Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Grammatica della fantasia - G. Rodari, Appunti di Pedagogia

Riassunto del libro. Corso: pedagogia della lettura e laboratori territoriali.

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 11/06/2023

_SilviaGrasso_
_SilviaGrasso_ 🇮🇹

4.5

(14)

7 documenti

1 / 21

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Grammatica della fantasia - G. Rodari e più Appunti in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Grammatica della fantasia. L’arte di inventare storie – G. Rodari 1. Antefatto Rodari racconta di tutte le volte in cui ha pubblicato libri, articoli, volumi, ecc. in cui si è occupato di spiegare come inventare storie. Tutto ha avuto inizio con una frase trovata alla fine degli anni ’30 in Frammenti di Novalis: “se avessimo anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare”; è dopo averla letta, infatti, che lo scrittore ha deciso di cercare la Fantastica. Negli anni ’70 sono addirittura stati organizzati degli incontri, con insegnanti di ogni ordine e grado di Reggio Emilia, in cui Rodari ha potuto spiegare tutto quello che aveva imparato nel corso della sua esistenza. Lui stesso afferma che è stato il momento più bello della sua vita, soprattutto perché ha avuto la possibilità di ragionare a lungo e sistematicamente, con il controllo costante della discussione e della sperimentazione, non solo sulla funzione dell’immaginazione e sulle tecniche per stimolarla, ma anche sul modo di comunicarle a tutti. Questo libro riporta proprio quanto affermato durante quegli incontri; l’autore afferma che non rappresenta né il tentativo di fondare una Fantastica, né un vero e proprio saggio, ma si augura che possa essere utile a chi crede nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione, a chi ha fiducia nella creatività infantile e a chi sa quale valore di liberazione possa avere la parola. 2. Il sasso nello stagno Quando un sasso viene gettato in uno stagno, suscita onde concentriche che si allargano sulla superficie e porta al succedersi di innumerevoli eventi o microeventi. Allo stesso modo, la parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena e coinvolge nella sua caduta suoni, immagini, ricordi, significati e sogni, in un movimento che coinvolge l’esperienza e la memoria, ma anche la fantasia e l’inconscio. Una semplice parola, come potrebbe essere “sasso”, non solo rimanda ad altre parole simili per suono o significato, ma può funzionare anche come parola magica per disseppellire campi della memoria che giacevano sotto la polvere del tempo. Un po’ come il sapore delle famose madeleine di Proust. Questo meccanismo funziona anche se si vogliono inventare storie per bambini. Il tema fantastico, in questo tipo di ricerca che parte da una sola parola, nasce quando si creano accostamenti strani, quando nei complessi movimenti delle immagini e nelle loro interferenze si fa luce una parentela imprevedibile tra parole che appartengono a catene differenti. A questo punto Rodari fa l’esempio di una storia che gli è venuta in mente partendo proprio dalla parola “sasso”; iniziando con banali assonanze e rime, arriva a ricordare un suo vecchio amico che suonava il violino e a descrivere un paese musicale, fatto di case a forma di strumenti. Dopodiché mostra come un racconto possa venire fuori anche dalla semplice scomposizione della parola di partenza: S – sulla A – altalena S – saltano S – sette O – oche Scegliendo parole che formano una frase di senso compiuto, è possibile ottenere idee per una nuova storia; oppure si possono scartare per cercarne altre, magari migliori. Fatto sta che lui ammette di aver scritto parecchie storie basandosi proprio su questo metodo. 3. La parola “ciao” Nelle scuole per l’infanzia di Reggio Emilia è nato un paio di anni fa il “gioco del cantastorie”: i bambini, a turno, salgono su una specie di pedana e raccontano ai loro compagni, seduti sul pavimento, una storia di loro invenzione; la maestra la trascrive e il bambino stesso la illustra con una grande pittura. Dopo che Rodari ha raccontato questa cosa ad uno degli incontri, una maestra ha deciso di provarla con la sua classe ed è venuta fuori una storia semplicemente partendo dalla parola “ciao”. A raccontarla è stato un bambino di 5 anni, che si è immaginato un coetaneo che viene portato dal dottore perché dice solo parole brutte (es. cacca, stronzo, ecc.); una volta visitato per bene, al bambino viene prescritta una cura: andare in giro a cercare una parola buona. Dopo vari tentativi, l’unica che trova è “ciao”, se la mette in tasca, la porta a casa e impara a dire parole gentili. Durante il racconto, due volte gli ascoltatori si sono inseriti per raccogliere e sviluppare spunti offerti dalla storia. La prima è stata quando il narratore ha nominato le parole brutte, alle quali hanno collegato una serie di parolacce; la seconda volta, invece, sono intervenuti per arricchire di dettagli la visita del dottore. Come sostiene Jakobson, tutte queste associazioni si sono svolte su due assi differenti: l’asse della selezione, ossia la ricerca di parole vicine lungo la catena del significato, e l’asse della combinazione, ossia l’evocazione di significati o analogie verbali. 4. Il binomio fantastico Abbiamo visto come lo spunto per una storia possa essere una singola parola; in realtà, quest’ultima agisce solo quando ne incontra una seconda che la provoca, la costringe ad uscire dai binari dell’abitudine, a scoprirsi nuove capacità di significare. Come scrive Henry Wallon nel suo libro Le origini del pensiero nel bambino, il pensiero si forma per coppie: l’idea di “molle”, per esempio, non si forma senza l’idea di “duro”. Anche Paul Klee, in Teoria della forma e della figurazione, sostiene che il concetto sia impossibile senza il suo opposto e che non esistono concetti assestanti, ma di regola sono binomi di concetti. Cavallo – cane, però, non è veramente un binomio fantastico, ma una semplice associazione all’interno della stessa classe zoologica. Occorre una certa distanza tra le due parole, ossia che il loro accostamento sia discretamente insolito, affinché l’immaginazione sia costretta a mettersi in moto per istituire tra loro una parentela, per costruire un insieme fantastico in cui due elementi estranei possano convivere. Perciò, è bene scegliere il binomio fantastico con l’aiuto del caso; Rodari, ricordando la sua esperienza da insegnante, consiglia per esempio di far dire le due parole a due bambini differenti, all’insaputa l’uno dell’altro, perché questo mette in moto la fantasia e fa nascere le storie. Nel binomio fantastico le parole non sono prese nel loro significato quotidiano, ma liberate dalle catene verbali di cui fanno parte quotidianamente; esse sono estraniate, spaesate e gettate l’una contro l’altra in un cielo mai visto prima: è proprio lì che si trovano nelle condizioni migliori per generare una storia. 5. “Luce” e “scarpe” “Luce” e “scarpe” sono il binomio fantastico da cui è scaturita una storia raccontata da un bambino di 5 anni e mezzo, con l’aiuto di altri tre compagni, in una scuola dell’infanzia di Reggio Emilia. La storia racconta di un bambino che mette sempre le scarpe del padre; quest’ultimo, stufo della cosa, le attacca alla luce e va a dormire. Durante la notte sente dei rumori e trova il figlio per terra completamente acceso, luminoso; prova a spegnerlo in tutti i modi, girandogli la testa, tirandogli le orecchie, ecc., ma riesce soltanto togliendogli le scarpe. Il finale della storia è piaciuto talmente tanto ai bambini che si sono fatti un applauso da soli; non si tratta solo dell’immagine che chiude perfettamente e logicamente il cerchio, ma è molto di più. Freud, per esempio, collegherebbe tutto al complesso edipico: dall’attaccamento alle scarpe del padre si può arrivare al pensiero del bambino di prendere il suo posto per stare accanto alla madre. Ciò su cui riflettere Rodari, invece, è più che altro l’eco immediata che la parola “scarpe” ha potuto destare nell’esperienza infantile. Tutti i bambini, infatti, giocano a mettersi le scarpe del padre e della madre per essere loro, per essere più alti, ma anche semplicemente per essere altri. Il gioco del travestimento, a parte la sua importanza simbolica, è sempre divertente per gli effetti grotteschi che ne nascono. Però, perché il bambino rimane acceso? La ragione più ovvia sarebbe da ricercare nell’analogia: attaccato al lampadario, come una lampadina, il bambino si comporta da lampadina. Ma questa spiegazione sarebbe sufficiente se il bambino si fosse acceso nel momento in cui il padre lo ha attaccato. Il racconto, però, non registra l’accensione, noi vediamo il bambino acceso solo dopo che è caduto per terra; secondo Rodari,  Che cosa ha detto la gente?  Com’è andata a finire? Il primo del gruppo risponde alla prima domanda e piega il foglio, così che nessuno possa leggere la risposta; il secondo risponde alla seconda domanda e torna a piegare il foglio e così via. Dopodiché si leggono le risposte come un racconto; si può ridere e finire tutto lì, oppure si può analizzare la situazione ottenuta per ricavarne una storia. Un altro gioco surrealistico si fa componendo un disegno a più mani. Il primo del gruppo disegna una figura, suggerisce un’immagine, traccia un segno che può avere un significato o nessuno; il secondo prescinde, in ogni caso, da quel significato e usa il segno del primo come elemento di un’altra figura, di diverso significato. Così fai il terzo, mutando la direzione; il risultato finale è spesso un disegno incomprensibile, in cui nessuna forma si fissa, ma tutte trapassano l’una nell’altra, in una specie di moto perpetuo combinatorio. Alla fine, però, le figure possono contenere una storia: il compito di chi la scrive è passare dal nonsenso al senso. 11. Utilità di Giosue Carducci Partendo dal noto verso carducciano “sette paia di scarpe ho consumate”, si può pensare di riscriverlo e risillabarlo. Per esempio, potrebbe venire fuori “sette appaiate carpe scostumate”, oppure “se ti parlo di scope, oh che sudate”; dopo una decina di minuti, trattando ogni successivo verso come una miniera da cui cavare nuovi oggetti poetici, si potrebbe addirittura arrivare ad una filastrocca. L’utilità dell’esercizio è quella di un allenamento dell’immaginazione ad uscire dai binari troppo consueti del significato, a tenere d’occhio i lampi, anche minimi, che da ogni parola possono scoppiare in tutte le direzioni. Altri versi di Carducci possono favorire questo esercizio, andando a creare una filastrocca come la seguente: verdun, vile città di confettieri… città di confetture e di confetti, di confezioni e di sorbetti, di prefetture e di prefetti… E da questa stessa filastrocca, poi, potrebbe scaturire una storia che ha come protagonista il Signor Confetto. 12. Costruzione di un “limerick” Il “limerick” è in genere organizzato e codificato che, in inglese, è un nonsenso; quelli più famosi sono quelli di Edward Lear. Tra questi, tradotto in italiano da Carlo Izzo: c’era un vecchio di palude di natura futile e rude seduto su un rocchio cantava stornelli a un ranocchio quel didattico vecchio di palude Con pochissime varianti, i limericks ricalcano da sempre la stessa struttura, che è stata analizzata con grande precisione da diversi semiologi sovietici. Il primo verso contiene l’indicazione del protagonista: il vecchio di palude. Nel secondo è indicata la sua qualità: di natura futile e rude. Nel terzo e quarto si assiste alla realizzazione del predicato: seduto su un rocchio cantava stornelli a un ranocchio. Il quinto verso, infine, è riservato all’apparizione di un epiteto finale, opportunamente stravagante: quel didattico vecchio di palude. Alcune varianti sono, in realtà, forme alternative della struttura. Per esempio, al secondo verso, la qualità del personaggio può essere indicata, anziché da un semplice attributo, da un oggetto che egli possiede o da un’azione che compie. Il terzo e quarto, anziché alla realizzazione del predicato, possono essere riservati alla reazione degli astanti. Nel quinto, invece, il protagonista può subire rappresaglie più serie che un semplice epiteto. Capita la struttura, ecco un altro esempio: 1. Il protagonista: c’era un vecchio di Granieri 2. Il predicato: che camminava in punta di piedi 3. La reazione degli astanti: ma gli dissero: bel divertimento 4. La reazione degli astanti: incontrarti in questo momento 5. Epiteto finale: oh rimbambito vecchio di Granieri. Ricalcando questa struttura, cioè usandola come una vera e propria guida alla composizione e rispettando la combinazione delle rime, possiamo noi stessi comporre un limerick alla maniera di Lear:  Prima operazione: scelta del protagonista  un signore molto piccolo di Como  Seconda operazione: indicazione di una qualità, espressa con un’azione  una volta salì in cima al Duomo  Terza operazione: realizzazione del predicato (oppure si può fare leva sulla reazione degli astanti)  e quando fu in cima / era alto come prima  Quarta operazione: scelta dell’epiteto finale  questo signore micro piccolo di Como. Ciò che insegnano i limerick, dunque, è che bisognerebbe stare attenti a non limitare mai le possibilità dell’assurdo. 13. Costruzione di un indovinello La costruzione di un indovinello è un esercizio di logica o di immaginazione? Probabilmente tutte e due le cose insieme. Prendiamone uno come esempio: scende ridendo e sale piangendo (= il secchio nel pozzo). Alla base della definizione ermetica c’è un processo di straniamento dell’oggetto, che viene separato dal suo significato e dal suo contesto abituali ed è descritto semplicemente come un oggetto che scende e sale. Nella descrizione, però, si insinua un lavoro di associazione e comparazione che si esercita non più sulla totalità dell’oggetto, ma su una delle sue caratteristiche, ovvero quella sonora: il secchio cigola e il rumore del cigolio è diverso quando scende da quando sale. La chiave della nuova definizione sta nella metafora che suggerisce il verbo “piangere”: quando risale, il secchio dondola e l’acqua sgocciola, per cui è come se piangesse; ed è da questa metafora che nasce, per opposizione, la prima: “scende ridendo”. Quindi, la doppia metafora è pronta per rappresentare l’oggetto, nascondendolo e promuovendolo da utensile, banale quotidiano, ad oggetto misterioso che sfida l’immaginazione. L’analisi, quindi, offre questa sequenza: straniamento – associazione – metafora. Sono i tre passaggi obbligati per arrivare a formulare l’indovinello. Tra questi, lo straniamento è un momento essenziale perché rende possibili le associazioni meno banali e permette lo scatto delle metafore più sorprendenti. 14. Il falso indovinello Il falso indovinello è quello che contiene già, in un modo o nell’altro, la risposta. Ecco un esempio: un signore di nome Osvaldo andò in Africa e sentì caldo. Si domanda: aveva caldo così perché era nato a Forlì o perché si chiamava Osvaldo? La struttura è quella del limerick e la risposta è già contenuta nei versetti: il signor Osvaldo aveva caldo perché stava in Africa, luogo antonomastico delle alte temperature. Il finto indovinello l’ha nascosta deviando l’attenzione dell’ascoltatore su un aut aut rappresentato dai due “perché”. In questo caso, l’attenzione non basta a trovare la risposta giusta senza un piccolo esercizio di logica. Altro esempio: un ortolano di poco cervello seminò nel suo orto la parola ravanello. Una risposta da voi si vuole: crebbero poi ravanelli o parole? In questo caso, la risposta non è contenuta esplicitamente nei versetti, tranne che per l’indizio ricavabile dal verbo “crescere”, quindi il lavoro deduttivo è più complesso che nell’altro esempio. Ma la forma è la stessa: è la negazione di un falso aut aut. 15. Le fiabe popolari come materia prima Le fiabe popolari sono entrate come materia prima in diverse operazioni fantastiche: dal gioco letterario al gioco di corte, da quello romantico a quello positivistico e via dicendo. Al mondo delle fiabe si sono ispiranti Andersen e Collodi. Andersen, come i fratelli Grimm, ha preso spunto da quelle del suo paese, anche se l’intento era diverso; i fratelli, infatti, da bravi tedeschi, erano interessati a costruire un vivente monumento della lingua tedesca nella Germania dominata da Napoleone (ottennero anche la medaglia per il patriottismo), mentre il danese viveva quelle fiabe nella sua memoria: erano per lui un modo di riaccostarsi alla sua infanzia per riscattarla, non per dare voce al suo popolo. “Io e le fiabe” è stato il binomio fantastico sul quale si è basato il suo lavoro. In Pinocchio, invece, Collodi utilizza paesaggi, toni e colori tipici della fiaba popolare Toscana. I Grimm, Andersen e Collodi sono stati tre grandi liberatori della letteratura infantile dai compiti edificanti che gli erano stati assegnati in origine, grazie anche alla nascita delle scuola popolare. Possiamo vedere in Andersen il primo creatore della fiaba contemporanea: quella in cui temi del passato escono dal loro limbo ormai senza tempo per agire nel purgatorio o nell’inferno del presente. Collodi, invece, è andato più in là nell’attribuire al bambino, così com’è e non come lo vorrebbe l’adulto, un ruolo di protagonista e nell’assegnare nuovi ruoli a certi personaggi della fiaba classica: la Fata dai Capelli Turchini è una lontana parente delle fate tradizionali, Mangiafuoco è un vecchio Orco ormai irriconoscibile e l’ Omino di Burro è un’allegra caricatura del Mago. Ciò che ha reso i due autori geniali è soprattutto il fatto che conoscevano il materiale fiabesco esattamente come lo conosciamo noi oggi, dopo che esso è stato catalogato, sezionato, studiato al microscopio psicologico, antropologico, ecc. 16. A sbagliare le storie “A sbagliare le storie” è un vecchio gioco molto, più serio di quanto non sembri a prima vista, infatti bisogna giocarlo al momento giusto. I bambini, quanto a storie, rimangono piuttosto a lungo conservatori, le vogliono riascoltare con le stesse parole della prima volta, per il piacere di riconoscerle, di impararle da cima a fondo nella giusta sequenza, di riprovare le emozioni del primo incontro nello stesso ordine: sorpresa, paura, gratificazione. Hanno bisogno di ordine e rassicurazione: il mondo non deve allontanarsi troppo bruscamente dai binari sui quali, con tanta fatica, il bambino si sta avviando. Dunque, può essere che all’inizio questo gioco li irriti e li faccia sentire in pericolo; ad un certo punto, però, saranno in grado di staccarsi dal racconto originale e accetteranno che dalla storia nasca la parodia, un po’ perché questa sancisce il distacco, ma un po’ anche perché il nuovo punto di vista rinnova l’interesse alla storia stessa, la fa rivivere su un altro binario. In qualche caso il gioco potrà anche avere un’efficacia terapeutica e aiutare il bambino a sbloccarsi da certe fissazioni; inoltre, stabilisce un più netto confine tra il mondo delle cose vere e quello delle cose immaginarie e permette di svolgere una vera e propria analisi della fiaba. 17. Cappuccetto Rosso in elicottero In alcune scuole è stato ideato un gioco innovativo: sono state date ai ragazzi alcune parole sulle quali inventare una storia, tutte connesse ad una fiaba conosciuta eccetto una. Per esempio: “bambina”, “bosco”, “fiori”, “lupo”, “nonna”, “elicottero”. Si è trattato più che altro di un esperimento grazie al quale misurare la capacità dei bambini di reagire ad un elemento nuovo e inatteso, di assorbire la parola data nella storia nota e di far reagire le parole consuete al nuovo contesto in cui vengono a trovarsi. A guardarlo da vicino, il gioco ha la forma di un binomio fantastico: da una parte sta Cappuccetto Rosso e dall’altra l’elicottero. 3. Infrazione; 4. Investigazione; 5. Delazione; 6. Tranello; 7. Connivenza; 8. Danneggiamento o mancanza; 9. Mediazione; 10. Consenso dell’eroe; 11. Partenza dell’eroe; 12. L’eroe messo alla prova dal donatore; 13. Reazione dell’eroe; 14. Fornitura del mezzo magico; 15. Trasferimento dell’eroe; 16. Lotta tra eroe e antagonista; 17. L’eroe marchiato; 18. Vittoria sull’antagonista; 19. Rimozione della sciagura o mancanza iniziale; 20. Ritorno dell’eroe; 21. Sua persecuzione; 22. L’eroe si salva; 23. L’eroe arriva in incognito a casa; 24. Pretese del falso eroe; 25. All’eroe è imposto un compito difficile; 26. Esecuzione del compito; 27. Riconoscimento dell’eroe; 28. Smascheramento del falso eroe o dell’antagonista; 29. Trasfigurazione dell’eroe; 30. Punizione dell’antagonista; 31. Nozze dell’eroe. Ovviamente, non in tutte le fiabe sono presenti tutte le funzioni: nella successione obbligatoria avvengono dei salti, delle aggregazioni e delle sintesi, che però non contraddicono la linea generale. Una fiaba può cominciare dalla prima funzione, dalla settima o dalla dodicesima, ma, se è sufficientemente antica, è difficile che salti all’indietro per recuperare i passaggi dimenticati. La funzione di allontanamento, che indica il primo posto, può essere adempiuta da un personaggio che si allontana di casa per qualsiasi motivo, un principe che parte per la guerra, un padre che muore, un genitore che va al lavoro, ecc. Ogni funzione può comprendere il suo contrario: il divieto può essere rappresentato da un ordine positivo. Il motivo per cui le funzioni interessano a Rodari è che possono essere usate per costruire infinite storie, proprio come con 12 note si possono comporre infinite melodie. A Reggio Emilia, per sperimentarne la produttività, le funzioni sono state ridotte a venti; due pittori hanno poi disegnato venti carte da gioco, ciascuna contrassegnata dal titolo generico della funzione e da un’illustrazione simbolica, o caricaturale, ma pertinente: “divieto”, “infrazione”, “duello”, “vittoria”, “ritorno”, ecc. Dopodiché, un gruppo ha lavorato a produrre una storia strutturandola sulla serie delle venti “Carte di Propp”. Attraverso questa modalità, Rodari ha notato come i bambini riescano facilmente a produrre una fiaba seguendo la traccia delle carte, perché ogni parola della serie si presenta carica di significati favolosi e si presta ad un gioco interminabile di variazioni; inoltre, tendono ad eseguire diverse varianti: pescare tre carte a caso, dividersi il mazzo, partire dall’ultima carta, ecc. Spesso basta una carta a suggerire una favola. Chiunque può costruirsi un mazzetto di carte di Propp, in modo tale da allenare la fantasia, in quanto le carte danno la possibilità di costruire un numero infinito di disegni: ogni pezzo non ha un significato unico, ma è aperto a molti significati. Seguendo la logica di Propp, quindi, la struttura della fiaba non solo ricalca quella dei riti di iniziazione, ma in qualche modo si ripete anche nella struttura dell’esperienza infantile, che è un susseguirsi di missioni e duelli, prove difficili, delusioni e passaggi inevitabili. 23. Franco Passatore mette “le carte in favola” Accanto alle carte di Propp ne possono esistere altre, diverse ma non meno produttive. Per esempio, è molto valido il gioco inventato da Franco Passatore e dai suoi amici del Gruppo Teatro – Gioco – Vita, che si chiama “mettiamo le carte in favola”. Il gioco consiste nell’inventare e nell’illustrare una storia collettiva e viene stimolato da un apposito mazzo di carte preparato dall’animatore. La lettura delle immagini è sempre diversa perché ciascuna carta del mazzo è collegabile a quella precedente solo per libera associazione di idee o comunque mediante un gioco di fantasia. L’animatore, seduto al centro, fa scegliere casualmente ad un bambino una carta: questi dovrà interpretarla verbalmente, dando inizio alla storia collettiva. Ogni bambino, a turno, dovrà aggiungere qualcosa alla storia degli altri, finché non si arriverà all’ultimo, che ha il complicato compito di terminare la storia. Il risultato sarà un lungo pannello illustrato da tutti i bambini, i quali potranno rileggere visivamente la propria storia collettiva. Sempre lo stesso Gruppo, ha inventato altri giochi per stimolare la fantasia dei bambini; essi credono soprattutto negli oggetti, in quanto li ritengono capaci di stimolare maggiormente l’inventiva. Inoltre, in tutti i loro giochi i bambini sono sia autori, che attori, che spettatori di tutto ciò che avviene e la situazione favorisce la loro creatività in ogni momento e in più direzioni. 24. Fiabe in “chiave obbligata” All’interno di ogni funzione fiabesca sono possibili infinite variazioni. La tecnica della variazione, però, può essere applicata all’intera fiaba, della quale si può immaginare una modulazione, una trasposizione da una tonalità all’altra. Sia il tema fantastico: raccontare la storia del pifferaio di Hamelin ambientandola nella Roma del 1973. L’introduzione di questa chiave ci obbliga a cercare il punto della vecchia fiaba, dal quale può avere principio la modulazione. Una Roma del 1973 invasa dai topi si potrebbe anche immaginare senza cadere del tutto nell’assurdo, ma sarebbe forse inutile. Roma, infatti, è invasa, ma non dai topi, bensì dalle automobili che ne intasano le strade e le piazze, che tolgono spazio ai pedoni, e che vietano ai bambini i loro giochi. In questo modo, disponiamo di un’ipotesi fantastica che trascina nello stampo della fiaba una grossa fetta di realtà. Nel complesso, la vecchia fiaba, suonata nella nuova chiave e adattandosi alla nuova esecuzione, renderà suoni inattesi e potrà addirittura avere una morale nuova e autentica. 25. Analisi della Befana Rodari chiama “analisi fantastica” di un personaggio fiabesco la sua scomposizione in fattori primi, allo scopo di tracciarvi gli elementi per la costruzione di nuovi binomi fantastici, cioè per inventare altre storie intorno a quel personaggio. Prendiamo la Befana, anche se non sta propriamente nelle fiabe. Rispetto alle funzioni di Propp, possiamo definirla una donatrice; all’analisi, essa risulta divisa in tre parti: 1. La scopa; 2. Il sacco di regali; 3. Le scarpe rotte. Ciascuno dei tre fattori primi offre i suoi spunti creativi, a patto di saperne interrogare con metodo le possibilità. Nello specifico: 1. La scopa. Abitualmente la Befana se ne serve per volare; ma se estraiamo l’oggetto dal suo contesto abituale dobbiamo domandarci: che cosa se ne fa della scopa, la Befana, dopo la notte dell’Epifania? Da questa domanda possono nascere numerose ipotesi (es. la usa per le pulizie). 2. Il sacco dei regali. Anche qui l’immagine suscita diverse ipotesi; per esempio, cosa accadrebbe se il sacco avesse un buco? 3. Le scarpe rotte. Come oggetto fantastico non sono meno produttive della scopa e dei regali; per esempio, si potrebbe immaginare una Befana che vuole a tutti i costi comprarsi un paio di scarpe nuove, oppure dei bambini che gliele regalano la notte del 6 gennaio, ecc. 26. L’omino di vetro Dato un personaggio, reale o immaginario, le sue avventure potranno essere logicamente dedotte dalle sue caratteristiche. Prendiamo un uomo di vetro: egli dovrà agire, muoversi, contrarre relazioni, subire incidenti e provocare eventi solo obbedendo alla natura della materia di cui lo immaginiamo fatto. L’analisi di questa materia, quindi, ci offrirà la regola del personaggio:  Il vetro è trasparente, quindi anche l’uomo di vetro lo è; gli si leggono i pensieri in testa, non può dire bugie perché si vedrebbero immediatamente, a meno che non porti un cappello, ecc.  Il vetro è fragile, quindi la casa dovrà essere tutta imbottita; i marciapiedi saranno tappezzati di materassi, sarà proibita la stretta di mano, proibiti i lavori pesanti, ecc.  Il vetro può essere colorato ed è lavabile, quindi si potranno inventare particolari anche sulla base di queste caratteristiche. Ovviamente, un uomo di legno, di carta, di cioccolato, ecc., avrà storie del tutto differenti rispetto a quelle dell’uomo di vetro. In questo campo, quindi, analisi merceologica e analisi fantastica coincidono quasi perfettamente. 27. Pianoforte – Bill Similmente a quanto affermato prima, si muovono anche i personaggi dei fumetti, ciascuno seguendo la logica dell’attributo che lo distingue dagli altri e che è sufficiente a fargli incontrare sempre nuove avventure, o sempre la stessa avventura ripetuta in modi differenti. L’attributo, in questo caso, non è fisico, ma generalmente di natura morale. Paperon de Paperoni, per esempio, conosciuto per essere ricchissimo, avaro e sbruffone, non potrà mai essere protagonista di una storia lontana da queste sue caratteristiche; al massimo, si potranno inventare delle variazioni. Secondo Rodari, inventare e disegnare un fumetto è un esercizio di gran lunga più utile che svolgere un tema sulla festa della mamma o sugli alberi, in quanto comporta l’ideazione di una storia, il suo trattamento, la sua strutturazione e organizzazione in vignette, l’invenzione di dialoghi, la caratterizzazione fisica e morale dei personaggi, ecc. Inoltre, comporta la scelta accurata di un attributo. Per esempio, se volessimo inventare la storia di un cowboy sarebbe banale definirlo coraggioso o bugiardo; forse, sarebbe meglio trovare un oggetto che lo identifichi e, per non essere banali, potrebbe essere un pianoforte. A partire da questo, si potrà poi creare una storia innovativa. 28. Mangiare e “giocare a mangiare” Come scrive Vygotskij, “lo sviluppo dei processi mentali ha inizio con un dialogo, fatto di parole e di gesti, tra il bambino e i genitori. Il pensiero autonomo comincia quando il bambino è per la prima volta capace di interiorizzare queste conversazioni ed istituirle dentro di sé”. Il dialogo di cui parla è in primo luogo un monologo, materno o paterno, fatto di suoni carezzevoli, di incoraggiamenti e sorrisi, di eventi che eccitano di volta in volta il riconoscimento, la sorpresa, ecc. Le madri soprattutto non si stancano mai di parlare al bambino, fin dalle prime settimane di vita, come per tenerlo avvolto in un grembo di parole tenere e calde. Anche collegare una voce ad un volto è un lavoro, è frutto di un’elementare attività mentale; parlando al bambino che ancora non la può capire, quindi, la madre fa comunque una cosa utile perché gli offre compagnia, protezione e calore, ma anche perché procura alimenti alla sua “fame di stimoli”. Il discorso materno è in grado di trasformare in gioco il momento del bagno, del cambio, della pappa, ecc. Alcuni giochi sono stati addirittura istituzionalizzati dalla tradizione; per esempio, durante la pappa è solito dire al bambino di prendere un altro cucchiaio “per la mamma”, “per il papà”, “per la nonna”, “per la zia”, Ma, quali storie possiamo inventare per le marionette e burattini? Le fiabe popolari offrono un repertorio praticamente inesauribile, ma con un’avvertenza: l’introduzione di un personaggio comico è quasi obbligatoria e si rivela sempre produttiva. In generale, due burattini scelti a caso sono un binomio fantastico. Due esercizi fantastici che si possano fare con il teatrino, invece, sono: 1. Sfruttare i materiali offerti dalla televisione, ovvero ciò che consente senza sforzo di creare un’alternativa o un principio di alternativa critica all’ascolto puramente passivo dei programmi; 2. Attribuire dei ruoli nascosti a determinati personaggi, tenendo presente che, inevitabilmente, il padre viene identificato con il re, la madre con la regina, il bambino si sente il principe, la fata è buona, il diavolo racchiude tutte le paure, ecc. In quest’ottica, anche i genitori e gli insegnanti possono decidere di comunicare attraverso burattini e marionette, tenendo presente che comunicare per simboli non è meno importante che comunicare per parole. 33. Il bambino come protagonista Tutte le mamme raccontano ai bambini storie di cui sono protagonisti; questo corrisponde e soddisfa il loro egocentrismo, ma gli adulti ne approfittano comunque a scopo didattico. Secondo Rodari, però, bisognerebbe utilizzare questo gioco per mettere il bambino in situazioni piacevoli, per fargli compiere imprese memorabili e per presentargli un futuro di soddisfazioni e compensi, coscienti che la vita non sarà mai come nelle fiabe. Questo serve affinché il bambino faccia provvista di ottimismo e di fiducia, per sfidare la vita; inoltre, anche l’utopia ha un valore educativo: se non sperassimo, a dispetto di tutto, in un mondo migliore, chi ce lo farebbe fare di andare dal dentista? In questo tipo di storie, la madre ripropone al bambino la sua esperienza e la sua persona come oggetto, lo aiuta a chiarirsi il suo posto tra le cose e ad afferrare le relazioni di cui è al centro: per conoscersi bisogna potersi immaginare. Questo meccanismo di dare il nome di un bambino o di un ragazzo al protagonista permette di introdurre nelle storie messaggi, con la certezza che essi arrivino a destinazione. 34. Storie “tabù” Rodari chiama tabù un certo gruppo di storie che, personalmente, trova utile raccontare ai bambini, ma di fronte alle quali molti arricciano il naso. Esse rappresentano un tentativo di discorrere col bambino di argomenti che lo interessano intimamente, ma che l’educazione tradizionale relega in genere tra le cose di cui non sta bene parlare; si tratta, per esempio, delle funzioni corporali, della curiosità sessuale, ecc. L’autore ritiene che bisognerebbe parlare di queste cose in piena libertà, e non solo in termini scientifici, sia a scuola che in famiglia. Il problema è che la parte di opinione pubblica che rispetta i tabù fa presto ad accusare di oscenità, a far intervenire le autorità scolastiche, a sventolare il codice penale, ecc. Le fiabe popolari, invece, sono estranee ad ogni ipocrisia; nella loro libertà narrativa, infatti, non esitano a far uso di quello che si chiama “gergo escrementizio”, a suscitare il riso cosiddetto “indecente”, a dar notizia chiara di rapporti sessuali, ecc. Possiamo far nostro quel riso, non indecente, ma liberatorio? Rodari pensa proprio di sì e afferma che i bambini ne hanno ancora più bisogno degli adulti; niente come il riso, infatti, può aiutarli a sdrammatizzare, a equilibrare le proprie relazioni con l’argomento, a uscire dalla prigione delle impressioni inquietanti, e via dicendo. Anche solo parlare della “cacca” potrebbe esorcizzare quelle preoccupazioni che il bambino prova e che, culturalmente, sono connesse all’utilizzo del vasino, ecc. 35. Pierino e il pongo Rodari racconta una breve storia, inventata da un bambino, in cui Pierino, giocando con il pongo, tira addosso ad un diavolo la sua cacca, lasciandolo “tutto sporco di merda”. L’autore fa notare che l’uso del linguaggio escrementizio può avere una funzione liberatoria; il bambino, messo in condizione di esprimersi senza censure, si affretta ad usare questa libertà per i suoi fini, cioè per esorcizzare qualche senso di colpa connesso con l’apprendimento delle funzioni corporali. Si tratta di parole proibite, che non stanno bene e che non bisogna dire, secondo il modello culturale familiare: pronunciarle significa dunque rifiutare di subire quel modello repressivo, rovesciare nel riso il senso di colpa. Parlando della creazione letteraria, Jakobson ha osservato che “la funzione poetica proietta il principio di equivalenza dall’asse della selezione (verbale) all’asse della combinazione”. La rima, per esempio, può scoprire equivalenze sonore e imporle al discorso: il suono precede il significato. E questo accade anche nell’invenzione infantile. Ma ancora prima dell’asse della selezione verbale, in Pierino e il pongo noi vediamo proiettarsi quello dell’esperienza personale: nel caso specifico, il gioco del pongo e il modo stesso in cui viene vissuto dal bambino. La storia, infatti, ha la forma del monologo, con cui il bambino accompagna il gioco di modellare figurine; nel racconto, quindi, il linguaggio assume in pieno la sua funzione simbolica, rifiutando il supporto materiale del gioco. Si tratta di una fase avanzata di dominio sulla reale, un rapporto più libero con i materiali; è un momento di riflessione che va al di là del gioco ed è già una forma di razionalizzazione dell’esperienza, un avvio all’astrazione. Intorno al pongo vediamo poi articolarsi gli altri riferimenti all’esperienza del bambino, ai personaggi del suo mondo e a quelli del suo mito. Tali elementi appaiono combinati per coppie, secondo il principio del binomio fantastico; il pongo si oppone alla cacca, il cowboy all’indiano, e così via. Anche il diavolo si sdoppia in buono e cattivo, così come la cacca, chiamata così la prima volta, ma la seconda “merda”, in un crescendo dal nome infantile al nome adulto e accompagnata da una crescita di fiducia del bambino in sé stesso. Per concludere, alcuni hanno criticato la storia, sostenendo che nell’incontro con il diavolo il pongo non ci sia più e che, quindi, non segua più una logica. In realtà, il pongo la cacca sono la stessa cosa; il bambino ha condensato le due immagini secondo la cosiddetta legge della condensazione onirica. Nessun errore, anzi la logica della fantasia è stata pienamente soddisfatta. 36. Storie per ridere Quando il bambino vede la mamma infilarsi il cucchiaio nell’orecchio anziché in bocca, ride perché “la mamma sbaglia”: è adulta, eppure non sa adoperare il cucchiaio nel modo giusto, secondo le regole. Questo “riso di superiorità” è tra le prime forme di riso di cui il bambino è capace; il fatto che la mamma abbia sbagliato apposta non fa la minima differenza. Se la mamma, dopo aver ripetuto due o tre volte quel gesto, lo varierà portandosi il cucchiaio al naso, il riso di superiorità sarà rafforzato da un “riso di sorpresa”. Gli psicologi potrebbero notare come anche questo sia uno strumento di conoscenza, giocato sull’opposizione tra uso corretto e uso errato del cucchiaio. La più semplice possibilità di inventare storie comiche nasce proprio dallo sfruttamento dell’errore; inoltre, dai gesti sbagliati nascono poi le storie propriamente dette, alle quali vengono fornite intere falangi di personaggi sbagliati. Tuttavia, bisogna stare attenti ad un aspetto particolare del riso di superiorità: se non lo si tiene d’occhio, esso può assumere una funzione conservatrice e allearsi al conformismo. Affinché quel riso abbia una funzione positiva, quindi, bisogna che la sua freccia colpisca piuttosto le idee vecchie, la paura di cambiare e il bigottismo della norma; i personaggi sbagliati, quelli anticonformisti, devono avere successo nelle storie e la loro disobbedienza alla natura o alla norma deve essere premiata. Una varietà di personaggi sbagliati è rappresentata dai nomi buffi; ad esempio: “il signor Portapignatte abitava in un paese chiamato Pentolino”. In questo caso, è il nome stesso a suscitare la storia, nel momento in cui il significato banale del nome comune viene amplificato e proiettato sul piano più nobile del nome proprio. Gli effetti comici suscitati dalla sorpresa si possono ricavare dall’animazione delle metafore del linguaggio. Già Sklovskij notava che alcuni racconti erotici del Decamerone non erano altro che gli sviluppi di metafore popolari per definire fatti sessuali (es. “il diavolo all’inferno”). Anche nel linguaggio corrente noi usiamo molte metafore, ormai consumate; parliamo di orologi che “che spaccano il minuto” e nel farlo non proviamo alcuna sorpresa perché abbiamo già usato o sentito usare quell’immagine cento volte. Per il bambino, invece, può essere nuova e potrebbe pensare che con “spaccare” si intenda davvero “fare a pezzi”. La lingua di ogni giorno e il vocabolario sono pieni di metafore che aspettano solo di essere prese alla lettera e sviluppate in una storia, tanto più che all’orecchio dei bambini anche molte parole comuni rilevano ancora intatta l’originaria metafora; per esempio, si potrebbe raccontare una storia di un orologio che, oltre a spaccare il minuto, spacca anche la legna, le pietre e distrugge tutto. Un altro meccanismo produttivo potrebbe essere quello di inserire violentemente un personaggio banale in un contesto straordinario, o viceversa. I bambini sono molto pronti nello sfruttamento di questo meccanismo; di solito se ne servono per dissacrare i vari tipi di autorità che sono costretti a subire: fanno piombare il maestro in una tribù di cannibali, in una gabbia dello zoo, in un pollaio, ecc. Infine, può avvenire il rovesciamento totale e violento della norma, meccanismo facile da usare e gradito ai bambini. In questo caso, l’esorcizzazione della paura avviene attraverso un “riso di aggressività” e un “riso di crudeltà”, per il quale i bambini sono sempre disponibili, ma che presenta i suoi pericoli. 37. La matematica delle storie La famosa novella del Brutto anatroccolo di Andersen, cioè del cigno capitato per errore in un branco di anatre, può essere tradotta in termini matematici nell’avventura di un elemento A, capitato per errore nell’insieme degli elementi B, che non trova pace fino a quando non rientra nel suo insieme naturale. Il fatto che Andersen non abbia potuto pensarla in termini di insiemistica non ha importanza; a sua insaputa, infatti, la storia è comunque un esercizio di logica ed è difficile rintracciare un confine tra le operazioni della logica fantastica e quelle della logica senza aggettivi. Il bambino che ascolta o legge la novella, passando dalla tenerezza all’entusiasmo e scoprendo nel destino del protagonista una sicura promessa di trionfo, non può accorgersi del fatto che la novella stampa nella sua mente l’embrione di una struttura logica. Ma la domanda è questa: è lecito battere il percorso inverso, partire da un ragionamento per trovare una favola, utilizzare una struttura logica per un’invenzione della fantasia? Rodari risponde di sì. Per esempio, si si racconta ai bambini la storia di un pulcino smarrito che va in cerca della mamma e dapprima crede di riconoscerla in un gatto, poi in una mucca, in una motocicletta, in un trattore… e infine incontra la chioccia che lo stava cercando e che sfoga su di lui la sua ansia con quattro scapaccioni, ci si ricollega fondamentalmente ad uno dei loro bisogni profondi, ossia quello di avere ogni momento la sicurezza di ritrovare la madre. Attraverso questa storia, si toccano certi meccanismi del riso, ma al tempo stesso si mettono in moto nella mente dei bambini processi essenziali alla fabbricazione di strumenti conoscitivi. Infatti, ascoltando, essi si esercitano a classificare, a costruire insieme possibili e ad escludere insiemi impossibili; immaginazione e ragionamento, nel loro ascolto, fanno tutt’uno. Un altro esempio di storia, può essere quella che Rodari intitola “Il gioco di chi sono io”. Il bambino domanda alla madre “chi sono io?” e lei gli risponde “mio figlio”; alla stessa domanda, però, persone diverse daranno risposte diverse (es. “sei mio nipote”, “sei un mio amico”, ecc.). Questo permette al bambino di esplorare gli insiemi di cui fa parte, facendogli vivere un’avventura eccitante; l’operazione che egli compie è di ordine logico e l’emozione ne costituisce un rafforzamento. L’operazione mentale forse più difficile per i bambini è quella che porta a capire che A più B è uguale a B più A; infatti, se chiediamo ad un bambino “tu hai un fratello?” e lui risponde di sì, nella maggior parte dei casi, dopo avergli chiesto “e tuo fratello ha un fratello?”, ci risponderà di no. In questo caso, può essere che a questi bambini non siano state raccontate un numero sufficiente di storia magiche che producessero con la stessa facilità certe operazioni e le operazioni contrarie. Storie del genere sono importanti proprio perché possono aiutare la mente a fabbricarsi lo strumento della reversibilità. In sostanza, ci sono storie che possono aiutare i bambini a comprendere anche meccanismi matematici: distinguere addizioni corrette e addizioni impossibili, piuttosto che classificare verso il più piccolo o verso il più grande. Fondamento di ogni attività scientifica è la misurazione. Esiste un gioco per bambini, chiamato il gioco dei passi, in cui colui che comanda il gioco ordina ai suoi compagni, di volta in volta, di fare “tre passi da leone”, “un passo da formica”, “un passo da gambero”, “tre passi da elefante”, ecc.; così, lo spazio del gioco è continuamente misurato e rimisurato, creato e ricreato da capo secondo diverse unità di misura fantastiche. Per concludere, la tecnica esecutiva per inventare storie dal contenuto matematico non diverge da quella già illustrata in relazione alle altre storie, a patto che venga servita con fedeltà. da ragioni di simmetria fantastica. Avendo assistito ad un avvenimento magico in una direzione, infatti, l’immaginazione, senza saperlo, resta in attesa che si compia l’avvenimento magico opposto. 43. Giochi in pineta Rodari racconta per filo e per segno il gioco di due bambini in una pineta, che lui osserva dalla finestra; fa notare alcuni dettagli: 1. Nei giochi, il tempo non corrisponde a quello reale; in 5 minuti i bambini sono “andati a dormire” e si sono “risvegliati”. 2. Mentre i bambini giocano, c’è un continuo andirivieni tra livello dell’esperienza e livello dell’invenzione. 3. Attraverso i giochi, i bambini possono fingere di fare cose proibite nella realtà (es. bere una birra). 4. Un solo oggetto può assumere diverse funzioni, permettendo di compiere giochi differenti. L’intento di Rodari è quello di dimostrare che ciò che è stato affermato in precedenza sull’asse dell’ascolto e della lettura, è valido anche per l’asse del gioco. 44. Immaginazione, creatività, scuola Le parole “immaginazione” e “fantasia” sono a lungo appartenute in esclusiva alla storia della filosofia; la psicologia, infatti, ha cominciato ad occuparsene solo da pochi decenni. Questo permette di capire come non ci si debba meravigliare se l’immaginazione, nelle nostre scuole, è ancora trattata da parente povera, a tutto vantaggio dell’attenzione e della memoria. Nelle loro lingue, gli antichi non possedevano due parole per distinguere l’immaginazione dalla fantasia e per assegnare loro funzioni diverse; bisogna arrivare al ‘700, con Wolff, per imbattersi in una prima distinzione tra la facoltà di produrre percezioni delle cose sensibili assenti e la capacità di produrre, mediante la divisione e la composizione delle immagini, l’immagine di una cosa mai percepita dal senso. Tuttavia, dobbiamo a Hegel l’impianto definitivo della distinzione tra i due termini; entrambi sono, per lui, determinazione dell’intelligenza: l’unica differenza è che l’intelligenza come immaginazione è semplicemente riproduttiva, mentre come fantasia è creatrice. Così nettamente separate e gerarchizzate, le due parole servono a sancire una differenza quasi razziale tra il poeta, capace di fantasia creatrice, e l’uomo comune, capace solo di immaginazione, che gli serve a scopi meramente pratici. La fantasia in serie A e l’immaginazione in serie B… Oggi, né la filosofia né la psicologia riescono a vedere differenze radicali tra immaginazione e fantasia. Usare i due termini come sinonimi non è più un peccato mortale e questo è avvenuto grazie, soprattutto, a Russel e Sartre. L’unica distinzione può forse riguardare la fantasia e la fantasticheria: la prima costruisce con il reale e sul reale, mentre la seconda evade dal reale. Questo, ovviamente, non significa che la fantasticheria sia del tutto da buttare. Inoltre, oggi un buon manuale di psicologia può dare più informazioni sull’immaginazione di quante ne abbia date l’intera storia della filosofia; per affrontarle in relazione al mondo infantile, però, bisogna leggere almeno Piaget, Wallon o Brunner. Rodari trova due grandi pregi anche nel testo Immaginazione e creatività nell’età infantile di Vygotskij: innanzitutto, descrive con chiarezza e semplicità l’immaginazione come modo di operare della mente umana, poi riconosce a tutti gli uomini, e non a pochi privilegiati o selezionati, una comune attitudine alla creatività, rispetto alla quale le differenze si rivelano perlopiù un prodotto di fattori sociali e culturali. La funzione creatrice dell’immaginazione, quindi, appartiene all’uomo comune come allo scienziato e al tecnico: è condizione necessaria sia per le scoperte scientifiche, che per la creazione delle opere d’arte, che alla vita quotidiana. Vygotskij sostiene anche che il gioco non sia un semplice ricordo di impressioni vissute, ma una rielaborazione creatrice di esse, un processo attraverso il quale il bambino combina tra loro i dati dell’esperienza per costruire una nuova realtà, rispondente alle sue curiosità e ai suoi bisogni; ma, proprio perché l’immaginazione costruisce solo con materiali presi dalla realtà, è necessario che il bambino, per nutrire la sua immaginazione e applicarla a compiti adeguati, possa crescere in un ambiente ricco di impulsi e di stimoli. Rodari ribadisce che la presente Grammatica della fantasia non è né una teoria dell’immaginazione infantile, né una raccolta di ricette, ma si tratta di una proposta da mettere accanto a tutte le altre che tendono ad arricchire di stimoli l’ambiente in cui il bambino cresce. Questo perché la mente è una sola e la sua creatività va coltivata in tutte le direzioni; le fiabe non sono tutto quel che serve al bambino, però servono alla matematica come la matematica serve a loro, servono alla poesia, alla musica, all’utopia e all’impegno politico: insomma, all’uomo intero e completo e non solo al fantasticatore. La società ha bisogno di uomini creativi, che sappiano usare il pensiero divergente. Dunque, serve sapere di più anche sulla creatività. Un buon chiarimento al concetto si può trovare nel libro di Marta Fattori intitolato Educazione e creatività, in cui sono illustrate, commentate e criticate, recenti ricerche americane. Creatività è sinonimo di pensiero divergente, cioè capace di rompere continuamente gli schemi dell’esperienza; è creativa una mente sempre al lavoro, sempre a far domande, a scoprire problemi dove gli altri trovano risposte soddisfacenti, a suo agio nelle situazioni fluide nelle quali gli altri fiutano solo pericoli, capace di giudizi autonomi e indipendenti, che rifiuta il codificato e che manipola oggetti e concetti senza lasciarsi inibire dei conformismi. Tutte queste qualità si manifestano nel processo creativo, e questo processo ha un carattere giocoso. Anche Marta Fattori dice che tutti possono essere creativi, a patto di non vivere in una società repressiva, e che è possibile un’educazione alla creatività. Schiller sostiene che l’attività artistica possa realizzare e sviluppare nel bambino un modo di esperienza integrale; inoltre, egli intuisce che per sviluppare il pensiero logico non c’è bisogno di sacrificare l’immaginazione, anzi. In tutto questo, il maestro si trasforma in un animatore, in un promotore di creatività, non è più colui che trasmette un sapore bello e confezionato e non è più un semplice amministratore, ma un adulto che sta con i ragazzi per esprimere il meglio di sé stesso, per sviluppare anche in sé stesso gli abiti della creazione, dell’immaginazione e dell’impegno costruttivo in una serie di attività che vanno ormai considerate alla pari: quelle di produzione pittorica, plastica, musicale, affettiva, morale, conoscitiva, ludica, ecc. Nessuna gerarchia di materie e, in fondo, una materia unica: la realtà, affrontata da tutti i punti di vista. Di conseguenza, il ragazzo non sarà più un consumatore di culture e di valori, ma un creatore e produttore di valori e di cultura.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved