro milione passa senza lasciare traccia. Nel solo porto di Napoli, secondo l'Agenzia delle Dogane, il 60 per cento della merce sfugge al controllo della dogana, il 20 per cento delle bollette non viene controllato e vi sono cinquantamila contraffazioni: il 99 per cento è di provenienza cinese e si calcolano duecento milioni di euro di tasse evase a semestre. I container che devono scomparire prima di essere ispezionati si trovano nelle prime file. Ogni container è regolarmente numerato, ma ce ne sono molti con la stessa identica numerazione. Così un container ispezionato battezza tutti i suoi omonimi illegali. Quello che il lunedì si scarica, il giovedì può vendersi a Modena o Genova o finire nelle vetrine di Bonn e Monaco. Molta parte della merce che viene immessa nel mercato italiano avrebbe dovuto fare soltanto transito, ma le magie delle dogane permettono che il transito poi diventi fermo. La grammatica delle merci ha una sintassi per i documenti e un'altra per il commercio. Nell'aprile 2005, in quattro operazioni, scattate quasi per caso, a poca distanza le une dalle altre, il Servizio di Vigilanza Antifrode della Dogana aveva sequestrato ventiquattromila jeans destinati al mercato francese; cinquantunomila oggetti provenienti dal Bangladesh con il marchio made in Italy; e circa quattrocentocinquantamila personaggi, pupazzi, barbie, spiderman; più altri quarantaseimila giocattoli di plastica per un valore complessivo di circa trentasei milioni di euro. Una fettina d'economia, in una manciata di ore stava passando per il porto di Napoli. E dal porto al mondo. Non c'è ora o minuto in cui questo non accada. E le fettine di economia divengono lacerti, e poi quarti e interi manzi di commercio. Il porto è staccato dalla città. Un'appendice infetta mai degenerata in peritonite, sempre conservata nell'addome della costa. Ci sono parti desertiche rinchiuse tra l'acqua e la terra, ma che sembrano non appartenere né al mare né alla terra. Un anfibio di terra, una metamorfosi marina. Terriccio e spazzatura, anni di rimasugli portati a riva dalle maree hanno creato una nuova formazione. Le navi scaricano le loro latrine, puliscono stive lasciando colare la schiuma gialla in acqua, i motoscafi e i panfili spurgano motori e rassettano raccogliendo tutto nella pattumiera marina. E tutto si raccoglie sulla costa, prima come massa molliccia e poi crosta dura. Il sole accende il miraggio di mostrare un mare fatto d'acqua. In realtà la superficie del golfo somiglia alla lucentezza dei sacchetti della spazzatura. Quelli neri. E piuttosto che d'acqua, il mare del golfo sembra un'enorme vasca di percolato. La banchina con migliaia di container multicolori pare un limite invalicabile. Napoli è circoscritta da muraglie di merci. Mura che non difendono la città, ma al contrario la città difende le mura. Non ci sono eserciti di scaricatori, né romantiche plebaglie da porto. Ci si immagina il porto come luogo del fracasso, dell'andirivieni di uomini, di cicatrici e lingue impossibili, frenesia di genti. Invece impera un silenzio da fabbrica meccanizzata. Al porto non sembra esserci più nessuno, i container, le navi e i camion sembrano muoversi animati da un moto perpetuo. Una velocità senza chiasso. Al porto ci andavo per mangiare il pesce. Non è la vicinanza al mare che fa da garante di un buon ristorante, nel piatto ci trovavo le pietre pomici, sabbia, persino qualche alga bollita. Le vongole come le pescavano così le giravano nella pentola. Una garanzia di freschezza, una roulette russa con poco sole. Non ho mai dimenticato la lezione di John Maynard Keynes sul concetto di valore marginale: come varia, per esempio, il prezzo di una bottiglia d'acqua in un deserto o della stessa bottiglia vicino a una cascata. Quell'estate, quindi, l'impresa italiana porgeva bottiglie vicino alle fonti, mentre l'imprenditoria cinese edificava sorgenti nel deserto. Dopo i primi giorni di lavoro nel palazzo, Xian venne a dormire da noi. Parlava un perfetto italiano, con una leggera r mutata in v. Come i nobili decaduti imitati da Totò nei suoi film. Xian Zhu era stato ribattezzato Nino. A Napoli, quasi tutti i cinesi che hanno relazione con gli indigeni si danno un nome partenopeo. È prassi così diffusa che non desta più stupore sentire un cinese che si presenta come Tonino, Nino, Pino, Pasquale. Xian Nino invece di dormire passò la notte al tavolo in cucina, telefonando e sbirciando la televisione. Ero sdraiato sul letto, ma dormire risultava impossibile. La voce di Xian non si interrompeva mai. La sua lingua veniva sparata fuori dai denti come una mitraglietta. Parlava senza neanche prendere respiro dalle narici, come in un'apnea di parole. E poi le flatulenze dei suoi guardaspalle che saturavano la casa di un odore dolciastro avevano appestato anche la mia stanza. Non era solo la puzza a disgustare, ma anche le immagini che quella puzza ti sprigionava in mente. Involtini primavera in putrefazione nei loro stomaci e riso alla cantonese macerato nei succhi gastrici. Gli altri inquilini erano abituati. Chiusa la porta non esisteva altro che il loro sonno. Per me invece non esisteva altro che quello che stava accadendo oltre la mia porta. Così mi piazzai in cucina. Spazio comune. E quindi anche in parte mio. O così avrebbe dovuto essere. Xian smise di parlare e iniziò a cucinare. Friggeva del pollo. Mi venivano in mente decine di domande da porgli, di curiosità, di luoghi comuni che volevo scrostare. Mi misi a parlare della Triade. La mafia cinese. Xian continuava a friggere. Volevo chiedergli dettagli. Anche soltanto simbolici, non pretendevo certo confessioni sulla sua affiliazione. Mostravo di conoscere i tratti generici del mondo mafioso cinese, con la presunzione che conoscere gli atti d'indagine fosse un modo maestro per possedere il calco della realtà. Xian portò il suo pollo fritto in tavola, prese posto e non disse nulla. Non so se ritenesse interessante quanto dicevo. Non so e non ho mai saputo se fosse parte di quell'organizzazione. Bevve della birra e poi alzò metà sedere dalla sedia, tirò il portafogli dalla tasca dei pantaloni, frugò con le dita senza guardare e poi cacciò tre monete. Le stese sul tavolo fermandole sulla tovaglia con un bicchiere rovesciato. «Euro, dollaro, yuan. Ecco la mia triade.» Xian sembrava sincero. Nessun'altra ideologia, nessuna sorta di simbolo e passione gerarchica. Profitto, business, capitale. Null'altro. Si tende a considerare oscuro il potere che determina certe dinamiche e allora lo si ascrive a un'entità oscura: mafia cinese. Una sintesi che tende a scacciare tutti i termini intermedi, tutti i passaggi finanziari, tutte le qualità d'investimento, tutto ciò che fa la forza di un gruppo economico criminale. Da almeno cinque anni ogni relazione della Commissione Antimafia segnalava "il pericolo crescente della mafia cinese" ma in dieci anni di indagini la polizia aveva sequestrato vicino a Firenze, a Campi Bisenzio, appena seicentomila euro. Qualche moto e una porzione di fabbrica. Nulla, rispetto a una forza economica che riusciva a spostare capitali di centinaia di milioni di euro, secondo quanto scrivevano quotidianamente gli analisti americani. L'imprenditore mi sorrideva. «L'economia ha un sopra e un sotto. Noi siamo entrati sotto, e usciamo sopra.» Nino Xian prima di andare a dormire mi fece una proposta per l'indomani. «Ti alzi presto?» «Dipende...» «Se domani riesci a stare in piedi per le cinque, vieni con noi al porto. Ci dai una mano.» «A fare che?» «Se hai una maglia col cappuccio, indossala, è meglio.» Non mi fu detto altro, né io tentai, troppo curioso di partecipare alla cosa, di insistere. Fare altre domande avrebbe potuto compromettere la proposta di Xian. Mi rimanevano poche ore per dormire. E l'ansia era troppa per riposare. Alle cinque in punto mi feci trovare pronto, nell'androne del palazzo ci raggiunsero altri ragazzi. Oltre me e un mio coinquilino, c'erano due maghrebini con i capelli brizzolati. Ci ficcammo nel furgoncino ed entrammo nel porto. Non so quanta strada avremo fatto e per quali anfratti d'angiporto ci siamo infilati. Mi addormentai poggiato al finestrino del furgone. Scendemmo vicino a degli scogli, un piccolo molo si estendeva nell'anfratto. Lì c'era attraccato uno scafo con un enorme motore che pareva una coda pesantissima rispetto alla struttura esile e allungata. Con i cappucci tirati su sembravamo tutti una ridicola band di cantanti rap. Il cappuccio che credevo fosse necessario per non farsi riconoscere invece serviva solo per proteggerti dagli schizzi di acqua gelida e per tentare di scongiurare l'emicrania che in mare aperto a primo mattino si inchioda tra le tempie. Un giovane napoletano accese il motore e un altro iniziò a guidare lo scafo. Sembravano fratelli. O almeno avevano visi identici. Xian non venne con noi. Dopo circa mezz'ora di viaggio ci avvicinammo a una nave. Pareva che ci andassimo a impattare contro. Enorme. Facevo fatica a tirare su il collo per vedere dove terminava la murata. In mare le navi lanciano delle grida di ferro, come l'urlo degli alberi quando vengono abbattuti, e dei suoni cupi di vuoto che ti fanno deglutire almeno due volte un muco al sapore di sale. Dalla nave una carrucola faceva calare a scatti una rete colma di scatoloni. Ogni volta che il fagotto sbatteva sui legni dell'imbarcazione, lo scafo beccheggiava al punto che mi preparavo già a galleggiare. Invece non finii in mare. Le scatole non erano pesantissime. Ma dopo averne sistemate a poppa una trentina, avevo i polsi indolenziti e gli avambracci rossi per il continuo sfregare con gli spigoli dei cartoni. Il motoscafo poi virò verso la costa, dietro di noi altri due scafi fiancheggiarono la nave per raccogliere altri pacchi. Non erano partiti dal nostro molo. Ma d'improvviso si erano accodati alla nostra scia. Sentivo la bocca dello stomaco ricevere schiaffi continui ogni qual volta lo scafo faceva battere la prua sul pelo dell'acqua. Poggiai la testa su alcune scatole. Tentavo di intuire dall'odore cosa contenessero, attaccai l'orecchio per cercare di capire dal rumore cosa ci fosse lì dentro. Iniziò a subentrare un senso di colpa. Chissà a cosa avevo partecipato, senza decisione, senza una vera scelta. Dannarmi sì, ma almeno con coscienza. Invece ero finito per curiosità a scaricare merce clandestina. Si crede stupidamente che un atto criminale per qualche ragione debba essere maggiormente pensato e voluto rispetto a un atto innocuo. In realtà non c'è differenza. I gesti conoscono un'elasticità che i giudizi etici ignorano. Arrivati al molo, i maghrebini riuscivano a scendere dallo scafo con due scatolone sulle spalle. Per farmi barcollare mi bastavano solo le mie gambe. Sugli scogli ci aspettava Xian. Si avvicinò a un'enorme scatola, aveva già in mano una taglierina, solcò una fascia larghissima di scotch che chiudeva due ali di carta. Erano scarpe. Scarpe da ginnastica, originali, delle marche più celebri. Modelli nuovi, nuovissimi ancora non in circolazione nei negozi italiani. Temendo un controllo della Finanza, aveva preferito scaricare in mare aperto. Una parte della merce poteva così essere immessa senza la zavorra delle tasse, i Angelina Jolie Nei giorni successivi accompagnai Xian nei suoi incontri d'affari. In realtà mi aveva scelto per fargli compagnia durante gli spostamenti e i pranzi. Parlavo troppo o troppo poco. Le due attitudini gli piacevano entrambe. Seguivo come si seminava e coltivava la semenza del danaro, come veniva messo a maggese il terreno dell'economia. Arrivammo a Las Vegas. A nord di Napoli. Qui chiamano Las Vegas questa zona per diverse ragioni. Come Las Vegas del Nevada è edificata in mezzo al deserto, così anche questi agglomerati sembrano spuntare dal nulla. Si arriva qui da un deserto di strade. Chilometri di catrame, di strade enormi che in pochi minuti ti portano fuori da questo territorio per spingerti sull'autostrada verso Roma, dritto verso il nord. Strade fatte non per auto ma per camion, non per spostare cittadini ma per trasportare vestiti, scarpe, borse. Venendo da Napoli questi paesi spuntano d'improvviso, ficcati nella terra uno accanto all'altro. Grumi di cemento. Le strade che si annodano ai lati di una retta su cui si avvicendano senza soluzione di continuità Casavatore, Caivano, Sant'Antimo, Melito, Arzano, Piscinola, San Pietro a Patierno, Frattamaggiore, Frattaminore, Grumo Nevano. Grovigli di strade. Paesi senza differenze che sembrano un'unica grande città. Strade che per metà sono un paese e per l'altra metà ne sono un altro. Avrò sentito centinaia di volte chiamare la zona del foggiano la Califoggia, oppure il sud della Calabria Calafrica o Calabria Saudita, o magari Sahara Consilina per Sala Consilina, Terzo Mondo per indicare una zona di Secondigliano. Ma qui Las Vegas è davvero Las Vegas. Qualsiasi persona avesse voluto tentare una scalata imprenditoriale in questo territorio, per anni avrebbe potuto farlo. Realizzare il sogno. Con un prestito, una liquidazione, un forte risparmio, metteva su la sua fabbrica. Puntava su un'azienda: se vinceva riceveva efficienza, produttività, velocità, silenzi, e lavoro a basso costo. Vinceva come si vince puntando sul rosso o sul nero. Se perdeva chiudeva in pochi mesi. Las Vegas. Perché nulla era dato da precise pianificazioni amministrati ed economiche. Scarpe, vestiti, confezioni erano produzioni che si imponevano al buio sul mercato internazionale. Le città non si facevano fregio di questa produzione preziosa. I prodotti erano tanto più riusciti quanto assemblati in silenzio e clandestinamente. Territori che da decenni producevano i migliori capi della moda italiana. E quindi i migliori capi di moda del mondo. Non avevano club di imprenditori, non avevano centri di formazione, non avevano nulla che potesse essere altro dal lavoro, dalla macchina per cucire, dalla piccola fabbrica, dal pacco imballato, dalla merce spedita. Null'altro che un rimbalzare di queste fasi. Ogni altra cosa era superflua. La formazione la facevi al tavolo da lavoro, la qualità imprenditoriale la mostravi vincendo o perdendo. Niente finanziamenti, niente progetti, niente stage. Tutto e subito nell'arena del mercato. O vendi o perdi. Col crescere dei salari le case sono migliorate, le auto acquistate tra le più care. Tutto senza una ricchezza definibile collettiva. Una ricchezza saccheggiata, presa con fatica da qualcuno e portata nel proprio buco. Arrivavano da ogni parte per investire, indotti che producevano confezioni, camicie, gonne, giacche, giubbotti, guanti, cappelli, scarpe, borse, portafogli per aziende italiane, tedesche, francesi. In queste zone dagli anni '50 non v'era necessità di avere permessi, contratti, spazi. Garage, sottoscale, stanzini diventavano fabbriche. Negli ultimi anni la concorrenza cinese ha distrutto quelle che fabbricavano prodotti di qualità media. Non ha più dato spazio di crescita alla manualità degli operai. O lavori nel migliore dei modi subito o qualcuno saprà lavorare a un livello medio in maniera più veloce. Un numero elevato di persone si sono trovate senza lavoro. I proprietari delle fabbriche sono finiti stritolati dai debiti, dall'usura. Molti si sono dati alla latitanza. C'è un luogo che con la fine di questi indotti di bassa qualità ha esaurito il respiro, la crescita, la sopravvivenza. Della fine della periferia sembra l'emblema. Con le case sempre illuminate e piene di gente, con i cortili affollati. Le macchine sempre parcheggiate. Nessuno che esce mai di là. Qualcuno che entra. Pochi che si fermano. In nessun momento della giornata ci sono i vuoti condominiali, quelli che si sentono al mattino quando tutti vanno al lavoro o a scuola. Qui invece c'è sempre folla, un rumore continuo di abitato. Parco Verde a Caivano. Parco Verde spunta appena si esce dall'asse mediano, una lama di catrame che taglia di netto tutti i paesi del napoletano. Sembra, piuttosto che un quartiere, una paccottiglia di cemento, verande di alluminio che si gonfiano come bubboni su ogni balcone. Sembra uno di quei posti che l'architetto ha progettato ispirandosi alle costruzioni sulla spiaggia, come se avesse pensato quei palazzi come le torri di sabbia che vengono fuori rovesciando il secchiello. Palazzi essenziali, bigi. Qui c'è in un angolo una cappelletta minuscola. Quasi impercettibile. Non era però sempre stata così. Prima c'era una cappella. Grande, bianca. Un vero e proprio mausoleo dedicato a un ragazzo, Emanuele, morto sul lavoro. Un lavoro che in certe zone è persino peggio del lavoro nero in fabbrica. Ma è un mestiere. Emanuele faceva rapine. E le faceva sempre di sabato, tutti i sabato, da un po' di tempo. E sempre sulla stessa strada. Stessa ora, stessa strada, stesso giorno. Perché il sabato era il giorno delle sue vittime. Il giorno delle coppiette. E la Statale 87 era il luogo dove tutte le coppie della zona si appartano. Una strada di merda, tra catrame rattoppato e microdiscariche. Ogni volta che ci passo e vedo le coppiette penso che sia necessario dare fondo a tutta la propria passione per riuscire a star bene in mezzo a tanto schifo. Proprio qui Emanuele e due suoi amici si nascondevano, attendevano l'auto della coppia che parcheggiava, la luce che si spegneva. Aspettavano qualche minuto dopo che la luce s'era spenta per farli svestire, e nel momento di massima vulnerabilità arrivavano. Con il calcio della pistola rompevano il finestrino e poi la puntavano sotto il naso del ragazzo. Ripulivano le coppiette e se ne andavano nei weekend con decine di rapine fatte e cinquecento euro in tasca: un bottino minuscolo che può avere il sapore del tesoro. Capita però che una notte una pattuglia di carabinieri li intercetti. Sono così imbecilli, Emanuele e i suoi compari, che non prevedono che fare sempre le stesse mosse e rapinare sempre nelle stesse zone è il miglior modo per essere arrestati. Le due auto si inseguono, si speronano, partono gli spari. Poi tutto si ferma. In auto c'è Emanuele, colpito a morte. Aveva in mano una pistola, e aveva fatto il gesto di puntarla contro i carabinieri. Lo ammazzarono con undici colpi sparati in pochi secondi. Sparare undici colpi a bruciapelo significa avere la pistola puntata ed esser pronti al minimo segnale sparare. Sparare per uccidere e poi pensare di farlo per non essere uccisi. Gli altri due avevano fermato la macchina. I proiettili erano entrati passando nell'auto come un vento. Tutti calamitati dal corpo di Emanuele. I suoi amici avevano tentato di aprire gli sportelli, ma appena avevano capito che Emanuele era morto si erano fermati. Avevano aperto le portiere senza fare resistenza ai pugni in faccia che precedono ogni arresto. Emanuele era incartocciato su se stesso, aveva in mano una pistola finta. Una di quelle riproduzioni che una volta chiamavano scacciacani, usate in campagna per cacciare i branchi di randagi dai pollai. Un mondo sono solo una somma. Crepare a quindici anni in questa periferia sembra scontare una condanna a morte piuttosto che essere privati della vita. In chiesa c'erano molti, moltissimi ragazzi tutti scuri in volto, ogni tanto lanciavano qualche urlo e addirittura un coretto ritmato fuori dalla chiesa: «Sem-pre con noi, rim-arrai sem-pre con noi... sempre con noi...». Gli ultrà lo scandiscono solitamente quando qualche vecchia gloria abbandona la maglia. Sembravano allo stadio, ma c'erano solo cori di rabbia. C'erano poliziotti in borghese che cercavano di stare lontano dalle navate. Tutti li avevano riconosciuti, ma non c'era spazio per scaramucce. In chiesa riuscii subito a individuarli; o meglio loro individuarono me, non trovando sul mio viso traccia del loro archivio mentale. Come per venire incontro alla mia cupezza uno di questi mi si avvicinò dicendomi: «Questi qua sono tutti pregiudicati. Spaccio, furto, ricettazione, rapina... qualcuno fa pure le marchette. Non c'è nessuno pulito. Qua più ne muoiono, meglio è per tutti...». Parole a cui si risponde con un gancio, o una testata sul setto nasale. Ma era in realtà il pensiero di tutti. E forse persino un pensiero saggio. Quei ragazzi che si faranno l'ergastolo per una rapina da 200 euro – feccia, surrogati d'uomini, spacciatori – li guardavo, uno per uno. Nessuno di loro superava i vent'anni. Padre Mauro, il parroco che celebrava la funzione, sapeva chi aveva di fronte. Sapeva anche che i ragazzini che gli stavano intorno non avevano il timbro dell'innocenza. «Oggi non è morto un eroe...» Non aveva le mani aperte, come i preti quando leggono le parabole alla domenica. Aveva i pugni chiusi. Assente qualsiasi tono d'omelia. Quando iniziò a parlare la sua voce era rovinata da una raucedine strana, come quella che viene quando ti parli dentro per troppo tempo. Parlava con un tono rabbioso, nessuna pena molle per la creatura, non delegava niente. Sembrava uno di quei preti sudamericani durante i moti di guerriglia in Salvador, quando non ne potevano più di celebrare funerali di massacri e smettevano di compatire, e iniziavano a urlare. Ma qui Romero nessuno lo conosce. Padre Mauro ha un'energia rara. «Per quante responsabilità possiamo attribuire a Emanuele, restano i suoi quindici anni. I figli delle famiglie che nascono in altri luoghi d'Italia a quell'età vanno in piscina, a fare scuola di ballo. Qui non è così. Il Padreterno terrà conto del fatto che l'errore è stato commesso da un ragazzo di quindici anni. Se quindici anni nel sud Italia sono abbastanza per lavorare, decidere di rapinare, uccidere ed essere uccisi, sono anche abbastanza per prendere responsabilità di tali cose». Poi tirò forte col naso l'aria viziata della chiesa: «Ma quindici anni sono così pochi che ci fanno vedere meglio cosa c'è dietro, e ci obbligano a distribuire la responsabilità. Quindici anni è un'età che bussa alla coscienza di chi ciancia di legalità, lavoro, impegno. Non bussa con le nocche, ma con le unghie». Il parroco finì l'omelia. Nessuno capì fino in fondo cosa voleva dire, né c'erano autorità o istituzioni. Il trambusto dei ragazzi divenne enorme. La bara uscì dalla chiesa, quattro uomini la sorreggevano ma d'improvviso smise di poggiare sulle loro spalle e iniziò a galleggiare sulla folla. Tutti la mantenevano con il palmo delle mani, come si fa con le rock-star quando si catapultano dal palco sugli spettatori. Il feretro ondeggiava nel lago di dita. Un corteo di ragazzi in moto si schierò vicino alla macchina, la macchina lunga dei morti, pronta a trasportare Manu al cimitero. Acceleravano. Col freno premuto. Il rombo dei motori fece da coro all'ultimo percorso di Emanuele. Sgommando, lasciando ululare le marmitte. Sembrava volessero scortarlo con quelle moto sino alle porte dell'oltretomba. In poco tempo un fumo denso e un puzzo di benzina riempì ogni cosa e impregnò i vestiti. Tentai di entrare in sacrestia. Volevo parlare a quel prete che aveva avuto parole roventi. Mi anticipò una donna. Voleva dirgli che in fondo il ragazzo se l'era cercata, che la famiglia non gli aveva insegnato nulla. Poi, orgogliosa, confessò: «I miei nipoti anche se disoccupati non avrebbero mai fatto rapine...». E continuando nervosa: «Ma cosa aveva imparato questo ragazzo? Niente?» Il prete guardò per terra. Era in tuta. Non tentò di rispondere, non la guardò neanche in viso e continuando a fissarsi le scarpe da ginnastica bisbigliò: «Il fatto è che qui si impara solo a morire». «Cosa padre?» «Niente signora, niente.» Ma non tutti qui sono sotto terra. Non tutti sono finiti nel pantano della sconfitta. Per ora. Esistono ancora fabbriche vincenti. La forza di queste imprese è tale che riescono a far fronte al mercato della manodopera cinese perché lavorano sulle grandi griffe. Velocità e qualità. Altissima qualità. Il monopolio della bellezza dei capi d'eccellenza è ancora loro. Il made in Italy si costruisce qui. Caivano, Sant'Antimo, Arzano, e via via tutta la Las Vegas campana. "Il volto dell'Italia nel mondo" ha i lineamenti di stoffa adagiati sul cranio nudo della provincia napoletana. Le griffe non si fidano a mandare tutto a est, ad appaltare in Oriente. Le fabbriche si ammonticchiano nei sottoscala, al piano terra delle villette a schiera. Nei capannoni alla periferia di questi paesi di periferia. Si lavora cucendo, tagliando pelle, assemblando scarpe. In fila. La schiena del collega davanti agli occhi e la propria dinanzi agli occhi di chi ti è dietro. Un operaio del settore tessile lavora circa dieci ore al giorno. Gli stipendi variano da cinquecento a novecento euro. Gli straordinari sono spesso pagati bene. Anche quindici euro in più rispetto al normale valore di un'ora di lavoro. Raramente le aziende superano i dieci dipendenti. Nelle stanze dove si lavora campeggia su una mensola una radio o una televisione. La radio si ascolta per la musica e al massimo qualcuno canticchia. Ma nei momenti di massima produzione tutto tace e battono soltanto gli aghi. Più della metà dei dipendenti di queste aziende sono donne. Abili, nate dinanzi alle macchine per cucire. Qui le fabbriche formalmente non esistono e non esistono nemmeno i lavoratori. Se lo stesso lavoro di alta qualità fosse inquadrato, i prezzi lieviterebbero e non ci sarebbe più mercato, e il lavoro volerebbe via dall'Italia. Gli imprenditori di queste parti conoscono a memoria questa logica. In queste fabbriche spesso non c'è astio tra operai e proprietari. Qui il conflitto di classe è molle come un biscotto spugnato. Il padrone spesso è un ex operaio, condivide le ore di lavoro dei suoi dipendenti, nella stessa stanza, sullo stesso scranno. Quando sbaglia paga direttamente con ipoteche e prestiti. La sua autorità è paternalistica. Si litiga per un giorno di ferie e per qualche centesimo di aumento. Non c'è contratto, non c'è burocrazia. Volto contro volto. E si tracciano così gli spazi delle concessioni e degli obblighi che hanno il sapore dei diritti e delle competenze. La famiglia dell'imprenditore vive al piano di sopra dove si lavora. In queste fabbriche spesso le operaie affidano i loro bambini alle figlie del proprietario che diventano babysitter o alle madri che si trasformano in nonne vicarie. I bambini delle operaie crescono con le famiglie dei proprietari. Tutto questo crea una vita comune, realizza il sogno orizzontale del postfordismo – far condividere il pranzo a operai e dirigenti, farli frequentare nella vita privata, farli sentire parte di una stessa comunità. In queste fabbriche non ci sono sguardi che fissano il terreno. Sanno di lavorare sull'eccellenza, e sanno di avere stipendi infimi. Ma senza l'uno non c'è l'altro. Si lavora per prendere ciò di cui hai bisogno, nel miglior nascondendosi, ma rispettavano l'antica usanza di non parlare di danaro a tavola. Xian mi spiegò sin nel dettaglio chi fosse quella persona. Era identico a come nell'immaginario appaiono i cassieri di banca. Doveva anticipare liquidità e stava discutendo i tassi d'interesse. Ma non rappresentava una banca. Le griffe italiane pagano solo a lavoro ultimato. Anzi, solo dopo aver approvato il lavoro. Stipendi, costi di produzione, e persino di spedizione: tutto viene anticipato dai produttori. I clan, a seconda della loro influenza territoriale, danno liquidità in prestito alle fabbriche. Ad Arzano i Di Lauro, a Sant'Antimo i Verde, i Cerniamo a Crispano, e così in ogni territorio. Queste aziende ricevono liquidità dalla camorra con tassi bassi. Dal 2 al 4 per cento. Nessuna azienda più delle loro potrebbe accedere ai crediti bancari: producono per l'eccellenza italiana, per il mercato dei mercati. Ma sono fabbriche buie, e gli spettri non vengono ricevuti dai direttori di banca. La liquidità della camorra è anche l'unica possibilità per i dipendenti per accedere a un mutuo. Così, in comuni dove oltre il 40 per cento dei residenti vive di lavoro nero, sei famiglie su dieci riescono ugualmente a comprare una casa. Anche gli imprenditori che non soddisfano le esigenze delle griffe troveranno un acquirente. Venderanno tutto ai clan per farlo entrare nel mercato del falso. Tutta la moda delle passerelle, tutta la luce delle prime più mondane proviene da qui. Dal napoletano e dal Salente. I centri principali del tessile in nero. I paesi di Las Vegas e quelli "dintra lu Capu". Casarano, Tricase, Taviano, Melissano ossia Capo di Leuca, il basso Salente. Da qui partono. Da questo buco. Tutte le merci hanno origine oscura. È la legge del capitalismo. Ma osservare il buco, tenerlo davanti insomma, dà una sensazione strana. Una pesantezza ansiosa. Come avere la verità sullo stomaco. Tra gli operai dell'imprenditore vincente ne incontrai uno particolarmente abile. Pasquale. Aveva una figura allampanata. Alto, magrissimo e un po' "scuffato": la sua altezza si piegava sulle spalle, dietro il collo. Un fisico a uncino. Lavorava su capi e disegni spediti direttamente dagli stilisti. Modelli inviati solo per le sue mani. Il suo stipendio non fluttuava ma variavano gli incarichi. In qualche modo aveva una certa aria di soddisfazione. Pasquale mi divenne simpatico subito. Appena fissai il suo nasone. Aveva una faccia anziana, anche se era un ragazzone. Una faccia ficcata sempre tra forbici, tagli di stoffe, polpastrelli strusciati sulle cuciture. Pasquale era uno dei pochi che poteva comprare direttamente la stoffa. Alcune griffe – fidandosi della sua capacità – gli facevano ordinare direttamente i materiali dalla Cina, e lui stesso poi ne verificava la qualità. Per questo motivo Xian e Pasquale si erano conosciuti. Al porto dove una volta ci trovammo a mangiare insieme. Finito il pranzo Xian e Pasquale si salutarono e noi subito salimmo in macchina. Stavamo andando verso il Vesuvio. Di solito si rappresentano i vulcani con colori scuri. Il Vesuvio è verde. Un manto infinito di muschio, sembra a vederlo da lontano. Prima però di prendere la strada per i paesi vesuviani, l'auto entrò nell'androne di una casa. Lì c'era Pasquale ad aspettarci. Non capivo cosa stesse accadendo. Uscì dalla sua auto e direttamente si ficcò nel portabagagli dell'auto di Xian. Tentai di chiedere spiegazioni: «Cosa succede? Perché nel cofano?» «Non preoccuparti. Adesso andiamo a Terzigno, alla fabbrica.» Alla guida si mise una specie di Minotauro. Era uscito dall'auto di Pasquale e sembrava sapesse a memoria cosa fare. Fece marcia indietro, uscì dal cancello, e prima di immettersi sulla strada cacciò una pistola. Una semiautomatica. Scarrellò e se la mise tra le gambe. Io non fiatai, ma il Minotauro, guardando nello specchietto retrovisore, vedeva che lo fissavo preoccupato: «Una volta ci stavano facendo la pelle.» «Ma chi?» Cercavo di farmi spiegare tutto dall'inizio. «Sono quelli che non vogliono che i cinesi imparino a lavorare sull'alta moda. Quelli che dalla Cina vogliono le stoffe, punto e basta.» Non capivo. Continuavo a non capire. Intervenne Xian col suo solito tono tranquillizzante. «Pasquale ci aiuta a imparare. A imparare a lavorare sui capi di qualità che ancora non ci affidano. Impariamo da lui come fare i vestiti...» Il Minotauro, dopo la sintesi di Xian, cercò di motivare la pistola: «Allora... una volta uno è sbucato lì, proprio lì vedi, in mezzo alla piazza, e ha sparato contro la macchina. Hanno colpito il motore e il tergicristalli. Se volevano farci fuori ci facevano fuori. Ma era un avvertimento. Se lo rifanno questa volta però sono pronto.» Il Minotauro poi mi spiegò che quando si guida tenere la pistola tra le cosce è la tecnica migliore, poggiarla sul cruscotto rallenterebbe i gesti, i movimenti per prenderla. Per arrivare a Terzigno la strada era in salita, la frizione gettava un odore puzzolentissimo. Piuttosto che temere per qualche sventagliata di mitra temevo che il rinculo dell'auto potesse far sparare la pistola nello scroto dell'autista. Arrivammo tranquillamente. Appena ferma la macchina Xian andò ad aprire il cofano. Pasquale uscì. Sembrava un kleenex appallottolato che tentava di stiracchiarsi. Mi si avvicinò e disse: «Ogni volta questa storia, manco fossi un latitante. Però meglio che non mi vedono in macchina. Altrimenti...» E fece il gesto della lama sulla gola. Il capannone era grande. Non enorme. Xian me lo descriveva orgoglioso. Era di sua proprietà, ma all'interno c'erano nove microfabbriche affidate a nove imprenditori cinesi. Entrando infatti sembrava di vedere una scacchiera. Ogni singola fabbrica aveva i propri operai e i propri banchi da lavoro ben circoscritti nei quadrati. A ogni fabbrica Xian aveva concesso lo stesso spazio delle fabbriche di Las Vegas. Ogni appalto lo concedeva per asta. Il metodo era lo stesso. Aveva deciso di non far stare i bambini nella zona di lavorazione, e i turni li aveva organizzati come facevano le fabbriche italiane. In più, quando lavoravano per altre aziende, non chiedevano liquidità anticipata. Xian insomma stava diventando un vero e proprio imprenditore della moda italiana. Le fabbriche cinesi in Cina stavano facendo concorrenza alle fabbriche cinesi in Italia. E così Prato, Roma, e le Chinatown di mezza Italia stavano crollando miseramente: avevano avuto un boom di crescita così veloce da rendere la caduta ancora più repentina. In un unico modo si sarebbero potute salvare le fabbriche cinesi: fare diventare gli operai esperti dell'alta moda, capaci di lavorare in Italia sull'eccellenza. Imparare dagli italiani, dai padroncini sparsi per Las Vegas, divenire non più produttori di paccottiglia ma referenti nel sud Italia delle griffe. Prendere il posto, le logiche, gli spazi, i linguaggi delle fabbriche in nero italiane e cercare di fare lo stesso lavoro. Solo a un po' di meno e a qualche ora in più. Pasquale cacciò della stoffa da una valigetta. Era un vestito che avrebbe dovuto tagliare e lavorare nella sua fabbrica. Invece fece l'operazione su una scrivania davanti a una telecamera, che lo riprendeva rimandando l'immagine su un enorme telone appeso alle sue spalle. Una ragazza con un microfono traduceva in cinese ciò che diceva. Era la sua quinta lezione. «Dovete avere massima cura delle cuciture. La cucitura dev'essere leggera, ma non inesistente.» Il triangolo cinese. San Giuseppe Vesuviano, Terzigno, Ottaviano. E il fulcro dell'imprenditoria tessile cinese. Tutto quello che accade nelle Jolie indossa un vestito fatto ad Arzano, da Pasquale. Il massimo e il minimo. Milioni di dollari e seicento euro al mese. Quando tutto ciò che è possibile è stato fatto, quando talento, bravura, maestria, impegno, vengono fusi in un'azione, in una prassi, quando tutto questo non serve a mutare nulla, allora viene voglia di stendersi a pancia sotto sul nulla, nel nulla. Sparire lentamente, farsi passare i minuti sopra, affondarci dentro come fossero sabbie mobili. Smettere di fare qualsiasi cosa. E tirare, tirare a respirare. Nient'altro. Tanto nulla può mutare condizione: nemmeno un vestito fatto ad Angelina Jolie e indossato la notte degli Oscar. Pasquale uscì di casa, non si curò neanche di chiudere la porta. Luisa sapeva dove andava, sapeva che sarebbe andato a Secondigliano e sapeva chi andava a incontrare. Poi si buttò sul divano e immerse la faccia nel cuscino come una bambina. Non so perché, ma quando Luisa si mise a piangere mi vennero in mente i versi di Vittorio Bodini. Una poesia che raccontava delle strategie che usavano i contadini del sud per non partire soldati, per non riempire le trincee della Prima guerra, alla difesa di confini di cui ignoravano l'esistenza. Faceva così: Al tempo dell'altra guerra contadini e contrabbandieri / si mettevano foglie di Xanti-Yaca sotto le ascelle / per cadere ammalati. / Le febbri artificiali, la malaria presunta / di cui tremavano e battevano i denti, / erano il loro giudizio / sui governi e la storia. Il pianto di Luisa mi sembrò anch'esso un giudizio sul governo e sulla storia. Non uno sfogo. Non un dispiacere per una soddisfazione non celebrata. Mi è sembrato un capitolo emendato del Capitale di Marx, un paragrafo della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, un capoverso della Teoria generale dell'occupazione di John Maynard Keynes, una nota dell'Etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. Una pagina aggiunta o sottratta. Dimenticata di scrivere o forse scritta continuamente ma non nello spazio della pagina. Non era un atto disperato ma un'analisi. Severa, dettagliata, precisa, argomentata. Mi immaginavo Pasquale per strada, a battere i piedi per terra come quando ci si toglie la neve dagli scarponi. Come un bambino che si stupisce del perché la vita dev'essere tanto dolorosa. Sino ad allora ci era riuscito. Era riuscito a trattenersi, a fare il suo mestiere, a volerlo fare. E a farlo come nessun altro. Ma in quel momento, quando ha visto quel vestito, quel corpo muoversi dentro alle stoffe da lui carezzate si è sentito solo. Solissimo. Perché quando qualcuno conosce una cosa solo nel perimetro della propria carne e del proprio cranio è come se non la sapesse. E così il lavoro quando serve solo a galleggiare, a sopravvivere, solo a se stessi, allora è la peggiore delle solitudini. Rividi Pasquale due mesi dopo. L'avevano messo sui camion. Trasportava ogni tipo di merce – legale e illegale – per conto delle imprese legate alla famiglia Licciardi di Secondigliano. O almeno così dicevano. Il miglior sarto sulla terra guidava i camion della camorra tra Secondigliano e il Lago di Garda. Mi offrì un pranzo, mi fece fare un giro nel suo enorme camion. Aveva le mani rosse e le nocche spaccate. Come a tutti i camionisti che per ore reggono i volanti, le mani gelano e la circolazione si ingolfa. Non aveva un viso sereno, aveva scelto quel lavoro per dispetto, per dispetto al suo destino, un calcio in culo alla sua vita. Ma non si poteva sempre sopportare, anche se mandare tutto al diavolo significava vivere peggio. Mentre mangiavamo si alzò per andare a salutare qualche suo compare. Lasciò il portafogli sul tavolo. Vidi uscire dal fagotto di cuoio una pagina di giornale piegata in quattro parti. Aprii. Era una foto, una copertina di Angelina Jolie vestita di bianco. Il completo cucito da Pasquale. La giacca portata direttamente sulla pelle. Bisognava avere il talento di vestirla senza nasconderla. Il tessuto doveva accompagnare il corpo, disegnarlo facendosi tracciare dai movimenti. Sono sicuro che Pasquale, da solo, qualche volta, magari quando ha finito di mangiare, quando a casa i bambini si addormentano sfiancati dal gioco a pancia sotto sul divano, quando la moglie prima di lavare i piatti si mette al telefono con la madre, proprio in quel momento gli viene in mente di aprire il portafogli e fissare quella pagina di giornale. E sono sicuro che, guardando quel capolavoro che ha creato con le sue mani, Pasquale è felice. Una felicità rabbiosa. Ma questo non lo saprà mai nessuno. Il Sistema Era il Sistema ad aver alimentato il grande mercato internazionale dei vestiti, l'enorme arcipelago dell'eleganza italiana. Ogni angolo del globo era stato raggiunto dalle aziende, dagli uomini, dai prodotti del Sistema. Sistema, un termine qui a tutti noto, ma che altrove resta ancora da decifrare, uno sconosciuto riferimento per chi non conosce le dinamiche del potere dell'economia criminale. Camorra è una parola inesistente, da sbirro. Usata dai magistrati e dai giornalisti, dagli sceneggiatori. È una parola che fa sorridere gli affiliati, è un'indicazione generica, un termine da studiosi, relegato alla dimensione storica. Il termine con cui si definiscono gli appartenenti a un clan è Sistema: «Appartengo al Sistema di Secondigliano». Un termine eloquente, un meccanismo piuttosto che una struttura. L'organizzazione criminale coincide direttamente con l'economia, la dialettica commerciale è l'ossatura del clan. Il Sistema di Secondigliano governava ormai tutta la filiera dei tessuti, la periferia di Napoli era il vero territorio produttivo, il vero centro imprenditoriale. Tutto quanto altrove non era possibile pretendere per via delle rigidità dei contratti, della legge, del copyright, a nord di Napoli si otteneva. La periferia strutturandosi intorno al potere imprenditoriale del clan permetteva di macinare capitali astronomici, inimmaginabili per qualsiasi agglomerato industriale legale. I clan avevano creato interi indotti industriali di produzione tessile e di lavorazione di scarpe e di pelletteria in grado di produrre vestiti, giacche, scarpe e camicie, identiche a quelle delle grandi case di moda italiane. Godevano sul territorio di una manodopera di elevatissima qualità formatasi in decenni di lavoro sui grandi capi dell'alta moda, sui più importanti disegni degli stilisti italiani ed europei. Le stesse maestranze che avevano lavorato in nero per le più importanti griffe venivano assunte dai clan. Non solo la lavorazione era perfetta ma persino i materiali erano i medesimi, venivano comprati direttamente sul mercato cinese o erano quelli inviati dalle griffe alle fabbriche in nero che partecipavano alle aste. Gli abiti contraffatti dei clan secondiglianesi quindi non erano la classica divenuto uno dei più ricercati luoghi per comprare abiti eleganti, e anche a Sydney avevano magazzini e negozi. In Brasile, a Rio de Janeiro e São Paulo i secondiglianesi egemonizzavano il mercato dell'abbigliamento. A Cuba avevano in progetto di aprire un negozio per i turisti europei e americani, e in Arabia Saudita e nel Maghreb avevano iniziato a investire da tempo. Il meccanismo di distribuzione che il Direttorio attuava era quello dei magazzini. Così li chiamavano nelle intercettazioni telefoniche: sono veri e propri centri di smistamento di uomini e merci. Depositi dove arrivavano ogni tipo di abiti. I magazzini erano il centro della raggiera commerciale dove giungevano gli agenti che prelevavano la merce da distribuire ai negozi dei clan o ad altri dettaglianti. La logica veniva da lontano. Dai magliari: i venditori napoletani che dopo la Seconda guerra avevano invaso mezzo mondo macinando chilometri, portando in borse stracariche calzini, camicie, giacche. Applicando su scala più vasta la loro antica esperienza mercantile, i magliari si sono trasformati in veri e propri agenti commerciali in grado di vendere ovunque: dai mercati rionali ai centri commerciali, dai parcheggi alle stazioni di servizio. I magliari più capaci potevano fare il salto di qualità e tentare di vendere grosse partite di vestiti direttamente ai dettaglianti. Alcuni imprenditori, secondo le indagini, organizzavano la distribuzione dei falsi, offrendo assistenza logistica agli agenti, ai "magliari". Anticipavano le spese di viaggio e di soggiorno, fornivano furgoni e vetture, in caso di arresto o sequestro dei capi garantivano l'assistenza legale. E ovviamente incassavano il danaro delle vendite. Affari che fatturavano per ogni famiglia giri annuali di circa trecento milioni di euro. Le griffe della moda italiana hanno cominciato a protestare contro il grande mercato del falso gestito dai cartelli dei secondiglianesi soltanto dopo che l'Antimafia ha scoperto l'intero meccanismo. Prima di allora non avevano progettato una campagna pubblicitaria contro i clan, non avevano mai fatto denunce, né avevano informato la stampa rivelando i meccanismi di produzione parallela che subivano. È difficile comprendere perché le griffe non si siano mai esposte contro i clan. I motivi potrebbero essere molteplici. Denunciare il grande mercato significava rinunciare per sempre alla manodopera a basso costo che utilizzavano in Campania e Puglia. I clan avrebbero chiuso i canali d'accesso al bacino delle fabbriche tessili del napoletano e ostacolato i rapporti con le fabbriche nell'est Europa e in Oriente. Denunciare avrebbe compromesso migliaia di contatti di vendita nei negozi, siccome moltissimi punti commerciali erano direttamente gestiti dai clan. La distribuzione, gli agenti, e i trasporti in molte parti sono dirette emanazioni delle famiglie. Denunciando avrebbero subìto impennate dei prezzi nella distribuzione. I clan del resto non commettevano un crimine che andava a rovinare l'immagine delle griffe, ma ne sfruttavano semplicemente il carisma pubblicitario e simbolico. Producevano i capi non storpiandoli, non infangavano qualità o modelli. Riuscivano a non far concorrenza simbolica alle griffe, ma a diffondere sempre di più prodotti i cui prezzi di mercato li avevano resi proibitivi al grande pubblico. Diffondevano il marchio. Se quasi nessuno indossa più i capi, se finiscono per essere visibili solo addosso ai manichini di carne delle passerelle, il mercato si spegne lentamente e anche il prestigio si indebolisce. Del resto nelle fabbriche napoletane venivano prodotti abiti e pantaloni falsi di taglie che le griffe, per questioni d'immagine, non producono. I clan invece non si ponevano questioni d'immagine dinanzi alla possibilità di profitto. I clan secondiglianesi attraverso il falso-vero e il danaro del narcotraffico erano riusciti a comprare negozi e centri commerciali, dove sempre più spesso i prodotti autentici e quelli vero-falsi venivano mischiati, impedendo ogni distinzione. Il Sistema aveva in qualche modo sostenuto l'impero della moda legale, nonostante l'impennata dei prezzi, anzi sfruttando la crisi del mercato. Il Sistema, guadagnandoci cifre esponenziali, aveva continuato a diffondere ovunque nel mondo il made in Italy. A Secondigliano avevano compreso che la capillare rete internazionale di punti vendita era il loro business più esclusivo, non secondario a quello della droga. Attraverso i canali dello smercio di abiti in molti casi si muovevano anche i percorsi del narcotraffico. La forza imprenditoriale del Sistema non si è fermata all'abbigliamento, ha investito anche nella tecnologia. Dalla Cina, secondo quanto emerge dall'inchiesta del 2004, i clan spostano e distribuiscono in Europa attraverso la loro rete commerciale diversi prodotti hi-tech. L'Europa aveva il contenitore, la marca, la fama, la pubblicità; la Cina aveva il contenuto, il prodotto in sé, la produzione a basso costo, i materiali a prezzi irrisori. Il Sistema camorra ha unito le due cose risultando vincente su ogni mercato. I clan avevano compreso che il sistema economico era allo spasmo e, seguendo i percorsi delle imprese che prima investivano nelle periferie del mezzogiorno e poi lentamente si spostavano in Cina, erano riusciti a individuare i distretti industriali cinesi che producevano per le grandi case di produzione occidentali. Avevano così pensato di ordinare partite di prodotti ad alta tecnologia per rivenderli in Europa con ovviamente un marchio falso che li avrebbe resi più appetibili. Ma non si sono fidati nell'immediato: come per una partita di coca, hanno prima provato la qualità dei prodotti che gli vendevano le fabbriche cinesi a cui si erano rivolti. Soltanto dopo aver testato sul mercato la validità dei prodotti, diedero vita a uno dei traffici intercontinentali più floridi che la storia criminale abbia mai conosciuto. Macchine fotografiche digitali e videocamere, ma anche utensili per i cantieri: trapani, flex, martelli pneumatici, smerigliatrici, levigatrici. Tutti prodotti commercializzati con i marchi Bosch, Hammer, Hilti. Il boss di Secondigliano Paolo Di Lauro aveva deciso di investire in macchine fotografiche arrivando in Cina dieci anni prima che la Confindustria stringesse rapporti commerciali con l'Oriente. Sul mercato dell'est Europa, migliaia di modelli Canon e Hitachi vennero venduti dal clan Di Lauro. Prodotti che prima erano appannaggio della borghesia medio-alta divennero, attraverso l'importazione della camorra napoletana, accessibili a un pubblico più vasto. I clan si appropriavano solo del marchio finale, per meglio introdursi nel mercato, ma il prodotto era praticamente il medesimo. L'investimento in Cina dei clan Di Lauro e Contini – messo a fuoco nell'inchiesta del 2004 della DDA di Napoli – dimostra la lungimiranza imprenditoriale dei boss. La grande impresa era terminata e così si erano sfaldati gli agglomerati criminali. La Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo degli anni '80 era una sorta di azienda enorme, un agglomerato centralizzato. Poi venne la Nuova Famiglia di Carmine Alfieri e Antonio Bardellino, strutturata in maniera federativa, con famiglie economicamente autonome e unite da interessi operativi congiunti, ma anch'essa elefantiaca. Ora invece la flessibilità dell'economia ha determinato che piccoli gruppi di boss manager con centinaia di indotti, ognuno con compiti precisi, si siano imposti sull'arena economica e sociale. Una struttura orizzontale, molto più flessibile di Cosa Nostra, molto più permeabile a nuove alleanze della 'ndrangheta, capace di alimentarsi continuamente di nuovi clan, di nuove strategie, gettandosi sui mercati d'avanguardia. Decine di operazioni di polizia negli ultimi anni hanno dimostrato che sia la mafia siciliana che la 'ndrangheta hanno avuto necessità di mediare con i clan napoletani per l'acquisto di grandi partite di droga. I cartelli napoletani e campani fornivano cocaina ed eroina a prezzi convenienti, risultando in molti casi più comodi ed economici del contatto diretto con trafficanti tutto il resto. Gli artefici della trasformazione imprenditorial-criminale della periferia di Secondigliano e Scampia erano stati i Licciardi, la famiglia che ha la sua centrale operativa alla Masseria Cardone, un vero e proprio feudo inespugnabile. Gennaro Licciardi, "'a scigna": è stato lui il primo boss che ha determinato la metamorfosi di Secondigliano. Fisicamente somigliava davvero a un gorilla o a un orango. Licciardi, alla fine degli anni '80, era luogotenente a Secondigliano di Luigi Giuliano, il boss di Forcella, nel cuore di Napoli. La periferia era considerata zona infame, dove non ci sono negozi, non nascono centri commerciali, un territorio ai margini d'ogni ricchezza dove le sanguisughe delle bande estorsive non potevano alimentarsi di percentuali. Ma Licciardi comprese che poteva divenire uno snodo per le piazze di spaccio, un porto franco per i trasporti, una raccolta di manovalanza a prezzo bassissimo. Un territorio dove presto sarebbero spuntate le impalcature dei nuovi agglomerati urbani della città in espansione. Gennaro Licciardi non riuscì ad attuare pienamente la sua strategia. Morì a trentotto anni, in carcere, per una banalissima ernia ombelicale, una fine impietosa per un boss. Ancor più perché quando era più giovane nelle camere di sicurezza del Tribunale di Napoli, in attesa di un'udienza, era stato coinvolto in una rissa tra affiliati alla NCO di Cutolo e alla Nuova Famiglia, i due grandi fronti della camorra, e si era beccato ben sedici coltellate su tutto il corpo. Ma ne era uscito vivo. La famiglia Licciardi aveva trasformato un luogo che era soltanto serbatoio di manovalanza in una macchina per narcotraffico: in imprenditoria criminale internazionale. Migliaia di persone vennero cooptate, affiliate, stritolate nel Sistema. Tessile e droga. Investimenti nel commercio prima d'ogni cosa. Dopo la morte di Gennaro "'a scigna", i fratelli Pietro e Vincenzo presero il potere militare, ma era Maria detta "'a piccerella" che deteneva il potere economico del clan. Dopo la caduta del muro di Berlino, Pietro Licciardi trasferì la parte maggiore dei propri investimenti, legali e illegali, a Praga e Brno. La Repubblica Ceca fu completamente egemonizzata dai secondiglianesi che, utilizzando la logica della periferia produttiva, iniziarono a investire per conquistare i mercati in Germania. Pietro Licciardi aveva un profilo da manager, ed era chiamato dagli imprenditori suoi alleati "l'imperatore romano" per il suo atteggiamento autoritario e tracotante nel credere l'intero globo un'estensione di Secondigliano. Aveva aperto un negozio di vestiti in Cina, un pied-à-terre commerciale a Taiwan che gli avrebbe permesso di scalare anche il mercato interno cinese e non di sfruttare soltanto la manodopera. Venne arrestato a Praga nel giugno del 1999. Militarmente era stato spietato, fu accusato di aver ordinato di mettere l'autobomba in via Cristallini, alla Sanità, nel 1998 durante i conflitti tra i clan della periferia e quelli del centro storico. Una bomba che doveva punire l'intero quartiere e non soltanto i responsabili del clan. Quando l'auto saltò in aria, lamiere e vetri investirono come proiettili tredici persone. Mancarono però prove sufficienti per condannarlo e venne assolto. In Italia il clan Licciardi ha dislocato la parte maggiore delle proprie attività imprenditoriali nel settore tessile e commerciale a Castelnuovo del Garda in Veneto. Non lontano, a Portogruaro, venne arrestato Vincenzo Pernice, il cognato di Pietro Licciardi e con lui alcuni fiancheggiatori del clan, tra i quali Renato Peluso, residente proprio a Castelnuovo del Garda. Commercianti e imprenditori veneti legati ai clan hanno coperto la latitanza di Pietro Licciardi, non più in concorso esterno quindi ma pienamente inquadrati nell'organizzazione imprenditorial- criminale. I Licciardi avevano al fianco di una articolata capacità imprenditoriale anche una struttura militare. Dopo l'arresto di Pietro e Maria, il clan attualmente è retto da Vincenzo, il boss latitante che coordina sia l'apparato militare che quello economico. Il clan è sempre stato particolarmente vendicativo. Vendicarono pesantemente la morte di Vincenzo Esposito, nipote di Gennaro Licciardi, ucciso a ventuno anni nel 1991, al rione Monterosa, territorio dei Prestieri, una delle famiglie afferenti all'Alleanza. Esposito lo chiamavano "il principino" per il suo essere nipote dei sovrani di Secondigliano. Era andato in moto a chiedere spiegazione di una violenza su alcuni suoi amici. Indossava il casco, lo abbatterono scambiandolo per un killer. I Licciardi accusarono i Di Lauro, di cui i Prestieri erano stretti alleati, di aver fornito i killer per l'eliminazione e, secondo il pentito Luigi Giuliano, fu proprio Di Lauro a organizzare l'omicidio del "principino" che si stava ingerendo troppo in certi affari. Qualunque sia stato il movente, il potere dei Licciardi era così inattaccabile che obbligarono i clan coinvolti a purgarsi dei possibili responsabili della morte di Esposito. Fecero partire una mattanza che in pochi giorni uccise quattordici persone a vario titolo coinvolte, direttamente e indirettamente, nell'omicidio del loro giovane erede. Il Sistema era riuscito anche a trasformare la classica estorsione e le logiche d'usura. Compresero che i commercianti avevano bisogno di liquidità, che le banche erano sempre più rigide e si inserirono nel rapporto tra fornitori e negozianti. I commercianti che devono acquistare i propri articoli possono pagarli in contanti, oppure con cambiali. Se pagano in contanti il prezzo è minore, dalla metà ai due terzi dell'importo che pagherebbero in cambiali. In questa situazione quindi il commerciante ha tutto l'interesse a pagare in contanti, e la ditta venditrice ha lo stesso interesse. Il contante viene offerto dal clan a tassi mediamente del 10 per cento. In questo modo si crea automaticamente un rapporto societario di fatto tra il commerciante acquirente, il venditore e il finanziatore occulto, ossia i clan. I proventi dell'attività vengono divisi al 50 per cento ma può accadere che l'indebitamento faccia entrare percentuali sempre più ampie nelle casse del clan e che alla fine il commerciante diventi un semplice prestanome che percepisce uno stipendio mensile. I clan non sono come le banche che rispondono al debito arraffando tutto, il bene lo utilizzano lasciando che ci lavorino le persone con esperienza che hanno perso la proprietà. Secondo quanto emerge dalle dichiarazioni di un pentito, nell'inchiesta della DDA del 2004, il 50 per cento dei negozi solo a Napoli è eterodiretto dalla camorra. Ormai l'estorsione mensile, quella alla Mi manda Picone, il film di Nanni Loy, del porta a porta a Natale, Pasqua e Ferragosto è una prassi da clan straccione, usata da gruppi che cercano di sopravvivere, incapaci di fare impresa. Tutto è cambiato. I Nuvoletta di Marano, periferia a nord di Napoli, avevano innescato un meccanismo più articolato ed efficiente di racket fondato sul vantaggio reciproco e sull'imposizione delle forniture. Giuseppe Gala detto "showman" era diventato uno dei più apprezzati e richiesti agenti nel business alimentare. Era agente della Bauli e della Von Holten e attraverso la Vip Alimentari aveva conquistato un posto di esclusivista della Parmalat per la zona di Marano. In una conversazione telefonica depositata dai magistrati della DDA di Napoli nell'autunno del 2003, Gala si vantava della sua qualità di agente: «Li ho bruciati tutti, siamo i più forti sul mercato». Le ditte che trattava infatti avevano la certezza di essere presenti su tutto il territorio da lui coperto e la garanzia di un elevato numero di ordinazioni. D'altro canto i commercianti e i supermarket erano ben felici di poter interloquire con Peppe Gala poiché forniva sconti assai più alti sulla merce, avendo possibilità di fare pressione sulle aziende e sui elevatissime, dato che l'Enea aveva ottenuto appalti pubblici per milioni di euro a Bologna, Reggio Emilia, Modena, Venezia, Ascoli Piceno e Frosinone. Gli affari dei Nuvoletta da anni si erano dislocati anche in Spagna. Tenerife era la città dove Nocera si era recato per contestare ad Armando Orlando, considerato dagli investigatori ai vertici del clan, le spese sostenute nella costruzione di un imponente complesso edilizio, il Marina Palace. Nocera gli contestò di star spendendo troppo perché usavano materiali troppo costosi. Il Marina Palace l'ho visto soltanto sul web, il suo sito è eloquente, un enorme agglomerato turistico, piscine e cemento che i Nuvoletta avevano costruito per partecipare e alimentare il business del turismo in Spagna. Paolo Di Lauro veniva dalla scuola dei maranesi, la sua carriera criminale iniziò come loro luogotenente. Lentamente Di Lauro si allontanò dai Nuvoletta divenendo, negli anni '90, braccio destro del boss di Castellammare Michele D'Alessandro, e occupandosi direttamente della sua latitanza. Il suo progetto era quello di poter coordinare le piazze di spaccio con la stessa logica con cui aveva gestito le catene di negozi e le fabbriche di giacche. Il boss comprese che, dopo la morte in carcere di Gennaro Licciardi, il territorio di Napoli nord poteva divenire il più grande mercato di droga a cielo aperto che si era mai visto in Italia e in Europa. Tutto gestito dai suoi uomini. Paolo Di Lauro aveva sempre agito silenziosamente con qualità più finanziarie che militari, non invadeva apparentemente i territori di altri boss, non veniva rintracciato da indagini e perquisizioni. Tra i primi a svelare l'organigramma della sua organizzazione c'era stato il pentito Gaetano Conte. Un pentito dalla storia particolarmente interessante. Era un carabiniere, era stato in servizio a Roma, guardia del corpo di Francesco Cossiga. Le sue qualità di uomo della scorta di un Presidente della Repubblica l'avevano promosso a sodale del boss Di Lauro. Conte, dopo aver gestito per conto del clan estorsioni e narcotraffico, aveva deciso di collaborare con i magistrati con dovizia di informazioni e particolari che solo un carabiniere avrebbe saputo dare. Paolo Di Lauro è conosciuto come "Ciruzzo 'o milionario": un contronome ridicolo, ma soprannomi e contronomi hanno una precisa logica, una sedimentazione calibrata. Ho sempre sentito chiamare gli appartenenti al Sistema con il soprannome, al punto che il nome e il cognome in molti casi arriva a diluirsi, a essere dimenticato. Non si sceglie un proprio contronome, spunta d'improvviso da qualcosa, per qualche motivo, e qualcuno lo riprende. Così per mero fato nascono i soprannomi di camorra. Paolo Di Lauro è stato ribattezzato "Ciruzzo 'o milionario" dal boss Luigi Giuliano che lo vide una sera presentarsi al tavolo da poker mentre lasciava cadere dalle tasche decine di biglietti da centomila lire. Giuliano esclamò: «E chi è venuto, Ciruzzo 'o milionario?». Un nome uscito in una serata brilla, un attimo, una trovata giusta. Ma il florilegio di contronomi è infinito. Carmine Alfieri "'o 'ntufato", l'arrabbiato, il boss della Nuova Famiglia, venne chiamato così per il ghigno di insoddisfazione e rabbia sempre presente sul suo viso. Poi ci sono i contronomi che provengono dai soprannomi degli avi di famiglia e che si appiccicano anche agli eredi, come il boss Mario Fabbrocino detto "'o graunar'", il carbonaio: i suoi avi vendevano il carbone e tanto era bastato per definire così il boss che aveva colonizzato l'Argentina con i capitali della camorra vesuviana. Ci sono soprannomi dovuti alle passioni dei singoli camorristi come Nicola Luongo, detto "'o wrangler", un affiliato fissato con i fuoristrada Wrangler, divenuti veri e propri modelli prediletti dagli uomini di Sistema. Poi i contronomi nati sulla scorta di particolari tratti fisici, Giovanni Birra "'a mazza" per il suo corpo secco e lungo, Costantino Iacomino "capaianca" per i capelli bianchi che gli spuntarono prestissimo in testa, Ciro Mazzarella "'o scellone" dalle scapole visibili, Nicola Pianese chiamato "'o mussuto" ossia il baccalà per la sua pelle bianchissima, Rosario Privato "mignolino", Dario De Simone "'o nano" il nano. Contronomi inspiegabili come Antonio Di Fraia detto "'u urpacchiello" un termine che sta per frustino, di quelli ricavati essiccando il pene dell'asino. E poi Carmine Di Girolamo detto "'o sbirro" per la capacità di coinvolgere nelle sue operazioni poliziotti e carabinieri. Ciro Monteriso "'o mago" per chissà quale ragione. Pasquale Gallo di Torre Annunziata dal viso grazioso detto "'o bellillo", i Lo Russo definiti "i capitoni" come i Maliardo i "Carlantoni" e i Belforte i "Mazzacane" e i Piccolo i "Quaqquaroni", vecchi nomi dei ceppi di famiglia. Vincenzo Mazzarella "'o pazzo" e Antonio Di Biasi, soprannominato "pavesino" perché quando usciva a fare operazioni militari si portava sempre dietro i biscotti pavesini da sgranocchiare. Domenico Russo, soprannominato "Mimì dei cani" boss dei Quartieri Spagnoli, chiamato così perché da ragazzino vendeva cuccioli di cane lungo via Toledo. E poi Antonio Carlo D'Onofrio "Carlucciello 'o mangiavatt'" ossia Carletto il mangiagatti, leggenda vuole che avesse imparato a sparare usando i gatti randagi come bersaglio. Gennaro Di Chiara che scattava violentemente ogni qual volta qualcuno gli toccava il viso era detto "file scupierto", filo scoperto. Poi ci sono contronomi dovuti a espressioni onomatopeiche intraducibili come Agostino Tardi detto "picc pocc" o Domenico di Ronza "scipp scipp" o la famiglia De Simone detta "quaglia quaglia", gli Aversano detti "zig zag", Raffaele Giuliano '"o zuì", Antonio Bifone "zuzù". Gli è bastato ordinare spesso la stessa bevanda e Antonio Di Vicino è divenuto "lemon", Vincenzo Benitozzi con un viso tondo veniva chiamato "Cicciobello", Gennaro Lauro, forse per il numero civico dove abitava, detto "'o diciassette", poi Giovanni Aprea "punt 'e curtiello" perché il nonno, nel 1974, partecipò al film di Pasquale Squitieri I guappi, interpretando il ruolo del vecchio camorrista che allenava i "guaglioni" a tirare di coltello. Ci sono invece contronomi calibrati che possono fare la fortuna o sfortuna mediatica di un boss come quello celebre di Francesco Schiavone detto Sandokan, un contronome feroce scelto per la sua somiglianza con Kabir Bedi, l'attore che interpretò l'eroe salgariano. Pasquale Tavoletta detto Zorro per la somiglianza, a sua volta, con l'attore del telefilm televisivo, o quello di Luigi Giuliano "'o re", detto anche Lovigino, contronome ispirato dalle sue amanti americane che nell'intimità gli sussurravano "I love Luigino". Da qui Lovigino. Il contronome di suo fratello Carmine "'o lione", e quello di Francesco Verde alias "'o negus" come l'imperatore di Etiopia per la sua ieraticità e per il suo essere boss da lungo tempo. Mario Schiavone chiamato "Menelik" come il famoso imperatore etiope che si oppose alle truppe italiane, e Vincenzo Carobene detto "Gheddafi" per la sua straordinaria somiglianza con il figlio del generale libico. Il boss Francesco Bidognetti è conosciuto come "Cicciotto di Mezzanotte", un contronome nato dal fatto che chiunque si fosse frapposto tra lui e un suo affare avrebbe visto calare su di sé la mezzanotte anche all'alba. Qualcuno sostiene che il soprannome gli fu affibbiato perché da ragazzo aveva iniziato la scalata ai vertici del clan proteggendo le puttane. Tutto il suo clan veniva definito ormai "il clan dei Mezzanotte". Quasi tutti i boss hanno un contronome: è in assoluto il tratto unico, identificatore. Il soprannome per il boss è come le stimmate per un santo. La dimostrazione dell'appartenenza al Sistema. Tutti possono essere Francesco Schiavone, ma solo uno sarà Sandokan, tutti possono chiamarsi Carmine Alfieri, ma uno solo si girerà quando verrà chiamato "'o 'ntufato", chiunque può chiamarsi Francesco Verde, solo uno risponderà al nome di "'o negus", tutti possono essere stati iscritti all'anagrafe come Paolo Di di chi è troppo bravo nel proprio mestiere. Si racconta che McKay bevve tutto, sino alla posa. Un lungo sorso di piscio risolse il primo sisma avvenuto all'interno delle dirigenze del cartello del clan Di Lauro. Una tregua labile, che nessun rene successivamente avrebbe potuto drenare. La guerra di Secondigliano McKay e Angioletto avevano deciso. Volevano ufficializzare la formazione di un proprio gruppo, erano d'accordo tutti i dirigenti più anziani, avevano chiaramente detto di non voler entrare in conflitto con l'organizzazione ma di volerne diventare concorrenti. Leali concorrenti sul vasto mercato. Fianco a fianco, ma in autonomia. E così – secondo le dichiarazioni del pentito Pietro Esposito – mandarono il messaggio a Cosimo Di Lauro, il reggente del cartello. Volevano incontrare Paolo, il padre, il dirigente massimo, il vertice, il referente primo del sodalizio. Parlargli di persona, dirgli che non condividevano le scelte di ristrutturazione, che avevano fatto i figli, volevano fissarlo negli occhi smettendola di far passare parola su parola da gola a gola, facendo impastare i messaggi dalla saliva di molte lingue, visto che i cellulari non erano utilizzabili per non far risalire al percorso della sua latitanza. Genny McKay voleva incontrare Paolo Di Lauro, il boss che aveva permesso la sua ascesa imprenditoriale. Cosimo accetta formalmente la richiesta dell'incontro, si tratta del resto di riunire tutti i vertici dell'organizzazione, capi, dirigenti, capizona. Non si può rifiutare. Ma Cosimo ha già tutto in mente, o così sembra. Pare davvero che sappia verso cosa sta orientando la sua gestione degli affari, e come deve organizzarne la difesa. E così, ascoltando quanto dicono indagini e dichiarazioni di collaboratori di giustizia, Cosimo all'appuntamento non manda sottoposti. Non manda il "cavallaro", Giovanni Cortese il portavoce ufficiale, colui che ha sempre curato i rapporti della famiglia Di Lauro con l'esterno. Cosimo manda i suoi fratelli, Marco e Ciro, a perlustrare il luogo dell'incontro. Loro vanno a vedere, controllano che aria tira, non avvertono nessuno del loro passaggio. Passano senza scorta, forse in auto. Veloci, ma non troppo. Osservano le vie di fuga preparate, le sentinelle appostate, senza dare nell'occhio. Riferiscono a Cosimo, gli raccontano i dettagli. Cosimo comprende. Avevano preparato tutto per un agguato. Per ammazzare Paolo e chiunque l'avesse accompagnato. L'incontro era un tranello, era un modo per uccidere e sancire una nuova era nella gestione del cartello. Del resto un impero non si scinde allentando una stretta di mano, ma tagliandola con una lama. Questo si racconta, questo raccontano indagini e pentiti. Cosimo, il figlio a cui Paolo ha dato in gestione il controllo del narcotraffico con ruolo di massima responsabilità, deve decidere. Sarà guerra, ma non la dichiara, conserva tutto in mente, aspetta di comprendere le mosse, non vuole allarmare i rivali. Sa che a breve gli salteranno addosso, che deve aspettarsi gli artigli sulla carne, ma deve temporeggiare, decidere una strategia precisa, infallibile, vincente. Capire su chi può contare, quali forze può gestire. Chi è con lui e chi è contro di lui. Non c'è altro spazio sulla scacchiera. I Di Lauro giustificano l'assenza del padre con la difficoltà di muoversi a causa delle ricerche della polizia. Latitante, ricercato da oltre dieci anni. Saltare un incontro non è grave per uno inserito fra i trenta latitanti più pericolosi d'Italia. La più grande holding imprenditoriale del narcotraffico, una delle più forti sul piano nazionale e internazionale, sta per attraversare la più letale delle crisi, dopo decenni di perfetto funzionamento. Il clan Di Lauro è stato sempre un'impresa perfettamente organizzata. Il boss lo ha strutturato con un disegno d'azienda multilevel. L'organizzazione è composta da un primo livello di promotori e finanziatori, costituito dai dirigenti del clan che provvedono a controllare l'attività di traffico e spaccio tramite i loro affiliati diretti, e formato, secondo la Procura Antimafia di Napoli, da Rosario Pariante, Raffaele Abbinante, Enrico D'Avanzo e Arcangelo Valentino. Il secondo livello comprende chi materialmente tratta la droga, l'acquista e la confeziona e gestisce i rapporti con gli spacciatori, ai quali garantisce difesa legale in caso di arresto. Gli elementi di maggiore spicco sono Gennaro Marino, Lucio De Lucia, Pasquale Gargiulo. Il terzo livello è rappresentato dai capipiazza, ossia membri del clan che sono a diretto contatto con gli spacciatori, che coordinano i pali e le vie di fuga e curano anche l'incolumità dei magazzini dove viene stoccata la merce e i luoghi dove viene tagliata. Il quarto livello, il più esposto, è costituito dagli spacciatori. Ogni livello ha in sé dei sottolivelli che si relazionano esclusivamente con il proprio dirigente di riferimento e non con l'intera struttura. Quest'organizzazione permette di avere un profitto pari al 500 per cento dell'investimento iniziale. Dinanzi al modello dell'impresa dei Di Lauro mi è sempre venuto in mente il concetto matematico di frattale, come lo spiegano nei manuali, difficilmente si spaccia perché c'è in giro troppa polizia. Tutti hanno un giorno di riposo e se si presentano in ritardo sulla piazza di spaccio per ogni ora gli vengono sottratti cinquanta euro dalla paga settimanale. Via Baku è un ininterrotto via vai di commerci. I clienti arrivano, pagano, prelevano e vanno via. A volte ci sono persino file di auto in coda dietro la schiena degli spacciatori. Il sabato sera soprattutto. E allora da altre piazze vengono dislocati nuovi pusher in questa zona. In via Baku si fattura mezzo milione di euro al mese, la Narcotici segnala che mediamente si smerciano quattrocento dosi di marijuana e quattrocento di cocaina, ogni giorno. Quando arrivano i poliziotti gli spacciatori sanno in quali case andare e in che posti nascondere la merce. Dinanzi alle auto della polizia, quando stanno per entrare in una piazza di spaccio si posiziona quasi sempre una macchina o un motorino per rallentare la corsa e permettere ai pali di caricarsi gli spacciatori in moto e portarli via. Spesso i pali sono incensurati e disarmati, così anche se fermati corrono un bassissimo rischio di incriminazione. Quando scattano gli arresti dei pusher vengono chiamate le riserve, ossia persone spesso tossicodipendenti o consumatori abituali della zona che danno la loro disponibilità a lavorare come spacciatori in casi di emergenza. Per un pusher arrestato un altro viene avvertito e si farà trovare sul posto. Il commercio deve continuare. Anche nei momenti critici. Via Dante è un'altra zona di fatturazione di grossi capitali. Qui i pusher sono tutti ragazzi giovanissimi, è una piazza florida di distribuzione, una delle più recenti piazze messe su dai Di Lauro e poi viale della Resistenza, vecchia piazza di eroina ma anche di kobret e cocaina. I responsabili della piazza hanno vere e proprie sedi operative in cui organizzano il presidio del territorio. I pali comunicano con i cellulari quello che sta accadendo. Il coordinatore della piazza, ascoltandoli tutti in viva voce con dinanzi la cartina, riesce ad avere sotto i suoi occhi in tempo reale gli spostamenti della polizia e i movimenti dei clienti. Una delle novità che il clan Di Lauro ha introdotto a Secondigliano è la tutela dell'acquirente. Prima della loro gestione come organizzatori di piazze, i pali proteggevano solo i pusher da arresti e identificazioni. Negli anni passati, gli acquirenti potevano essere fermati, identificati, portati in commissariato. Di Lauro invece ha messo i pali per proteggere anche gli acquirenti, così chiunque avrebbe potuto accedere con sicurezza alle piazze gestite dai suoi uomini. Il massimo grado di comodità per i piccoli consumatori che sono una delle anime prime del commercio di droga secondiglianese. Nella zona del rione Berlingieri, se telefoni, ti fanno trovare direttamente la merce pronta. E poi via Ghisleri, Parco Ises, tutto il rione don Guanella, il comparto H di via Labriola, i Sette Palazzi. Territori trasformati in mercati redditizi, in strade presidiate, in luoghi dove le persone che ci abitano hanno imparato ad avere uno sguardo selettivo, come se gli occhi, quando capitano su qualcosa d'orrendo, oscurassero l'oggetto o la situazione. Un'abitudine a prescegliere cosa vedere, un modo per continuare a vivere. Il supermarket immenso della droga. Tutta, ogni tipo. Non c'è stupefacente che venga introdotto in Europa che non passi prima dalla piazza di Secondigliano. Se la droga fosse solo per i napoletani e i campani, le statistiche darebbero risultati deliranti. Praticamente in ogni famiglia napoletana almeno due membri dovrebbero essere cocainomani e uno eroinomane. Senza contare l'hashish e la marijuana. Eroina, kobret, le droghe leggere e poi le pasticche, quelle che qualcuno chiama ancora ecstasy quando in realtà dell'ecstasy esistono centosettantanove varianti. Qui a Secondigliano sono stravendute, le chiamano X file, o il gettone o la caramella. Sulle pasticche c'è un guadagno enorme. Un euro per produrle, tre-cinque euro il costo all'ingrosso, poi rivendute a Milano, Roma o altre zone di Napoli a cinquanta-sessanta euro. A Scampia a quindici euro. Il mercato secondiglianese ha superato le vecchie rigidità dello smercio di droga; riconoscendo nella cocaina la nuova frontiera. In passato droga d'élite, oggi grazie alle nuove politiche economiche dei clan è divenuta assolutamente accessibile al consumo di massa, con diversi gradi di qualità ma capace di soddisfare ogni esigenza. Il 90 per cento dei consumatori di cocaina secondo le analisi del gruppo Abele sono lavoratori o studenti. La coca si è emancipata dalla categoria di sballo, diviene sostanza usata durante ogni fase del quotidiano, dopo le ore di straordinario, viene presa per rilassarsi, per avere ancora la forza di fare qualcosa che somigli a un gesto umano e vivo e non solo un surrogato di fatica. La coca viene presa dai camionisti per guidare di notte, per resistere ore davanti al computer, per andare avanti senza sosta a lavorare per settimane senza nessun tipo di pausa. Un solvente della fatica, un anestetico del dolore, una protesi alla felicità. Per soddisfare un mercato che ha necessità di droga come risorsa e non soltanto come stordimento bisognava trasformare lo spaccio, renderlo flessibile, slegato dalle rigidità criminali. È questo il salto di qualità compiuto dal clan Di Lauro. La liberalizzazione dello spaccio e dell'approvvigionamento di droga. Per i cartelli criminali italiani la vendita di grosse partite viene tradizionalmente preferita alla vendita di partite medie, e piccole. Per Di Lauro invece la vendita di partite medie è stata scelta per far diffondere una piccola imprenditoria dello spaccio capace di creare nuovi clienti. Una piccola imprenditoria libera, autonoma, in grado di far ciò che vuole con la merce, metterci il prezzo che vuole, diffonderla come e dove vuole. Chiunque può accedere al mercato, per ogni tipo di quantità. Senza necessità di trovare mediatori del clan. Cosa Nostra e la 'ndrangheta irradiano ovunque i loro traffici di droga ma la filiera la devono conoscere, per comprare droga da spacciare attraverso la loro mediazione è necessario essere presentati da affiliati e alleati al clan. Per loro è fondamentale sapere in che zona si andrà a spacciare, con che organizzazione verrà articolata la distribuzione. Non così il Sistema di Secondigliano. L'ordine è laissez faire, laissez passer. Liberismo totale e assoluto. La teoria è che il mercato si autoregola. E così in pochissimo tempo vengono attirati a Secondigliano tutti coloro che vogliono mettere su un piccolo smercio tra amici, che vogliono comprare a quindici e vendere a cento e così pagarsi una vacanza, un master, aiutare il pagamento di un mutuo. La liberalizzazione assoluta del mercato della droga ha portato a un inabissamento dei prezzi. Lo smercio al dettaglio al di fuori di certe piazze può scomparire. Ora esistono i cosiddetti giri. Il giro dei medici, il giro dei piloti, dei giornalisti, degli impiegati statali. La piccola borghesia sembra il guanto adatto per questa distribuzione informale e iperliberista della merce droga. Uno scambio che sembra amicale, la vendita completamente lontana da strutture criminali, simile a quella delle casalinghe che propongono creme e aspirapolvere alle amiche. Ottimo anche per emancipare da responsabilità morali eccessive. Nessun pusher in tuta acetata schiattato agli angoli delle piazze per intere giornate difeso dai pali. Nulla se non prodotto e danaro. Spazio bastante per la dialettica del commercio. Dai dati, forniti dalle più importanti questure d'Italia, un arrestato su tre per traffico di droga è incensurato e completamente estraneo ai percorsi criminali. Il consumo di cocaina, secondo i dati dell'Istituto Superiore di Sanità, è schizzato ai massimi storici: +80 per cento (1999-2002). Il numero delle persone dipendenti che si rivolgono al SERT raddoppia ogni anno. L'espansione del mercato è immensa, le coltivazioni transgeniche consentono ormai quattro raccolti l'anno, dunque non ci sono problemi di approvvigionamento di materia prima, e l'assenza di un'organizzazione egemone favorisce la libera iniziativa. Robbie Williams, un famoso cantante cocainomane, per anni disse che «la cocaina è il modo che Dio ha chiamano per organizzarlo: «Le levi cinque magliette... per le prove allergiche?» Dopo un po' si risentono: «Hai provato la macchina?» «Sì...» Intendendo ovviamente, se aveva testato: «Sì, mamma mia, troppo bello, compa' siamo number one, devono chiudere tutti.» Esultavano, felici del fatto che le cavie non erano morte, anzi, avevano gradito molto. Un taglio ben riuscito raddoppia la vendita, se di ottima qualità viene subito richiesto sul mercato nazionale e la concorrenza viene sbaragliata. Solo dopo aver letto questo scambio di commenti telefonici capii la scena a cui avevo assistito qualche tempo prima. Non riuscivo davvero a comprendere cosa in realtà mi si muoveva davanti agli occhi. Dalle parti di Miano, poco distante da Scampia, c'erano una decina di Visitors. Erano stati chiamati a raccolta. Uno spiazzo davanti a dei capannoni. C'ero finito non per caso ma con la presunzione che sentendo l'alito del reale, quello caldo, quello più vero possibile, si possa arrivare a comprendere il fondo delle cose. Non sono certo sia fondamentale osservare ed esserci per conoscere le cose, ma è fondamentale esserci perché le cose ti conoscano. C'era un tizio vestito bene, anzi direi benissimo, con un completo bianco, una camicia bluastra, scarpe sportive nuovissime. Aprì un panno di daino sul cofano dell'auto. Aveva dentro un po' di siringhe. I Visitors si avvicinarono spingendosi, sembrava una di quelle scene – identiche, medesime, sempre uguali da anni – che mostrano i telegiornali quando in Africa giunge un camion con i sacchi di farina. Un Visitors però si mise a urlare: «No, non la prendo, se la regalate non la prendo... ci volete ammazzare...» Bastò il sospetto di uno, che gli altri si allontanarono immediatamente. Il tizio sembrava non aver voglia di convincere nessuno e aspettava. Ogni tanto sputava per terra la polvere che i Visitors camminando alzavano e che gli si posava sui denti. Uno si fece avanti lo stesso, anzi si fece avanti una coppia. Tremavano, erano davvero al limite. In rota, come si dice solitamente. Lui aveva le vene delle braccia inutilizzabili, si tolse le scarpe, e anche le piante dei piedi erano rovinate. La ragazza prese la siringa dallo straccio e se la mise in bocca per reggerla, intanto gli aprì la camicia, lentamente, come se avesse avuto cento bottoni, e poi lanciò l'ago sotto il collo. La siringa conteneva coca. Farla scorrere nel sangue permette di vedere in breve tempo se il taglio funziona o se è sbagliato, pesante, scadente. Dopo un po' il ragazzo iniziò a barcollare, schiumò appena all'angolo della bocca e cadde. Per terra iniziò a muoversi a scatti. Poi si stese supino e chiuse gli occhi, rigido. Il tizio vestito di bianco iniziò a telefonare al cellulare: «A me pare morto... sì, vabbè, mo gli faccio il massaggio...» Iniziò a pestare con lo stivaletto il petto del ragazzo. Alzava il ginocchio e poi lasciava cadere la gamba con violenza. Il massaggio cardiaco lo faceva con i calci. La ragazza al suo fianco blaterava qualcosa, lasciando le parole ancora attaccate alle labbra: «Lo fai male, lo fai male. Gli stai facendo male...» Cercando con la forza di un grissino di allontanarlo dal corpo del suo ragazzo. Ma il tizio era disgustato, quasi impaurito da lei e dai Visitors in genere: «Non mi toccare... fai schifo... non ti azzardare a starmi vicino... non mi toccare che ti sparo!» Continuò a tirare calci in petto al ragazzo; poi con il piede poggiato sullo sterno ritelefonò: «Questo è schiattato. Ah, il fazzolettino... aspetta che mo vedo...» Prese un fazzolettino di carta dalla tasca, lo bagnò con una bottiglietta d'acqua e lo stese aperto sulle labbra del ragazzo. Se soltanto avesse avuto un flebile fiato avrebbe forato il kleenex, dimostrando di essere ancora vivo. Precauzione che aveva usato perché non voleva neanche sfiorare quel corpo. Richiamò per l'ultima volta: «È morto. Dobbiamo fare tutto più leggero...» Il tizio rientrò in auto dove l'autista non aveva neanche per un secondo smesso di zompettare sul sedile ballando una musica di cui non riuscivo a sentire neanche un rumore, nonostante si muovesse come se fosse stata al massimo volume. In pochi minuti tutti si allontanarono dal corpo, passeggiando per questo frammento di polvere. Rimase il ragazzo steso a terra. E la fidanzata, piagnucolante. Anche il suo lamento rimaneva attaccato alle labbra, come se l'eroina permettesse una cantilena rauca come unica forma di espressione vocale. Non riuscii a capire perché la ragazza lo fece, ma si calò il pantalone della tuta e accovacciandosi proprio sul viso del ragazzo gli pisciò in faccia. Il fazzolettino gli si attaccò sulle labbra e sul naso. Dopo un po' il ragazzo sembrò riprendere i sensi, si passò una mano sul naso e la bocca, come quando ci si toglie l'acqua dal viso dopo essere usciti dal mare. Questo Lazzaro di Miano resuscitato da chissà quali sostanze contenute nell'urina, lentamente si alzò. Giuro che se non fossi stato stordito dalla situazione, avrei gridato al miracolo. Invece camminavo avanti e indietro. Lo faccio sempre quando sento di non capire, di non sapere cosa fare. Occupo spazio, nervosamente. Facendo così devo aver attirato l'attenzione, poiché i Visitors iniziarono ad avvicinarmi, a urlarmi contro. Pensavano fossi un uomo legato al tizio che stava quasi uccidendo quel ragazzo. Mi gridavano contro: "Tu... tu... volevi ammazzarlo...". Mi si fecero intorno, mi bastò allungare il passo per seminarli, ma continuavano a seguirmi, a racimolare da terra schifezze varie e lanciarmele. Non avevo fatto niente. Se non sei un tossico, sarai uno spacciatore. Spuntò d'improvviso un camion. Dai depositi ne uscivano a decine tutte le mattine. Frenò vicino ai piedi, e sentii una voce che mi chiamava. Era Pasquale. Aprì lo sportello e mi fece salire. Non un angelo custode che salva il suo protetto, ma piuttosto due topi che percorrono la stessa fogna e si tirano per la coda. Pasquale mi guardò con la severità di un padre che tutto aveva previsto. Quel ghigno che basta a sé, e non deve neanche perdere tempo a pronunciarsi per rimproverare. Io invece gli fissavo le mani. Sempre più rosse, screpolate, spaccate sulle nocche e anemiche nel palmo. Difficile che i polpastrelli abituati alle sete e ai velluti dell'alta moda possano accomodarsi per dieci ore sui manubri di un camion. Pasquale parlava ma continuavano a distrarmi le immagini dei Visitors. Scimmie. Anzi meno che scimmie. Cavie. A testare il taglio di una droga che girerà mezza Europa e non può rischiare di ammazzare qualcuno. Cavie umane che permetteranno a romani, napoletani, abruzzesi, lucani, bolognesi, di non finire male, di non colare sangue dal naso e schiuma dai denti. Un Visitors morto a Secondigliano è solo un ennesimo disperato su cui nessuno farà indagini. Già tanto sarà raccoglierlo da terra, pulirgli il viso dal vomito e dal piscio e sotterrarlo. Altrove ci sarebbero analisi, ricerche, congetture sulla morte. Qui solo: overdose. Il camion di Pasquale attraversava le strade statali che annodano il territorio nord di Napoli. Capannoni, depositi, luoghi dove raccogliere detriti, e roba sparsa, arrugginita, gettata ovunque. Non ci sono agglomerati industriali. C'è puzza di ciminiere ma mancano le fabbriche. Le case si seminano lungo le strade, e le piazze si fanno intorno a un bar. della loro età. E soprattutto l'età poteva mettere a repentaglio la leadership dei figli di Paolo Di Lauro. Ora invece erano tutti sullo stesso piano: nessuno può fare appello a passati mitici, esperienze pregresse, rispetto dovuto. Tutti devono confrontarsi con la qualità delle proprie proposte, la capacità di gestione, la forza del proprio carisma. Quando i gruppi di fuoco secondiglianesi iniziarono a mostrare la propria forza militare, la scissione non era ancora avvenuta. Stava maturando. Uno dei primi obiettivi fu Ferdinando Bizzarro, "bacchetella" o anche "zio Fester" come il personaggio calvo, basso e viscido della Famiglia Addams. Bizzarro era il ras di Melito. Ras è espressione che intende definire chi possiede un'autorità forte ma non totale, pur sempre sottoposta al boss, alla massima carica. Bizzarro aveva smesso di essere un diligente capozona dei Di Lauro. Il danaro voleva gestirlo da solo. E anche le decisioni cardine, non solo quelle amministrative, voleva prenderle lui. La sua non era una rivolta classica, voleva soltanto promuoversi come interlocutore nuovo, autonomo. Ma si era autopromosso. I clan a Melito sono feroci. Territorio di fabbriche in nero, di produzione di scarpe di altissima qualità per i negozi di mezzo mondo. Queste fabbriche sono fondamentali per la liquidità da prestare a usura. Il proprietario di una fabbrica in nero appoggia quasi sempre il politico, o il capozona del clan che farà eleggere il politico, che gli farà ottenere meno controlli sulla sua attività. I clan camorristici secondiglianesi non sono mai stati schiavi dei politici, non hanno mai avuto piacere nello stabilire patti programmatici, ma da queste parti è fondamentale avere amici. E proprio colui che era stato riferimento di Bizzarro nelle istituzioni divenne il suo angelo della morte. Per ammazzare Bizzarro il clan aveva chiesto l'aiuto di un politico: Alfredo Cicala. A dare precise indicazioni su dove poter rintracciare Bizzarro, secondo le indagini della DDA di Napoli, fu proprio Cicala, l'ex sindaco di Melito, nonché ex dirigente locale del partito della Margherita. A leggere le intercettazioni non sembra si stia organizzando un omicidio, ma semplicemente avvicendando dei capi. Non c'è differenza. Gli affari devono andare avanti, la decisione di Bizzarro di rendersi autonomo rischiava di ingolfare il business. Bisogna farlo con ogni mezzo, con ogni potenza. Quando muore la madre di Bizzarro, gli affiliati di Di Lauro pensano di andare al funerale e sparare, sparare su tutto e tutti. Fare fuori lui, il figlio, i cugini. Tutti. Erano pronti. Ma Bizzarro e suo figlio non si fecero vedere al funerale. L'organizzazione dell'agguato però continua. Capillare al punto che il clan comunica con un fax ai propri affiliati cosa sta accadendo e le cose da fare: «Non c'è più nessuno di Secondigliano, lui ha cacciato via tutti... sta uscendo solo il martedì e il sabato con quattro auto... a voi vi hanno raccomandato di non muovervi per nessuna ragione. Zio Fester ha mandato il messaggio che per Pasqua vuole duecentocinquanta euro a negozio e non ha paura di nessuno. In settimana dovranno torturare Siviero.» E così, via fax si concerta una strategia. Si mette in agenda una tortura come una fattura commerciale, un'ordinazione, una prenotazione d'aereo. E si denunciano le azioni di un traditore. Bizzarro usciva con una scorta di quattro auto, aveva imposto un racket di 250 euro mensili. Siviero, uomo di Bizzarro, suo autista fedele, andava torturato magari per fargli uscire di bocca i percorsi che il suo capozona avrebbe fatto in futuro. Ma l'almanacco di ipotesi per massacrare Bizzarro non termina qui. Pensano di andare a casa del figlio e «non risparmiare nessuno». E poi una telefonata: un killer è quasi disperato per l'occasione persa, poiché viene a sapere che Bizzarro ha messo il naso fuori, in piazza, di nuovo a mostrare il suo potere e la sua incolumità. E sbraita per l'occasione persa: «Mannaggia la madonna che ci stiamo perdendo, quello è stato tutta la mattina in piazza...» Nulla è nascosto. Tutto sembra chiaro, ovvio, suturato alla pelle del quotidiano. Ma l'ex sindaco di Melito segnala in quale albergo Bizzarro si rintana con la sua amante, dove va a consumare tensione e sperma. A tutto ci si può ridurre. A vivere con le luci spente così da non dare segnale di presenza in casa, a uscire con quattro auto di scorta, a non telefonare e ricevere telefonate, a non andare al funerale della propria madre. Ma ridursi a non incontrare la propria amante ha il gusto della beffa, della fine di ogni potere. È in albergo Bizzarro il 26 aprile 2004, all'hotel Villa Giulia, al terzo piano. A letto con la sua amante. Il commando arriva. Hanno la pettorina della polizia. Nella hall dell'albergo si fanno dare la carta magnetica per aprire, il portiere non chiede neanche il tesserino di riconoscimento ai presunti poliziotti. Battono alla sua porta. Bizzarro è ancora in mutande ma lo sentono avvicinarsi alla porta. Iniziano a sparare. Due raffiche di pistola. La scardinano, la trapassano e colpiscono il suo corpo. I colpi poi sfondano la porta e lo finiscono sparandogli alla testa. Proiettili e schegge di legno conficcati nella carne. Il percorso della mattanza si è ormai configurato. Bizzarro è stato il primo. O uno dei primi. O quantomeno il primo su cui si è testata la forza del clan Di Lauro. Una forza capace di catapultarsi su chiunque osi rompere l'alleanza, distruggere il patto d'affari. L'organigramma degli scissionisti non è ancora certo, non si comprende d'immediato. L'aria che si respira è tesa, ma sembra che si attenda ancora qualcosa. Ma a fare chiarezza, a dare origine al conflitto, arriva qualche mese dopo l'omicidio di Bizzarro qualcosa come una dichiarazione di guerra. Il 20 ottobre 2004 Fulvio Montanino e Claudio Salerno – secondo le indagini, fedelissimi di Cosimo e responsabili di alcune piazze di spaccio – vengono ammazzati con quattordici colpi. Sfumata la riunione trappola, in cui Cosimo e suo padre avrebbero dovuto essere fatti fuori, quest'agguato è l'inizio delle ostilità. Quando arrivano i morti non c'è altro da fare che combattere. Tutti i capi hanno deciso di ribellarsi ai figli di Di Lauro: Rosario Pariante, Raffaele Abbinante, e poi i nuovi dirigenti Raffaele Amato, Gennaro McKay Marino, Arcangelo Abate, Giacomo Migliaccio. Fedeli a Di Lauro rimangono i De Lucia, Giovanni Cortese, Enrico D'Avanzo e un nutrito gruppo di gregari. Assai nutrito. Ragazzi a cui è promessa la scalata al potere, il bottino, la crescita economica e sociale nel clan. La dirigenza del gruppo viene assunta dai figli di Paolo Di Lauro. Cosimo, Marco e Ciro. Cosimo, con grande probabilità, ha intuito che rischierà la morte o il carcere. Arresti e crisi economica. Ma la scelta è obbligata: o attendere lentamente di essere sconfitti dalla crescita di un clan nel proprio seno, o tentare di salvare gli affari, o almeno la propria pelle. Sconfitti nel potere economico significa immediatamente sconfitti anche nella carne. È guerra. Nessuno comprende come si combatterà, ma tutti sanno con certezza che sarà terribile e lunga. La più spietata che il sud Italia abbia mai visto negli ultimi dieci anni. I Di Lauro hanno meno uomini, sono molto meno forti, molto meno organizzati. In passato hanno sempre reagito con forza a scissioni interne. Scissioni date dalla gestione liberista che ad alcuni sembrava un lasciapassare per l'autonomia, per mettere su il proprio centro imprenditoriale. Una libertà invece quella del clan Di Lauro che viene concessa e non si può pretendere di possedere. Nel 1992 il vecchio gruppo dirigente risolse la scissione di Antonio Rocco, capozona di Mugnano, al bar Fulmine, entrando armato di mitra e bombe a mano. Massacrarono cinque persone. Per salvarsi Rocco si pentì, e lo Stato accogliendo la sua collaborazione mise sotto protezione quasi duecento persone, tutte pronte a entrare nel mirino dei Di Lauro. Ma non servì a dove lavorava. Gli dicono: «Questa è una rapina» e poi sparano al petto. L'obiettivo era suo zio Giacomo. Lo stesso giorno rispondono gli Spagnoli ammazzando Gennaro Emolo, padre di un fedelissimo dei Di Lauro accusato di far parte del braccio militare. Il 21 novembre i Di Lauro fanno fuori, mentre si trovano in una tabaccheria Domenico Riccio e Salvatore Gagliardi, persone vicine a Raffaele Abbinante. Un'ora dopo, viene ammazzato Francesco Tortora. I killer non vanno in moto ma in auto. Si avvicinano, gli sparano, poi lo raccolgono come un sacco. Lo caricano e lo portano alla periferia di Casavatore dove danno fuoco all'auto e al corpo. Due cose utili in una. A mezzanotte del 22 i carabinieri trovano un'auto bruciata. Un'altra. Per seguire la faida ero riuscito a procurarmi una radio capace di sintonizzarsi sulle frequenze della polizia. Arrivavo così con la mia Vespa più o meno in sincrono con le volanti. Ma quella sera mi ero addormentato. Il vociare gracchiante e cadenzato delle centrali per me era divenuto una sorta di melodia cullante. Così quella volta fu una telefonata in piena notte che mi avvertì dell'accaduto. Arrivato sul luogo, trovai una macchina completamente bruciata. L'avevano cosparsa di benzina. Litri di benzina, Ovunque. Benzina sui sedili anteriori, benzina su quelli posteriori, benzina sulle gomme, sul volante. Le fiamme erano già consumate, i vetri esplosi, quando sono arrivati i pompieri. Non so bene perché mi sono precipitato davanti a quella carcassa d'auto. C'era un puzzo terribile, di plastica bruciata. Poche persone d'intorno, un vigile urbano con una torcia guarda dentro le lamiere. C'è un corpo, o qualcosa che gli somiglia. I pompieri aprono le portiere prendendo il cadavere, hanno una smorfia di disgusto. Un carabiniere si sente male, appoggiandosi al muro vomita la pasta e patate mangiata poche ore prima. Il corpo era solo un tronco irrigidito, tutto nero, il volto solo un teschio annerito, le gambe scuoiate dalle fiamme. Presero il corpo per le braccia e lo posarono a terra aspettando la macchina mortuaria. Il furgoncino acchiappamorti gira continuamente, lo si vede da Scampia a Torre Annunziata. Raccoglie, accumula, preleva cadaveri di gente morta sparata. La Campania è il territorio con più morti ammazzati d'Italia, tra i primi posti al mondo. Le gomme della macchina mortuaria sono liscissime, basterebbe fotografare i cerchioni mangiucchiati e il grigiore dell'interno dei pneumatici per avere l'immagine simbolo di questa terra. I tizi uscirono dal furgoncino con i guanti in lattice, sporchissimi, usati e riusati mille volte, e si misero all'opera. Infilarono il cadavere in una busta, quella nera, i body bag in cui solitamente si chiudono i corpi dei soldati morti. Il cadavere sembrava uno di quelli trovati sotto la cenere del Vesuvio dopo che gli archeologi avevano versato il gesso nel vuoto lasciato dal corpo. Le persone intorno all'auto erano diventate decine e decine, ma tutte in silenzio. Sembrava non ci fosse nessuno. Neanche le narici azzardavano a respirare troppo forte. Da quando è scoppiata la guerra di camorra molti hanno smesso di porre limite alla propria sopportazione. E sono lì a vedere cos'altro accadrà. Ogni giorno apprendono cos'altro è possibile, cos'altro dovranno subire. Apprendono, portano a casa, e continuano a campare. I carabinieri iniziano a fare le foto, parte il furgoncino col cadavere. Vado in Questura. Qualcosa diranno su questa morte. In sala stampa ci sono i soliti giornalisti e qualche poliziotto. Dopo un po' si alzano i commenti: «Si ammazzano tra loro, meglio così!». «Se fai il camorrista ecco cosa ti accade.» «Tì è piaciuto guadagnare e ora goditi la morte, munnezza.» I soliti commenti, ma sempre più schifati, esasperati. Come se il cadavere fosse stato lì e tutti avessero qualcosa da rinfacciargli, questa notte rovinata, questa guerra che non finisce più, questi presidi militari che gonfiano ogni spigolo di Napoli. I medici abbisognano di lunghe ore per identificare il cadavere. Qualcuno gli trova il nome di un capozona scomparso qualche giorno prima. Uno dei tanti, uno dei corpi accatastati in attesa del peggior nome possibile nelle celle frigo all'ospedale Cardarelli. Poi giunge la smentita. Qualcuno si mette le mani sulle labbra, i giornalisti deglutiscono tutta la saliva al punto da seccare la bocca. I poliziotti scuotono la testa guardandosi le punte delle scarpe. I commenti s'interrompono colpevoli. Quel corpo era di Gelsomina Verde, una ragazza di ventidue anni. Sequestrata, torturata, ammazzata con un colpo alla nuca sparato da vicino che le era uscito dalla fronte. Poi l'avevano gettata in una macchina, la sua macchina, e l'avevano bruciata. Aveva frequentato un ragazzo, Gennaro Notturno, che aveva scelto di stare con i clan e poi si era avvicinato agli Spagnoli. Era stata con lui qualche mese, tempo prima. Ma qualcuno li aveva visti abbracciati, magari sulla stessa Vespa. In auto assieme. Gennaro era stato condannato a morte, ma era riuscito a imboscarsi, chissà dove, magari in qualche garage vicino alla strada dove hanno ammazzato Gelsomina. Non ha sentito la necessità di proteggerla perché non aveva più rapporti con lei. Ma i clan devono colpire e gli individui, attraverso le loro conoscenze, parentele, persino gli affetti, divengono mappe. Mappe su cui iscrivere un messaggio. Il peggiore dei messaggi. Bisogna punire. Se qualcuno rimane impunito è un rischio troppo grande che legittima la possibilità di tradimento, nuove ipotesi di scissioni. Colpire e nel modo più duro. Questo è l'ordine. Il resto vale zero. Allora i fedelissimi di Di Lauro vanno da Gelsomina, la incontrano con una scusa. La sequestrano, la picchiano a sangue, la torturano, le chiedono dov'è Gennaro. Lei non risponde. Forse non sa dove si trova, o preferisce subire lei quello che avrebbero fatto a lui. E così la massacrano. I camorristi mandati a fare il "servizio" forse erano carichi di coca o forse dovevano essere sobri per cercare di intuire il più microscopico dettaglio. Ma è risaputo quali metodi usano per eliminare ogni sorta di resistenza, per annullare il più minuscolo afflato di umanità. Il fatto che il corpo fosse bruciato mi è sembrato un modo per cancellare le torture. Il corpo di una ragazza seviziata avrebbe generato una rabbia cupa in tutti, e dal quartiere non si pretende consenso, ma certamente non ostilità. E allora bruciare, bruciare tutto. Le prove della morte non sono gravi. Non più gravi di qualsiasi altra morte in guerra. Ma non è sostenibile immaginare come è avvenuta quella morte, come è stata compiuta quella tortura. Così tirando con il naso il muco dal petto e sputando riuscii a bloccare le immagini nella mia mente. Gelsomina Verde, Mina: il diminutivo con cui veniva chiamata nel quartiere. La chiamano così anche i giornali quando cominciano a vezzeggiarla col senso di colpa del giorno dopo. Sarebbe stato facile non distinguerla dalla carne di quelli che si ammazzano fra di loro. O, se fosse stata viva, continuare a considerarla la ragazza di un camorrista, una delle tante che accettano per i soldi o per il senso di importanza che ti dà. Nulla più che l'ennesima "signora" che gode della ricchezza del marito camorrista. Ma il "Saracino", come chiamano Gennaro Notturno, è agli inizi. Poi se diventa capozona e controlla gli spacciatori, arriva a mille- duemila euro. Ma è una carriera lunga. Duemilacinquecento euro pare sia il prezzo per l'indennizzo di un omicidio. E poi se hai bisogno di togliere le tende perché i carabinieri ti stanno beccando, il clan ti paga un mese al nord Italia o all'estero. Anche lui forse sognava di diventare boss, di dominare su mezza Napoli e di investire in tutt'Europa. Se mi fermo e prendo fiato riesco facilmente a immaginare il loro incontro, anche se non conosco neanche il tratto dei visi. Si saranno conosciuti nel solito bar, i maledetti bar meridionali di periferia intorno a cui circola come un vortice l'esistenza di tutti, ragazzini e vecchi novantenni catarrosi. O forse si saranno incontrati in qualche discoteca. Un giro a piazza Plebiscito, un bacio prima di tornare a casa. Poi i sabati Anna: «Non ti devi mettere nel bordello, cioè tu puoi benissimo vivere...». Francesco: «No, non la voglio cambiare la vita mia...». Il giovanissimo scissionista è terrorizzato dal fatto che i Di Lauro possano prendersela con lei, ma la rassicura dicendo che lui aveva molte ragazze, quindi nessuno può associare Anna con lui. Poi le confessa, da adolescente romantico, che lei ora è l'unica. «... A finale io tenevo trenta donne nel rione... ora però dentro là mi sento solo con te...» Anna sembra tralasciare ogni paura di ritorsione, come una ragazzina qual è, pensa solo all'ultima frase che Francesco ha pronunciato: Anna: «Ci vorrei credere». La guerra continua. Il 24 novembre 2004 ammazzano Salvatore Abbinante. Gli sparano in faccia. Nipote di uno dei dirigenti degli Spagnoli, Raffaele Abbinante, uomo di Marano. Il territorio dei Nuvoletta. I maranesi per avere una partecipazione attiva al mercato di Secondigliano fecero trasferire al rione Monterosa molti uomini con le loro famiglie e Raffaele Abbinante è, secondo le accuse, il dirigente di questa quota mafiosa in seno a Secondigliano. Era uno dei personaggi con maggiore carisma in Spagna dove comandava nel territorio della Costa del Sol. In una maxi inchiesta del 1997 furono sequestrati duemilacinquecento chili di hashish, milleventi pasticche di ecstasy, millecinquecento chili di cocaina. I magistrati dimostrarono che i cartelli napoletani degli Abbinante e dei Nuvoletta gestivano la quasi totalità dei traffici di droga sintetica in Spagna e in Italia. Dopo l'omicidio di Salvatore Abbinante si temeva che i Nuvoletta intervenissero, che Cosa Nostra decidesse di dire la sua nella faida secondiglianese. Non avvenne nulla, almeno militarmente. I Nuvoletta aprirono i confini dei loro territori agli scissionisti in fuga, questo fu il segnale di critica degli uomini di Cosa Nostra in Campania alla guerra di Cosimo. Il 25 novembre i Di Lauro ammazzano Antonio Esposito nel suo negozio di alimentari. Quando arrivai sul posto il suo corpo si trovava tra bottiglie d'acqua e buste di latte. Lo raccolsero, erano in due, sollevandolo per la giacca e per i piedi lo misero in una bara di metallo. Quando la macchina mortuaria andò via, comparve nel negozio una signora che iniziò a mettere in ordine le buste sul pavimento, pulì gli schizzi di sangue finiti sulla vetrina dei salumi. I carabinieri lasciarono fare. Le tracce balistiche, le orme, gli indizi erano stati già raccolti. L'inutile almanacco delle tracce era stato già riempito. Per tutta la notte quella donna mise a posto il negozio, come se riordinare potesse cancellare ciò che era accaduto, come se il ritorno dell'ordine delle buste di latte e la messa in riga delle merendine potesse relegare solo ai pochi minuti in cui è avvenuto l'agguato, solo a quei minuti, il peso della morte. Intanto a Scampia si era sparsa la voce che Cosimo Di Lauro avrebbe dato centocinquantamila euro a chiunque fosse riuscito a dare notizie fondamentali per rintracciare Gennaro Marino McKay. Una taglia alta, ma non altissima, per un impero economico come quello del Sistema di Secondigliano. Anche nel decidere la somma della taglia si è avuto l'accorgimento di non volere sovrastimare il nemico. Ma la taglia non porta frutti, arriva prima la polizia. In via Fratelli Cervi, al tredicesimo piano del palazzo, si erano riuniti tutti i dirigenti degli scissionisti rimasti ancora in zona. Come precauzione avevano blindato il pianerottolo. Al termine della rampa di scale una gabbia con tanto di cancelletto chiudeva il pianerottolo. Le porte blindate poi rendevano sicuro il luogo dell'incontro. La polizia circondò l'edificio. Ciò che li aveva blindati contro eventuali attacchi dei nemici, ora li condannava ad attendere senza poter far nulla, aspettare che i flex tagliassero le inferriate e la porta blindata venisse sfondata. Mentre attendevano l'arresto, gettarono dalla finestra uno zaino con mitra, pistole e bombe a mano. Cadendo il mitra sparò una raffica. Un colpo sfiorò un poliziotto che presidiava il palazzo, gli carezzò quasi la nuca. Per nervosismo iniziò a saltare, poi a sudare e infine ad avere una crisi d'ansia respirando convulsamente. Crepare per un proiettile di rimbalzo sputato da un mitra lanciato dal tredicesimo piano è un'ipotesi che non si prende in considerazione. Quasi in un delirio iniziò a parlare da solo, a insultare tutti, farfugliava nomi e agitava le mani come se volesse liberarsi di zanzare dinanzi al viso e continuava: «Se li sono cantati. Visto che loro non riuscivano ad arrivarci, se li sono cantati e ci hanno mandato noi... Noi facciamo il gioco di uno e dell'altro, gli salviamo la vita, a questi. Lasciamoli qua, si scannassero tra loro, si scannassero rutti, a noi che ce ne fotte?» I suoi colleghi mi fecero segno di allontanarmi. Quella notte nella casa di via Fratelli Cervi arrestarono Arcangelo Abete e la sorella Anna, Massimiliano Cafasso, Ciro Mauriello, Gennaro Notturno, l'ex fidanzato di Mina Verde, e Raffaele Notturno. Ma il vero colpo dell'arresto fu Gennaro McKay. Il leader scissionista. I Marino erano stati obiettivi primi della faida. Avevano bruciato le sue proprietà: il ristorante "Orchidea" in via Diacono a Secondigliano, una panetteria in corso Secondigliano e una pizzetteria in via Pietro Nenni ad Arzano. E anche la casa di Gennaro McKay, una villa in legno stile dacia russa situata in via Limitone d'Arzano, era stata incendiata. Tra cubi di cemento armato, strade lacerate, tombini occlusi e illuminazione sporadica il boss delle Case Celesti era riuscito a strappare una parte di territorio e organizzarlo come un angolo di montagna. Aveva fatto costruire una villa di legno prezioso con nel giardino le palme libiche, le più costose. Qualcuno dice che era stato per affari in Russia ed era stato ospitato in una dacia, innamorandosene. E allora niente e nessuno poteva impedire a Gennaro Marino di far costruire nel cuore di Secondigliano una dacia, simbolo della forza dei suoi affari e ancor più promessa di successo per i suoi guaglioni che se sapevano come comportarsi prima o poi avrebbero potuto raggiungere quel lusso, anche alla periferia di Napoli, anche nel margine più cupo del Mediterraneo. Ora della dacia rimane solo lo scheletro di cemento e i legni carbonizzati. Il fratello di Gennaro, Gaetano, fu scovato dai carabinieri in una camera del lussuoso albergo La Certosa a Massa Lubrense. Per non rischiare la pelle si era rinchiuso in una camera sul mare, un modo inaspettato per sottrarsi al conflitto. Il maggiordomo, l'uomo che sostituiva le sue mani, appena arrivarono i carabinieri li fissò in viso dicendo «mi avete rovinato la vacanza». Ma l'arresto del gruppo degli Spagnoli non riuscì a tamponare l'emorragia della faida. Giuseppe Bencivenga viene ucciso il 27 novembre. Il 28 sparano a Massimo de Felice e poi il 5 dicembre è il turno di Enrico Mazzarella. La tensione diviene una sorta di schermo che si frappone tra le persone. In guerra gli occhi smettono di essere distratti. Ogni faccia, ogni singola faccia deve dirti qualcosa. La devi decifrare. La devi fissare. Tutto muta. Devi sapere in quale negozio entrare, essere certo di ogni parola che pronunci. Per scegliere di passeggiare con qualcuno, devi sapere chi è. Devi raggiungere qualcosa sul suo conto che possa essere di più di una certezza, eliminare ogni possibilità che sia pedina sulla scacchiera del conflitto. Camminare vicini, rivolgersi la parola significa condividere il campo. In guerra tutti i sensi moltiplicano la propria soglia di attenzione, è come se si percepisse più acutamente, si guardasse più a fondo, si sentissero gli odori in maniera più forte. Anche se ogni accortezza non strada principale: "Rione Terzo Mondo, non entrate". È una grossa operazione mediatica. Dopo questo blitz, Scampia, Miano, Piscinola, San Pietro a Paterno, Secondigliano, saranno territori invasi da giornalisti e presidi televisivi. La camorra torna a esistere dopo anni di silenzio. D'improvviso. Ma i calibri d'analisi sono vecchi, vecchissimi, non c'è stata alcuna attenzione costante. Come se si fosse ibernato un cervello vent'anni fa e scongelato ora. Come se ci si trovasse di fronte alla camorra di Raffaele Cutolo e alle logiche mafiose che portarono a far saltare le autostrade e uccidere i magistrati. Oggi tutto è mutato tranne gli occhi degli osservatori, esperti e meno esperti. Tra gli arrestati c'è anche Ciro Di Lauro, uno dei figli del boss. Il commercialista del clan, dice qualcuno. I carabinieri sfondano le porte, perquisiscono le persone, e puntano i fucili in faccia a ragazzini. L'unica scena che riesco a vedere è un carabiniere che urla a un ragazzino che gli punta contro un coltello: «Butta a terra! Butta a terra! Subito! Subito! Buttalo a terra!» Il ragazzino lascia cadere. Il carabiniere allontana il coltello con un calcio e questo rimbalzando contro un battiscopa fa rientrare la sua lama nel manico. È di plastica, un coltello delle tartarughe ninja. I militari intanto presidiano, fotografano, si muovono ovunque. Decine di fortini vengono abbattuti. Sventrati muri di cemento armato edificati nei sottoscala dei palazzi per creare depositi di droga, sfondati i cancelli che andavano a chiudere intere porzioni di strade per organizzare i magazzini di droga. Centinaia di donne scendono per strada, bruciano cassonetti, lanciano oggetti contro le volanti. Stanno arrestando i loro figli, nipoti, vicini di casa. I loro datori di lavoro. Eppure non riuscivo a vedere su quei visi, in quelle parole di rabbia, in quelle cosce fasciate da tute così attillate che sembrano sul punto di esplodere, non riuscivo a vedere solo una solidarietà criminale. Il mercato della droga è fonte di sostentamento, un sostentamento minimo che per la parte maggiore della gente di Secondigliano non ha alcun valore d'arricchimento. Gli imprenditori dei clan sono gli unici ad averne un vantaggio esponenziale. Tutti quelli che lavorano nell'indotto di smercio, deposito, nascondiglio, presidio, non ricevono che stipendi ordinari a fronte di arresti, mesi e anni in carcere. Quei visi avevano maschere di rabbia. Una rabbia che sa di succo gastrico. Una rabbia che è sia difesa del proprio territorio, sia un'accusa contro chi quel luogo l'ha sempre considerato inesistente, perduto, da dimenticare. Questo gigantesco dispiegamento di forze dell'ordine che arriva all'improvviso solo dopo decine di morti, solo dopo il corpo bruciato e torturato di una ragazza del quartiere, sembra una messa in scena. Le donne di qui sentono puzza di presa in giro. Gli arresti, le ruspe, sembrano qualcosa che non va a modificare lo stato di cose, ma solo un'operazione a favore di chi ora ha necessità di arrestare e buttare giù pareti. Come se d'improvviso qualcuno cambiasse le categorie d'interpretazione e dicesse che la loro vita è sbagliata. Lo sapevano benissimo che lì era tutto sbagliato, non dovevano arrivare elicotteri e blindati a ricordarlo, ma sino ad allora quell'errore era la loro forma prima di vita, la loro forza di sopravvivenza. In più nessuno, dopo quell'irruzione che la complicava e basta, avrebbe davvero cercato di cambiarla in meglio. E allora quelle donne volevano gelosamente custodire l'oblio di quell'isolamento, di quell'errore di vita e cacciare chi d'improvviso s'è accorto del buio. I giornalisti erano appostati nelle loro macchine. Ma soltanto dopo aver lasciato fare e non aver intralciato gli stivali dei carabinieri iniziarono a riprendere il blitz. Alla fine dell'operazione ammanettarono cinquantatré persone, il più giovane era dell'85. Erano tutti cresciuti nella Napoli del Rinascimento, nel percorso nuovo che avrebbe dovuto mutare il destino degli individui. Mentre entrano nei cellulari della polizia, mentre vengono ammanettati dai carabinieri, tutti sanno cosa fare: chiamare questo o quell'avvocato, aspettare che il 28 del mese a casa arrivi lo stipendio del clan, i pacchi di pasta per mogli o madri. I più preoccupati sono gli uomini che hanno a casa figli adolescenti, non sanno il ruolo che gli verrà assegnato dopo il loro arresto. Ma su questo non possono mettere bocca. Dopo il blitz la guerra non conosce sosta. Il 18 dicembre Pasquale Galasso, omonimo di uno dei boss più potenti degli anni '90, viene fatto fuori dietro al bancone di un bar. E poi Vincenzo Iorio ucciso il 20 dicembre in pizzeria. Il 24 ammazzano Giuseppe Pezzella, trentaquattro anni. Cerca di rifugiarsi in un bar, ma gli scaricano un caricatore contro. Per Natale la pausa. Le batterie di fuoco si fermano. Ci si riorganizza. Si cerca di dare regola e strategia al più sregolato dei conflitti. Il 27 dicembre Emanuele Leone viene ammazzato con un colpo alla testa. Aveva ventun'anni. Il 30 dicembre ammazzano gli Spagnoli: uccidono Antonio Scafuro, ventisei anni e colpiscono alla gamba suo figlio. Era parente del capozona dei Di Lauro a Casavatore. La cosa più complessa era comprendere. Comprendere come era stato possibile per i Di Lauro riuscire a condurre un conflitto da vincenti. Colpire e scomparire. Schermarsi tra le persone, sperdersi nei quartieri. Lotto T, le Vele, Parco Postale, le Case Celesti, le Case dei Puffi, il Terzo Mondo divengono come una sorta di giungla, una foresta pluviale di cemento armato dove confondersi, dove sparire più facilmente che altrove, dove è più facile risultare dei fantasmi. I Di Lauro avevano perso tutti i dirigenti e i capizona, ma erano riusciti a innescare una guerra spietata senza perdite gravissime. Era come se uno Stato avesse subìto un golpe, e il Presidente destituito – per conservare il proprio potere e tutelare i propri interessi – avesse armato i ragazzini delle scuole e fatto divenire i postini, i funzionari, i capiufficio, le nuove leve militari. Concedendo loro di entrare nel nuovo centro del potere e non relegandoli più al rango di ingranaggi secondari. Ugo De Lucia, fedelissimo dei Di Lauro accusato dalla DDA di Napoli di essere responsabile dell'omicidio di Gelsomina Verde, viene intercettato, come riportato nell'ordinanza del dicembre 2004, da una cimice nascosta in auto: «Io senza ordine non mi muovo, come sono fatto io!» Il perfetto soldato mostra la totale obbedienza a Cosimo. Poi commenta l'episodio di un ferimento. «Io l'ammazzavo, mica gli sparavo in una gamba se ero io gli spappolavo le membrane lo sai!... Appoggiamoci nel rione mio, è tranquillo possiamo lavorare là...» Ugariello come lo chiamano nel suo quartiere, avrebbe ucciso, mai soltanto ferito. «Adesso dico io, siamo solo noi, mettiamoci... tutti quanti in un posto... teniamoci nei dintorni cinque in una casa... cinque in un'altra... e cinque in un'altra e ci mandate a chiamare solo quando dobbiamo scendere per sfondargli il cervello!» Organizzare gruppi di fuoco di cinque persone, farli rintanare in case sicure, uscire dai nascondigli solo per uccidere. Non fare altro. I gruppi di fuochi li chiamano paranze. Ma Petrone, il suo interlocutore, non è tranquillo: «Sì, ma se un cornuto di questi va a finire che trova qualche paranza nascosta da qualche parte, ci vedono ci seguono ci schiattano il cervello... almeno un paio di morti facciamoli prima di morire, capito che dico io! Almeno fammeli eliminare quattro, cinque di loro!» L'ideale per Petrone è ammazzare chi non sa di essere stato scoperto: «La cosa più semplice è quando sono compagni, te li carichi in coraggio di chiedere spiegazione e mi fu detto che l'erezione era una reazione comune nei cadaveri dei morti ammazzati. Quella mattina Linda, una ragazzina del nostro gruppo, appena vide il cadavere scivolare dalla portiera dell'auto, iniziò a piangere e si tirò dietro altri due ragazzi. Un pianto strozzato. Un giovane in borghese prese per i capelli il cadavere, gli sputò in faccia. E rivolgendosi a noi disse: «No, e che piangete a fare? Questo era una chiavica, non è successo niente, va tutto bene. Non è successo niente. Non piangete...» Da allora, alle scene della polizia scientifica con i guanti che cammina con passo felpato, attenta a non spostare polvere e bossoli, non sono mai più riuscito a crederci. Quando arrivo vicino ai corpi prima delle autoambulanze e fisso gli ultimi momenti di vita di chi si sta accorgendo di morire, mi viene sempre in mente il finale di Cuore di tenebra, quando una donna chiede a Marlowe, ormai tornato in patria, dell'uomo che ha amato, chiede cos'ha detto Kurtz prima di morire. E Marlowe mente. Risponde che ha chiesto di lei, mentre in realtà non ha pronunciato nessuna parola dolce e nessun pensiero prezioso. Kurtz ha detto solo: «L'orrore». Si pensa che l'ultima parola pronunciata da un moribondo sia il suo pensiero ultimo, il più importante, quello fondamentale. Che si muoia pronunciando ciò per cui è valso la pena vivere. Non è così. Quando uno muore non viene fuori nulla, se non la paura. Tutti o quasi tutti ripetono la stessa frase, banale, semplice, immediata: «Non voglio morire». Facce che si sono sempre sovrapposte a quella di Kurtz, visi che esprimono lo strazio, lo schifo e il rifiuto di finire in modo orrendo, nel peggiore dei mondi possibili. Nell'orrore. Dopo aver visto decine di morti ammazzati, imbrattati del loro sangue che si mescola allo sporco, esalanti odori nauseabondi, guardati con curiosità o indifferenza professionale, scansati come rifiuti pericolosi o commentati da urla convulse, ne ho ricavato una sola certezza, un pensiero tanto elementare che rasenta l'idiozia: la morte fa schifo. A Secondigliano i ragazzi, i ragazzini, i bambini hanno perfettamente idea di come si muore e di come è meglio morire. Stavo per andarmene dal luogo dell'agguato a Carmela Attrice quando sentii parlare un ragazzino con un suo compagno. I toni erano serissimi: «Io voglio morire come la signora. In testa, pam pam... e finisce tutto.» «Ma in faccia, l'hanno colpita in faccia, in faccia è peggio!» «No, non è peggio, è un attimo comunque. Avanti o dietro, sempre testa è!» Mi intrufolai nei discorsi cercando di dire la mia e facendo domande. E così chiesi ai ragazzini: «Meglio essere colpito al petto, no? Un colpo al cuore ed è finita...» Ma il ragazzino conosceva molto meglio di me le dinamiche del dolore e iniziò a raccontare nel dettaglio i dolori della botta, ossia il colpo d'arma da fuoco, con una professionalità da esperto. «No, al petto fa male, malissimo e muori dopo dieci minuti. Si devono riempire i polmoni di sangue e poi la botta è come uno spillo di fuoco che entra e te lo girano dentro. Fa male pure sulle braccia e le gambe. Ma lì è come un morso fortissimo di un serpente. Un morso che non lascia mai la carne. Invece la testa è meglio, così non ti pisci sotto, non ti esce la merda per fuori. Non sparpetei per mezz'ora a terra...» Aveva visto. E ben più di un corpo. Essere colpiti alla testa evita di tremare dalla paura, pisciarsi sotto e far uscire la puzza, la puzza delle interiora dai buchi nella pancia. Continuai a fargli domande sui dettagli della morte, sugli agguati. Tutte le domande possibili tranne l'unica che avrei dovuto fare, ossia chiedergli perché a quattordici anni pensava a come morire. Ma questo pensiero non mi sfiorò neanche per un momento. Il ragazzino si presentò col soprannome. Gli veniva dai Pokemon, i cartoni animati giapponesi. Il ragazzino era biondo e chiatto, quanto bastava per ribattezzarlo Pikachu. Mi indicò due tizi, tra la folla che si era creata intorno al corpo della donna uccisa, si erano messi a guardare il cadavere. Pikachu abbassò la voce: «Ecco quelli, li vedi, sono quelli che hanno ammazzato Pupetta...» Carmela Attrice era chiamata Pupetta. Cercai di fissare in volto i ragazzi che Pikachu mi aveva indicato. Avevano un'aria emozionata, palpitante, spostavano teste e spalle per meglio vedere i poliziotti che coprivano il corpo. Avevano ucciso la donna a viso scoperto, poi si erano seduti nelle vicinanze, sotto la statua di Padre Pio e appena un po' di folla si era raccolta intorno al cadavere erano andati a vedere. Qualche giorno dopo li beccarono. Un gruppo nutrito per un agguato a una donna inoffensiva, uccisa in pantofole e pigiama. Un gruppo al battesimo del fuoco, l'indotto dello spaccio al dettaglio che si muta in braccio armato. Il più giovane aveva sedici anni, il più vecchio ventotto. Il presunto assassino ventidue. Quando li arrestarono, uno di loro vedendo i flash e le telecamere iniziò a ridere e a fare l'occhiolino ai giornalisti. Arrestarono anche la presunta esca, il sedicenne che aveva citofonato per far scendere la donna. Sedici anni, gli stessi della figlia di Carmela Attrice, che quando sente i colpi si affaccia al balcone e inizia a piangere perché ha capito subito. Anche secondo le indagini gli esecutori erano tornati sul luogo del delitto. Troppa curiosità. Come partecipare al proprio film. Prima nel ruolo dell'attore e poi in quello dello spettatore, ma all'interno della stessa pellicola. Dev'essere vero che chi spara non riesce ad avere preciso ricordo del gesto che compie perché quei ragazzi sono tornati curiosissimi a vedere cos'avevano combinato e che faccia aveva la loro vittima. Chiesi a Pikachu se quei tizi erano una paranza dei Di Lauro, o almeno ne volevano costituire una. Il ragazzino iniziò a ridere: «Ma quale paranza... vorrebbero essere 'na paranza... ma sono piscitielli di cannuccia, io l'ho vista una paranza...» Non sapevo se Pikachu mi stesse raccontando balle o semplicemente avesse assemblato cose che sentiva in giro per Scampia, ma la sua narrazione era precisa. Un ragazzino pignolo nei suoi racconti, puntuale al punto da rendere irreale ogni dubbio. Era contento di vedere il mio viso stupito mentre raccontava. Pikachu mi raccontò che aveva un cane chiamato Careca, come l'attaccante brasiliano del Napoli campione d'Italia. Questo cane usciva spesso sul pianerottolo di casa. Un giorno sentendo qualcuno dietro la porta della casa di fronte, solitamente vuota, iniziò a grattarla con le unghie delle zampe. Dopo pochi secondi una raffica di mitra sputata da dietro la porta lo prese in pieno. Pikachu mi raccontava la cosa riproducendomi tutti i rumori: «Tratratra... Careca morì subito subito... e la porta pam... si aprì... di botto.» Pikachu si mise per terra vicino a un muretto, seduto sul sedere con i piedi poggiati al muro e le braccia che mimavano il calcio di un mitra in mano. Mi fece vedere come era posizionata la sentinella che gli aveva ammazzato il cane. Sentinella sempre dietro la porta. Seduta, con dietro la schiena un cuscino e le piante dei piedi poggiate ai lati della porta. Una posizione scomoda per evitare che venga il sonno e soprattutto perché sparare dal basso verso l'alto avrebbe eliminato con certezza chiunque si fosse parato dinanzi alla porta, senza colpire la sentinella. Pikachu mi raccontò che quando avevano ucciso il cane, per scusarsi diedero dei soldi alla famiglia, e poi lo invitarono a entrare in casa. Nella casa dove un'intera paranza era nascosta. Ricordava tutto, le stanze vuote, solo con dei letti, un tavolo e la televisione. perennemente per strada. Le mansioni sono diverse e di diversa responsabilità. Si inizia con lo spaccio di droga leggera, hashish soprattutto. Quasi sempre i ragazzini si posizionano nelle strade più affollate, col tempo iniziano a spacciare pasticche e ricevono quasi sempre in dotazione un motorino. Infine la cocaina, che portano direttamente nelle università, fuori dai locali, dinanzi agli alberghi, alle stazioni della metropolitana. I gruppi di baby-spacciatori sono fondamentali nell'economia flessibile dello spaccio perché danno meno nell'occhio, vendono droga tra un tiro di pallone e una corsa in motorino e spesso vanno direttamente al domicilio del cliente. Il clan in molti casi non costringe i ragazzini a lavorare di mattina, continuano infatti a frequentare la scuola dell'obbligo, anche perché se decidessero di evaderla sarebbero più facilmente rintracciabili. Spesso i ragazzini affiliati dopo i primi mesi di lavoro vanno in giro armati, un modo per difendersi e farsi valere, una promozione sul campo che promette la possibilità di scalare i vertici del clan; pistole automatiche e semiautomatiche che imparano a usare nelle discariche di spazzatura della provincia o nelle caverne della Napoli sotterranea. Quando diventano affidabili e ricevono la totale fiducia di un capozona, allora possono rivestire un ruolo che va ben oltre quello di pusher, diventano "pali". Controllano in una strada della città, a loro affidata, che i camion che accedono per scaricare merce a supermarket, negozi o salumerie, siano quelli che il clan impone oppure, in caso contrario, segnalano quando il distributore di un negozio non è quello "prescelto". Anche nella copertura dei cantieri è fondamentale la presenza dei "pali". Le ditte appaltataci spesso subappaltano a imprese edili dei gruppi camorristici, ma a volte il lavoro è assegnato a ditte "non consigliate". I clan per scoprire se i cantieri subappaltano i lavori a ditte "esterne" hanno bisogno di un monitoraggio continuo e insospettabile. Il lavoro è affidato ai ragazzini che osservano, controllano, portano voce al capozona e da questi prendono ordini su come agire in caso il cantiere abbia "sgarrato". Questi ragazzini affiliati hanno comportamenti e responsabilità da camorristi maturi. Iniziano la carriera molto presto, bruciano le tappe e la loro scalata ai posti di potere all'interno della camorra sta radicalmente modificando la struttura genetica dei clan. Capizona bambini, boss giovanissimi divengono interlocutori imprevedibili e spietati che seguono nuove logiche, impedendo a forze dell'ordine e Antimafia di comprenderne le dinamiche. Sono volti tutti nuovi e sconosciuti. Con la ristrutturazione del clan voluta da Cosimo, interi comparti dello spaccio vengono gestiti da quindicenni e sedicenni che danno ordini a quarantenni e cinquantenni, senza sentire neanche per un attimo soggezione o inadeguatezza. Un ragazzo, Antonio Galeota Lanza viene intercettato dalle cimici dei carabinieri in auto con lo stereo alto, mentre racconta come si vive facendo il pusher. «... Ogni domenica sera faccio ottocento o novecento euro, anche se quello del pusher è un mestiere che ti porta ad avere a che fare con crack, cocaina e cinquecento anni di carcere...» Sempre più spesso tutto ciò che i ragazzini del Sistema vogliono cercano di ottenerlo con il "ferro", così come chiamano la pistola, e il desiderio di un cellulare o di uno stereo, di un'auto o di un motorino, facilmente si tramuta in un assassinio. Nella Napoli dei bambini-soldato non è raro sentire vicino alla cassa dei negozi, nelle botteghe o nei supermarket affermazioni del tipo: «Appartengo al Sistema di Secondigliano» oppure «Appartengo al Sistema dei Quartieri». Parole magiche attraverso cui i ragazzini prendono ciò che vogliono e dinanzi alle quali nessun commerciante chiederà mai di pagare il dovuto. A Secondigliano questa nuova struttura di ragazzi era stata militarizzata. Li avevano convertiti in soldati. Pikachu e Kit Kat mi portarono da Nello, un pizzaiolo della zona che aveva l'incarico di dare da mangiare ai ragazzini del Sistema, quando finivano il loro turno. Entrò un gruppo appena misi piede nella pizzeria. Erano goffi, goffissimi, gonfi sotto i maglioni per i giubbotti antiproiettile. Lasciarono i motorini sui marciapiedi e poi entrarono senza salutare nessuno. Somigliavano nei movimenti e con i petti imbottiti a giocatori di football americano. Facce da ragazzini, qualcuno aveva anche la prima barba sulle guance, andavano dai tredici ai sedici anni. Pikachu e Kit Kat mi fecero sedere tra loro, a nessuno la cosa sembrò dispiacere. Mangiavano e soprattutto bevevano. Acqua, Coca Cola, Fanta. Una sete incredibile. Anche con la pizza volevano dissetarsi, si fecero portare una bottiglia d'olio, aggiunsero olio e ancora olio su ogni pizza perché sostenevano che erano troppo asciutte. Tutto nella loro bocca era stato seccato, dalla saliva alle parole. Mi accorsi subito che venivano dalle nottate di guardia e avevano preso pasticche. Gli davano le pasticche di MDMA. Per non farli addormentare, per evitare che si fermino a mangiare due volte al giorno. Del resto la MDMA venne brevettata dai laboratori Merck in Germania per essere somministrata ai soldati in trincea nella Prima guerra, quei soldati tedeschi che venivano chiamati Menschenmaterial, materiale umano che così superava fame, gelo, e terrore. Poi fu usata anche dagli americani per operazioni di spionaggio. Ora anche questi piccoli soldati avevano avuto il loro quantitativo di coraggio artificiale e resistenza artefatta. Mangiavano succhiando gli spicchi di pizza che tagliavano. Dal tavolo proveniva un rumore simile a quello dei vecchi che succhiano il brodo dal cucchiaio. I ragazzi ripresero la parola, continuarono a ordinare bottiglie d'acqua. E lì feci un gesto che avrebbe potuto essere punito con violenza, ma sentivo che potevo farlo, sentivo che davanti avevo dei ragazzini. Imbottiti di lastre di piombo, ma pur sempre ragazzini. Misi un registratore in tavola e mi rivolsi ad alta voce a tutti, cercando di incrociare gli occhi di ognuno: «Forza, parlate qua dentro, dite quello che volete...» A nessuno parve strano il mio gesto, a nessuno venne in mente di stare davanti a uno sbirro o un giornalista. Qualcuno iniziò a urlacchiare qualche insulto al registratore, poi un ragazzino spinto da qualche mia domanda mi raccontò la sua carriera. E pareva non vedesse l'ora di farlo. «Prima lavoravo in un bar, prendevo duecento euro al mese; con le mance arrivavo a duecentocinquanta e non mi piaceva come lavoro. Io volevo lavorare nell'officina con mio fratello, ma non mi hanno preso. Nel Sistema prendo trecento euro a settimana, ma se vendo bene prendo anche una percentuale su ogni mattone (il lingotto di hashish) e posso arrivare a trecentocinquanta-quattrocento euro. Mi devo fare il mazzo, ma alla fine qualcosa in più me la danno sempre.» Dopo una mitragliata di rutti che due ragazzetti vollero registrare, il ragazzino che veniva chiamato Satore, un nome a metà tra Sasà e Totore, continuò: «Prima stavo sempre in mezzo alla strada, mi scocciava il fatto di non avere il motorino e me la dovevo fare a piedi o con gli autobus. Mi piace come lavoro, tutti mi rispettano e poi posso fare quello che voglio. Mo però mi hanno dato il ferro e devo sempre stare qua. Terzo Mondo, Case dei Puffi. Sempre chiuso qua dentro, avanti e indietro. E non mi piace.» Satore mi sorrise e poi urlò ridendo nel registratore: «Fatemi uscire da qua!... Diteglielo al masto!» Li avevano armati, gli avevano dato il ferro, la pistola, e un territorio limitatissimo in cui lavorare. Kit Kat poi continuò a parlare nel registratore poggiando le labbra ai fori del microfono, registrando anche il suo fiato. «Io voglio aprirmi una ditta per ristrutturare le case oppure un magazzino o un negozio, il Sistema mi deve dare i soldi per aprire, poi al velocità a far capire cosa vogliono e chi sono. Sono modelli che tutti conoscono e che non abbisognano di eccessive mediazioni. Lo spettacolo è superiore al codice sibillino dell'ammiccamento o alla circoscritta mitologia del crimine da quartiere malfamato. Cosimo fissa le telecamere e gli obiettivi dei fotografi, abbassa il mento, sporge la fronte. Non si è fatto trovare come Brusca con un jeans liso e una camicia sporca di salsa, non è impaurito come Riina portato di corsa sopra un elicottero, né sorpreso con il volto pieno di sonno come capitò a Misso, boss della Sanità. È un uomo formato nella società dello spettacolo e sa di andare in scena. Si presenta come un guerriero che si è imbattuto nella sua prima sosta. Sembra che stia pagando per il troppo coraggio, l'eccessivo zelo nella guerra che ha condotto. Questo racconta il suo volto. Non sembra che sia tratto in arresto, ma che muti semplicemente il luogo del suo comando. Innescando la guerra sapeva di andare incontro all'arresto. Ma non aveva scelta. O guerra o morte. E l'arresto vuole rappresentarlo come la dimostrazione della sua vittoria, il simbolo del suo coraggio capace di sprezzare ogni sorta di tutela di sé, pur di salvare il sistema della famiglia. La gente del quartiere al solo guardarlo si sente bruciare lo stomaco. Inizia la rivolta, rovesciano auto, riempiono bottiglie di benzina e le lanciano. La crisi isterica non serve a evitare l'arresto come potrebbe sembrare, ma a scongiurare vendette. Ad annullare ogni possibilità di sospetto. A segnalare a Cosimo che nessuno lo ha tradito. Che nessuno ha spifferato, che il geroglifico della sua latitanza non è stato decifrato grazie ai suoi vicini di casa. È un enorme rito quasi di scusa, una metafisica cappella di espiazione che le persone del quartiere vogliono costruire con le volanti dei carabinieri bruciate, i cassonetti posti a barricate, il fumo nero dei copertoni. Se Cosimo sospetta, non avranno neanche il tempo di fare le valigie, la mannaia militare si abbatterà su di loro come l'ennesima spietata condanna. Pochi giorni dopo l'arresto del rampollo del clan, il volto arrogante che fissa le telecamere campeggia sugli screen saver dei telefonini di decine di ragazzini e ragazzine delle scuole di Torre Annunziata, Quarto, Marano. Gesti di mera provocazione, di banale balordaggine adolescenziale. Certo. Ma Cosimo sapeva. Così bisogna agire per essere riconosciuti come capi, per raggiungere il cuore degli individui. Bisogna saper usare anche lo schermo, l'inchiostro dei giornali, bisogna sapere annodare il proprio codino. Cosimo rappresenta chiaramente il nuovo imprenditore di Sistema. L'immagine della nuova borghesia svincolata da ogni freno, mossa dall'assoluta volontà di dominare ogni territorio del mercato, di mettere le mani su tutto. Non rinunciare a nulla. Fare una scelta non significa limitare il proprio campo d'azione, privarsi di ogni altra possibilità. Non per chi considera la vita come uno spazio dove poter conquistare tutto al rischio di perdere ogni cosa. Significa mettere in conto di essere arrestati, di finir male, di morire. Ma non significa rinunciare. Volere tutto e subito, e averlo quanto prima. È questa la forza e l'attrattiva che Cosimo Di Lauro impersona. Tutti, anche i più premurosi verso la propria incolumità, finiscono nella gabbia della pensione, tutti prima o poi si scoprono cornuti, tutti finiscono con una badante polacca. Perché crepare di depressione cercando un lavoro che fa boccheggiare, perché finire in un part-time a rispondere al telefono? Diventare imprenditore. Ma vero. Capace di commerciare con tutto e di fare affari anche col nulla. Ernst Jünger direbbe che la grandezza è esposta alla tempesta. Lo stesso ripeterebbero i boss, gli imprenditori di camorra. Essere il centro di ogni azione, il centro del potere. Usare tutto come mezzo e se stessi come fine. Chi dice che è amorale, che non può esserci vita senza etica, che l'economia possiede dei limiti e delle regole da seguire, è soltanto colui che non è riuscito a comandare, che è stato sconfitto dal mercato. L'etica è il limite del perdente, la protezione dello sconfitto, la giustificazione morale per coloro che non sono riusciti a giocarsi tutto e vincere ogni cosa. La legge ha i suoi codici stabiliti, ma non la giustizia che è altro. La giustizia è un principio astratto che coinvolge tutti, passabile a seconda di come lo si interpreta di assolvere o condannare ogni essere umano: colpevoli i ministri, colpevoli i papi, colpevoli i santi e gli eretici, colpevoli i rivoluzionari e i reazionari. Colpevoli tutti di aver tradito, ucciso, sbagliato. Colpevoli d'essere invecchiati e morti. Colpevoli di essere stati superati e sconfitti. Colpevoli tutti dinanzi al tribunale universale della morale storica e assolti da quello della necessità. Giustizia e ingiustizia hanno un significato solo se considerate nel concreto. Di vittoria o sconfitta, di atto fatto o subìto. Se qualcuno ti offende, se ti tratta male, sta commettendo un'ingiustizia, se invece ti riserva un trattamento di favore ti fa giustizia. Osservando i poteri del clan bisogna fermarsi a questi calibri. A queste maglie di giudizio. Bastano. Devono bastare. È questa l'unica forma reale di valutazione della giustizia. Il resto è solo religione e confessionale. L'imperativo economico è foggiato da questa logica. Non sono gli affari che i camorristi inseguono, sono gli affari che inseguono i camorristi. La logica dell'imprenditoria criminale, il pensiero dei boss coincide col più spinto neoliberismo. Le regole dettate, le regole imposte, sono quelle degli affari, del profitto, della vittoria su ogni concorrente. Il resto vale zero. Il resto non esiste. Poter decidere della vita e della morte di tutti, poter promuovere un prodotto, monopolizzare una fetta di mercato, investire in settori d'avanguardia, è un potere che si paga con il carcere o con la vita. Avere potere per dieci anni, per un anno, per un'ora. Non importa la durata: vivere, comandare per davvero, questo conta. Vincere nell'arena del mercato e arrivare a fissare il sole con gli occhi come faceva in carcere Raffaele Giuliano, boss di Forcella, sfidandolo, mostrando che il suo sguardo non si accecava neanche dinanzi alla luce prima. Raffaele Giuliano che aveva avuto la spietata volontà di cospargere di peperoncino la lama di un coltello prima di accoltellare un parente di un suo nemico, così da fargli sentire bruciori lancinanti mentre la lama entrava nella carne, centimetro per centimetro. In carcere veniva temuto non per questa sua acribia sanguinaria, ma per la sfida dello sguardo capace di mantenersi alto anche fissando il sole. Avere la coscienza di essere dei business man destinati alla fine – morte o ergastolo – ma con volontà spietata dominare economie potenti e illimitate. Il boss viene ammazzato o arrestato, ma il sistema economico che ha generato rimane: non smettendo di mutare, trasformarsi, migliorare e innescare profitto. Questa coscienza da samurai liberisti, i quali sanno che il potere, quello assoluto, per averlo si paga, la trovai sintetizzata in una lettera di un ragazzino rinchiuso in un carcere minorile, una lettera che consegnò a un prete e che fu letta durante un convegno. La ricordo ancora. A memoria: Tutti quelli che conosco o sono morti o sono in galera. Io voglio diventare un boss. Voglio avere supermercati, negozi, fabbriche, voglio avere donne. Voglio tre macchine, voglio che quando entro in un negozio mi devono rispettare, voglio avere magazzini in tutto il mondo. E poi voglio morire. Ma come muore uno vero, uno che comanda veramente. Voglio morire ammazzato. Questo è il nuovo tempo scandito dagli imprenditori criminali. Questa è la nuova potenza dell'economia. Dominarla, a costo d'ogni cosa. Il potere prima d'ogni cosa. La vittoria economica più preziosa della vita. Della vita di chiunque e persino della propria. I ragazzini di Sistema avevano iniziato a chiamarli persino "morti parlanti". In un'intercettazione telefonica presente nel decreto di fermo
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