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Guida alla storia romana di Guido Clemente, parte repubblicana., Sintesi del corso di Storia Romana

Riassunto completo della parte repubblicana del testo di Guido Clemente. Dalle origini italiche alla battaglia di Azio del 31 a.C.

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017

In vendita dal 09/08/2017

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Scarica Guida alla storia romana di Guido Clemente, parte repubblicana. e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Le origini italiche L’Italia antica, fra il II e il I millennio a. C., si presentava come una mescolanza di popoli e culture. A distanza di quasi 3.000 anni, le differenze locali sono diventate la caratteristica di un paese divenuto una nazione unita da appena un secolo e mezzo. Per diversi secoli la storia di Roma si è intrecciata con quella dei popoli dell’Italia, infatti, tra il IV e III secolo a. C., la città latina conquistò la penisola, e riuscì a mantenere la sua egemonia in diversi modi fino alla caduta dell’Impero romano d’Occidente. La storia dell’Italia è comunque una storia difficile da ricostruire, questo perché nella tradizione letteraria, formatasi in Grecia, non vi erano idee precise sull’Italia antica (regione marginale rispetto a quella delle grandi civiltà, come i Minoici a Creta, i Micenei in Grecia e le civiltà del Vicino Oriente). In Italia prima del IX secolo a. C. non si usava la scrittura, e quindi le informazioni che abbiamo le dobbiamo ai Greci, i quali per primi parlarono dell’Italia, anche se non sapevano molto, fino a quando i Romani non divennero una grande potenza mediterranea. Esiodo, nella Teogonia, scritta nel VII secolo a. C., raccontava di un Latino, figlio di Odisseo e di Circe, i cui discendenti avevano regnato su tutti i ‘Tirreni’; questi erano gli Etruschi. Può darsi che questo passo sia stato aggiunto successivamente, nel VI secolo a. C., ma ciò dimostra l’attenzione che il mondo greco iniziava a porre sull’Occidente. Vi sono diversi racconti che hanno popolato il Mediterraneo occidentale, soprattutto l’Italia, di eroi greci ai quali si attribuiscono fondazioni di città, come Antenore (fondatore di Padova), Diomede e Filottete presenti sui versanti dell’Adriatico e dello Ionio. I Greci erano abituati a vedere il mondo con aria di superiorità culturale; gli altri popoli, dopo le guerre persiane, erano barbari. La storia antica dell’Italia era perciò un susseguirsi di incontri fra popolazioni greche e indigene. Sappiamo che in Italia si iniziò a scrivere dal IX secolo a. C., anche se la scrittura non aveva la diffusione e la complessità tipica delle altre civiltà del Vicino Oriente e della Grecia; perciò per una ricostruzione delle fasi precedenti ci si è affidati all’ambito archeologico. I dati archeologici ci permettono di risalire alla società, alla struttura economica e ci consentono anche di osservare i mutamenti e le differenze regionali verificatisi nel tempo. Tuttavia, la nostra conoscenza si basa su dati parziali e quindi i dati materiali (tomba, manufatto, monumento, casa) ci danno informazioni su elementi ma non sull’intero quadro e ciò comporta una conoscenza non esaustiva. Per tale motivo la ricostruzione si deve basare sulla premessa metodica della sua ipoteticità per alcuni aspetti importanti, i quali non possono essere ricondotti a un modello capace di spiegare tutto ciò che si vorrebbe sapere di quel mondo. Dalla preistoria alla storia Le civiltà dell’Italia attraversarono una fase di cambiamento e riorganizzazione dalla tarda età del bronzo alla prima età del ferro, nel corso del II millennio. Nell’età del bronzo vi fu un processo di concentrazione e di selezione degli abitati che funzionarono, senza interruzioni, per alcuni secoli. Questi abitati erano organizzati per il controllo e la difesa del territorio. Un caso importante fu quello della civiltà delle “terremare”, un cumulo di terra scura, come quella dove sorsero i primi centri terramaricoli (nella valle Padana ve ne sono molte decine). Queste civiltà avevano l’esigenza di difendersi da inondazioni e aggressioni. Queste comunità non potendo espandersi si chiusero in sé mantenendo scarsi contatti con l’ambiente circostante. Per questo motivo la civiltà terramaricola si esaurì nel XII secolo circa. Nell’Italia centromeridionale, nello stesso periodo, sopravvissero alcuni abitati posti su alture o pianori di difficile accesso che possiamo rintracciare fino al XVI secolo. È difficile ricostruire l’organizzazione sociale di queste comunità primitive; le poche decine di individui che le costituivano erano nuclei familiari, legati da vincoli di parentela e in grado di controllare il loro territorio. Tra la fine del II e l’inizio del I millennio, con l’affermazione dell’età del ferro, la situazione mutò: innanzitutto Nord, Centro e Sud della penisola cominciarono a differenziarsi. Tra il X e il IX secolo a. C. apparve una civiltà, nota come “villanoviana”, che prende il nome dal villaggio di Villanova, presso Bologna, dove per la prima volta fu trovato un insediamento. Questa ebbe grande diffusione e sviluppo in tutta l’area che va dalla Toscana meridionale all’alto Lazio e alla Campania. Fu caratterizzata da capanne e non più da palafitte disposte senza uno schema ordinato e senza opere difensive (come era per le terremare). La necropoli, che prima era a incinerazione, e poi a inumazione, mostrerà un mutamento e ampliamento del corredo funebre, a dimostrazione di una società che si stava differenziando. I villaggi assunsero un carattere definito da molti “protourbano” poiché rappresentava una fase già avanzata di struttura cittadina. Le dimensioni arrivarono a centinaia di ettari e altrettanti furono gli abitanti. Ci si trovò dinnanzi ad un cambiamento significativo, con il verificarsi di una sorta di unione di più comunità, che fece sì che le strutture sociali non fossero più fondate solo su nuclei ristretti, ma su gruppi più ampi in grado di stabilizzarsi sul territorio e di dividersi, almeno in parte, la terra. Forse ebbe origine qui la struttura gentilizia: le gentes, come le chiamavano i Romani, erano gruppi a base familiare, che si riconoscevano in un capostipite ed erano legati dalla comune proprietà della terra e da altri vincoli di natura religiosa. La civiltà villanoviana ebbe, quindi, ampia diffusione, operando come componente essenziale nella formazione di vari contesti culturali. Così, i centri villanoviani sono noti nelle principali località dove poi sorsero le città etrusche. L’affermazione della civiltà villanoviana ebbe diverse conseguenze: l’Italia iniziò a differenziarsi in base al livello e ai tipi di cultura; il Nord rimase estraneo a questa trasformazione, mentre gli insediamenti al Sud furono più piccoli di quelli tirrenici. Nella fascia appenninica e adriatica si stabilirono popolazioni lontane dagli sviluppi protourbani, di pastori seminomadi che praticavano la transumanza (migrazione stagionale delle mandrie e dei pastori che si spostavano da pascoli posti in zone collinari o montane, nella stagione estiva, verso quelli delle pianure, nella stagione invernale). Viene chiamata “civiltà appenninica” dai luoghi in cui si affermò a partire dalla seconda metà del II millennio. Questi pastori usavano oggetti di ceramica di uso comune, tipici della loro attività; inumavano i loro morti nelle tombe a forma di dolmen (un tipo di tomba megalitica preistorica a camera singola. Un megalito è una grande pietra o un insieme di pietre usate per costruire una struttura o monumento senza l’uso di leganti come calce e cemento) e vivevano in villaggi di capanne o in caverne; si spinsero nel Lazio, nel luogo in cui sorse Roma (nel Foro Boario sono stati trovati resti della loro ceramica), e a Sud fino in Puglia e in Campania. I luoghi di diffusione e il tipo di cultura fanno pensare che essi fossero gli antenati di quei popoli italici che agli inizi del I millennio, con l’affermarsi dell’età del ferro, svilupperanno le loro civiltà storicamente note. Un quadro storico I popoli d’Italia che si sviluppano nei secoli successivi sono divisi per lingua e soprattutto per organizzazione sociale e livelli di sviluppo e di ricchezza. I popoli della fascia medio e basso tirrenica si misureranno costantemente con i popoli delle montagne, che guarderanno alle ricche città della costa e si sposteranno continuamente alla ricerca di terre e bottino. Tra l’VIII e il VII secolo l’Italia si mostra divisa in alcune ampie aree culturali: in Toscana, a nord del Tevere e fino all’Arno, vivevano gli Etruschi; in tutta la fascia appenninica, nell’Italia centro-orientale e, a occidente, fino ai confini del Lazio e della Campania vi era un vasto gruppo di popolazioni che parlavano lingue indoeuropee, divise ma con delle caratteristiche comuni, alle quali venne dato il nome di Italici o Osco-Umbri o Umbro-Sabelli, una definizione basata sulla lingua; L’Italia meridionale e la Sicilia iniziano ad essere dominate dalla colonizzazione greca. Oltre a queste, a nord dell’Arno, lungo il Golfo di Genova, e nelle Alpi marittime vivevano i Liguri. Nel Veneto, nella regione intorno al delta padano, i materiali archeologici hanno documentato l’esistenza dei Veneti, indoeuropei la cui civiltà di agricoltori e pescatori si svolse fino alla dominazione romana mantenendo una sua autonomia, rispetto alle popolazioni vicine come i Liguri, gli Etruschi e gli Italici. Lungo la costa tirrenica, dal Lazio alla Sicilia, fu individuata l’esistenza di una civiltà diversa dalle civiltà italiche, che viene chiamata “protolatina”. Questa civiltà rappresenta il risultato di una prima immigrazione di popolazioni indoeuropee nella penisola, intorno agli inizi del II millennio; le aree interessate furono il Lazio, con i Latini come nucleo principale, e subito a nord i Falisci; nella Valle del Garignano troviamo gli Tra l’Appennino e l’Adriatico si stabilirono i Piceni e i Pretuzi, al centro i Vestini e, intorno al massiccio del Gran Sasso, i Peligni, i Marrucini e i Marsi. I movimenti delle popolazioni italiche interferirono con la storia arcaica di Roma. I Sabini, infatti, furono una costante della storia del Lazio arcaico e mantennero una loro individualità culturale per molto tempo dopo la loro sottomissione. Intorno a Roma si stanziarono gli Equi e gli Ernici, dei quali sappiamo poco prima delle lotte con Roma per l’egemonia nel Lazio, e verso la fine del VI secolo si stabilirono i Volsci. Essi approfittarono delle difficoltà in cui versavano gli Etruschi in Campania, tra la fine del VI e gli inizi del V secolo si insediarono fino a sud di Roma, impadronendosi di Terracina, Pomezia, Satricum e Velletri, in quest’ultima venne trovata una tavola del III secolo la cui lingua volsca dimostrava l’avvenuta penetrazione. I Volsci furono tra i nemici più duri di Roma e condussero nel Lazio guerre che lasciarono vaste tracce nella tradizione. Dagli Abruzzi si diffuse la popolazione più vitale tra quelle italiche e che ebbe un maggiore peso nella storia della penisola, i Sanniti. Nel corso del V secolo anch’essi si inserirono nel vuoto lasciato dal crollo degli Etruschi in Campania dopo la battaglia di Cuma del 474, quando furono battuti da Siracusa, e penetrarono nella regione. Qui assunsero il nome di Osci dagli Opici (popolazione appartenente al gruppo protolatino). Una tribù del gruppo sannitico, i Sidicini, occupò Teano; nel 421 fu presa Capua, l’anno dopo Cuma, quindi Suessula, Ercolano, Sorrento, Pozzuoli, Nola; Napoli invece riuscì a rimanere autonoma. La radicata presenza dell’elemento greco, e quindi etrusco, in Campania modificò la civiltà sannita presente nella regione, la quale si differenziò negli ordinamenti politici e nella cultura rispetto ai gruppi sanniti dell’interno. Le popolazioni sannitiche continuarono la loro espansione verso meridione, il gruppo dei Lucani intanto costituì una federazione a sud del Sele, verso Taranto, intorno alla fine del V secolo. Nella metà del IV secolo i Bruzi costituirono un loro Stato in Calabria. Frantumazione politica e contatti culturali Nel corso di alcuni secoli, quindi, l’Italia centrale e meridionale fu occupata da queste popolazioni italiche, le quali si inserirono in ambiti dotati già di proprie tradizioni politiche e culturali. Queste popolazioni non ebbero mai un forte grado di coesione, infatti la frantumazione politica fu favorita dalle condizioni del territorio (non adatto alla creazione di collegamenti stabili) e dall’organizzazione economica e sociale. Le popolazioni italiche intorno all’Appennino centrale erano tribù di montanari che vivevano in villaggi sparsi, uniti fra loro in federazioni che non prevedevano magistrati federali. Il santuario era un forte elemento di coesione, ciò lo apprendiamo dal grande complesso di Pietrabbondante, nel Molise. Le attività principali in questi villaggi erano legate alla pastorizia e all’agricoltura, mentre le tribù che entrarono in contatto con Greci ed Etruschi si svilupparono in ambito commerciale e artigianale: a Capua sono note le fabbriche di ceramica. Un elemento di coesione fu quello della lingua che, nonostante le numerose varietà locali, mantenne delle caratteristiche unitarie. Le singole comunità disponevano di propri magistrati, soprattutto collegiali, che avevano nomi diversi: nelle comunità osche, presso Volsci, Equi, Marsi, Peligni, in Lucania e Campania, è attestato il meddix, che aveva poteri politici, militari e giudiziari; la magistratura era collegiale e in molti casi (Messina, Velletri, Nola, Corfinio) vi è una coppia di meddices. Di questi il più importante era il tuticus; venute in contatto con i Romani le comunità osche assimilarono i meddices ai pretori. Nelle comunità umbre erano conosciuti i marones, coppia di magistrati. Un altro caso è quello delle comunità sabine (Trebula Mutuesca, Amiterno, Norcia) in cui sono presenti gli octoviri. La forma originaria istituzionale delle popolazioni italiche doveva essere stata la monarchia. La fase del governo monarchico non è bene attestata e il processo della sua fine non è documentabile sempre con sicurezza. I “protolatini”, Siculi e Latini, conservarono il nome stesso di re, mentre le popolazioni italiche non ebbero il termine corrispondente. Presso gli Umbri il magistrato unico originario doveva essere stato l’uhtur, il cui nome richiama quello che i Romani definivano auctor (colui che accresce lo Stato). L’uhtur nelle Tavole di Gubbio, fu un magistrato con funzioni religiose, nel cui nome si datavano i decreti. Le pitture tombali sannitiche del V-IV secolo, con scene di vita quotidiane e di guerrieri (celebre la serie di Paestum) sono segni della capacità di assorbimento e di assimilazione di culture e modi di vita diversi da parte delle popolazioni italiche che entravano in contatto con civiltà con una più complessa evoluzione culturale: dal mondo greco gli Italici ripresero i giochi, dagli Etruschi i combattimenti di gladiatori. Di questo mondo italico Roma fu partecipe. Prima e dopo la conquista dell’Italia, essa accolse forme politiche e culturali che furono alla base del suo sviluppo. I greci in Italia L’elemento greco fu presente da molto tempo nella vita italica, infatti i numerosi ritrovamenti di ceramica micenea degli ultimi secoli del II millennio (in Sicilia, in Etruria, in Campania, a Taranto, in Sardegna) documentano la frequentazione della penisola da parte di mercanti provenienti dalla Grecia. Non si può parlare di insediamenti stabili, piuttosto si parla di contatti intensi e continui attraverso gli scali commerciali presenti sulle coste: per esempio, dall’Elba i Micenei importavano metallo. Dagli inizi del I millennio il commercio mediterraneo ebbe tra i protagonisti i Fenici, anch’essi non si insediarono stabilmente in Italia prima dell’VIII secolo, in Sicilia e in Sardegna. Oggetti fenici furono ritrovati nelle ricche tombe etrusche di Cere e Preneste. Anche a Roma i Fenici fecero sentire la loro presenza introducendo, secondo un’ipotesi, nel Foro Boario il culto di Melqart, l’Ercole fenicio identificato probabilmente con quello romano prima della fondazione della città. Dall’VIII secolo i greci iniziarono la loro espansione e colonizzazione (mossi dal bisogno di terre e dall’apertura di strade commerciali) che li portò a fondare una serie di città dal mar Nero al Mediterraneo occidentale. La prima colonia fondata dai Calcidesi dell’Eubea fu Cuma, nella metà dell’VIII secolo, seguirono poi Nasso, Zancle (Messina), Reggio, Leontini, Catania. Con queste si creò una rete di commerci che diede ai Calcidesi la supremazia anche sugli Etruschi nell’estensione degli scambi. I Corinzi furono anche dei commercianti intraprendenti che concentravano le risorse principali in Sicilia e Magna Grecia. Nell’isola fondarono Siracusa, la quale iniziò un processo di espansione con la costruzione di piazzeforti militari dotati di una politica aggressiva nei confronti delle popolazioni indigene. Lungo le coste dello Ionio si cominciarono ad affermare delle colonie dette achee, poiché provenivano dall’Acaia nel Peloponneso: agli Spartani si deve Taranto, quindi le colonie achee furono Sibari, Crotone, Metaponto, Scillezio, Caulonia; i locresi fondarono Locri, Epizefiri, Ipponio e Medma all’estremità della penisola calabra. La colonizzazione aveva spesso delle caratteristiche comuni, ovvero le colonie erano fondate da gruppi di cittadini che avevano l’appoggio della madrepatria, ricevevano l’approvazione dell’oracolo di Delfi ed erano guidate dal fondatore ufficiale (ecista). In generale non mantennero con le città d’origine rapporti politici stretti, ma sentirono i vincoli di civiltà e il patrimonio comune religioso e culturale. Spesso queste elaboravano forme politiche diverse da quelle della madrepatria. La forte presenza greca la possiamo riscontrare nelle numerose divinità greche che entrarono nel pantheon italico: Era, Apollo, i Dioscuri. Di questi ultimi vi è una testimonianza a Pratica di Mare, sul luogo dell’antica Lavinio, dove un complesso religioso, risalente al VII secolo, sembra che associ il culto di Enea a un culto locale. In quel luogo già dal VI secolo erano venerati i Dioscuri, i quali si diceva fossero i protettori della cavalleria aristocratica romana nella battaglia contro i latini al lago Regillo (499-496). Un’altra tradizione (del IV secolo, era una statua di Pitagora nel Foro) legava il pitagorismo, il cui centro era Taranto, alla storia arcaica di Roma, facendo del re Numa, nonostante l’impossibilità cronologica, un allievo del filosofo (Pitagora operò tra il VI e il V secolo, Numa tra l’VIII e il VII secolo). La tradizione antica spesso ha mitizzato le modalità di insediamento delle colonie nei nuovi territori, ritenendole delle operazioni pacifiche verificatesi all’insegna delle buone relazioni con gli indigeni. In realtà vi sono notizie di resistenze contro Taranto, da parte degli Japigi. La produzione ceramica finì verso l’entroterra, tenendosi ai margini e cedendo il passo alla produzione indigena, perciò vi erano segni che testimoniavano la difficoltà dei Greci nel creare dei rapporti stabili con il loro entroterra. La pressione delle popolazioni italiche non fu massiccia in un primo momento. Fu dal VI secolo in poi che le città greche si posero sulla difensiva e crearono le condizioni per degli interventi esterni, effettuati prima da potenze ellenistiche (tra la fine del IV e i primi del III secolo) e poi da Roma. In Sicilia ci fu una situazione diversa; certamente l’espansione di Siracusa fu violenta, il processo di ellenizzazione e gli sforzi di unificazione politica in Sicilia furono maggiori: furono i Greci di Sicilia a battere i Cartaginesi di Imera nel 480, e gli Etruschi di Cuma nel 474, ed è da Siracusa che partirono i tentativi di unificare l’elemento greco in Italia, da Dionigi nel V-IV secolo ad Agatocle negli anni tra il IV e il III secolo. La presenza cartaginese fu un continuo confronto per i Greci di Sicilia, i quali si contesero con i Punici il controllo di ampie zone dell’isola, senza arrivare mai ad una soluzione definitiva prima della comparsa dei Romani. Questo fu il mondo composito dal quale Roma, nei primi secoli della sua storia, maturò esperienze decisive sul piano politico e culturale. I caratteri dell’Italia arcaica La penisola, tra l’VIII e il IV secolo, fu un miscuglio di popoli e culture diverse, percorsa da conflitti dovuti agli spostamenti delle popolazioni ancora pastorali verso le aree urbanizzate e ricche abitate da Etruschi e Greci soprattutto. Fin dai secoli finali del II millennio le popolazioni degli Appennini scesero a valle, lungo il Tevere. Più tardi, inizi dell’VIII secolo, Greci e Fenici frequentarono gli empori sulle coste tirreniche; erano presenti a Roma, in Etruria, a Gravisca, nel Lazio e altrove. Il modello era quello della frequentazione commerciale intorno a un santuario. I Greci e i Fenici crearono gli empori, introdussero l’alfabeto, e numerosi miti e leggende si diffusero tra i popoli italici, che li accolsero e li trasformarono in modi diversi. La penisola, quindi, fu inserita nel contesto di una vicenda che riguardava tutto il Mediterraneo occidentale, una storia che condurrà all’egemonia di Roma dopo secoli di guerre. Le origini di Roma Solo dopo cinque secoli dalla sua fondazione i Romani iniziarono a scrivere la loro storia. Una sorta di risposta a quanto circolava fra i Greci d’Occidente, i quali, di fronte alla conquista da parte dei Romani della Magna Grecia e alla sconfitta di Pirro nel 275 a.C. (l’ultimo re ellenistico che tentò l’avventura occidentale), dovettero occuparsi seriamente della città latina. Il primo fu Timeo, un greco di Taormina (356-260) che scrisse una storia dell’Occidente e una sulla guerra di Pirro, storie andate perdute ma che subirono diverse critiche perché conferivano a Roma responsabilità pesanti riguardo le conquiste ottenute. Sicuramente egli diede anche una sua versione su Romolo e Remo, parlò degli antichi riti, quindi può essere ritenuto come un tentativo di raccontare la storia di Roma tra Greci e Punici. Per fare questo si servì delle notizie che circolavano tra i Greci e gli Italici sull’origine di questa città. I Greci sapevano poco e non erano molto interessati, però frequentarono l’Italia dai tempi dei Micenei e vi si erano poi stabiliti. Quando si preoccuparono di inserire i popoli italici nel loro orizzonte culturale vi inserirono anche Roma. Iniziarono a circolare miti e leggende che legavano la città al ciclo dei nostoi e alla guerra di Troia. Si affermò la figura di Enea che iniziò ad entrare, accanto ad altri, nella saga della città latina; Antioco di Siracusa, nel V secolo, collegò Siculo, l’eroe eponimo dei Siculi, a Roma, dove si rifugiò presso Morgete (successore di Italo); un altro siciliano, il poeta Stesicoro, tra il VI e il V secolo, ricordò il viaggio di Enea; alla fine del V secolo Ellanico di Mitilene fu il primo che scrisse che Roma fu fondata da Enea e Odisseo. Altri eroi greci comparvero presto nel Lazio e a Roma: come Eracle, che era presente con un suo culto nel Foro Boario, prima che la città venisse fondata. Il Foro, luogo del mercato del bestiame, presso l’isola Tiberina, dove il Tevere era guadabile, doveva essere frequentato e protetto da Eracle che aveva sottratto a Gerione le sue mandrie. Lo stesso Ercole, nel Lazio, aveva liberato il mite re Evandro, l’arcade, dal gigante Caco. Perciò i Romani, quando iniziarono a scrivere di storia (negli ultimi decenni del III secolo), avevano alle loro spalle una lunga tradizione che i Greci avevano elaborato in vario modo. Per i Greci Roma, così come gli altri popoli e città dell’Italia, era collegati ad essa, infatti Omero scrisse che i discendenti di Enea un giorno avrebbero regnato sui Troiani, i quali però non esistevano più dopo la distruzione della loro città, l’unico che sopravvisse fu Enea che divenne uno dei protagonisti del viaggio verso Occidente dei reduci. I nuovi Troiani furono così i Romani. I primi storici romani scrissero in greco e furono membri della classe dirigente, senatori che partecipavano in maniera attiva alla vita politica della città. Il primo fu Fabio Pittore, esponente della grande famiglia patrizia dei Fabi. Egli combatté nella seconda guerra punica, fu ambasciatore all’oracolo di Delfi, nel 216, dopo il disastro di Canne e scrisse gli Annali (la storia della città dalle origini fino agli inizi della guerra annibalica). Egli scrisse seguendo la visione del ceto al quale apparteneva, quindi si può dire che la storia nacque a (l’asilo come diritto di ospitalità). Così giunsero a Roma i Sabini, già presenti da un’epoca remota. Filippo V, re di Macedonia, fu sconfitto da Roma fra il III e il II secolo a. C., e tenne un discorso ai suoi alleati ai quali dimostrava la superiorità romana con la sua apertura agli altri. Al contrario, i Greci una volta sconfitti i Persiani considerarono tutti gli altri stranieri e barbari. Gli ordinamenti sociali delle origini Gli istituti fondamentali della società arcaica erano: la gens e la familia. La gens era costituita da gruppi di famiglie che riconoscevano un comune antenato dal quale derivava il nome dei suoi membri, gentiles (per esempio Fabi o Corneli) e praticavano culti comuni (i sacra). La gens aveva un suo territorio che possedeva collettivamente; pur non praticando l’endogamia (matrimonio tra individui di uno stesso gruppo sociale), i gentiles avevano bisogno di speciali procedure per sposarsi fuori dal gruppo: la gentis enuptio, ovvero il matrimonio fuori dalla gens, che richiedeva l’autorizzazione, la rinuncia ad appartenere ad una gens, la detestatio sacrorum (disconoscimento, da parte della sposa, dei diritti sacrali che la tenevano legata alla famiglia paterna), l’adozione di un membro estraneo, cioè l’adrogatio (istituto del diritto di famiglia attraverso cui un cittadino poteva assumere sotto la sua potestas un altro cittadino libero consenziente che diveniva il filius familias), la forma solenne di testamento; queste procedure avvenivano di fronte al popolo, riunito nell’assemblea delle curie. Allo stesso tempo la gens organizzava la sua difesa, considerando che essa controllava un determinato territorio. Basta ricordare il celebre episodio dei Fabi che, nel 477 a.C., furono sterminati presso il fiume Cremera, tutti tranne uno, con i loro clienti, combattendo contro Veio, ha di certo una base storica. Le gens non dovevano avere un capo “istituzionale” permanente, le fonti lo nominano pater gentis, e il suo ruolo è limitato ad alcuni episodi, come la guida ad un gruppo che si sposta. Intorno al 504 il sabino Atta Clausus, con 5000 clienti, si trasferì a Roma dove i gentili ebbero terre, mentre egli stesso, capo della gens (Atta= pater), fu assunto nel Senato, e diede origine alla gens Claudia. Questo episodio dimostra come era disposta la società romana, dotata di un’aristocrazia che riconosceva uguali diritti ai suoi membri, compresi quelli provenienti dall’esterno, i quali rafforzavano il potere di fronte a quelli che vivevano fuori dall’ordinamento gentilizio. La clientela La gens era un’istituzione con un ruolo politico importante, dotata inoltre di una struttura alquanto complessa sul piano sociale: infatti vi erano i gruppi più forti che accoglievano gli individui subordinati, ovvero i clienti. La clientela la possiamo trovare anche presso gli Etruschi. Il rapporto tra patrono e cliente era oggetto, nelle XII Tavole, nella metà del V secolo, di una definizione giuridica. Vi era una norma che prevedeva che il patrono che mancava ai suoi obblighi verso il cliente doveva considerarsi sacer, ovvero maledetto, ed esposto alla vendetta privata poiché non più protetto dalla legge. Il rapporto di clientela si instaurava quando un individuo, il patrono, accettava di accogliere in fidem un altro, il cliente. In questo modo si impegnavano a una serie di obblighi reciproci. Il patrono doveva assistere il cliente con aiuti economici e sostenerlo nelle controversie giudiziarie, nelle quali l’uno non poteva testimoniare contro l’altro. Il cliente, invece, doveva dare il suo aiuto combattendo nell’esercito gentilizio, lavorando per il patrono, sostenerlo nella vita politica, riscattarlo nel caso fosse caduto prigioniero e dargli assistenza economica (come provvedere alla dote delle sue figlie). Per questo motivo il cliente non doveva essere per forza povero, ma era un individuo che, non essendo membro di un clan gentilizio, entrava in questo ordinamento attraverso un rapporto vincolante. L’esigenza di un individuo di cercare la protezione di un altro dimostra una fase dei rapporti sociali tipicamente aristocratica e chiusa, e la protezione di un potente era essenziale per sopravvivere in ambito economico e per avere un riconoscimento giuridico all’interno della comunità. L’ordinamento gentilizio fu un elemento importante, la città fu formata da strutture gentilizie e da gruppi che ne erano fuori che non avevano la capacità di coltivare collettivamente la terra ma erano comunque membri della comunità civica che si andava organizzando e di cui le gentes erano un elemento importante. La famiglia Questo rappresentava un istituto molto forte e comprendeva il pater familias e, sottomessi alla sua potestas, vi erano la moglie, i figli, gli schiavi, i beni come la terra gli attrezzi e il bestiame. Quando una donna si sposava, il marito esercitava la sua potestas sulla persona e sui beni della moglie. Il pater aveva il potere di condannare a morte quelli che erano sottoposti a lui, espellerli dal gruppo, adottarne altri. Anche i figli legittimi dovevano essere accolti nella familia con un atto formale del pater, il quale sollevava il neonato in alto in segno di riconoscimento. Il pater poteva nominare chi voleva come erede, e questa sua potestas era necessaria per mantenere unito il gruppo. La potestas veniva trasmessa trasferendola al nuovo pater familias con un insieme di beni che non si potevano alienare, quelli essenziali alla sopravvivenza del gruppo familiare. La famiglia romana era perciò una unità che svolgeva i compiti elementari ed essenziali di una comunità come il controllo del comportamento dei suoi membri, il controllo della produzione dei beni necessari al mantenimento del gruppo. I Romani furono grandi creatori di diritto, capaci di notevole flessibilità. Mantennero in vita il mos maiorum, un complesso di leggi consolidate dalla consuetudine, patrimonio collettivo della città, ma introdussero anche delle innovazioni che non negavano il fondamento stesso della norma. Già nelle XII Tavole codificarono un’attenuazione della potestas. Il filius familias poteva emanciparsi, ovvero sottrarsi al potere del pater se per tre volte egli lo avesse liberato dalla potestas. La moglie avrebbe potuto sottrarsi alla manus, cioè al potere del marito, se ella avesse interrotto la convivenza per alcuni periodi. Il pater familias, nella sua connotazione originaria, divenne nella città di Romolo un protagonista politico. Infatti i patres formarono il primo Senato, il consilium del re. L’organizzazione della comunità di cittadini La tradizione letteraria attribuisce a Romolo l’introduzione delle prime istituzioni politiche, quelle religiose vengono attribuite al suo successore, Numa Pompilio. La visione secondo cui il popolo romano abbia costruito un impero superiore agli altri, ha una componente ideologica che si fonda comunque nell’effettiva costruzione dell’identità cittadina e della sua struttura politico istituzionale. La monarchia La prima forma di governo fu la monarchia, anche se la tradizione inerente i sette re è stata inserita a posteriori e si formò tardi come lista canonica. L’interrex, il rex sacrorum, la cerimonia del Regifugium, la Regia, si comprendono pensando che Roma fu retta da un re con delle caratteristiche peculiari. L’interrex, nel periodo repubblicano, era nominato quando la morte o l’impedimento simultaneo dei consoli rendevano necessarie nuove elezioni. In questo caso, secondo la formula di rito “auspicia ad patres redeunt” la facoltà di interpretare i segni divini favorevoli per gli atti dei magistrati e del popolo (come la decisione di fare una guerra) tornava ai patres, i senatori. L’interrex, che veniva nominato dai senatori tra di loro, convocava e presiedeva i comizi elettorali. Una cosa fondamentale era la non ereditarietà della monarchia romana, infatti il re era l’espressione dei patres, dei capi delle famiglie che ne formavano il consiglio, e secondo il racconto degli annalisti poteva arrivare al potere anche con la violenza. L’imperium da loro esercitato, aveva un carattere assoluto e unitario che si spiegava solo attraverso una derivazione dal potere regio. Il popolo, depositario del potere, lo trasmetteva al magistrato che lo esercitava in nome della comunità, svolgendo tutte le funzioni di carattere sacro. Questo trasferimento del potere dal popolo al magistrato avveniva ancora in età imperiale con la votazione della legge curiata de imperio, l’atto solenne compiuto da tutto il popolo riunito nelle curie. La funzione sacrale del re, il suo essere tramite tra la divinità e la comunità, è documentata da vari relitti dell’età repubblicana. Il rex sacrorum (re delle cose sacre) presiedeva i comizi curiati e sovrintendeva ad alcune delle cerimonie più importanti. La sua residenza ufficiale era la Regia, nel Foro: molte sue attribuzioni e la sua stessa residenza col tempo vennero assunte dal pontefice massimo, il principale magistrato romano con funzioni sacre. La riduzione ad sacra dell’autorità regia è una procedura che si spiega con l’atteggiamento di non offendere gli dei innovando in materie sensibili, come alcuni riti civici. Per esempio il Regifugium, una cerimonia che aveva luogo il 24 febbraio, durante la quale il rex sacrorum fuggiva improvvisamente dal comitium, l’assemblea del popolo, dopo aver celebrato un sacrificio. Gli antichi interpretavano questa fuga come un ricordo della cacciata dei Tarquini; in realtà rappresentava la fine dell’anno e l’inizio del nuovo ciclo, con le attività agricole e militari. Questo ci riporta ad un’altra delle funzioni regie: la definizione del calendario, che il re compiva come capo religioso. La cerimonia si verificava in un clima di religiosità primitiva: ricevuti gli auspici favorevoli, il primo giorno del mese un calator (calare=chiamare) convocava il popolo nel comizio, e a esso il re annunciava i giorni fasti e nefasti; solo nei primi era possibile convocare le assemblee e amministrare la giustizia. In due giorni poi (24 marzo-24 maggio) nel calendario appariva la dicitura QRCF (Quando Rex Comitiavit Fas) che allude alla facoltà del re di rendere fasto un giorno normalmente nefasto, anche se è difficile spiegare il significato di “Comitiavit”. La figura del re, nonostante sia soggetta alla scelta da parte dei capi della comunità aristocratica, aveva funzioni di natura antichissima che lo differenziavano dal monarca “costituzionale”: rappresentava infatti l’espressione della concezione sacrale dell’esercizio del potere, in una società che legava al volere della divinità la legittimità dei suoi atti; il re ne era l’intermediario e il garante, e questa connotazione della funzione regia è necessaria per comprendere gli sviluppi del potere ottenuti dai suoi successori, i magistrati repubblicani; essa trascende le categorie moderne di monarchia assoluta o elettiva. Il compimento delle funzioni di governo del re ebbe il suo limite nella natura dell’ordinamento gentilizio, che aveva una sua capacità di azione autonoma. I reati la cui definizione risale all’età monarchica, la perduellio (delitto contro lo Stato, per esempio l’alto tradimento e l’attentato all’ordine costituito dello Stato) e il parricidium (omicidio di un parente, ascendente o discendente), mostrano una presenza del ruolo della gens e del re. La perduellio, il delitto per tradimento, la ritroviamo nella disputa tra Orazi e Curiazi. Il re Tullo Ostilio, intervenne per punire uno degli Orazi, colpevole di aver ucciso la sorella: un affare interno alla gens, per la cui definizione il re si sarebbe affidato a suoi ausiliari, i duumviri perduellionis (corpo di funzionari subordinati al rex, ai quali spettava il compito di istruire i giudizi in tema di perduellio, e quello di uccidere, a colpi di bastone, il colpevole). Il parricidium, di cui si occupavano i quaestores parricidii, era un reato che riguardava l’uccisione di un uomo libero; le sanzioni avevano un carattere espiatorio che metteva in evidenza il fondamento religioso della giustizia arcaica, il cui processo di laicizzazione fu assai lento. Oltre alla sanzione religiosa di cui il re era l’esecutore, le sue funzioni dovettero compiersi nell’esercizio di un arbitrato fra i gruppi aristocratici, e poterono agire come limite alla concezione assoluta dell’esercizio della patria potestas, affermandosi come potere esterno ad essa e quindi modificandola a vantaggio degli interessi di una comunità più larga. Più difficile era stabilire se e in che modo il re legiferava. Importante, in questo caso, è la Lapis Niger, la pietra nera trovata nel Foro, del VI secolo, con una iscrizione contenente norme relative al rex e agli auspici, legati a una sua azione. I Romani conoscevano una raccolta di leggi regie, ma è difficile stabilirne l’autenticità. È attraverso la complessa natura della monarchia originaria romana che si può comprendere la sua evoluzione. Il senato La struttura aristocratica della società romana si esprimeva nell’assemblea dei patres familias, che aveva come compito importante la scelta del re e formava il suo consilium. Romolo scelse cento esponenti delle famiglie più in vista; anche il consiglio dei capi aristocratici era un elemento comune a molte società arcaiche e rappresentava un fattore di coesione dei gruppi familiari autonomi che si riconoscevano come comunità di villaggio e poi cittadina. Il Senato, in età monarchica esprimeva l’interrex (quando veniva a mancare il potere supremo dello Stato romano, questo veniva esercitato da un interrex per un periodo limitato) e deteneva gli auspicia, indispensabili per il conferimento dell’imperium al nuovo re. Era, perciò, una funzione importante, tipica di un ordinamento gentilizio; gli aristocratici sceglievano il capo e il popolo gli trasferiva il potere, che consisteva nelle funzioni essenziali per la vita della comunità. Il re sceglieva il suo consiglio, e anche in età repubblicana, fino al IV secolo, questo potere fu esercitato dai consoli. Questa scelta non dovette mai essere arbitraria, perché non poteva non tenere conto della struttura aristocratica della società. Del Senato, in età monarchica, sappiamo poco, ma la sua istituzione come luogo in cui si esprimeva una ristretta cerchia di capi della comunità fu un principio che rimase come fondamento di una società sostanzialmente aristocratica. L’organizzazione della popolazione: curie, comizi, tribù accettarono questa proposta rifiutando di proporre un nome. Numa fu quindi eletto secondo re di Roma. A lui non è ascritta nessuna guerra, anzi gli vengono attribuite una serie di riforme che servirono a consolidare le istituzioni religiose. Sulla base di queste norme di carattere religioso, i culti cittadini erano amministrati da otto ordini religiosi: i Curiati, i Flamini, i Celeres, le Vestali, gli Auguri, i Salii, i Feziali e i Pontefici. Numa volle unificare e armonizzare tutti i culti e le tradizioni dei Romani e dei Sabini residenti a Roma. Nominò, accanto al Sacerdote dedito al culto di Giove e a quello dedito al culto di Marte, un terzo Sacerdote dedicato al culto del dio Quirino (dio romano delle curie). Riunì poi i tre sacerdoti in un unico collegio detto dei “Flamini”. Proibì ai Romani di venerare le immagini divine a forma umana, poiché riteneva fosse una cosa sacrilega. Istituì il collegio dei Pontefici che era presieduto dal Pontefice Massimo, carica che Numa ricoprì per primo, e che aveva il compito di vigilare sulle Vestali e sulla moralità pubblica e privata. Istituì il collegio delle Vergini Vestali che si dedicavano alla cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città (sacerdotesse consacrate alla dea Vesta, ovvero la dea del focolare domestico, venerata in maniera privata. Il culto consisteva nel mantenere acceso il fuoco sacro nel tempio cittadino. Le sacerdotesse facevano in modo che il fuoco non si spegnesse). Fu creato il collegio dei Feziali (i guardiani della pace) che erano i magistrati-sacerdoti che avevano il compito di appianare i conflitti con i popoli vicini e di proporre la guerra una volta esauriti tutti gli sforzi diplomatici. Venne creato il collegio dei Salii, sacerdoti che avevano il compito di separare il tempo di pace e di guerra (infatti per i Romani il periodo delle guerre andava da marzo ad ottobre). Nel Foro, infine, fece costruire il tempio della dea Vesta e dietro di esso la Regia (in cui si riuniva il collegio dei Pontefici). Lungo la Via Sacra fu edificato il tempio di Giano, le cui porte rimanevano chiuse solo in tempo di pace (e si dice rimasero chiuse durante tutto il suo regno). Tullio Ostilio successe a Numa, e passò alla storia come il codificatore della procedura che regolava le dichiarazioni di guerra, il re guerriero. A lui viene attribuita la distruzione di Alba Longa, evento che portò ad una grande espansione di Roma a discapito delle altre comunità latine. Il culto di Giove Laziale sul monte Cavo, la cima più alta dei colli Albani, riuniva i popoli albenses, dal nome di Alba. L’elenco rifletteva la situazione arcaica del Lazio, narrata da Plinio il Vecchio, lo studioso morto durante l’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C. che ci lasciò anche un importante enciclopedia Storia naturale. L’evoluzione verso la città-Stato nel Lazio non coinvolse i villaggi dei colli Albani che rimasero in una fase economicamente arretrata. Per questo motivo i rapporti tra una città latina, cioè Roma, capace di espandersi, e le altre comunità latine divennero conflittuali. Come vedremo più avanti la presenza della lega latina sarà coinvolta in diverse lotte tra Lazio ed Etruria. Lascia un po’ di sorpresa il modo in cui i Romani registrassero come un “successo” la distruzione di una città che fu strettamente legata alla sua nascita (Alba era la città madre di Roma, secondo la tradizione elaborata dagli stessi Romani sull’origine della città). Le sue guerre vittoriose contro Alba Longa, Fidene e Veio, indicavano le prime conquiste del territorio latino e il primo allargamento del dominio romano. Fu durante il suo regno che avvenne il combattimento tra Orazi e Curiazi, i rappresentanti di Roma e di Alba. Essendosi sviluppate delle controversie tra i due popoli si decise di risolvere il conflitto attraverso una sfida fra tre fratelli gemelli che rappresentavano da una parte Roma (i tre fratelli Orazi) e dall’altra Alba Longa (i tre fratelli Curiazi), i quali si sarebbero affrontati in un duello con la spada. La vittoria andò nelle mani degli Orazi e quindi di Roma. Ostilio si concentrò soprattutto sull’ambito militare, infatti si dice fosse impegnato in diverse guerre che lo portarono a trascurare ogni servizio verso le divinità. Quando la peste si abbatté sui Romani, Tullio ne fu colpito e pregò Giove per avere il suo aiuto, il quale gli rispose colpendolo con un fulmine. Ciò venne visto dai Romani come un avvertimento, e anche come una indicazione a scegliere meglio il proprio re. Il suo successore fu Anco Marzio, il quale, durante il suo regno, fece edificare diverse costruzioni come: la fortificazione del Gianicolo; la fondazione di una nuova colonia Ostia, alla foce del Tevere (ma è una notizia alquanto controversa); la costruzione della via Ostiense (dove per primo organizzò le saline, la zona prese il nome di saline per la presenza di due stagni d’acqua salsa. Il sale era importante per la conservazione dei cibi, costituiva anche il bene con cui venivano pagati i soldati, da qui infatti deriva il termine “salario”); costruì poi uno scalo portuale sul Tevere, “Porto Tiberino” e poi il primo ponte di legno sul Tevere, il “Ponte Sublicio”. I re della dinastia etrusca Con il successore di Anco, Tarquinio Prisco, avrà inizio la dinastia etrusca. Egli cercò di fare di Roma una città vera e propria, perché fondamentalmente era rimasta un gruppo di villaggi governati da un re. Ebbe come obiettivo quello di unire le genti che abitavano questi villaggi e di costruire un polo di aggregazione religioso, perciò avvio la costruzione del tempio di Giove Capitolino, che fungeva da centro religioso per tutta la città. Costruì inoltre un centro di aggregazione sociale, il Circo Massimo, e di aggregazione economica, il Foro Boario, facendo pavimentare e dunque innalzare il luogo in cui si teneva il mercato, in modo da renderlo più agibile. Questo permise un aumento del commercio. Venne avviata anche la costruzione delle mura che furono terminate dal suo successore. Cercò di risolvere anche i problemi della convivenza avviando la costruzione di una struttura igienico-sanitaria in grado di migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Per questi motivi viene definito il costruttore della città nel senso fisico. Si narra che morì per una congiura ordita dai figli di Anco Marzio (che non riusciranno comunque a divenire re, poiché la moglie di Prisco, Tanaquil, fece eleggere il genero Servio Tullio). Il successore fu dunque Servio Tullio, considerato come il codificatore. Se si osserva la tradizione intorno al sesto re di Roma, notiamo come la storiografia romana racconta di un bambino, figlio di una schiava, Ocrisia (un’aristocratica di Ocricoli), che fu fatta prigioniera da Tarquinio Prisco. Servio divenne il prediletto della moglie del re Tarquinio, Tanaquil, soprattutto per i segni miracolosi che avevano accompagnato la sua nascita. Infatti si narra che quando si trovava ancora nella culla gli brillò una fiamma sulla testa. Un’altra versione parla di un legame segreto tra Servio e una divinità che lo proteggeva, secondo il modello della ierogamia (cioè un rito volto ad evocare un matrimonio sacro tra esseri divini o tra uomini e creature sovrannaturali). Quando Tarquinio Prisco fu vittima della congiura predisposta dai figli di Anco Marzio, Tanaquil convinse il popolo a nominare re Servio Tullio. Quest’ultimo, essendo di umili origini, condusse alla costruzione del re “democratico”, asceso al potere per i suoi meriti e antiaristocratico. Egli concluse la costruzione delle mura della città romana, anche se il suo nome fu associato all’ordinamento sociale di Roma, chiamato ordinamento serviano o centuriato, di carattere censitario (legato al reddito e quindi alla ricchezza di ciascun abitante della città). Tale ordinamento militare e politico rappresentò un grande superamento per Roma, e si basava sull’adozione della tattica oplitica (l’oplita era un soldato della fanteria pesante dell’antica Grecia, e tale tattica consisteva nell’avanzata inarrestabile di una schiera compatta di opliti) di derivazione greca. Tutti coloro che avevano un censo sufficiente ad armarsi da opliti, con la pesante e costosa armatura di bronzo venivano chiamati a servire nell’esercito ordinati in centurie, e costituivano la classis. Il censo doveva riferirsi alla terra e al bestiame, poiché i Romani a quel tempo non possedevano un sistema monetario sviluppato, e poi la ricchezza era legata solo all’agricoltura. Quelli che non facevano parte di questa leva formavano gli infra classem. L’ordinamento serviano fu poi modificato, e la versione che conosciamo noi dagli storici di età augustea, Livio e Dionigi, presenta un sistema complesso basato su cinque classi di censo che erano divise in seniores (al di sopra dei 47 anni e quindi non in servizio attivo) e juniores; ciascuna di queste classi raggruppava un numero di centurie (193 in tutto, compresa la cavalleria). Lo strumento per l’affermazione del peso politico degli opliti fu l’assemblea centuriata, ovvero quella dei soldati, che si riuniva nel Campo Marzio, fuori del pomerio, la linea sacra entro la quale non si potevano portare armi. Durante i comizi una vedetta sul Gianicolo informava di eventuali pericoli. Nei comizi il voto era per centuria, per questo, essendo che i più abbienti erano raggruppati in un numero maggiore di centurie, l’ordinamento garantiva il maggior peso ai ricchi. Di seguito viene stilata la divisione in classi della città: Fuoriquota o Cavalieri che avevano un reddito superiore a 400 mila assi; Prima Classe che avevano un reddito superiore ai 100 mila assi; Seconda Classe con un reddito superiore ai 75 mila assi; Terza Classe che avevano un reddito superiore ai 50 mila assi; Quarta Classe che avevano un reddito superiore ai 25 mila assi. Al di sotto dei 12.500 assi vi era la classe dei nullatenenti o capite censi (coloro che hanno come unica ricchezza la loro testa, dunque l’intelligenza). Questi ultimi non potevano essere reclutati, mentre i cittadini sopraelencati potevano combattere per la città. Tra le classi più importanti vi è quella dei fuoriquota che forniva all’esercito 18 centurie, mentre la prima classe forniva 80 centurie di fanti armati. Le altre classi, sommariamente, fornivano 95 centurie. Ecco perché centuriato: poiché stabiliva il numero delle centurie (di soldati e cavalieri) che ogni classe doveva fornire. Roma nasce e si forma come una polis, una città al centro di un territorio da lei dominato. Nella polis l’esercito è cittadino, infatti i cittadini svolgono normalmente il servizio militare e sono anche incoraggiati a combattere per difendere i loro beni e le loro terre. Se questi non avevano beni e terre da difendere non combattevano. Il timore si basava sul fatto che se coloro che non avevano niente fossero stati armati per difendere la città, allora essi, una volta terminata l’emergenza della guerra, avrebbero potuto destabilizzare lo Stato e quindi si sarebbero rivoltati contro il governo. Questa prassi, comunque, toglieva dal reclutamento un forte numero di soldati e quindi vi era una grossa perdita che, come vedremo, porterà ad un graduale abbassamento della soglia del reddito: dai 12.500 si passò a 11.000, così da recuperare coloro che avessero un reddito tra 12.500 e gli 11.000. Dopo la battaglia di Canne, che fu rovinosa per Roma che perse 70/80 mila soldati, Roma abbassò ancora di più la soglia arrivando a 4.000 mila assi, fino ad arrivare poi ai 1.500 assi. Questo fu necessario perché Roma aveva bisogno di soldati (anche se questo non bastò a risolvere la situazione, la quale si risolse successivamente con Caio Mario). Servio apparve come un re, o tiranno, democratico contrario all’aristocrazia gentilizia, infatti con la sua riforma delle istituzioni diede maggiore spazio a gruppi di individui ricchi, ma esclusi per diverse ragioni dalle strutture gentilizie, e questi potevano essere le famiglie etrusche stabilitesi nella città o altri individui nuovi. Un altro provvedimento che venne attribuito a Servio, fu la creazione delle prime quattro tribù territoriali (da non confondere con quelle gentilizie, riferibili a Romolo, di Ramnes, Tities e Lucres) nelle quali fu divisa Roma, e che furono chiamate tribù urbane, mentre le tribù extracittadine, che raggruppavano la popolazione della campagna, vennero dette rustiche. Le quattro tribù urbane (Suburbana, che comprendeva il colle Celio; Palatina, che comprendeva il colle Palatino; Esquilina, che comprendeva il colle Esquilino; Collina, che comprendeva il colle Quirinale) formavano la Roma quadrata, che rappresentava un allargamento rispetto alla precedente situazione urbanistica. Stabilire quanto fosse vasto il territorio romano di quel periodo non è possibile, di certo non andava oltre l’ottavo miglio intorno. Si narra che Servio Tullio morì poiché fu spinto dalle scale da Tarquinio il Superbo e, non essendo ancora morto, fu calpestato da un carro trainato da cavalli e condotto dalla figlia, Tullia Minore, complice di Tarquinio il Superbo, il quale diventerà suo successore. Tarquinio il Superbo viene ricordato come il settimo ed ultimo re di Roma. Mentre egli era fuori Roma, si narra che il figlio oltraggiò una cortigiana romana, di nome Lucrezia, la quale raccontò tutto al marito prima di suicidarsi per la vergogna. Il marito ordì allora una congiura per cacciare da Roma Tarquinio. Con la cacciata di quest’ultimo non venne nominato un altro re, ma fu sostituito da un’assemblea (che costituirà poi il Senato). Era un’assemblea di aristocratici che governava lo Stato, il quale sarebbe divenuto una repubblica. Le cause di questa operazione di sostituzione possono essere due fattori paralleli, ovvero: 1) il crollo del mondo etrusco nell’Italia Meridionale e crisi del sistema etrusco in Italia Centrale (infatti, gli Etruschi stavano perdendo progressivamente le loro posizioni nel Lazio e in Campania, a vantaggio di greci e latini). Roma approfittò di questo per liberarsi di Tarquinio. Si trattava quindi di una sorta di rivoluzione aristocratica; 2) a Roma, in seguito alla crescita del potere aristocratico, Tarquinio diede il via ad un’opera di democratizzazione dell’aristocrazia, favorendo il popolo. In questo modo l’aristocrazia veniva messa da parte. Ecco perché si potrebbe parlare di una congiura da parte dell’aristocrazia, la quale non nominerà un successore. L’episodio di Lucrezia, quindi, potrebbe essere solo una leggenda e anche se fosse accaduto realmente non fu comunque la causa scatenante. Di Tarquinio è noto l’appellativo “superbo”, un aggettivo che gli fu dato dalla storia (come sappiamo, la storiografia allora era in mano all’aristocrazia). Comunque Tarquinio fu un personaggio negativo, negò la sepoltura di Servio Tullio, assunse il comando con la forza e, sempre con la forza, mantenne il controllo della città durante il suo regno. Alla presunzione del Superbo si deve, secondo la tradizione, la cacciata della dinastia etrusca e l’instaurazione della Repubblica. Egli morì a Cuma, in Campania, nel 495 a. C. mentre si trovava in esilio. Cambiamenti in Roma verificatisi con la dinastia etrusca dell’esercito e dispose gli uomini fra il lago Regillo e il monte. La battaglia fu violenta, i Latini partirono per primi all’attacco: Tarquinio il Superbo si scagliò contro Postumio, ma venne ferito; Ebuzio, che comandava la cavalleria, si scontrò con Mamilio ed entrambi rimasero feriti e furono costretti a ritirarsi tra le prime linee. In seguito Mamilio tornò in campo guidando la coorte dei fuoriusciti assieme al figlio di Tarquinio. Intanto Marco Valerio (console romano nel 505 a. C.), intravisto il figlio di Tarquinio gli si gettò contro ma non riuscì a sferrare il suo attacco, fu ferito ad un fianco da un avversario e morì. L’ala comandata da Ebuzio iniziava a mostrare segni di cedimento, per tale motivo Postumio dette l’ordine di trattare come nemici coloro che si davano alla fuga. Fu allora che i Romani interruppero la loro ritirata e ripresero a combattere. I nemici vennero annientati poiché stremati dalla stanchezza, Mamilio vedendo il pericolo incombere si rigettò in campo. Il legato (membro dell’ordine senatorio che designava ruoli di comando in ambito del governo e dell’esercito romano) Tito Erminio riuscì ad ucciderlo rimanendone però ferito e morendo poco dopo. I nemici cominciavano ad avere la meglio e fu per questo che Postumio decise di far scendere i cavalieri dai cavalli per aiutare i fanti; quando i nemici vennero respinti i cavalieri romani risalirono sui loro destrieri per inseguire i nemici latini che si erano dati alla fuga e la fanteria andò al loro seguito. Venne così conquistato il campo latino nel 495 a. C. Castore e Polluce Secondo la leggenda Postumio, oltre a chiedere il rinforzo da parte dei cavalieri, chiese anche un aiuto divino ai Dioscuri facendo voto di dedicare loro un tempio in cambio di aiuto. Si videro comparire due guerrieri, che nessuno dei Romani aveva mai visto, i quali montati sui loro cavalli bianchi si gettarono in campo e a guerra finita lo abbandonarono per giungere a Roma per riferire della vittoria e per lavare i loro cavalli presso la fonte di Giuturna per poi scomparire. È proprio presso questa fonte che Postumio innalzò il tempio a Castore e Polluce. Tarquinio il Superbo terminerà i suoi giorni alla corte di Aristodemo, tiranno di Cuma. La vittoria romana costrinse i latini ad accettare la supremazia di Roma. I Romani, però, furono saggi a non sfruttare troppo queste popolazioni, tanto che i tuscolani diventeranno i più fedeli alleati di Roma, la quale ne riceverà l’aiuto nelle battaglie contro gli Equi e i Volsci. Foedus Cassianum Risale al 493 a. C., ed è un trattato che prende il nome dal Console che lo firmò, Spurio Cassio Vecellino. Tramite questo trattato venivano ristabilite le relazioni federali di Roma sancendo parità di diritti fra questa e le città della Lega Latina. Questo trattato, che ci fu tramandato da Dionigi di Alicarnasso, fu di alleanza e allo stesso tempo di difesa tra i due popoli: quando era necessario bisognava unire gli eserciti e il comando sarebbe spettato a turno; in caso di bottino questo doveva essere diviso in due parti; venne stabilito anche lo ius connubis, cioè il diritto di matrimonio tra romani e latini e lo ius commerci, cioè il diritto di commerciare; infine veniva considerato anche l’aspetto giuridico: il reato veniva giudicato nel luogo in cui veniva commesso, anche se chi l’aveva commesso era di un altro stato. Questo trattato però non prevedeva per i latini la possibilità di ottenere la cittadinanza romana. Le difficoltà della Repubblica: un nuovo ordine istituzionale La cacciata dei Tarquini non fu l’atto rivoluzionario che dette alla città un’improvvisa libertà, anche se così viene affermato dalla tradizione romana; furono diversi atti che condussero agli inizi della Repubblica: un trattato con Cartagine, la considerazione del tempio di Giove Capitolino come il santuario cittadino più importante. Roma, essendo ancora nell’orbita degli interessi etruschi, riaffermava alleanze internazionali; Cartagine intratteneva rapporti, in funzione antigreca, con varie comunità etrusche, e il trattato rifletteva la preoccupazione di dividere le sfere di influenza e di regolazione dei rapporti nelle attività militari e commerciali della città latina e di quella punica. Per quanto riguarda l’assetto istituzionale, al posto del governo di uno solo venne stabilito il governo di due magistrati che mantenevano, con uguale diritto, gli stessi poteri del re. La collegialità nell’esercizio del potere era una soluzione praticata ampiamente in Grecia e in Italia. Nella Lega Latina il potere era esercitato da due magistrati, come nel caso del dittatore e del suo subordinato, il magister equitum, istituto al quale la Repubblica romana ricorse molte volte nella sua storia antica. L’aristocrazia, con la fine della monarchia, instaurerà un governo oligarchico basato su un Senato che governa la città con delle magistrature che sostituiscono il potere esecutivo del Senato e hanno il potere militare, esercitato attraverso i consoli. Patrizi e plebei: la Repubblica divisa Nella Repubblica, appena formata, iniziò un periodo di lotte interne che portò ad una spaccatura della società, infatti si era creata una divisione in due gruppi contrapposti: quello dei patrizi e quello dei plebei. Per alcuni secoli troviamo questi contrasti, ovvero dal V agli inizi del III secolo. Ciò che sappiamo lo dobbiamo agli storici che si dedicarono alla rappresentazione della lotta tra patrizi e plebei, come lotta tra aristocratici (ottimati) e popolari. Nel Senato vi erano i patres e i conscripti (padri coscritti, così erano indicati i senatori nella Roma antica), e le maiores e minores gentes, quindi i patroni e i clienti. Nell’ambito militare vi erano gli adsidui (quelli arruolabili) e i proletari, o infra classem, cioè quelli che non facevano parte della leva militare. Queste distinzioni comunque non erano divisioni nette. La distinzione più importante e politicamente rilevante fu quella tra patrizi e plebei. Plebs ha lo stesso valore del greco plethos, e indica la massa che non si definisce attraverso le istituzioni politiche. Nella Roma monarchica esistevano i patres, ed esistevano probabilmente i patrizi che a essi si collegavano; non vi erano, invece, quelli che poi vennero chiamati plebei, presentandosi come gruppo fortemente organizzato nei primi anni del V secolo. In quell’epoca vi fu il tentativo, da parte di un gruppo di famiglie della vecchia aristocrazia gentilizia, di trarre vantaggio dalla fine della monarchia per attuare quella che sarà definita “serrata del patriziato”; in sostanza la creazione di una oligarchia. Il patriziato si presentava come gruppo omogeneo e con proprie funzioni e rifletteva, secondo la tradizione, la situazione più arcaica degli ordinamenti sociali e politici della città-Stato che si stava formando. L’esame dei nomi dei consoli nel primo cinquantennio della Repubblica mostra con evidenza la lotta per il potere che si verificò tra i patrizi e i gruppi che essi escludevano dal governo, cioè i plebei (che si formarono una loro organizzazione) e gli Etruschi (rimasti dopo la cacciata dei re). Dal 509 al 486 a. C. i Fasti consolari elencavano alcuni consoli con nomi etruschi e vari plebei, tra cui Spurio Cassio. Dal 485 al 470 a. C. si ebbero, invece, solo nomi patrizi. Nel 469 a. C. Etruschi e plebei tornarono nuovamente fino al 454 a. C. La secessione e la creazione delle istituzioni plebee La lotta fu, in primo luogo, una lotta politica per il controllo delle magistrature repubblicane, alla quale si aggiunsero poi ragioni economiche e sociali. Le fonti indicano come data della costituzione delle istituzioni plebee il 494 a. C., quando si verificò la prima secessione sull’Aventino (o sul Monte Sacro): i plebei, scontenti per la disparità di trattamento giuridico, si ritirarono sul colle rifiutandosi di partecipare alle attività pubbliche; solo Menenio Agrippa, un plebeo che fu console nel 503 a. C., riuscì a far recedere i secessionisti spiegando l’ordinamento sociale romano con una metafora. Lo paragonò ad un corpo umano: nell’organismo umano se ciascuna parte collabora con le altre sopravvive, se invece le parti discordano tra loro periscono. Se le braccia (popolo) si rifiutano di lavorare, lo stomaco (Senato) non riceve cibo. Se lo stomaco non riceve cibo, non può poi redistribuirlo in piccole parti a tutto il resto dell’organismo: così l’intero corpo, braccia comprese, perisce per mancanza di nutrimento. Con questo apologo Agrippa riuscì a ricomporre la situazione di discordia tra plebe e aristocrazia, e il popolo ritornò alle proprie occupazioni. Nella stessa circostanza i plebei si organizzarono in assemblea e nominarono i loro magistrati (i tribuni della plebe che in origine erano due) da contrapporre a quelli patrizi. Il fondamento della forza di questi magistrati era costituito dalle “leggi sacrate”, leggi in base alle quali i plebei si impegnavano con un giuramento a rispettare e a far rispettare le loro delibere, chiamando sacer (“maledetto”, e quindi esposto alla punizione) chi trasgredisse. Questa formula “sacrata” vincolava i soldati all’obbedienza. È ovvio che i patrizi non riconobbero le decisioni plebee, ma l’organizzazione e lo strumento della legge sacrata li rese temibili, soprattutto nei periodi di difficoltà militari che erano molto frequenti. I plebei dichiararono i loro magistrati sacrosanti, cioè inviolabili, e riconobbero loro lo ius auxilii, ovvero il diritto di aiuto nei confronti di un uomo della plebe, e l’intercessio, il diritto di opporsi a condanne capitali di plebei facendo ricorso all’assemblea. Nel 493 a. C. viene attribuita a Spurio Cassio la costruzione di un tempio sull’Aventino (cioè fuori del Pomerio) dedicato a Cerere, Libero e Libera la triade che i plebei contrapponevano a quella patrizia (Giove, Giunone e Minerva) che aveva il tempio sul Campidoglio dal 509 a. C. Nel tempio plebeo vennero istituiti un tesoro e un archivio destinato a raccogliere le delibere plebee per la cui gestione furono nominati altri magistrati, gli edili (aedes, tempio). Nel 471 a. C. grazie a Publilio Volerone l’organizzazione venne precisata attraverso la definizione dell’assemblea plebea riunita per tribù (concilium plebis tributum). In questo modo si ottenne un’assemblea più rappresentativa e, in senso lato, democratica rispetto a quella centuriata fondata sulla distribuzione dei cittadini in classi di censo. Nell’assemblea per tribù il voto del singolo si esprimeva nella tribù stessa, la cui maggioranza contava poi per un voto solo all’interno dell’assemblea. I plebei vi approvavano i plebiscita, cioè delibere che avevano valore solo per la plebe, mentre la lex era valida per tutta la comunità. L’organizzazione del concilium plebeo segnò un momento decisivo per le istituzioni romane e avrebbe rappresentato, successivamente, un elemento portante. Esclusi dal governo della Repubblica, i plebei ne crearono un altro. I patrizi avevano dalla loro parte la tradizione (soprattutto il monopolio delle più delicate funzioni religiose, eredità degli ordinamenti più antichi della comunità), la ricchezza, le clientele consolidate, le alleanze anche esterne di stampo aristocratico (come vedremo con Appio Claudio). Ma il loro intento di ottenere l’esclusione di altri gruppi dall’esercizio del potere trovò forti resistenze. Le rivendicazioni di carattere economico e sociale non furono mai staccate dalla lotta per l’esercizio delle cariche più importanti. È vero comunque che la prima secessione si basava sul malessere per la situazione dei debitori, esposti alla perdita della libertà personale (nexum), ma anche allora le rivendicazioni economiche rimasero in secondo piano: una serie di carestie (492, 440-439, 433, 411) impose uno sforzo ai capi plebei, che organizzarono distribuzioni di grano, ma non si ebbe un’azione decisa per la distribuzione di terre. Intorno alla metà del V secolo sono la lotta per l’accesso alle magistrature e la pubblicità del diritto, e quindi delle procedure giudiziarie, a emergere al centro dello scontro. Le difficoltà sociali ed economiche alimentarono la lotta, ma la classe dirigente plebea, che si era formata come i patrizi nella vita politica, riuscì a mantenere il controllo. Le XII tavole: una grande conquista a caro prezzo A Roma un problema era rappresentato dalle leggi. Nella città erano riconosciuti quelli che gli antichi chiamavano i prisci mores, ovvero gli antichi costumi, quindi vigeva una sorta di consuetudine orale. Esisteva un collegio sacerdotale, che aveva il compito della memoria, quello dei Pontefici, di cui potevano far parte solo i patrizi. La plebe iniziò a sentire l’esigenza di leggi scritte per poter garantire i loro interessi e diritti, e non solo quelli dei patrizi. Nel 462 a. C. Gaio Terenzilio Arsa richiese la nomina di una commissione che redigesse un codice di leggi scritte da rendere pubblico. Nel 461 a.C. il Senato avvia una sorta di ricognizione delle legislazioni emanate nelle altre città per vedere di quali leggi fossero dotate. Si basarono soprattutto sulle costituzioni di alcune città magnogreche, come Locri, nelle quali prevalevano due principi: “la legge è uguale per tutti”; “la pena è proporzionata al reato”. Nel 451 viene nominata una commissione di dieci membri, il decemvirato, incaricata di redigere le leggi scritte. Tutti i dieci membri erano patrizi. Contemporaneamente vennero sospese tutte le altre magistrature per evitare che un console o un tribuno potesse condizionare l’operato del decemvirato. Quest’ultimo redisse una serie di leggi che raccolse in dieci tavole di bronzo. Alla fine dell’anno il decemvirato non esaurì il proprio compito, perciò fu necessario nominare un nuovo decemvirato che, per le pressioni della plebe, conterrà anche alcuni plebei (3 o 5 al massimo). In questo caso l’opera viene indirizzata verso leggi più favorevoli alla plebe (cosa non accettata dal patriziato, il quale, però, non ha la possibilità di bloccare il decemvirato, perché ciò comporterebbe una rivoluzione). La parte principale nella vicenda viene attribuita ad Appio Claudio. Egli fu un membro autorevole del decemvirato, potremmo dire quasi il “presidente” del secondo decemvirato. Fece aggiungere altre due tavole di leggi alle dieci elaborate nel decemvirato precedente. Queste tavole codificavano il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei e mantenevano la servitù per debiti. La tradizione narra che Appio Claudio, con atteggiamento dispotico, cercò di far confermare ancora il decemvirato ma, volendosi impadronire di una plebea che le fonti chiamano Virginia, provocò la reazione dei plebei, i quali marciarono su Roma per porre fine al tentativo tirannico di Claudio. Nel 449 a.C. i due consoli patrizi, Valerio e Orazio, diedero alla plebe garanzie fondamentali come il diritto di appello al popolo (provocatio) per le condanne capitali e il ripristino delle magistrature ordinarie patrizie e plebee romani, ovvero il possesso massimo di agro pubblico per ciascun individuo. Quando Roma sconfiggeva un popolo gli confiscava una parte di territorio come indennità di guerra (in genere era un terzo, ma poteva essere due terzi o metà del territorio, in base alle colpe del popolo che lo abitava) e questo rappresentava l’ager publicus, un territorio dello Stato destinato alla fondazione di colonie. Quando veniva fondata una colonia, Roma vi mandava i suoi coloni con le loro famiglie e queste colonie romane rappresentavano degli avamposti per il controllo del territorio. Nel 367 a.C. Roma ancora non era uscita dal Lazio, quindi possedeva poco ager publicus, che era aperto a tutti ma che per essere coltivato aveva bisogno di un capitale. La maggior parte della plebe non poteva permetterselo, per cui accadeva che i ricchi patrizi romani compravano un terreno confinante con l’ager publicus, il quale veniva occupato sempre un po’ di più. Con questa legge si stabiliva che nessuno poteva occupare più di 500 iugera (125 ettari circa) di agro pubblico (così da porre fine all’occupazione di terre da parte dei patrizi). Le guerre nel Lazio: la lotta per la salvezza Il Foedus Cassianum fu di grande importanza per gli sviluppi della politica estera romana. Infatti questo trattato fornì uno strumento formidabile, in termini di potenziale militare e umano, che fu determinante nelle lotte contro le popolazioni confinanti che Roma e i Latini sostennero per tutto il V secolo: il controllo del Lazio possiamo dire che fu un fatto latino che giovò a Roma, in quanto città egemone, ma che Roma da sola probabilmente non avrebbe potuto attuare. Qui, infatti, subentra l’attività delle popolazioni di Equi e Volsci ai confini meridionali e orientali del Lazio, le quali recavano uno svantaggio a Roma e alle comunità latine. Queste popolazioni dell’Italia appenninica si mossero verso le regioni più ricche e urbanizzate, in cerca di terre e bottini. La loro struttura sociale era ancora tribale e fondata sulla pastorizia. Tra il VI e il V secolo, i Volsci approfittarono dell’indebolimento etrusco per impadronirsi della pianura pontina arrivando così al mare e facendo di Velletri e Anzio i loro centri più importanti. Gli Equi (a nord-est di Roma) e i Volsci (a sud-est di Roma) a volte da soli, altre volte come alleati, attaccavano il territorio circostante con l’intento di saccheggiare, e con le loro operazioni insidiavano l’agro romano e le comunicazioni commerciali lungo la Via Latina. Guerre contro Equi e Volsci La guerra con questi popoli fu lunghissima, e per circa 150 anni l’annalistica romana ha raccontato questi episodi di guerra in cui si sono affermati personaggi come Coriolano o Cincinnato. Qui l’uomo, finita la sua missione, tornava al suo campo, quindi vigeva l’ideale del contadino-soldato, considerato dai Romani come la base del loro successo e la garanzia della solidità della Repubblica. Si trattò di una lunga serie di scorrerie, caratterizzata da alcuni grandi e decisivi scontri che misero a dura prova la resistenza e l’organizzazione di una città-Stato fondata su un esercito di contadini che erano esposti al saccheggio e alla perdita delle loro proprietà. La pressione dovette essere molto pericolosa in quanto Roma attraversava un momento di dissidi interni che sfociarono nell’organizzazione autonoma della plebe in contrapposizione alla Repubblica egemonizzata dai patrizi. Infatti i consoli oltre ad affrontare Sabini, Equi e Volsci, dovettero concentrarsi anche sui plebei scontenti della loro situazione. Nel 494 a. C. venne nominato dittatore Manio Valerio Voluso Massimo che chiamò alle armi il popolo romano. Vennero formate 10 legioni, 3 per ogni console e 4 per il dittatore. Il console Aulo Verginio Celiomontano condusse le proprie legioni contro i Volsci, riuscendo a sbaragliarli e a rincorrerli fino alla loro città di Velletri che venne conquistata e saccheggiata. Stessa sorte la ottennero l’altro console, Tito Veturio, che condusse le sue legioni contro gli Equi e il dittatore che condusse le sue 4 legioni contro i Sabini. Nel 493 a. C. si ebbe la prima secessione della plebe che si ritirò sul monte sacro per prendere delle decisioni, al contempo ripresero le operazioni belliche contro Equi e Volsci che causavano nuovi disagi. Venne eletto console, in questo anno, Postumio Cominio che spinse l’esercito romano contro i Volsci di Anzio arrivando ad espugnare la città. Successivamente vennero conquistate le città volsce di Longula, Polusca e Corioli. Quest’ultima città venne conquistata grazie all’apporto decisivo di Gneo Marcio “Coriolano” (termine che si riferisce probabilmente al suo aiuto nella conquista della città). Intanto a Roma la secessione della plebe e la conseguente mancata coltura dei campi provocò un rincaro del grano e la necessità della sua importazione. Coriolano fu famoso anche per la sua opposizione alla riduzione del prezzo del grano per la plebe, la quale lo prese in odio. Egli rappresentava l’ala più oltranzista dei patrizi, i quali ambivano al ripristino della situazione precedente (cioè prima della concessione del tribunato dei plebei). Per tale motivo fu citato in giudizio dai tribuni della plebe e, secondo Livio, egli rifiutò di andare in giudizio scegliendo l’esilio volontario presso i Volsci, invece per Plutarco fu sottoposto al giudizio del popolo con l’accusa di essersi opposto al ribasso dei prezzi e fu per questo (fatto in cui entrambi convergono) esiliato a vita. Gneo Marcio decise di recarsi in esilio nella città di Anzio, ospite di Attio Tullio, forte personalità tra i Volsci. I due iniziarono a tramare per far sì che i Volsci sviluppassero nuovi motivi di risentimento nei confronti dei Romani. Scoppiò allora una nuova guerra tra i Volsci, guidati da Coriolano e Tullio, e Roma. Si divisero le forze, Attio rivolse le sue contro i territori latini, in modo che non potessero soccorrere Roma; Coriolano, invece, saccheggiò la campagna romana. Questo permise ai due eserciti Volsci di rientrare nel loro territorio colmi di bottino. Alla fine Roma si decise ad arruolare un esercito e a farne formare un altro ai Latini, anche perché alle incursioni dei Volsci si aggiunse la rivolta degli Equi. Alle porte dell’Urbe, al quarto miglio della Via Latina (dove si trovava il confine dell’Ager Romanus Antiquus), mentre i consoli del 488 a. C., Spurio Nauzio e Sesto Furio, preparavano la difesa della città, Coriolano venne fermato dalla madre Veturia e dalla moglie Volumnia, accorsa con i due figli in braccio, che lo convinsero a lasciar perdere il suo intento di distruggere Roma. Secondo una parte della tradizione Coriolano fu ucciso dai Volsci, perché considerato un traditore; secondo Fabio morì di vecchiaia in esilio; Plutarco e Dionigi di Alicarnasso raccontarono che Coriolano fu ucciso da una congiura ordita da Attio Tullio, mentre si difendeva in un pubblico processo ad Anzio. Intanto nel 486 a. C. Roma ottenne il trionfo grazie al console Spurio Cassio Vecellino che marciò contro i Volsci e contro gli Ernici (la vittoria sugli Ernici segnò una svolta: infatti, questa popolazione occupava posizioni strategiche intorno ad Anagni; non sviluppò un’organizzazione cittadina, ma molto probabilmente si trattava di tribù riunite forse in una federazione. Nel 486 Spurio Cassio stipulò un trattato con gli Ernici con basi analoghe a quello stipulato con i Latini. Gli Ernici avrebbero fornito soldati e avrebbero partecipato dei vantaggi delle eventuali vittorie). Nel 484 a. C. i Romani riuscirono a conquistare il centro principale degli Equi, ma poi, condotti dal console Lucio Emilio Mamercino, subirono una pesante sconfitta ad Anzio a causa dei Volsci. Seguì poi la battaglia di Longula, in cui i Romani ebbero la meglio per l’imprudenza dei Volsci: l’esercito romano una volta fortificata la sua posizione costrinse i Volsci a ritirarsi in pianura; in seguito quest’ultimi tentarono di scontrarsi con i Romani, i quali però rifiutarono in un primo momento proprio perché in attesa dei rinforzi condotti dal console Fabio Vibulano. I Volsci non seppero di questi rinforzi e, credendo i Romani in difficoltà, attaccarono nuovamente. L’attacco ebbe la meglio per i Romani che risposero con fanti, lance e frecce; i Volsci furono costretti a ritirarsi, anche se questo non portò alla conclusione dei conflitti. Nel 475 a. C. il console Publio Valerio Publicola si fece aiutare dai socii (contingenti forniti dagli alleati, in qualità di truppe ausiliarie) Latini ed Ernici, scagliandosi prima contro i Sabini e poi contro i Veienti che furono sbaragliati. Nel 471 a. C. il console Appio Claudio Sabino fu in contrasto con la plebe poiché si oppose all’approvazione della legge che avrebbe attribuito l’elezione dei tribuni ai concili della plebe (comizi da cui erano esclusi i patrizi). Egli si scontrò verbalmente con il tribuno Caio Letorio, rischiando di creare gravi disordini e rischi per la sua incolumità. Alla fine la legge venne approvata dal Senato. Accanto a questi problemi interni, Roma dovette occuparsi ancora una volta di quelli esterni: Appio Claudio ebbe il comando della campagna militare contro i Volsci, il console Tito Quinzio contro gli Equi. Queste popolazioni approfittarono dei dissidi interni per attaccare Roma, infatti nella campagna contro i Volsci serpeggiava il malcontento tra i soldati poiché le diffidenze tra le due classi avevano inasprito l’atteggiamento severo di Appio Claudio e questo portò a diversi episodi di insubordinazione che compromisero la campagna contro i Volsci, causando a Roma una dura sconfitta. Il console punì i soldati con la decimazione (un soldato su dieci). Nel 469 a. C. i soldati romani riuscirono ad espugnare la città di Cenone, porto ed emporio di Anzio, mentre l’anno seguente il console Tito Quinzio Capitolino Barbato intraprese la campagna contro Volsci ed Equi (una battaglia che durò diversi giorni e fu combattuta a 30 stadi di distanza da Anzio), ottenendo la vittoria, nonostante avesse combattuto in inferiorità numerica. Poco dopo la città di Anzio si arrese all’esercito romano che lasciò un presidio nella città e tornò a Roma trionfante. Ad Anzio verrà fondata una colonia nel 467 a. C., mentre con gli Equi verrà siglato un trattato di pace. Negli anni seguenti, però, si riaprirono le operazioni belliche contro gli Equi. Nel 464 a. C. al console Tito Quinzio Capitolino venne affidato il comando delle truppe alleate dei Latini e degli Ernici per liberare l’accampamento del console Spurio Furio Medullino che era assediato dal nemico. L’anno seguente Roma fu colpita dalla peste e di quest’ultima furono vittime i consoli Lucio Ebuzio Helva e Publio Servilio Prisco, e per questo gli Equi riuscirono a devastare le campagne arrivando fin sotto le mura di Roma. Nel 462 a. C. il console Lucrezio Tricipitino condusse una nuova campagna militare sia contro gli Equi che contro i Volsci, ottenendone il trionfo (mentre il collega Veturio Gemino ottenne un’ovatio). Nel 459 a. C. gli Equi attaccarono Tuscolo e il console Lucio Cornelio Uritino decise di andare in aiuto della città, mentre l’altro console, Quinto Fabio Vibulano, si divise tra l’assedio di Anzio contro i Volsci e le colline di Tuscolo. I Tuscoli riuscirono a scacciare i nemici dalla rocca, infatti gli Equi furono denudati e fatti passare sotto il giogo per essere poi massacrati alle falde del monte Algido dal console Vibulano. Nel 458 a. C. gli Equi conferirono il comando a Gracco Clelio e ricominciarono i saccheggi dei territori romani. Il senato ordinò che un console portasse l’esercito sul monte Algido contro Gracco, mentre l’altro doveva occuparsi di saccheggiare il territorio degli Equi. Intanto un esercito di Sabini si mise a devastare l’agro romano fin sotto le mura della città e fu allora che la plebe prese le armi. Furono formati due grandi eserciti: i consoli Nauzio Rutilo venne mandato nelle terre degli Equi, mentre Minucio Esquilino Augurino partì verso il monte Algido. Roma venne informata che il console Augurino e le sue legioni erano sotto assedio sul monte Algido, il console Nauzio non seppe prendere in mano la situazione e fu quindi nominato Quinzio Cincinnato come dittatore, il quale nominò il suo magister equitum, fermò ogni attività legislativa, giudiziaria e commerciale, ordinando a tutti quelli che avevano l’età adatta al servizio militare di presentarsi al Campo Marzio per partire poi verso il monte Algido. Il suono delle trombe e le grida dei soldati romani spaventarono gli Equi, e una volta raggiunti i commilitoni assediati, questi ripresero le armi. Gli Equi si trovarono stretti tra due fuochi. Fu una battaglia notturna che proseguì fino alla mattina e condusse alla vittoria romana. Poco dopo Cincinnato espugnò anche la città volsca di Anzio. Per questi successi egli ottenne il trionfo. Nel 449 a. C. il console Lucio Valerio Potito ottenne nuovi successi e il meritato trionfo sugli Equi, e sui Volsci della città di Corioli. Volsci ed Equi per i due anni successivi non attaccarono Roma, permettendo all’Urbe di ricomporsi socialmente ed economicamente, ma non durò a lungo visto che nel 446 a. C. ripresero le ostilità. I due popoli riunirono i loro eserciti e si diedero al saccheggio del territorio dei Latini. I Romani non riuscirono a contrastarli e gli attaccanti arrivarono fino alle porte della città saccheggiando il bestiame e accampandosi a Corbione. Qui vi fu una decisiva battaglia dove i Romani ebbero la meglio. Seguirono altri scontri con questi popoli, infatti dopo oltre un secolo e mezzo di continue guerre, Volsci ed Equi vennero inglobati da Roma facendo così parte del sistema repubblicano romano, dopo un’iniziale colonizzazione dei loro territori (contando anche Ernici, Sabini, Latini e Veienti). L’alleanza romano-latina fu fondamentale; quando gli alleati riuscivano a sconfiggere i nemici ne prendevano il territorio e vi istituivano delle colonie, ovvero delle comunità di cittadini, contadini e soldati (secondo il modello romano), che ricevevano lotti di terra e si governavano con propri magistrati locali. In queste colonie vi erano Romani, Latini, ma anche alcuni cittadini dei popoli vinti che decidevano di sottomettersi. Le colonie avevano i diritti dei Latini che regolavano i rapporti con Roma, la quale, guidando di fatto Latini ed Ernici, si era posta al centro del sistema di alleanze. Il compito delle colonie era quello di controllare e difendere i territori presi con le guerre. La rapida successione di stanziamenti latini e di incrementi territoriali mostrava che, nell’arco di alcuni decenni, la situazione si era evoluta a favore di Roma e degli alleati. La guerra con Veio Una volta allentata la pressione delle tribù italiche, Roma poté riprendere con maggiore autorità la politica a settentrione che era incentrata sul conflitto con Veio. Quest’ultima era abitata dalla comunità etrusca, disposta sulla riva destra del Tevere, a soli 17 km dalla città latina. Essa controllava l’accesso alle saline alla foce del fiume e, attraverso Fidene (una delle vie di comunicazione tra l’Etruria e la Campania) che passava per Preneste, era attiva nel pieno del dominio etrusco nel Lazio. Nel 426 a.C. i Romani riuscirono a Vi era il collegio degli Arvali che compiva i riti di purificazione dei campi dell’agro romano antico, entro otto miglia da Roma. La comunità attraverso questi riti regolava il rapporto con gli déi, riti che inizialmente erano effettuati dal re, in seguito venne istituito il Pontefice massimo che, alla cacciata dei re, divenne il principale magistrato religioso della città. Questi riti avevano lo scopo di ottenere il favore divino: parole come sacer (che contiene il valore semantico di “maledetto”, e di “sacro” nella accezione pervenuta a noi), o religiosus (che indica lo scrupolo formale dell’osservanza delle norme) rappresentano gli indizi della originaria mentalità romana. Il numen indicava la volontà divina, e solo in un secondo momento assunse il significato di nume, dio, che è quello comunemente usato oggi. I Romani credevano in numerose divinità che venivano propiziate mediante determinati riti, ma ad esse non attribuirono alcun carattere o sentimento umano, non ritenevano che gli déi fossero presenti nelle azioni umane. Temevano la loro volontà per cui ricercavano il loro favore come una comunità. Per tale motivo vi erano gli auspicia che interrogavano gli déi per garantire il loro favore nelle decisioni importanti della città. Trarre gli auspicia era un compito del re e, in seguito, dei magistrati repubblicani. Gli Auguri, riuniti in un collegio, erano i sacerdoti incaricati di interpretare la volontà degli déi attraverso l’osservazione del volo degli uccelli. La pax deorum, la pace con gli déi, era lo scopo del rito e con questa pace la comunità era libera di agire. Il sistema delle magistrature repubblicane assegnava al ceto politicamente dominante il controllo dei riti religiosi che coinvolgevano la vita pubblica. Questa caratteristica, nella lotta tra patrizi e plebei, ebbe conseguenze considerevoli: infatti, finchè i patrizi rimanevano titolari dei sacerdozi, essi potevano rivendicare il diritto al governo in modo esclusivo. Un magistrato poteva dichiarare nullo un atto, come una votazione dei comizi non gradita, affermando di aver osservato auspici sfavorevoli; si narra che il console Claudio Marcello, augure, si chiudeva in una lettiga coperta in modo da essere sicuro di non vedere segni sfavorevoli. Vi era una sorta di timore religioso nella manifestazione del segno divino: nella metà del I secolo a.C. si verificò il famoso episodio di Crasso che, alla vigilia della partenza per la spedizione partica, rifiutò di dare ascolto a un omen, un presagio che doveva rivelarsi funesto. Una vecchia gli offrì dei fichi (cauneas), e la parola poteva essere interpretata come cave ne eas (non andare). Crasso non ne tenne conto e morì a Carre nel 53 a.C. Un altro aspetto dell’interpretazione del volere divino era l’esame delle interiora delle vittime, e soprattutto del fegato, praticato dagli Etruschi che avevano creato un personale specializzato, gli Aruspici. Da loro passò ai Romani. L’insieme dei sacerdozi romani si formò in età remota e divenne parte della vita politica della città-Stato; i sacerdoti erano tutti membri del ceto senatorio. Quindi vi erano gli Auguri, i Salii, gli Arvali, i Pontefici. Fra i culti più antichi vi è quello di Vesta, la dea del focolare, culto fondamentale per le origini stesse della città. Per la sua cura vi erano le Vestali; la loro sede era connessa al complesso della Regia e il loro compito era quello di vegliare sul fuoco sacro, che non doveva essere spento. Il focolare, centro della casa e della famiglia, assunse una valenza collettiva. Per le Vestali era essenziale la purezza rituale: esse erano scelte tra bambine dai sei ai dieci anni, le quali dovevano mantenere la castità almeno per un trentennio; furono frequenti gli episodi di punizioni di Vestali che non avevano rispettato il voto. Le Vestali colpevoli venivano lasciate morire sepolte vive, con scarsissimo cibo, poiché, essendo macchiate dalla colpa di un’offesa alla divinità, non potevano essere toccate dagli uomini senza che essi non venissero contaminati. Vi erano sacerdoti speciali (i Flamini) dediti al culto di singole divinità, il collegio incaricato della consultazione dei Libri sibillini; i Feziali, che si occupavano della procedura delle dichiarazioni di guerra e altri collegi minori. Esistevano tre Flamini maggiori, addetti al culto delle tre principali divinità del pantheon arcaico (Giove, Marte, Quirino), e dodici minori, addetti a una serie di divinità, di cui non tutte mantennero la stessa importanza negli sviluppi successivi della religione. Sui Flamini vi erano alcuni tabù: per esempio il Flamen Dialis, addetto al culto di Giove, non poteva montare a cavallo, né allontanarsi da Roma, né, unico tra i grandi sacerdoti repubblicani, toccare oggetti di ferro, e quindi partecipare all’attività militare. I duoviri (poi decemviri e infine i quindecemviri), custodivano i Libri sibillini (venduti, secondo la tradizione, dalla Sibilla cumana a uno dei Tarquini). Questi libri erano una raccolta di oracoli e profezie, originariamente custoditi nella cella del tempio di Giove Capitolino, e in questo modo sottratti alla vista e all’uso pubblico; erano dunque un altro degli strumenti per controllare la religione e il suo adattarsi a nuove esigenze. In momenti di crisi i sacerdoti consultavano i libri e ne traevano responsi, che potevano prescrivere l’introduzione di nuove divinità o il compimento di un particolare sacrificio. Le divinità principali che ci pervengono dal calendario, dai riti, dai sacerdozi non ebbero tutte lo stesso sviluppo in età repubblicana: alcune persero la loro importanza, altre si nutrirono di nuovi apporti e si rivitalizzarono a contatto con Italici, Etruschi e Greci, ma tutte rimasero con i loro culti, spesso stereotipati e a volte incomprensibili già agli antichi. Alcune divinità facevano parte della religione degli Italici, come Giunone Sospite venerata a Roma e Lanuvio, Diana, Giove e Vesta venerati dalle comunità latine, Quirino venerato dai Sabini, Marte. Alcune anche attraverso l’Etruria, come probabilmente l’Afrodite romana che ebbe poi una complessa evoluzione mediante la connessione con Venere. Le tre grandi divinità maggiori, al cui culto provvedevano i Flamini, mostravano la propensione a fondere elementi diversi a sostegno della vita comunitaria; se Quirino era la divinità sabina protettrice delle riunioni di uomini, la sua presenza nella più antica triade romana indicava l’antica presenza dei Sabini sui colli. Le prime innovazioni verificatesi nell’età monarchica, come la costruzione del tempio a Giove, Giunone e Minerva sul Campidoglio, il trasferimento della divinità federale latina, la Diana di Aricia, sull’Aventino e la costruzione dell’area sacra di Sant’Omobono furono interpretati come atti politici rivolti ad affermare altrettante idee religiose e, attraverso queste, supremazie politiche e identità culturali forti. La pratica di introdurre nuove divinità rispondeva ai bisogni che nascevano dall’originaria concezione del rapporto con il nume. I Romani conoscevano la pratica dell’evocatio, effettuata dagli Ittiti, in base alla quale le divinità dei nemici venivano trasferite a Roma, dove erano oggetto dello stesso culto: in questo modo i Romani dimostravano che combattevano i loro nemici ma rispettavano le loro divinità. Le guerre sante, combattute in nome della religione, entrarono nel costume romano con l’impero cristiano. La religione privata a Roma rimase circoscritta all’ambito familiare, che fu sempre considerato intangibile dalle autorità. La famiglia incentrava la sua dimensione religiosa sul genius (divinità della fecondità genetica) del pater familias (celebrato il giorno del compleanno di quest’ultimo), sui Penati e sui Lari. I Penati, comuni in ambito laziale, erano connessi con penus, la provvista di cibo tenuta in serbo, e venivano onorati con offerte rituali di vivande gettate nel focolare (la loro sede) a ogni pasto. Questi erano i protettori della casa, mentre i Lari, venerati agli incroci, delimitavano lo spazio della casa all’esterno, rispetto al vicino. La sfera del privato non venne mai messa in discussione dai Romani. L’introduzione di nuove divinità si verificò nei primi decenni della Repubblica: nel 499 a.C. fu votato un tempio a Castore, costruito nel 484; nel 496 a.C. fu costruito sull’Aventino un tempio dedicato alla triade di Cerere, Libero e Libera, che divenne il centro religioso plebeo (Libero fu poi assimilato a Dioniso). Nel 495 a.C. fu dedicato un tempio a Mercurio, e nel 431 a.C. si costruì un tempio ad Apollo, il quale era recepito nella città latina come divinità della salute. Alla base dell’introduzione di alcune cerimonie ebbero grande rilievo le influenze greche ed etrusche: i ludi, i giochi che divennero un tratto caratteristico della società romana, entrarono in Roma in età arcaica, con i Ludi Magni, a cui se ne aggiunsero altri. Nel 399 a.C. fu introdotta una nuova pratica greca, il lectisternium, la processione con i simulacri delle divinità sdraiati e il banchetto in loro presenza. La religione rappresentava un fattore decisivo per la coesione della comunità e per orientare la lotta politica, soprattutto durante la lotta tra patrizi e plebei; il rispetto del mos era essenziale, anche se veniva lasciato ampio spazio all’assorbimento di apporti esterni, che furono preziosi per la capacità di dialogo con i popoli dell’Italia che Roma conduceva sotto il suo controllo. La conquista dell’Italia Roma, i Sanniti, la Campania Dalla metà del IV secolo, Roma fu in grado di ampliare il suo orizzonte internazionale. Iniziava a prendere corpo una politica aggressiva e determinata il cui intento era quello di ottenere l’egemonia italica. I decenni che seguirono al sacco dei Galli del 390 a.C., furono caratterizzati da continue guerre locali contro i nemici tradizionali. L’alleanza con la Lega Latina attraversò un periodo di difficoltà: infatti i Latini cercarono di ottenere una maggiore libertà di azione, probabilmente per l’impostazione romanocentrica che la città di Roma assunse dopo la conquista di Veio. Tuttavia la Lega Latina non agì in maniera unitaria, perciò Roma poté creare le condizioni per il ripristino della supremazia. Nel 381 a.C. i Romani attuarono una nuova politica: diedero infatti alla città di Tuscolo la piena cittadinanza, e questo comportava la perdita completa dell’autonomia e l’incorporazione nella città-Stato di Roma, ma anche la possibilità di inserirsi nella struttura istituzionale della città (questa prerogativa apparteneva solo a quelli facenti parte dei ceti più abbienti; nel 322 a.C., privilegiando il censo, il consolato venne dato a un tuscolano). A nord, sul fronte etrusco, dopo la caduta di Veio i Romani consolidarono la loro presenza: nel 382 a.C., Sutrium e Nepet, già romane, vennero rafforzate con la loro trasformazione in colonie latine. Le fasi decisive della lotta che caratterizzò gli anni dal 360 al 350 a.C. furono l’espugnazione di Tivoli, che cercò di resistere alla pressione romana e lo scontro decisivo con i Volsci, nel quale i Romani poterono contare sulle città latine meridionali (maggiormente esposte ai Volsci). Le fasi della lotta rimangono confuse; l’annalistica racconta come Roma, nel 358 a.C., rioccupò completamente la pianura pontina costituendo due nuove tribù: la Popilia e la Pomptina (con questo ampliamento territoriale, Roma si affacciò all’area di influenza sannita e delle città greche della Campania). I soprusi dei Galli furono subiti anche dai Sanniti, le cui tribù si estendevano più a Oriente rispetto a Roma. A nord, sia i Romani che i Sanniti, erano minacciati dalla presenza gallica, mentre a sud i loro rapporti erano diversi. I Sanniti, come si è già accennato, erano propensi ad espandersi verso la Campania, che rappresentava un terreno molto fertile, ed anche Roma ebbe lo stesso intento (appoggiata dai Latini). La Campania era quindi l’oggetto delle mire espansionistiche di questi popoli e questa situazione non poté fare altro che sfociare in un conflitto. I Sanniti, nel V secolo a.C., avevano occupato molte di queste città in un modo particolare, ovvero senza violenza ma mettendo in atto un meccanismo che prevedeva un’infiltrazione lenta, ma graduale, di gruppi sanniti all’interno di una determinata città. Questi gruppi iniziavano ad ambientarsi, ad assorbire la cultura e a vivere come gli abitanti del posto. A mano a mano, i Sanniti riuscirono a conquistare città come Cuma, Capua e Teano (dove vi sono i Sidicini), che sono tutte città greco-etrusche. Iniziarono a distanziarsi dal loro modo di vivere e ad assumere quello della cultura greco- etrusca; per tale motivo i Sanniti che scendevano dalle montagne, nel dirigersi in pianura per cercare la solidarietà dei Sanniti già insediati, si trovarono in difficoltà poiché non trovarono alcuna solidarietà da parte di quest’ultimi. Nel 354 a.C. un trattato antigallico tra Roma e Sanniti prendeva atto della situazione che si era venuta a creare. Al nord alcune comunità etrusche, Tarquinia e Falerii, cercavano di recuperare i territori che Roma e i Latini avevano occupato; si narra che anche Cere, la città più vicina a Roma, si inserì nel tentativo in funzione antiromana. Nel 353 a.C., una volta cessate le ostilità, probabilmente il rapporto di ospitalità si trasformò con le connotazioni negative connesse alla cittadinanza senza diritto di voto. Nel 348 a.C. Roma stipulò un trattato con Cartagine che dimostrò come la città latina fosse in grado di difendere la sua posizione e quella dei suoi alleati nel Lazio. Non aveva ancora una flotta in grado di competere nel Tirreno, ma le relazioni con le città etrusche (dotate di porti e di una tradizione marittima) orientarono le scelte prese in quegli anni (come il tentativo di colonizzazione in Corsica). Il trattato venne stipulato un anno dopo l’invasione siracusana delle coste del Lazio: i Romani rinunciavano a navigare nella larga parte del Mediterraneo occidentale in cui i Cartaginesi avevano la supremazia e questi avrebbero rispettato l’assetto del Lazio impegnandosi a sbarcarvi solo in piccoli contingenti e per brevi periodi e a consegnare a Roma qualunque città latina fossero riusciti ad occupare. Roma si dotò anche di una nuova struttura urbana che la rendeva la più grande città italica: estesa su oltre 400 ettari, l’area urbana venne circondata da mura, costruite intorno al 378 a.C. (le prime dopo quelle costruite in età monarchica). Roma entrava in una fase più complessa della sua politica estera. Il militarismo di un’aristocrazia che andava formandosi, la ricerca di nuove terre, le prime attività diverse dall’agricoltura (commercio), furono tra le motivazioni più importanti che orientarono la visione politica della città verso territorio nemico, penetrandovi e cercando di dividerlo in due parti (occupando le città più importanti del Sannio. Il loro obiettivo, probabilmente, fu una delle città capitali, Boviano, centro dei Pentri, una delle tribù sannitiche più agguerrite. Da questa manovra nacque il disastro delle Forche Caudine del 321 a.C., in cui l’esercito romano fu bloccato in una gola angusta e costretto alla resa. Nel 321 a. C. i consoli furono Tito Veturio e Spurio Postumio; i Sanniti idearono uno stratagemma per ingannare i Romani, infatti alcuni di essi si travestirono da pastori che indirizzarono i Romani presso una gola montuosa, un luogo chiamato Caudio. Giunti fin qui i Romani si accorsero di essere in trappola, avendo la strada sbarrata da tronchi e massi, mentre dal lato opposto trovarono i nemici guidati da Gavio Ponzio Telesino. L’esercito romano, stremato per la fame e la stanchezza, fu in seguito liberato pagando care condizioni: ogni romano fu costretto a passare sotto un arco di lance nemiche, schernito e deriso dal nemico. Il 321 a.C. segnò l’inizio di una tregua durata fino al 316 a.C., perciò si presume che sia stato stipulato una sorta di trattato tra i Sanniti e i Romani. Questi ultimi attuarono delle modifiche in campo militare: raddoppiarono le legioni (da due divennero quattro) e adottarono uno schieramento, adatto alla guerra su terreni montuosi e accidentati, che consisteva nella suddivisione della legione in trenta manipoli che formavano l’unità base della legione. Vennero adottati poi il pilum e lo scudo rettangolare. La ripresa delle operazioni nel 315 a.C. andò nuovamente a sfavore dei Romani, i quali subirono la sconfitta a Lautulae, nei pressi di Terracina. A Roma le difficoltà della guerra ebbero ripercussioni sugli schieramenti politici che sfociarono in una lotta ingaggiata da Appio Claudio Cieco contro la nuova classe dirigente formatasi nelle lotte patrizio-plebee. Nel 314 a.C. Roma fondò una colonia latina a Luceria, ai confini tra Apulia e il Sannio, in modo da accerchiare il territorio sannita grazie anche alle alleanze con le tribù di Marsi, Peligni, Marrucini, Frentani. La situazione interna a Roma richiese uno sforzo considerevole che necessitava dell’impiego di tutti gli uomini migliori: nel 314 a.C. il dittatore plebeo Gaio Menio rimaneva a Roma per gli affari interni, il patrizio Fabio Rulliano svolse un ruolo decisivo nelle operazioni militari, ottenendo la vittoria presso Terracina. Il significato di tale vittoria mostrò ai Sanniti la difficoltà nel raggiungere un risultato decisivo a causa della capacità di recupero del nemico. Nel 313 a.C. vennero dedotte le colonie latine di Saticula e Suessa Aurunca che servirono a rafforzare la presenza romana ai margini del territorio sannitico; nel 312 a.C. la valle del Liri venne occupata dalla colonia latina di Interamma e la costituzione di un’altra colonia a Ponza fu importante per proteggere le coste dalle operazioni navali. Gli Etruschi a settentrione iniziarono a muoversi mettendo in crisi il sistema di governo in alcune città, come Arezzo, rette da aristocrazie filoromane. Fabio Rulliano, nel 311 a.C., compì una spedizione che condusse, per la prima volta, i Romani a nord dei monti Cimini riuscendo così a frenare la minaccia etrusca. Per alcuni anni la guerra tra Roma e Sanniti assunse una fase di stallo: i Sanniti alternavano incursioni nel Lazio e in Puglia e i Romani fecero altrettanto. Nel 306 a.C. i Romani rinnovarono il loro trattato con Cartagine, in base al quale i Romani erano esclusi dalla Sicilia e dall’Africa, mentre i Cartaginesi erano esclusi dall’Italia, soprattutto dalle coste meridionali che potevano essere raggiunte dalla Sicilia. Le ultime fasi di questa seconda guerra rimasero per la maggior parte oscure: probabilmente, nel 305 a.C., ebbe luogo la presa di Boviano da parte dei Romani che comportò la firma di un trattato di pace nell’anno seguente. Tale situazione però non portò ad una sconfitta definitiva dei Sanniti, infatti la pace fu più che altro una tregua in preparazione di un nuovo e ultimo scontro verificatosi a partire dal 298 a.C. Terza guerra Sannitica: Gli anni della tregua furono segnati dalla deduzione di nuove colonie latine con le quali controllare al meglio l’Italia Centrale, ovvero: Sora, Alba Fucente e Carseoli (il territorio degli Equi divenne territorio romano), e nel 299 a.C. vennero create due nuove tribù l’Aniense e la Teretina. Ottenuto così un solido controllo dell’Italia Centrale, i Romani cercarono una soluzione per la sicurezza a nord riuscendo ad impadronirsi della città umbra di Narni, in cui stanziarono una nuova colonia latina. A oriente di Narni si trovavano i Piceni, i quali avevano siglato un trattato antigallico con Roma. A sud, invece, le popolazioni italiche spostandosi avevano modificato gli equilibri di quella regione in cui da secoli vi si trovavano le colonie greche, le quali, minacciate nella loro sicurezza, chiamarono in loro aiuto generali greci. L’ultimo di questi generali, Cleonimo, fu chiamato da Taranto per contenere soprattutto la pressione dei Lucani. I Romani nel 302 a.C. accettarono di stipulare un trattato con i Tarentini con il quale si impegnavano a non navigare oltre il Capo Lacinio, all’altezza di Crotone; solo pochi anni dopo (299 a.C.) strinsero un’alleanza con i Lucani che rappresentò un deliberato tentativo di completare l’accerchiamento del Sannio. Anche le notizie inerenti la Terza guerra Sannitica rimangono oscure: dalle fonti trapelano notizie riguardo la strategia delle due parti in lotta: nel 298 a.C. Scipione Barbato compì una spedizione in Puglia per stringere i Sanniti a sud così da occupare una serie di posizioni. I Sanniti, invece, puntavano al congiungimento delle loro forze con quelle di Galli, Umbri ed Etruschi, già scesi in campo contro i Romani. Nel 296 a.C. Roma dovette impiegare tutte le sue risorse umane e di guida militare. Lo scontro decisivo (detto anche Battaglia delle nazioni) ebbe luogo a Sentino, nel cuore dell’Umbria, nel 295 a.C. L’esercito romano venne guidato da Fabio Rulliano e Decio Mure (prestigiosi capi dell’aristocrazia patrizio-plebea). Roma inviò un esercito sul territorio etrusco e ciò spinse gli Etruschi, che erano andati ad unirsi a Galli e Sanniti, a ritornare indietro. Si narra che, durante la guerra, i Romani vennero sorpresi da una tattica dei Galli che portò alla morte di Decio Mure; infatti i Galli si gettarono sull’esercito romano con carri trainati da cavalli e in ognuno di questi carri vi era una legione barbara che scagliava frecce. Il fracasso dei carri spaventò i cavalli dei soldati Romani che si diedero alla ritirata ma, nella mischia, il console Mure (figlio dello stesso Mure che si sacrificò nella guerra latina) si immolò abbattendosi contro i carri (compiendo il rito della devotio, pratica religiosa in base alla quale il comandante dell’esercito romano si immolava agli Déi Mani per ottenere, in cambio della sua vita, la vittoria e la salvezza dei suoi uomini). Questo sacrificio rianimò le schiere romane. Ciò che decise la vittoria romana fu, probabilmente, il mancato congiungimento dei Sanniti e dei Galli con gli Etruschi e gli Umbri, trattenuti nei loro territori a causa della pressione romana. Le operazioni belliche si spostarono poi nel cuore del territorio sannita giungendo ad un’ulteriore vittoria romana, nel 293 a.C., presso Aquilonia. Nel 290 a.C. Manio Curio Dentato (capo plebeo) consolidò il controllo romano delle zone più difficili riuscendo ad annientare la resistenza sabina, mentre a Sud i Sanniti venivano accerchiati e costretti alla pace. I termini del trattato non sono del tutto certi, quello che possiamo dedurre è che la costituzione in Puglia della colonia latina di Venosa (291 a.C.) e la confisca di varie comunità presenti in area sannita mostravano gli accrescimenti territoriali ottenuti da Roma. Dal punto di vista politico, il problema dei rapporti con il Sannio venne risolto costringendo i nemici ad un’alleanza che, stipulata con una potenza divenuta egemone, limitava la loro autonomia di iniziativa, segnando così il loro ingresso nella sfera degli interessi romani. Già nel 295 a.C. i Romani fondarono due nuove colonie marittime di cittadini romani a Minturnae e Sinuessa. I Romani, in alcuni decenni, riuscirono a riprendere il controllo della situazione che era stata compromessa durante le guerre: in territorio etrusco, nel 273 a.C., stabilirono una nuova colonia latina, Cosa (la quale sorgeva sul roccioso promontorio di Ansedonia, nel comune di Orbetello – Toscana); nel 289 a.C. venne distrutta Amiterno e fondata la colonia latina di Adria (Veneto - consolidando così il controllo della Sabina e aprendo la strada all’Adriatico); tra il 289-283 a.C. i Romani fondarono una colonia di cittadini a Sena Gallica (Marche - la prima sull’Adriatico), seguita, nel 268 a.C., da una colonia latina a Rimini (Emilia-Romagna); nel 264 a.C. un’altra colonia venne dedotta a Fermo (Marche). In questo modo anche l’Italia Centrale e Centrosettentrionale entrava nella sfera della politica romana. Il governo della Repubblica Le magistrature L’assetto istituzionale che si venne a formare nel corso del IV secolo a.C. resse fino alla fine della Repubblica. Roma, divenuta padrona di gran parte dell’Italia, mantenne intatta la struttura di città-Stato; il suo governo era costituito da un insieme di magistrature, le quali rappresentavano l’espressione di un’organizzazione di vita cittadina fondata su basi comunitarie e consuetudinarie molto forti: i Romani infatti non possederono mai una costituzione scritta, come quelle degli Stati moderni. Nella pratica consolidata vi erano una gerarchia magistratuale (non sempre rigidamente rispettata) e un cursus honorum conseguente che di rado conduceva al consolato (la magistratura più elevata). Il concetto romano di magistratura prevedeva vasti poteri. L’incorporazione delle istituzioni plebee nelle istituzioni originarie della Repubblica formò un meccanismo di governo singolare. Vi erano le magistrature dotate dell’imperium, il comando militare: ed erano il consolato e la pretura. Queste avevano anche il potere di convocare i comizi centuriati e di proporre le leggi. L’imperium rappresentava un potere enorme, in teoria assoluto. Questi magistrati, come tutti gli altri, avevano giurisdizione nei campi di loro competenza: potevano applicare sanzioni per i renitenti alla leva e, durante la campagna militare, comminare pene che andavano alla condanna a morte senza diritto di appello ai comizi (provocatio) anche per i cittadini romani, in quanto soldati. Il consolato era circondato da un enorme prestigio formale e chi era stato console aveva un ruolo di grande rilievo. Erano i consoli a condurre le guerre e soprattutto una guerra vittoriosa era un fatto importante. L’imperium apparteneva anche ai pretori: nella riforma del 366 a.C. il pretore assunse soprattutto compiti di giurisdizione civile nell’ambito cittadino (pretore urbano), mantenendo comunque la facoltà di convocare le assemblee, il Senato, e di esercitare il comando militare. Nel 242 a.C. al pretore urbano si affiancò un pretore peregrinus, cui fu riservata la giurisdizione nelle questioni inerenti cittadini romani e peregrini, ovvero non cittadini. Questi ultimi era diventati molti dopo la conquista dell’Italia, e avevano una serie di rapporti con Roma. Le magistrature minori, prive del comando militare, si occupavano di funzioni amministrative nell’ambito cittadino. I questori avevano competenze giudiziarie e finanziarie: a loro spettava la giurisdizione penale (già nell’età monarchica vi erano i quaestores parricidii) e il controllo del tesoro pubblico. Nel cursus honorum si aprivano le cariche di edile e di tribuno della plebe. Il tribunato era sorto come potere negativo, esercitato inizialmente come strumento di resistenza e di pressione nei confronti delle magistrature patrizie; i tribuni, anche loro riuniti in un organo collegiale che durava un anno, potevano proporre plebisciti con valore generale di legge, convocavano i comizi tributi e sedevano in Senato. Mantennero però i loro poteri di interdizione che gli consentivano, con l’intercessio, di bloccare iniziative dei magistrati contrarie ai diritti dei cittadini, costituendo una limitazione alle prerogative dei magistrati stessi. Per esempio, i tribuni intervenivano quando un cittadino era chiamato arbitrariamente alla leva militare o veniva accusato impropriamente. Il tribunato fu a lungo uno strumento del ceto dirigente (ad esempio, il diritto di veto fu esercitato contro le iniziative dei Gracchi da tribuni legati all’oligarchia conservatrice). Questo organo, sul piano giuridico, svolse una funzione essenziale, soprattutto durante i conflitti politici e divenne lo strumento con il quale creare un rapporto privilegiato con le assemblee cittadine. L’edilità era stata un’altra invenzione plebea, legata al tempio e agli archivi. Nel tempo, i patrizi crearono i loro edili, detti curiali, che si estendevano al controllo del mercato (e quindi delle transazioni commerciali), alla polizia urbana, e al controllo dei giochi pubblici. Delle altre magistrature, la dittatura e la censura, la prima che in origine si era alternata col consolato, col tempo perse importanza, e dalla fine del III secolo fu usata di rado: il dittatore nominava un magister equitum, suo subordinato. Quando questa carica ricomparve nel I secolo a.C., essa servì a promuovere i grandi poteri personali che posero fine alla Repubblica. La censura, introdotta nel 443 a.C., finì per assumere una serie di funzioni importanti nell’ambito dello svolgimento della vita cittadina. L’iscrizione dei cittadini nelle liste e la rispettiva assegnazione alle rispettive classi di censo comportavano il controllo sulle dichiarazioni che essi rilasciavano, in una cerimonia pubblica, riguardo al loro patrimonio, e in generale sulla loro condotta privata. La nota censoria rappresentava un elemento fondamentale della vita comunitaria: la sanzione poteva colpire anche senatori e cavalieri, per diversi motivi, spesso di ordine morale in senso lato (la mancanza di figli, lo spergiuro ecc.). I censori ebbero anche il compito di fissare le cifre per l’appalto di servizi svolti da privati per conto dello Stato e per le aste che assegnavano l’agro pubblico, funzioni che divennero sempre più importanti con l’aumento delle proprietà demaniali e dei servizi necessari all’amministrazione delle province, quando queste furono istituite dopo la Prima guerra Punica. Ogni uomo politico nell’arco di una vita si trovava ad occupare, per alcuni anni, funzioni di governo di diversa importanza, con una progressione che non era automatica e lineare. La sua connotazione, in definitiva, era quella di senatore. Le magistrature aprivano l’accesso al Senato: qui si prendevano le decisioni Una cultura in via di trasformazione Vi furono notevoli novità culturali che caratterizzarono la società romana: Furio Camillo, vincitore di Veio e dei Galli, nel 395 a.C. restaurò i templi della Fortuna e della Mater Matuta, nell’area della chiesa di Sant’Omobono, costruiti nel VI secolo dai re etruschi, e importò in Roma la divinità protettrice della città vinta, Giunone Regina. L’erezione del tempio della Concordia, nel 392 a.C., e l’invio a Delfi di un ex-voto per la presa di Veio indicano rapporti con la civiltà greca, anch’essi tradizionali della Roma etrusca: la personificazione di concetti astratti, tipica della speculazione politica e religiosa greca, venne introdotta poi alla fine del IV secolo. Si deve poi ad Appio Claudio Cieco l’introduzione dei culti di Bellona Vincitrice, Giove Vincitore e della Vittoria, nonché il rinnovamento del culto di Ercole. Uomini politici di origine etrusca, come i fratelli Ogulni, furono attivi nella politica di rinnovamento culturale e religioso: a un Ogulnio, nel 300 a.C., si deve l’apertura ai plebei del collegio dei Pontefici e quindi delle massime cariche religiose, connesse con quelle pratiche rituali che mediavano il rapporto favorevole fra divinità e comunità. Sempre gli Ogulni, nel 292 a.C., favorirono l’ingresso in Roma del culto greco di Esculapio, e già nel 296 a.C. avevano curato l’erezione della statua della Lupa e dei Gemelli. Queste caratteristiche mostrarono una Roma attenta agli aspetti ideologici e culturali della politica vittoriosa, disponibile a nuove esperienze, ma anche cosciente della propria forza tanto da promuovere idealità culturali che la sostenessero. Nel 264 a.C. vennero introdotti i giochi gladiatori, mentre nel 249 a.C. si celebrarono i Ludi Secolari (entrava così, nella concezione religiosa romana, il concetto di rinnovamento del secolo con rituali greci). I Ludi, nonostante fossero di derivazione greca, rispondevano ad alcuni concetti romani, come l’evocazione di forze divine. Dal V al III secolo l’assunzione di responsabilità della città nell’organizzazione della religione ebbe uno svolgimento relativamente lineare. I bisogni sociali e, in parte, anche quelli individuali furono soddisfatti con l’introduzione costante di nuovi elementi, sia di nuove divinità che di nuovi riti, e rimase preoccupazione preminente il mantenimento della pax deorum attraverso la correttezza del rito, gli adempimenti formali. La Repubblica patrizio-plebea Ciò che derivò dal termine delle guerre sannitiche andò ad incidere sul tessuto connettivo della società romana. Nel 367 a.C. la questione patrizio-plebea si risolse, in sostanza, con il riconoscimento politico dei plebei ricchi e con provvedimenti di natura economica e sociale, come l’accesso dei plebei all’agro pubblico. I gruppi che avevano diretto la plebe e ne avevano organizzato le istituzioni si integrarono rapidamente nella classe dirigente, iniziando ad avere interessi riguardo il mantenimento della struttura istituzionale e dei rapporti sociali esistenti. Nel 339 a.C. una legge di Publilio Filone sanciva il valore di legge dei plebisciti votati nelle assemblee tribute, con il vincolo dell’approvazione preventiva della proposta da parte del Senato che esercitava così la sua auctoritas. Nel 300 a.C. una legge Ogulnia aprì i collegi sacerdotali ai plebei, ciò fu passo di grande rilievo che non fu mai completamente assorbito dalla mentalità patrizia, infatti i patrizi non rinunciarono mai a rivendicare il loro esclusivo diritto a compiere alcuni riti indispensabili per la pax deorum. Nel 287 a.C., a seguito di un’ultima secessione plebea, con la legge Ortensia venne tolto anche il vincolo dell’approvazione senatoria ai plebisciti; i concili plebei ordinati per tribù si avviarono a divenire l’assemblea legislativa più importante della città-Stato; i comizi tributi vennero affiancati dall’assemblea plebea. La nuova classe dirigente che si venne a creare prese il nome di nobilitas (formata da quanti erano noti per l’esercizio delle magistrature). Era un’aristocrazia basata sulle funzioni e non sulla nascita. L’homo novus non era colui che nasceva in una famiglia consolare, ma era il primo della sua famiglia a rivestire una carica elevata. Fatti inerenti la fine delle Guerre Sannitiche Quando nel 290 a.C. terminarono le guerre sannitiche, gli Italici, soprattutto quelli più a sud (Lucani e Bretti), che subirono meno le conseguenze delle lotte poiché combatterono di meno, pur avendo appoggiato i Sanniti, cercarono di recuperare territorio rivolgendosi soprattutto verso le coste e verso i centri insediati sulla costa. Quello che avevano fatto i Sanniti nel secolo precedente (con Capua, Cuma e Teano), lo fecero gli Italici con Sibari, Crotone ecc., ma con risultati differenti. Roma con la vittoria sui Sanniti uscì dai confini del Lazio, avvicinandosi anche alle colonie della Magna Grecia. Roma, una volta allargato il suo territorio, iniziò a nutrire aspirazioni egemoniche e la complessa situazione che vigeva nell’Italia meridionale era un ottimo obiettivo. Sfruttando a suo favore la debolezza delle comunità magnogreche, decise di volgere la sua politica verso un’azione decisiva: infatti nel 282 a.C., l’aristocrazia di Turi, città nell’orbita degli interessi di Taranto, era minacciata da movimenti democratici. Già nel 285 a.C. gli Italici iniziarono a premere verso le colonie greche ponendo sotto assedio la città di Turi (erede di Sibari). Le risorse della città erano quasi del tutto esaurite e non riuscendo a reggere l’attacco Turi chiamò in aiuto i Romani. Questo irritò Taranto, la quale accusò i turini di aver messo da parte la solidarietà etnica che contraddistingueva il mondo greco. Turi, però, aveva ottimi motivi per chiedere l’aiuto di Roma: 1) Roma era diventata la potenza incontrastata dell’Italia peninsulare; 2) Turi nutriva un certo rancore nei confronti di Taranto. Quando Turi fu fondata, nel 444 a.C., voleva appropriarsi del territorio sibarita (considerandosi erede politica ed economica di Sibari) ma questo non fu possibile poiché nel momento in cui Sibari non c’era più, il suo territorio fu utilizzato da colonie come Crotone e Taranto. Perciò Turi una volta fondata si trovò ad affrontare una guerra decennale con Taranto per il possesso della fascia costiera che va dalla piana di Sibari a Taranto. Alla fine della guerra venne fondata la colonia di Heraclea (odierna Policoro) con coloni tarantini: di fatto Taranto aveva vinto, anche se le fonti affermarono che non vi furono né vinti né vincitori; 3) A Turi, inoltre, vi era un governo aristocratico, a Taranto invece vigeva il partito democratico, per cui gli aristocratici turini temevano che i tarantini avessero potuto cambiare la forma di governo nel caso in cui i turini avessero chiesto aiuto ai tarantini. Roma, però, non poté rispondere alla richiesta di aiuto di Turi, poiché impegnata in una pesantissima incursione da parte dei Galli. Paradossalmente, questa situazione che si va a delineare va a favore dei Turini. I Sanniti, approfittando dell’incursione dei Galli, si liberano dell’egemonia romana riprendendo così la loro autonomia e dirigendosi verso nord allentando la pressione sui Turini. Quando i Romani riescono a sconfiggere i Galli si installa la situazione precedente e, questa volta, nel 282 a.C., Roma andrà in aiuto di Turi, sconfiggendo Bretti e Lucani e ponendo nella città un presidio, in modo che non venisse più attaccata da Bretti e Lucani; a questo punto, anche altre città greche come Crotone, Locri, Ipponio e Reggio chiederanno un presidio a Roma per proteggersi (ciò dimostrava come Roma stesse diventando una potenza egemone in Italia e garante dell’ordine aristocratico). La loro presenza proteggeva le città greche da due pericoli: la democrazia e i popoli interni. Bisogna precisare, però, che Roma nel 303 a.C. aveva stipulato un trattato con Taranto (Trattato di Capolacinio), con il quale si stabiliva che le navi romane non potevano oltrepassare Capocolonna (punto di riferimento dell’ingresso nel Golfo di Taranto). Fino alla fine delle guerre Sannitiche, Roma orientò la sua politica verso la Magna Grecia in senso difensivo, seguendo le strategie necessarie per la vittoria: il trattato con Taranto impegnava Roma a non interferire nella sfera di influenza di questa città. Quando Roma, però, iniziò a rendersi conto dell’importanza di Taranto per la circumnavigazione della penisola cominciò a nutrire interessi nel Golfo. Tecnicamente il trattato non era stato tradito, poiché non vi erano navi romane, ma comunque la città con i suoi presidi era all’interno di Taranto. Roma, per far comprendere quanto stava avvenendo ai tarantini, inviò dieci navi davanti al porto di Taranto, il cui scopo era quello di dimostrare la presenza romana nel Golfo. Taranto, però, attaccò subito la flotta romana facendo diversi prigionieri. Armarono poi il loro esercito arrivando a porre l’assedio nella città di Turi (e imponendo in essa un governo democratico). Secondo Tito Livio, Roma non voleva arrivare ad una guerra, ma voleva salvare i prigionieri che venivano maltrattati da Taranto. Nel 280 a.C. scoppiò una guerra tra Roma e Taranto. I tarantini, constatata la loro difficoltà davanti alle legioni romane, si rivolsero a un comandante greco: Pirro, re dell’Epiro (come avevano già fatto con Alessandro il Molosso nel 334 a.C. e nel 303 a.C. con Cleonimo di Sparta) il quale arrivò in Italia nel 280 a.C., la cui impresa nella penisola e in Sicilia, durata fino al 275 a.C., rappresentava un’epopea. Le guerre Pirriche Le guerre Pirriche furono un conflitto verificatosi dal 280 al 275 a.C. e che vide la Repubblica romana contro l’esercito del re epirota, Pirro. Quest’ultimo, in un primo momento era incerto sul da farsi riguardo Taranto, la quale in passato aveva sempre abbandonato chi l’aveva aiutata; allo stesso tempo, aiutandola avrebbe potuto creare un regno greco in Occidente. Fu incoraggiato poi da Tolomeo Cerauno, re d’Egitto. A quel tempo nel Mediterraneo vi erano due grandi potenze, Cartagine e l’Egitto; se Pirro fosse riuscito ad arrivare in Italia sarebbe potuto arrivare in Sicilia dove da tempo vi erano contrasti tra le colonie greche e quelle cartaginesi. I Sicelioti (greci di Sicilia) avrebbero chiesto il suo aiuto, e cacciare i cartaginesi dalla Sicilia sarebbe stato un grosso vantaggio economico per l’Egitto, ed è per tale motivo che Tolomeo incoraggiò Pirro ad intervenire. I famosi 20 elefanti di Pirro gli verranno affidati proprio da Tolomeo, così come il denaro necessario per lo sforzo bellico. L’Italia per Pirro era un’occasione per ottenere maggiore potere. Pirro chiese a Taranto, come condizione, la cessione dell’acropoli, ovvero del punto più alto che domina e controlla la città, fortificata da una cinta muraria che la separa dal resto della città. Chi controllava l’acropoli, naturalmente, controllava la città. Con la cessione dell’acropoli, Pirro avrebbe potuto istituire un suo presidio inviando 2000 epiroti (così da avere un punto d’appoggio per il suo arrivo). Taranto accettò queste condizioni e, nel 280 a.C., Pirro arrivò in Italia. I Romani, intanto, inviarono delle legioni nella piana di Sibari, che si sarebbero spostate poi verso Taranto in modo da evitare che Pirro ottenesse l’aiuto delle popolazioni indigene (che avevano già promesso il loro aiuto). Pirro andò incontro ai Romani, senza attendere l’aiuto degli alleati; lo scontro avvenne ad Eraclea, nell’estate del 280 a.C., e fu la prima volta che i Romani incontravano un esercito ellenistico perfettamente organizzato. In un primo momento Roma ebbe la meglio, in seguito, però, Pirro adottò una nuova strategia: infatti, oltre alla falange macedone che prevedeva una tattica militare sconosciuta ai soldati romani, usò gli elefanti, animali anch’essi ignoti e per questo iniziarono a fuggire presi dal panico e chiamando questi animali “buoi di Lucania”. Fu un momento difficile per la città latina che vide Pirro avanzare fino ad Anagni, sulla via Latina. Un epirota, Cinea, avviò delle trattative con il Senato che prevedevano durissime condizioni: la rinuncia romana ai consistenti vantaggi ottenuti contro i Sanniti e l’accentramento su Taranto della guida della politica magnogreca. Secondo la tradizione Appio Claudio Cieco insistette per far sì che il Senato rifiutasse tali condizioni. Nonostante la vittoria ottenuta, Pirro perse 14.000 uomini, mentre i Romani ne persero 4/7.000; mentre le perdite dei Romani vennero sostituite rapidamente, con una leva straordinaria, gli uomini di Pirro non furono rimpiazzati, anche perché i soldati si trovavano in Epiro. Intanto, nel 279 a.C., Pirro si ritirò e spostò il teatro delle operazioni belliche in Puglia, dove, ad Ausculum sull’Ofanto, non riuscì ad ottenere una vittoria come quella precedente: i Romani iniziarono a contrastare gli elefanti grazie ai carri muniti di falci nelle ruote. La battaglia di Ascoli Satriano è una battaglia anomala: Pirro contava sugli alleati che gli erano mancati ad Eraclea; l’esercito di Pirro era costituito da Sanniti, Lucani e Bretti, anche se gli ultimi due si diedero poi alla fuga. Le fonti, riguardo l’esito del conflitto, sono contrastanti, si narra che lo scontro avvenne quasi alla pari, con circa 70.000 uomini l’uno, ma alla fine Pirro dovette allontanarsi verso Taranto e ciò permise ai Romani di occuparne il territorio. Come era stato previsto da Tolomeo, i Siracusani chiesero aiuto a Pirro, il quale però, avendo paura di essere attaccato alle spalle dai Romani, cercò di stipulare delle trattative di pace con il nemico. Nel frattempo si presentarono alla foce del Tevere 500 navi cartaginesi che offrivano la loro alleanza a Roma, poiché non volevano che Roma stipulasse un trattato di pace con Pirro. L’alleanza con Cartagine imponeva alle due potenze di non stipulare accordi con Pirro e dichiarava le legittime aree di influenza: la Sicilia andava a Cartagine, mentre l’Italia a Roma (con il nome Italia, a quel tempo, ci si riferiva all’area tra Roma e lo stretto. La prima Italia fu l’area compresa tra lo stretto di Sicilia e l’istmo di Catanzaro, compreso tra i golfi di Squillace e di Sant’Eufemia, poi si estese verso Nord), inoltre con il trattato si stabiliva che le navi cartaginesi potevano trasportare anche soldati romani. Questa alleanza, però, non impedì a Pirro di accogliere la richiesta di aiuto dei Siracusani lasciando dei presidi in Italia. In Sicilia Pirro vi rimase per due anni, anni in cui sconfisse i cartaginesi e li spinse verso le città costiere dove però non riuscì a sconfiggerli; così Pirro decise di spingere il suo esercito in Africa, in modo da affrontare i cartaginesi nel loro territorio, ma i Siciliani stanchi dei conflitti e del governo dispotico di Pirro tolsero il loro appoggio e lo fecero allontanare. Pirro sbarcò poi a Locri, dove iniziò a preparare il suo esercito. La necessità di nuovo denaro lo spinse presso il tempio di Persefone (la storia di Persefone fu incisa su delle tavolette, le Pinakes. Persefone, figlia di Demotre, dea dell’agricoltura, venne vista dal dio degli inferi che si innamorò di lei e la rapì portandola nell’oltretomba. L’angoscia di Demotre, che non riesce a trovare la figlia, fa rattristare la terra, la quale non produsse più alcun frutto. Il popolo reclamò presso Zeus, il quale rimprovererà Demotre spiegandole dove si trova la figlia. La scoperta di ciò non placò l’angoscia della dea, ma la rattristò di più. Fu per questo che le due divinità dovettero raggiungere un compromesso: per sei mesi Persefone sarebbe rimasta con la madre (Primavera ed Estate), gli altri sei sarebbe stata negli inferi (Autunno e Inverno). Sulle Pinakes vennero incise le scene di rapimento e (280 a.C.) ebbe importanza poiché molti si resero conto del fatto che vi era qualcuno che poteva tenere testa alla potenza e all’arroganza di Roma. Dunque quasi tutti i popoli italici e alcune città greche (Crotone e Locri) abbandonarono Roma per consegnarsi a Pirro. Allora Decio Vibellio decise di organizzare, insieme ai suoi, una festa a cui invitare tutti gli uomini della città che, una volta ubriacati, sarebbero stati uccisi. Così facendo i campani si impadronirono di Reggio, delle famiglie, delle donne, delle case e dei beni. Nonostante questo, i cartaginesi continuarono a considerarsi alleati di Roma e rimasero contro Pirro. una volta finita la guerra contro Pirro, Roma dovette occuparsi dei reggini che, invece di essere protetti, vennero uccisi dai campani. Quest’ultimi avevano creato a Roma uno sfavore tale che nessuno avrebbe più richiesto il suo aiuto. Roma fu costretta ad assediare Reggio, anche se i campani avevano fornito un forte aiuto nella guerra contro Pirro, facendosi aiutare da Gerone II con il quale stipulerà un’alleanza. Nel 270 a.C. Reggio viene espugnata e i campani vennero catturati e condannati a morte; con questo patto si ebbe il primo atto di intromissione romana nel territorio siculo. Roma ormai aveva raggiunto lo stretto e l’Etruria, divenendo la padrona della penisola. È qui che il termine Italia si estende a tutta la penisola. Da qui Roma si trovò nella situazione di non sapere più dove espandersi poiché le isole erano occupate da Cartagine; perciò, quando nel 264 a.C. arrivò a Roma un’ambasceria che le chiedeva di intervenire in Sicilia, Roma fu abbastanza incline ad accettare. Fra il IV e il III secolo a.C., Agatocle fu tiranno di Siracusa. Era un generale astuto e capace, il quale combatté contro i cartaginesi senza però riuscire a cacciarli fuori. Egli decise allora di spostare la guerra in Africa, preparando una grande spedizione contro Cartagine, arruolando un esercito di mercenari di origine campana. Quando Agatocle morì, questi mercenari tentarono di occupare Siracusa senza riuscirvi, e rassegnati puntarono verso Messina dove ne uccisero gli uomini, impadronendosi così della città. Questi erano i Mamertini, così chiamati perché si riteneva fossero i seguaci del dio Mamers (dio della guerra dei campani). Messina, perso il vecchio nome di Zancle, prese quello di Messenia. La posizione dei Mamertini gli consentiva di attuare delle scorrerie ai danni delle navi di passaggio e di accrescere così i loro possedimenti a spese delle città vicine. Nel 269 a.C. Gerone II, in guerra contro i Mamertini, riuscì ad ottenere diversi successi che gli permisero di conseguire il titolo di re, basileus, della Sicilia. Pochi mesi dopo, a Milazzo, sconfisse i Mamertini prendendone come prigioniero il loro capo, senza però occupare Messina (forse per timore di un intervento cartaginese). Nel 265 a.C. i Mamertini chiesero aiuto agli eterni nemici dei sicelioti, i cartaginesi (i quali ambivano al controllo dello stretto). Cartagine inviò da subito delle truppe a presidiare Messina, mentre Gerone II, costretto alla resa, decise di ritirarsi dopo aver pagato un’indennità di guerra e aver stipulato un trattato con Roma che comprendeva l’abbandono dei cartaginesi (i quali rimasero a Messina). Un tale presidio avrebbe potuto bloccare il transito tra Tirreno e Ionio nello stretto di Messina, perciò i Mamertini iniziarono a preoccuparsi e a sentirsi sopraffatti dall’invasione cartaginese, quindi si rivolsero ai Romani per avere il loro aiuto. Rifiutare significava riconoscere ai cartaginesi il dominio sullo stretto, ma allo stesso modo intervenire avrebbe scatenato il casus belli, in quanto Roma avrebbe tradito i patti con Cartagine. La situazione era grave, ma Roma non poteva sottostare al pericolo di limitazioni alla navigazione nei mari italici, e quindi il popolo romano decise di fare questa guerra, anche se il Senato era contrario (così dice Livio). Nel 264 a.C. il console Appio Claudio fu inviato a Reggio, dove strinse un accordo con i Mamertini, e trasferì a Messina parte delle truppe stanziate sulla costa calabrese. Gli alleati navali riuscirono ad impedirla. Il loro presidio fu allontanato dall’acropoli di Messina e sostituito dalle truppe romane. La situazione si era alterata in Sicilia; siracusani e cartaginesi considerarono decaduti i rispettivi trattati con Roma e assediarono la città di Messina per mare e per terra. Appio Claudio riuscì comunque a far arrivare altre truppe costringendo i cartaginesi ad abbandonare l’impresa. La guerra con Siracusa era finita a vantaggio di Roma, ma questo non era altro che il prologo della guerra contro Cartagine. I cartaginesi, ritiratisi da Messina, raccolsero grandi forze presso Agrigento (divenuta la loro nuova base in Sicilia). Roma, considerando il pericoloso nemico, decise di effettuare una strategia graduale basata inizialmente su un attacco sulla terraferma: i consoli del 262 a.C. ebbero come primo obiettivo la conquista di Agrigento e per cinque mesi assediarono la città con quattro legioni. Nonostante le numerose perdite romane (circa 30.000 uomini), sul finire del 262 a.C. la città fu conquistata. Da qui lo scopo di Roma si era reso palese: scacciare i cartaginesi dalla Sicilia, così come i cartaginesi erano intenzionati a cacciare i romani dallo stretto. All’inizio del 261 a.C., i consoli non riuscirono ad ottenere degli effettivi risultati, perciò decisero di affrontare il nemico sul loro terreno: il mare. Nel 260 a.C., uno dei consoli, Cornelio Scipione, ebbe il comando della flotta, mentre l’altro console Gaio Duilio quello delle truppe. Scipione si scontrò per primo con il nemico nelle acque di Lipari, luogo in cui i cartaginesi lo catturarono insieme a tutte le sue navi; per tale motivo, Duilio prese il comando della flotta, scontrandosi col nemico nelle acque di Milazzo. I cartaginesi vantavano una flotta ed un equipaggiamento effettivamente migliori, perciò i romani iniziarono ad apportare delle modifiche alle loro navi. La strategia navale classica consisteva nello speronamento, che veniva usato per affondare le navi dei nemici. Duilio, invece, fece attrezzare le navi romane con delle passerelle che si aprivano sui fianchi (mentre durante la navigazione rimanevano alzate). Ogni passerella terminava con un gancio, definito corvo, con il quale si agganciava la passerella alla fiancata della nave avversaria. Con questa tecnica era reso possibile l’abbordaggio e il combattimento di fanteria sul ponte delle navi; in questo modo si arrivava quasi ad uno scontro terrestre, e in questo i romani erano i migliori, infatti nel 260 a.C. otterranno la vittoria. La guerra, ovviamente, era lungi dall’essere decisa, ma da una parte era stato rivendicato l’insuccesso di Lipari e Roma era riuscita a battere una delle flotte più potenti del mondo antico. I combattimenti ripresero da parte cartaginese, perciò i romani per sconfiggerli definitivamente decisero di andare in Africa, anche perché nonostante gli scontri vittoriosi in Sicilia, le città cartaginesi sulla costa riuscivano a resistere grazie agli aiuti e ai rifornimenti ottenuti dalla flotta cartaginese. L’unica possibilità di vincere era quella di distruggere Cartagine stessa. Quindi nel 257 a.C. venne costruita una nuova flotta, mentre nel 256 i consoli Manlio Vulsone e Marco Attilio Regolo, coscienti del blocco navale posto dalla flotta cartaginese tra Sicilia ed Africa, navigarono lungo la costa meridionale della Sicilia per attirare i cartaginesi. La battaglia del promontorio Ecnomo fu una sconfitta così pesante che viene considerato il prologo della sua decadenza. Attilio Regolo sbarcò in Africa presso il capo Ermeo e si insediò in alcune località costiere. Egli riuscì a sconfiggere i cartaginesi in battaglia; e poté poi collegarsi con le popolazioni numide ribelli, svernando indisturbato in Africa. Nel corso dell’inverno i cartaginesi tentarono la via delle trattative, ma Regolo pose delle condizioni troppo gravi da accettare: lo sgombero della Sicilia e della Sardegna, un’indennità di guerra che potesse risarcire i romani delle spese e dei danni, la restituzione dei prigionieri, la consegna di 50 navi da guerra e, infine, un tributo annuo. Ciò spinse i cartaginesi a rifiutare queste richieste e ad arruolare altre truppe mercenarie capeggiate dallo spartano Santippo, un soldato estremamente abile, che riuscì a scatenare le forze cartaginesi contro Regolo che venne fatto prigioniero. I cartaginesi gli proposero un ulteriore trattato: Regolo avrebbe dovuto convincere il Senato romano a stipulare una pace, in caso contrario sarebbe dovuto tornare a Cartagine dando la sua parola di console romano. Naturalmente, essendo libero di tornare in patria, Regolo accetterà l’accordo, ma una volta rientrato convincerà il Senato a continuare la guerra contro Cartagine (stremata dai conflitti), e non a terminarla come aveva promesso di fare. Fatto questo, rientrò a Cartagine; i cartaginesi irritati dal suo atto lo condannarono a morte (con una tortura che gli avrebbe dato una morte lenta e dolorosa). La morte del console pose fine al primo intento di Roma di sconfiggere i cartaginesi sul loro suolo. La guerra, perciò, continuò in Sicilia, dove fu inviato un nuovo comandante cartaginese, Amilcare Barca, un grande generale che apparteneva alla fazione dei mercanti. Grazie a questo generale, Cartagine riuscì a resistere in Sicilia per circa dieci anni (ottenendo anche qualche successo). I romani non accettarono di trattare con i nemici, ed imposero quindi ai loro cittadini un prestito di 3 milioni di denarii, così da poter costruire 200 navi da guerra nuove, perfezionandole e rendendole più veloci, la cui flotta sarà capeggiata dal console Gaio Lutatio Càtulo. La mattina del 10 marzo del 241 a.C., la flotta romana entrò in contatto con quella cartaginese (comandata da Annone) presso la più occidentale delle isole Egadi. Nonostante la flotta cartaginese fosse favorita dalla direzione del vento, subì una pesante sconfitta. Nella condizione in cui versavano le due potenze le perdite subite non potevano essere risanate; ciò spinse l’ammiraglio cartaginese Annone a richiedere la pace a Roma. Annone, che apparteneva alla fazione dei proprietari terrieri, venne accusato, soprattutto da Amilcare, di aver chiesto la pace per interessi personali, quando ancora Cartagine era in grado di combattere. Il comandante romano stabilì che i cartaginesi sgomberassero la Sicilia, restituissero i prigionieri romani senza alcun diritto al riscatto e senza ottenere in cambio i cartaginesi catturati, si impegnassero a non muovere guerra a Roma, o ai siracusani e ai rispettivi alleati, e pagassero, infine, un’indennità di guerra di circa 13 milioni di denarii per 20 anni. I cartaginesi, non avendo altra scelta, dovettero accettare. Il Senato romano in seguito concesse la ratifica all’operato di Lutatio solo dopo aver imposto un maggiore carico di indennità di altri 6 milioni di denarii, abbreviando gli anni della rateazione e imponendo, in maniera ambigua, lo sgombero delle isole circostanti alla Sicilia. È così che, nel 241 a.C., terminò la prima guerra punica: la Sicilia, nelle mani di Roma, divenne una provincia, la prima provincia romana (solo con l’imperatore Diocleziano la Sicilia verrà considerata parte dell’Italia). Con il termine provincia si intende un territorio che è soggetto a Roma. Il governo della Sicilia fu organizzato sotto la guida di un pretore, magistrato dotato di imperium, che gli veniva prorogato per il periodo di permanenza nella sua provincia, coadiuvato da due questori: il pretore risiedeva a Siracusa con un questore a cui spettava il controllo della Sicilia orientale, e l’altro a Lilibeo che controllava invece la parte occidentale. La provincia, inoltre, aveva l’obbligo di pagare a Roma un tributo, con denaro o frumento (la Sicilia infatti diverrà il granaio di Roma). Questa prima guerra punica costituì una svolta per Roma, in quanto poté uscire per la prima volta dalla penisola, aprendosi così al Mediterraneo e avviando la politica imperialista. Tregua tra Roma e Cartagine (241-219 a.C.) Al termine della prima guerra punica ebbe inizio la politica espansionistica di Roma, che diede il via ad un imperialismo difensivo, ovvero Roma conquista per non essere conquistata. Roma affermerà la sua supremazia anche nel Mediterraneo orientale, impegnandosi nella guerra contro i pirati, soprattutto contro Teuta, la loro regina. Roma aveva consolidato la sua presenza sulla costa orientale della penisola fondando, dopo Rimini, Brindisi nel 244 a.C., e aveva ormai intensamente romanizzato tutta l’Italia centro-settentrionale fino al mare. D’altra parte, però, la regina illirica Teuta era riuscita ad imporsi a capo di uno Stato in grado di condurre una sua politica autonoma nell’Adriatico, praticando largamente la pirateria a danno degli alleati italici di Roma, rendendosi di fatto padrona della navigazione in quell’area. Perciò nell’Adriatico, mancando la vigilanza prestata in passato dai Siracusani, dalla Macedonia o dall’Epiro, le popolazioni costiere illiriche iniziarono incontrastate la guerra corsara. L’Illiria gravitava ad Oriente nell’area di interesse di un grande Stato ellenistico, la Macedonia, per il quale la presenza dei romani su quelle coste poteva essere un motivo di preoccupazione; i Macedoni da secoli consideravano quello sbocco al mare verso Occidente come essenziale. Così la logica politica romana coinvolse progressivamente, e in maniera inevitabile, interessi sempre più ampi e non facilmente controllabili; quindi, mentre la fondamentale questione della politica verso Cartagine era in precario e minaccioso equilibrio, Roma innescò una situazione di potenziale conflitto in Oriente. Non è un caso che i Cartaginesi e i Macedoni si trovassero uniti in una pur precaria alleanza contro Roma, quando Annibale sferrò l’attacco finale. La pirateria illirica rendeva rischioso e addirittura impossibile ogni traffico marittimo nell’Adriatico. La colonia greca di Lissa (isole Curzolane, in Croazia) chiese aiuto ai romani, ma la regina Teuta li anticipò occupando l’isola. Per il momento il Senato inviò un’ambasceria, nel 230 a.C., per chiederle di rinunciare alla pirateria adriatica; Teuta, però, molto probabilmente non conosceva i metodi e la forza romana, per cui dopo aver maltrattato gli ambasciatori li fece uccidere. La reazione romana fu rapida sia sul piano militare che su quello diplomatico: con 200 navi e 20.000 uomini, nel 229 a.C., la marineria illirica fu distrutta, forte solo di navi leggerissime (i lembi) adatte alla pirateria di corsa ma non alle battaglie contro le pesanti navi romane. Sbarcati in Illiria, i romani si impadronirono di due città in buona posizione strategica – Durazzo e Apollonia – presidiandole stabilmente e, immediatamente a sud del regno di Teuta, venne creato un piccolo principato autonomo che diedero a Demetrio di Faro, dichiarato loro alleato e proibirono agli Illiri di navigare con più di due navi a sud di Lisso. Nel 228 a.C. l’intenzione si spostò in ambito diplomatico: gli ambasciatori romani visitarono la Grecia per spiegare le ragioni dell’intervento della città latina in Illiria. Atene e Corinto accolsero con solennità le ambascerie romane, trattandole come rappresentanti di una grande contingente di cavalleria in un luogo boscoso posto tra lui e il fiume Trebbia; mandò poi dei cavalieri a provocare i romani e Longo, irritato, fece uscire l’esercito per attaccare Annibale, ma per farlo i romani dovevano attraversare il fiume. Solo 10000 uomini riuscirono ad attraversarlo stremati dal freddo e dalla fame, qui però vennero sconfitti definitivamente dai cavalieri nascosti. Le truppe romane superstiti si diressero in parte a Piacenza, in parte a Cremona, mentre Annibale rimase sulle rive del fiume non potendo attraversare gli Appennini per l’inverno freddissimo che gli fece perdere quasi tutti gli elefanti. Quest’ultima sconfitta subita dai romani era ben peggiore della precedente: durante la primavera i romani dovettero ritirarsi a sud dell’Appennino, conservando solo Cremona e Piacenza. Con questa vittoria Annibale si aprì la strada verso sud. Nel contempo, Scipione venne mandato dal Senato in Spagna (una fonte di approvvigionamento di Annibale si trovava in Spagna), mentre Annibale doveva attraversare l’Appennino, ma fu costretto a desistere a causa di una violenta tempesta di neve e sceglierà la via che passa per le paludi formatesi dall’allagamento dell’Arno. Gli uomini camminarono per giorni nell’acqua, riposandosi sui cadaveri degli animali; lo stesso Annibale in questa circostanza perse un occhio (e verrà infatti rappresentato come monocolo). alla fine, però, Annibale riuscirà a passare e a comparire nell’area pianeggiante a nord del Tevere. Nell’anno 217 a.C. venne eletto console Gaio Flaminio, che fu un tribuno della plebe malvisto dal Senato poiché tendeva ad appoggiare la Lex Claudia che proibiva ai senatori e ai loro figli di possedere navi che potessero trasportare più di 300 anfore che corrispondevano a 7 tonnellate (trasportare merci via mare comportava dei costi e, con questa legge, si commerciava in perdita, mentre il ceto equestre era favorito). Questo nuovo console era già conosciuto per aver fatto costruire la via Flaminia, che andava da Roma al mar Adriatico, all’altezza di Fanum Forunae e proseguiva fino ad Ariminium (Rimini). Questa via rappresentava l’accesso rapido alla Pianura Padana, la linea di espansione di Roma verso nord. Appunto per il fatto di essere malvisto egli temeva che il Senato avrebbe potuto ritardare il suo scontro con Annibale, e quindi la sua gloria. Per evitare questo partì senza prendere gli Auspicia, che compirà poi a Rimini (città che gli era fedele – vi era un rapporto di clientela, poiché da lui fu conquistata). Questa modalità era innaturale, poiché era Roma la sede di questi riti, ma solo così poté avere il via libera per mettersi alla caccia di Annibale. Nel frattempo Annibale riuscì ad organizzare il suo esercito che si era ripreso dalla traversata delle paludi. Durante una marcia di trasferimento, Flaminio si trovò a costeggiare il lago Trasimeno sul lato occidentale. Normalmente i comandanti mandavano una truppa in ricognizione, ma il console era così di fretta che andò avanti con tutto l’esercito e dovette attraversare una stretta strada che aveva sul lato destro il lago, su quello sinistro una serie di colline. All’uscita di questa strada trovò l’esercito di Annibale che aveva bloccato l’entrata e aveva disposto gli arcieri sulle alture; questa rappresentava una classica trappola che condusse ad una vera e propria carneficina. L’esercito romano venne quasi completamente annientato. Lo scontro fu così cruento che si narra che i soldati non si accorsero del terremoto (quando si verificavano queste catastrofi naturali in campo si era soliti fermarsi perché era visto come un monito della divinità). Flaminio morì in battaglia, mentre Annibale venne visto come il trionfatore; i romani superstiti vennero attaccati, mentre cercavano di riunirsi presso Perugia, per essere uccisi o fatti prigionieri. Fedele al suo piano di provocare la sconfitta di Roma con l’insurrezione degli Italici, Annibale da Perugia non cercò di attaccare Roma, bensì puntò verso l’Adriatico e verso il Mezzogiorno, così da assicurarsi basi e rifornimenti per il prossimo inverno. Il suo scopo non era la distruzione di Roma: egli proveniva da una famiglia mercantile che aveva interessi economici, e quindi di occupazione. Voleva riorganizzare l’assetto politico dell’Italia dividendola in tre parti: L’Italia settentrionale (Padania) sotto l’influenza dei Galli; L’Italia centrale (affidata a Roma) posta sotto l’influenza cartaginese; L’Italia meridionale e le isole poste sotto il pieno controllo di Cartagine. Malgrado le grandi vittorie ottenute, venne a mancare il principale presupposto del piano di Annibale: il sistema di piazzeforti, organizzato dai romani, resistette nell’Italia meridionale, così come resistette nella Valle Padana. Fu allora costretto a disperdere le sue forze in lunghi assedi. Dopo la battaglia del Trasimeno, Roma, trovandosi in gravi difficoltà, decise di nominare un dittatore: Quinto Fabio Massimo (i Fabi erano un’antica famiglia aristocratica che sostenne la guerra contro Veio). Come suo magister equitum scelse un plebeo: Minucio Rufo. Approfittando del fatto che Annibale era impegnato nell’espansione verso l’Italia meridionale, Massimo riorganizzò l’esercito e con quattro legioni si mise ad inseguire il nemico senza giungere al combattimento ma effettuando una tattica di logoramento. Si costituisce la strategia della guerriglia, ovvero attacchi rapidi con fuga immediata, effettuati insieme alla tattica della terra bruciata, cioè facendo il deserto intorno al nemico. Questa tattica non fu accettata dai romani che apparivano perlopiù come dei briganti, ma Massimo sapeva bene di non poter combattere a viso aperto contro Annibale. Iniziarono i contrasti tra Massimo e Rufo. Quest’ultimo ottenne diversi successi in alcuni combattimenti minori, provocando dei risentimenti nei confronti della tattica temporeggiatrice di Massimo. Ciò indusse il Senato a richiamare Massimo a Roma per consultazione. Nonostante avesse raccomandato a Rufo di continuare con la precedente tattica, egli decise di attaccare subito l’esercito cartaginese. Annibale rimase sorpreso dall’attacco e lo scontro si concluse quasi alla pari, e questo a Roma era considerato come una vittoria. Il Senato concesse allora a Rufo poteri pari a quelli del dittatore, non potendo esonerare Massimo. Avendo una visione diversa della guerra i due decidono di dividersi l’esercito; Rufo attaccò subito Annibale subendo la sconfitta. Venne salvato dal disastro solo grazie all’arrivo dei rinforzi guidati da Massimo, il quale ricevette la promessa di fedeltà e ubbidienza da parte di Rufo. Nel 216 a.C. i consoli furono il patrizio Lucio Emilio Paolo e il plebeo Terenzio Varrone. Scipione raccomandava Emilio Paolo alla prudenza, perciò, essendo Varrone un personaggio istintivo, i due consoli decisero per un sistema di turnazione nel comando dell’esercito e si danno all’inseguimento di Annibale, raggiungendolo in Puglia: qui si schierarono presso la cittadina di Canne. Emilio Paolo non era intenzionato a combattere e tentò di persuadere Varrone a fare altrettanto ma egli, nel momento in cui si trovava al posto di comando e nonostante la sua posizione sfavorevole, attaccò lo stesso Annibale. La battaglia di Canne fu considerata una delle maggiori catastrofi per l’esercito romano in età repubblicana: vi furono circa 70/80.000 morti. Emilio Paolo fu ucciso in battaglia, mentre Varrone riuscì a fuggire con una cinquantina di cavalieri (secondo quanto si legge dalle fonti di Tito Livio, poté sembrare che le sconfitte romane, più che al genio militare di Annibale, furono dovute alla caparbietà di alcuni generali romani - Longo, Flaminio, Rufo, Varrone - tutti accomunati dal fatto di essere di astrazione plebea). Il disastro di Canne determinò defezioni a favore di Annibale tra Sanniti e Lucani. Molte località dell’Apulia e della Campania si consegnarono ad Annibale, quasi tutte le città marittime della Campania e della Magna Grecia rimasero fedeli a Roma, temendo i pericoli di predominio cartaginese in Italia. Però, come dirà Livio, dopo la battaglia un morbus, un’epidemia si diffuse per le città greche dell’Italia meridionale, perché in queste città, mentre l’aristocrazia rimase fedele a Roma, la plebe passò ad Annibale, divenendo filopunica. Bisogna precisare che il dominio romano che vi era stato fino ad allora aveva portato a stendere un velo di pace e di tranquillità fra le varie città che prima si combattevano tra loro, e con la battaglia di Canne viene segnata una svolta. Dopo tale battaglia il generale cartaginese Magone chiese ad Annibale un esercito per poter entrare a Roma, visto che l’esercito romano era stato ormai annientato. Annibale, però, glielo negò e si narra che egli gli rispose “gli dei danno un dono alla volta” (a significare che Annibale aveva il dono di vincere le battaglie, ma non quello di saperne approfittare). Annibale, invece, offrì ai romani la possibilità di riscattare i prigionieri. Ma Roma rifiutò e bollò con ignominia i superstiti della battaglia di Canne, considerati come dei disertori, e li inquadrò nelle cosiddette truppe Cannensi (da Canne), divenute il reparto di disciplina dell’esercito romano nelle quali venivano raggruppati gli elementi criminali che comunque dovevano combattere per la patria. I prigionieri non erano di certo dei criminali ma venivano considerati così da Roma poiché ebbero la vergogna di essere sopravvissuti alla battaglia. Venne inoltre decretato che il loro servizio militare non avesse una scadenza, ma fosse prolungato per tutto il tempo in cui Annibale fosse rimasto in Italia. Il nome nasce per la battaglia di Canne, ma tale continuerà ad essere usato negli episodi analoghi. Queste truppe vennero inviate in Sicilia e lì vi rimasero fino alla fine della guerra. Annibale con la sua vittoria riuscì ad occupare la città di Capua, la quale si dette volontariamente nelle mani cartaginesi; poi anche altre città come Taranto, Turi, Crotone e Locri, e non solo città ma anche interi popoli, come i Bruti, tranne Cosenza e Petelia (odierna Strongoli). Il fatto che quest’ultima non passò in mano cartaginese è visto, da Livio, come un evento eccezionale: infatti l’assedio di Petelia ebbe molta risonanza a Roma. I suoi abitanti vennero assediati per circa 11 mesi, inizialmente inviarono degli ambasciatori a Roma per chiedere aiuto, ma il Senato decise di non intervenire a causa della sconfitta subita, poi una medesima richiesta dai Petelini ottiene la stessa risposta, ed è allora che il Senato di Petelia ordinò di fare provviste e di prepararsi per l’assedio. Anche qui si iniziò a diffondere quel morbus di cui parlava Livio: l’aristocrazia si schierò con Roma, la plebe con i cartaginesi. L’assedio fu estenuante, furono mandati via donne e bambini poiché non combattevano e consumavano solamente le risorse essenziali (e questo Annibale lo permetterà, a differenza di quanto farò Cesare successivamente durante l’assedio di Alesia). La città fu assediata e Annibale decise di rendere schiavi i Petelini combattenti per vendetta. La resistenza della città fu vista come un esempio di fedeltà ed è per tale motivo che Roma, dopo la seconda guerra punica, cercherà di trovare tutti i Petelini che erano stati dispersi da Annibale (circa 800) per concedergli il diritto di coniare monete di bronzo. L’altra città che non passò inosservata fu Cosenza, la quale resistette solo pochi giorni poiché era sprovvista di una cinta muraria imponente (presente a Petelia). Nel 215 a.C. morì Gerone II di Siracusa che era rimasto fedele a Roma inviandole denaro e soldati per difendere la città. Il suo successore, il nipote Geronimo, si alleò con Annibale, ricevendo la promessa di poter dominare l’intera Sicilia, ma, nel 214 a.C., Geronimo fu assassinato e salì al potere di nuovo la fazione favorevole ai romani. Annibale nel 213 a.C., però, riprese Siracusa con un colpo di forza, e questo non poté che scatenare l’azione dei romani che, avendo bisogno di approvvigionamenti, contavano sulla Sicilia (che era il granaio di Roma). Roma, allora, inviò uno dei suoi migliori generali ad assediare Siracusa, la quale cadde dopo un assedio durato circa un anno (prolungato grazie alle invenzioni di un noto matematico, Archimede, il quale fu poi ucciso nella stessa occasione da un soldato romano che non l’aveva riconosciuto. La sua tomba fu dimenticata e riscoperta poi da Cicerone). Nel 212/211 a.C. Claudio Marcello riuscì a conquistare la città, che fu poi gravemente punita con il saccheggio e la devastazione. Nel contempo i romani riuscirono a conquistare Capua (211 a.C.) e Taranto (209 a.C.). Intanto in Sicilia era questore Lucio Cincio a cui venne ordinato, nel 208 a.C., di partecipare con le navi che aveva in Sicilia ad un’operazione combinata con le truppe di terra, provenienti da Taranto. Tale operazione era rivolta alla conquista, navale-terrestre, di Locri. Nei punti nodali della Calabria, però, erano ancora presenti i cartaginesi, che rappresentavano una minaccia per i romani; infatti i cartaginesi, che furono avvertiti dai Turini dell’arrivo dei romani, tesero un’imboscata: si nascosero nei pressi di Petelia per assalirli e i romani furono costretti alla fuga. La manovra escogitata da Cincio fallì, ma egli attaccò comunque Locri riuscendo a sbarcare nella città; tuttavia fu costretto a fuggire all’arrivo di Annibale, ritornando quindi in Sicilia. La conquista venne rimandata negli anni successivi (205/204 a.C.). Intanto in Spagna trovarono la morte i due fratelli Gneo e Publio Scipione, e per la prima volta nella storia di Roma il comando venne assegnato ad una persona alla quale non era stata conferita alcuna magistratura, ovvero al figlio venticinquenne di Publio Cornelio Scipione, omonimo del padre, che divenne il comandante delle truppe di Spagna grazie al grande prestigio della sua famiglia e all’essersi personalmente distinto come soldato; infatti nel 210-209 a.C. ottenne una serie di vittorie che lo portarono alla rioccupazione della penisola iberica (fra il 208-209 a.C. fonda la prima colonia in Spagna, Italica, e in essa inserisce romani e italici a significare l’unione tra queste popolazioni). Dopo la perdita della Spagna Asdrubale (fratello minore di Annibale) cercò di ricongiungersi col fratello passano per la Gallia e per le Alpi con 30.000 uomini. All’inizio dell’estate del 207 a.C. egli si accampò presso le foci del Metauro, con un esercito ancora in fase di crescita grazie ai nuovi reclutamenti. Il console Claudio Nerone si fermò non lontano dalle posizioni di Asdrubale per provocarlo a combattere. Asdrubale cercò di sfuggire e di ritirarsi presso l’Appennino ma, all’alba del 22 giugno del 207 a.C., fu costretto ad accettare la guerra, non lontano da Fossombrone (Marche, provincia di Pesaro-Urbino). I romani riuscirono ad attaccare il nemico su ogni fronte provocando un vero e proprio disastro e uccidendo lo stesso Asdrubale. Metà dell’esercito cartaginese fu massacrata sul campo, e i romani ottennero un bottino di circa mezzo milione di denarii. Chiuso il fronte iberico i romani poterono pensare a come portare la guerra sul territorio cartaginese e il comando del corpo di spedizione, nel 204 a.C., venne attribuito al vincitore della guerra in Spagna, Publio Cornelio Scipione (non ancora trentenne). Quest’ultimo già nel 205 a.C. fu console, ma non ebbe buoni rapporti con il Senato, poiché non tutti i senatori, come Catone il Censore, approvavano la spedizione in Africa, e infatti a Scipione verranno rifiutati i crediti necessari per l’impresa. Ma Scipione riuscì, con l’aiuto degli alleati italici, a procurarsi i mezzi con i quali convincere i suoi oppositori che l’impresa non avrebbe destato un grosso sforzo finanziario. Confronto con il mondo ellenistico Nel IV secolo, Roma e l’Italia erano rimaste ai margini dei grandi scambi commerciali. Nei pochi decenni dopo la morte di Alessandro il Macedone, Roma entrò in contatto e in conflitto con i greci dell’Italia meridionale, soprattutto Taranto che, nel 281 a.C., aveva chiesto l’aiuto di uno dei condottieri della Grecia ellenistica: il re Pirro. Da qui Roma venne coinvolta nella politica dell’area mediterranea ed entrò inevitabilmente in conflitto con Cartagine, uscendo trionfante dopo le prime due guerre che richiesero un grosso sforzo militare, nonché lo sforzo dovuto allo scontro anche con la Macedonia di Filippo V (alleata di Cartagine durante la seconda guerra punica). In effetti i pericoli che Roma aveva corso durante la guerra annibalica indussero alcuni potenti a cominciare a premunirsi nei confronti di Roma (apparsa nei Balcani già ai tempi della guerra contro Teuta). Filippo V ambiva ad espandere il proprio regno su tutta la Grecia e quindi decise di approfittare della situazione: dopo la battaglia di Canne, nel 215 a.C., Filippo V e Annibale si allearono, con lo scopo di escludere Roma dalle coste orientali dell’Adriatico, e si impegnarono a non fare pace separata. Una tale alleanza poteva divenire fatale per Roma, ma i romani riuscirono a catturare la nave che trasportava l’ambasciatore di Filippo con il testo del trattato segreto concluso con Annibale, in questo modo i romani ebbero tempo per preparare le forze destinate al settore Adriatico. Nel 215 a.C. Filippo V aveva concluso già da due anni in Grecia, contro gli Etoli e gli Achei, la guerra degli alleati, con la quale voleva ristabilire la supremazia macedone; infatti con la pace di Naupatto, del 217 a.C., venne riconosciuta di fatto la sua superiorità. La guerra degli alleati fu sfavorevole a Roma che vide minacciati i suoi possessi illirici ma che non poté intervenire a causa della guerra annibalica. A questi possessi si interessò Filippo V che fu però respinto da un principe locale che i romani gli avevano messo contro, Scerdilaida. Affinché Filippo V portasse la guerra in Italia bisognava rivisitare alcune condizioni, ovvero: il re macedone era dotato solo di una flotta di navi leggere, non adatte ad affrontare una spedizione militare, neanche i cartaginesi potevano contrastare i romani sul mare. La flotta che a Filippo V mancò, durante la guerra annibalica, la costruì invece per le successive guerre nell’Egeo e contro i romani. L’obiettivo del re fu quello di cacciare i nemici dall’Illiria, dove compì un’altra infruttuosa spedizione nello stesso 215 a.C. La Macedonia era entrata in conflitto sperando in una vittoria cartaginese e, di conseguenza, in una funzione di appoggio per Cartagine contro le due maggiori potenze ellenistiche, Siria ed Egitto. Le guerre per l’egemonia mondiale: l’affermazione dell’imperialismo Nel 200 a.C., solo due anni dopo la sconfitta di Annibale nella seconda guerra punica, il Senato romano propose ai comizi di dichiarare guerra alla Macedonia. I comizi inizialmente rifiutarono, ma quando gli Ateniesi si presentarono all’opinione pubblica romana come vittime dell’aggressione di Filippo V e il console Sulpicio Galba descrisse la pericolosità del re macedone e la prospettiva di un facile e ricchissimo bottino, essi accettarono. Per i romani il mondo che si apriva in Oriente era molto diverso da quello spagnolo o africano: infatti il mondo ellenistico, greco e asiatico, era molto complesso rispetto al mondo occidentale (sia in ambito politico che sociale e culturale). Era un mondo che richiedeva nuovi strumenti operativi e culturali da parte della classe dirigente romana. Quest’ultima, già con la conquista della Magna Grecia assimilò rigorosamente i modelli greci. Quando i comizi votarono a favore della guerra a Filippo la situazione in cui versava l’Oriente appariva già complessa e in rapido divenire. I vari regni sorti dalla spartizione dell’impero di Alessandro Magno vivevano in un equilibrio internazionale piuttosto precario: la monarchia seleucidica in Siria era in fase di espansione dall’avvento al trono di Antioco III (nel 223 a.C.). Quest’ultimo allargava la sua sfera di influenza in Asia Minore a danno del piccolo regno di Pergamo (retto dagli Attalidi) e della Repubblica di Rodi. Verso l’Egitto, dominato dalla dinastia dei Tolomei, il principale e permanente terreno di scontro era rappresentato dalla Celesiria, una regione tra i due regni disputata in interminabili guerre: nel 217 a.C., a Rafia, Antioco III fu sconfitto da Tolomeo IV in una battaglia il cui scopo era quello di cacciare gli Egiziani dalle coste dell’Asia Minore. L’altro grande regno ellenistico, come già detto, era la Macedonia che, con Filippo V, trovò una nuova unità di guida, nonostante il regno fosse pressato da continue difficoltà sul fronte illirico e settentrionale (le tribù illiriche e tracie, scarsamente controllabili, compivano diverse scorrerie lungo i confini). In Grecia, accanto alle leghe Etolica, Achea e Beotica, continuava ad esistere il microcosmo delle città indipendenti, come Atene, che fecero della libertà dalle ingerenze degli Stati più potenti una battaglia politica e ideologica essenziale. Incapaci di tutelare la loro posizione indipendente, esse dovevano ricorrere a interventi esterni. Atene, per contenere la pressione di Filippo V, si legò ai Tolomei, mentre i minori Stati asiatici, Rodi e Pergamo, volevano impedire un allargamento dell’area di influenza macedone e siriaca nell’Egeo, che avrebbe messo in pericolo la loro integrità ma anche, come nel caso di Rodi, le attività commerciali. Guerre nel mondo ellenistico Prima guerra macedonica: 214-205 a.C.: Casus belli: lotta per l’egemonia dell’Egeo. Questa guerra fu combattuta da Roma che dal 211 a.C. si era unita con la Lega Etolica e Attalo I di Pergamo, contro Filippo V. Quest’ultimo temeva l’espansione romana lungo le coste illiriche iniziata con l’attacco alla regina Teuta e proseguita con la parziale conquista dell’Illiria, dove era dislocata una flotta romana comandata prima da Valerio Levino e poi da Sulpicio Galba Massimo, che serviva per controllare anche i movimenti del re macedone. Filippo V intervenne contro queste forze facendo scatenare una prima guerra: da una parte Filippo con la Lega Achea, dall’altra la Lega Etolica con il supporto romano. Questa guerra non fu segnata da battaglie decisive, ma si concluse formalmente nel 205 a.C. con la pace di Fenice. Quando il re macedone seppe della disastrosa sconfitta dei romani nella Battaglia di Canne ad opera di Annibale, si convinse ad inviare degli ambasciatori per negoziare un’alleanza con Cartagine. Nel 215 a.C. venne siglato il trattato in base al quale i due si promettevano reciproco aiuto e difesa e di essere nemici dei nemici dell’altro, esclusi gli attuali alleati. Sulla via del ritorno in Macedonia, sia gli inviati di Filippo che quelli di Annibale furono catturati da Valerio Flacco (Comandante della flotta romana lungo la costa pugliese) e vennero così scoperti i negoziati. Roma iniziò a cercare degli alleati in Grecia e, agli inizi del 211 a.C., un’assemblea di Etoli si riunì per valutare una possibile alleanza con Roma. Valerio Levino promise agli Etoli che avrebbe ricondotto in loro potere l’Acarnania e fu dunque fissata un’alleanza a cui, oltre agli Etoli, si unirono anche gli Elei, gli Spartani, Attalo I re d’Asia e Pleurato re di Tracia. I romani, quindi, stipularono un accordo con gli Etoli che doveva dar loro la possibilità di tenere impegnato Filippo V in Grecia senza eccessivo dispendio di risorse da parte degli stessi romani. Le clausole prevedevano il diritto di preda per i romani, che avrebbero però consegnato agli alleati i territori eventualmente conquistati. La guerra in Grecia, la prima combattuta da Roma, assunse la caratteristica di una guerra di saccheggio e di disinteresse per conquiste territoriali che non fossero necessarie per la propria immediata sicurezza. L’impegno militare romano di allora, invece, era rivolto alla necessità di controllare l’Adriatico con 25 navi, impedendo a Filippo V l’uso della flottiglia (raggruppamento di unità leggere della marina da guerra). La coalizione riuscì a frenare le mire espansionistiche di Filippo V, tuttavia, il pericolo rappresentato da Asdrubale costrinse i romani a ritirare parte delle sue truppe. La guerra poi si esaurì da sé con la pace di Fenice con cui Filippo V ottenne l’apertura sull’Adriatico. Il vantaggio della pace di Fenice permise ai romani la rapida conclusione della guerra contro Cartagine con la spedizione in terra africana e con la pace del 202 a.C. con la quale Roma imponeva al vinto condizioni che significavano la scomparsa della potenza punica nel Mediterraneo. Questa pace, però, rafforzò anche Filippo V, tanto che Antioco III, re di Siria, si rivolgerà a lui sollecitandolo a siglare un patto di alleanza contro l’Egitto. Seconda guerra macedonica (203-197 a.C.): Nel 203 a.C. Filippo V si alleò con Antioco III e insieme si impadronirono di diversi possedimenti egiziani nell’Asia (a cui aspirava la Siria) e nell’Egeo (a cui aspirava la Macedonia). Filippo V, però, iniziò ad assumere atteggiamenti aggressivi anche nei confronti delle città greche, suscitando così l’ira di Rodi che sentì minacciate le sue attività commerciali. Rodi, allora, si alleò con Attalo I di Pergamo riuscendo a respingere gli attacchi macedoni ma subendo diverse perdite. Per questo motivo essi si rivolsero a Roma che, sebbene fosse stremata dallo sforzo bellico appena terminato, decise di intervenire per contrastare l’alleanza siriano-macedone. Nel 200 a.C., infatti, Roma inviò un ultimatum a Filippo V, il quale però lo respinse. I romani allora si rivolsero agli Stati greci, dei quali solo Atene rispose, il cui apporto militare però era iniquo. Roma poté contare poi sui Rodesi e su Attalo, nel 198 a.C. anche sulla Lega Etolica e quella Achea. Aiuti di scarsa entità, ma comunque anche Filippo V si trovava privo di alleati, infatti fu aiutato solo dalla Tessaglia, mentre Antioco III non si sentiva obbligato ad aiutarlo. Nel 201 a.C. Filippo V sconfisse i Rodiesi a Lade e i Pergameni a Chio, in due battaglie navali; nel 200 a.C. indusse i suoi alleati dell’Acarnania ad aggredire Atene; dopo avere inviato una squadra di 20 navi ad Atene, nel 199 a.C. Sulpicio Galba sbarcò ad Apollonia sconfiggendo Filippo V a Ottolobo. Quest’ultimo però rispose occupando i passi illirici che conducevano in Grecia. Nell’anno 198 a.C. entrò in campo Tito Quinzio Flaminino il cui disegno politico valorizzava l’idea radicata della libertà delle città greche contro lo strapotere delle monarchie ellenistiche. Mentre Filippo V cercava una pace che mantenesse lo status quo, Flaminino continuava a trattare alzando il prezzo dell’accordo fino a renderlo inaccettabile per la Macedonia. Riuscì poi a convincere le Leghe Etolica e Achea e a forzare i passi illirici dell’Aoo (odierna Vojusa). Sempre nel 198 a.C. venne inviata un’ambasciata ad Antioco, il quale con la battaglia di Panion si era assicurato la Celesiria. La risposta del re siriaco mostrava l’insofferenza per l’ingresso della potenza occidentale nella politica degli Stati ellenistici. Nel 197 a.C. Flaminino penetrò anche in Tessaglia, dove vinse la battaglia decisiva a Cinocefale, sconfiggendo qui Filippo V al quale fu lasciata la Macedonia, ma dovette pagare un’indennità di guerra modesta ma, soprattutto dovette consegnare tutta la flotta e si impegnava a rispettare l’autonomia della Grecia. Flaminino ottenne una serie di proroghe del comando in Oriente che gli consentirono, dal 197 al 194 a.C., di attuare la politica sua e del suo gruppo. Egli si basava sul presupposto che Roma si rendeva garante di fronte ai Greci della loro libertà e, nel 196 a.C., proclamò ufficialmente l’indipendenza delle città-Stato greche, ricevendo un plauso entusiasta. Flaminino era affascinato dalla cultura greca, dall’arte e dalla filosofia e questo per lui era un atto di rispetto nei confronti di questa civiltà. La sua politica fu molto ostacolata da Scipione che temeva che si sarebbe potuto creare in Grecia un vuoto di potere di cui avrebbero approfittato Filippo V o Antioco III, quest’ultimo pressato, inoltre, da Annibale che lo spingeva ad attaccare Roma. In effetti tra le aspirazioni di Antioco III vi era quella di raggiungere il primato e la supremazia di tutto il vicino Oriente, ripristinando per sé stesso l’unità imperiale del grande Alessandro Magno. Continuamente invischiato in scaramucce diplomatiche, costretto ad arbitrare conflitti secolari e insolubili, talvolta con la persuasione e altre volte con la forza, Flaminino si logorò come la sua stessa politica, superata dall’impossibilità di controllare senza una presenza diretta un mondo troppo geloso del suo particolarismo. Per allora, Flaminino riuscì a far attuare i suoi progetti facendo evacuare completamente la Grecia nel 194 a.C. dalle truppe romane, le quali abbandonavano anche le tre piazzeforti di Demetriade in Tessaglia, di Calcide nell’Eubea e la rocca di Corinto. La politica di Flaminino ebbe il vantaggio di disimpegnare Roma dall’onere, eccessivo sul piano politico e militare, di un’occupazione permanente di vasti territori. Inoltre, da un punto di vista operativo, vi erano alcune coincidenze tra gli interessi di Flaminino e quelli di Catone il Censore, questo perché entrambi miravano a disimpegnare Roma. Catone, fautore del disinteresse romano, nel 191 a.C. ex-console, si fece nominare legato di Acilio Glabrione nel primo anno di guerra contro Antioco III e combatté con valore vantandosene in pubblico. Guerra romano-siriaca (192-188 a.C.): L’insufficienza della soluzione della questione orientale nel 194 a.C. emerse quando Antioco, sfruttando il malcontento degli Etoli per l’assetto dato dai romani alla Grecia, chiamato da questi sbarcò nella penisola. Gli stessi Etoli, intanto, avevano occupato Demetriade e fecero uccidere Nabide provocando l’adesione di Sparta alla Lega Achea. Questo causò un ulteriore mutamento delle alleanze: gli Achei si allearono con Roma per contrastare gli Etoli, mentre Filippo rimase leale al trattato del 196 a.C. mantenendosi in una posizione filoromana (anche perché non gli dispiaceva un indebolimento del rivale siriano, specialmente se non rischiava egli stesso di entrare in guerra). In Asia, Rodi e Pergamo si interessarono a contrastare Antioco e, mentre nel 191 a.C. quest’ultimo veniva sconfitto da Acilio Glabrione alle Termopili, Rodi vinceva la battaglia navale al capo Corico. Roma, dopo le due guerre puniche e le guerre nel mondo ellenistico, prestò attenzione a fare in modo che Cartagine non ritornasse a creare problemi (nonostante le condizioni che le furono imposte). Intanto, dopo la sconfitta a Zama, i cartaginesi iniziarono a riprendersi. In Africa, il controllo di Cartagine si era attuato mediante la promozione degli interessi di Massinissa, re di Numidia. Continue scaramucce e mediazioni romane caratterizzarono la politica africana per circa 50 anni, finché una nuova guerra, suscitata da Massinissa per le consuete questioni di confine, non trovò il Senato deciso a porre fine anche in quella regione alla politica del patronato indiretto. Nel 149 a.C., preoccupati anche dalla rinascita dell’agricoltura cartaginese (che Catone rimarcava probabilmente portando i fichi cartaginesi di fronte al Senato), un esercito romano sbarcò in Africa imponendo ai cartaginesi di consegnare tutte le armi e le navi da guerra per distruggere poi la città e ricostruirla a 15 km dal mare. Questa sarebbe stata la fine per una città che viveva di commerci, per cui i cartaginesi decisero di resistere. Si chiusero nella città decisi a difenderla fino all’ultimo. Solo nel 147 a.C., Scipione l’Emiliano, eliminò l’esercito cartaginese bloccando la città e privandola di ogni rifornimento. La fame e le malattie indebolirono la resistenza degli assediati a tal punto da permettere ai romani di sferrare l’attacco finale: i 50.000 superstiti vennero ridotti in schiavitù e la città fu incendiata. Cartagine fu distrutta e il territorio maledetto, così la costa settentrionale dell’Africa divenne provincia romana. Verrà narrata da Polibio l’immagine in lacrime di Scipione, il quale pensava che la stessa fine sarebbe poi toccata a Roma. Con questo atto di distruzione, tramandatoci da Polibio, veniva mostrata la nuova determinazione della politica romana. Il controllo dei territori e la politica dello sfruttamento In Spagna fu necessaria, dopo la guerra punica, l’organizzazione di un presidio stabile e di un’ulteriore penetrazione militare. L’impegno bellico iniziò a crescere costringendo a mantenere nella penisola almeno 50.000 uomini, fra cui, forse, una maggioranza di alleati italici. Dopo Catone nel 195 a.C. e Tiberio Gracco nel 179 a.C., che riuscì a siglare una pace con le tribù iberiche in continua rivolta, nel 154 a.C. i Celtiberi ripresero la guerra: da allora al 133 a.C. la pace e la guerra si alternarono in uno stato di confusione, mentre continuava a crescere l’insofferenza romana, anche perché gli spagnoli trovarono un capo abile, Viriato. Lucullo, con l’inganno, nel 152 a.C. massacrò circa 20.000 Vaccei a Cauca; Galba nel 150 a.C. fece lo stesso con i Lusitani; Quinto Pompeo, che siglò una pace di compromesso con i Celtiberi chiusi a Numanzia, fu sottoposto a processo, e lo stesso accadde a Ostilio Mancino nel 136 a.C., il cui accordo fu denunciato dal Senato, coinvolgendo lo stesso Tiberio Gracco che combatté a Numanzia e illustrò il trattato di fronte all’assemblea. Dopo Italica furono fondate Gracurris, da parte di Tiberio Gracco, e Corduba; Carteia, dove andarono a vivere i figli spagnoli dei soldati romani, ottenne lo stato giuridico di colonia latina. Questa urbanizzazione di vaste aree della Spagna ebbe importanti conseguenze: gli elementi romanizzati delle province iberiche parteciparono attivamente, nel periodo successivo, alla politica romana. Allo stesso tempo, il governo romano prese atto della necessità di remunerare i soldati che ormai per anni combattevano in teatri di guerra lontani e spesso si creavano in quei luoghi interessi e famiglie. Non erano cittadini romani, ma avevano nella loro cultura e nella loro visione un forte legame con Roma e l’Italia, da cui in larga parte provenivano. La stanchezza a Roma fu ormai al culmine e, nel 134 a.C., Scipione Emiliano, che aveva già distrutto Cartagine, ottenne un altro comando in Spagna, col compito di arruolare da sé i soldati, vista la difficoltà di procedere a una leva ordinaria. Scipione, nel 133 a.C., pose fine all’assedio di Numanzia e alla ribellione celtiberica e arrivò poi a distruggere completamente la città. Quarta guerra macedonica (149-146 a.C.): La determinazione della politica romana si manifestò nel corso degli anni in Macedonia e in Grecia: qui, nel 149 a.C., un uomo che riteneva di essere figlio di Filippo V, Andrisco, riuscì a mobilitare notevoli forze sorprendendo i romani, i quali dopo due anni optarono per un intervento decisivo. Cecilio Metello, nel 146 a.C., batté ancora una volta a Pidna il rivoltoso, chiudendo anche formalmente la fase di autonomia macedone tentata con la costituzione dei distretti nel 168 a.C. I riflessi in Grecia furono ancora più drammatici in quanto intenti a indebolire la Lega Achea, la quale cercò anche di aiutare i romani nel conflitto macedone nonostante le difficoltà interne, le imposero di lasciare fuori dalla Lega stessa alcune delle città principale: Sparta, Argo, Corinto. La reazione fu alquanto brusca, soprattutto da parte di Corinto (sede dell’assemblea federale) dove scoppiarono diversi disordini. Tali disordini resero ancora più duri i romani che, rifiutando ogni discussione, inviarono Lucio Mummio nel 146 a.C. Anche Corinto fu presa e distrutta, mentre l’enorme bottino (anche di opere d’arte) fu portato a Roma. L’autonomia relativa della Grecia finì; furono create due nuove province: l’Africa sul territorio di Cartagine e la Macedonia con annessa, pare, la Grecia. I romani nella metà del II secolo chiuse cinquant’anni di guerre che li portarono ad assumere il controllo diretto di vaste aree del Mediterraneo, molto diverse fra loro per tradizioni e cultura. L’età della rivoluzione La politica nell’età dell’imperialismo; fra tradizioni e cambiamento La classe dirigente senatoria adattò le istituzioni della Repubblica alle nuove realtà politiche e amministrative, e infatti la vita politica ne uscì profondamente mutata. Il Senato, come organo politico, dovette assumere un ruolo sempre più attivo nella direzione della politica estera, questo perché esso rappresentava l’unico elemento stabile in un ordinamento istituzionale fondato sull’annualità e non iterazione delle principali magistrature: consoli, pretori, tribuni della plebe, eletti annualmente dalle assemblee popolari; magistrature che non erano in grado di elaborare una politica di lungo respiro, anche perché privi del tempo e degli strumenti operativi per promuoverla. Tutti i magistrati, mediante la lectio senatus (Scelta del Senato: redazione delle liste dei senatori con omissione degli indegni compiuta dai censori dopo la legge Ovinia del 312 a.C.) di competenza dei censori, divenivano membri permanenti dello stesso Senato, all’interno del quale vigeva un rigido sistema gerarchico nelle votazioni, nell’ordine degli interventi e in tutte le fasi deliberative e di discussione. Pertanto, il Senato era il luogo in cui ogni politico poteva svolgere la sua carriera in maniera ampia. La classe dirigente continuò a restringersi sempre di più col tempo, mentre gli homines novi, come Catone, continuavano ad entrare sempre meno nel Senato. La chiusura di questa classe in un’oligarchia ebbe delle precise connotazioni ideologiche e prese il nome di nobilitas, ovvero l’insieme degli individui nelle cui famiglie potevano essere annoverati magistrati. Il mutamento del tipo di ricchezza e di struttura economica fu una delle cause della deformazione del funzionamento delle istituzioni. Infatti, la preda delle guerre puniche, e di quelle macedoniche e siriaca, i proventi delle miniere spagnole, la vendita dei vinti ridotti in schiavitù furono ingenti. Di tutto ciò che era stato guadagnato la maggior parte apparteneva ai generali vittoriosi e agli ufficiali, e quindi ai membri del Senato in pratica. Il complesso di tutte queste lunghe guerre, inoltre, oltre a provocare la perdita o la rovina della proprietà, disabituarono alla vita contadina, mentre la classe dirigente era pronta ad acquistare sempre più agro pubblico e quindi vaste estensioni di terreno. Poi anche la costruzione degli acquedotti necessari ai nuovi fabbisogni urbani, nonché i templi e altri edifici non ebbero finalità economiche, nonostante producessero ricchezze e lavoro, quanto più politiche. La schiavitù: in questi anni si verificò un ampliamento della schiavitù; anche perché una parte consistente del bottino bellico fu l’incremento degli schiavi. Emilio Paolo ridusse alla schiavitù 150.000 Molossi, intere tribù liguri furono deportate nei primi decenni del II secolo, altre tribù spagnole furono vendute. Gli schiavi servivano per diverse mansioni: alcuni di loro erano occupati nell’ambito artigianale delle piccole industrie, quindi nella produzione della ceramica, dei contenitori di grano e vino che erano poi venduti sui mercati italici e che viaggiavano nel Mediterraneo. Accanto allo schiavo domestico, che era sempre esistito nelle case romane, vi era quello impiegato nella pastorizia, il quale versava in condizioni assai dure e non aveva la possibilità di migliorare il suo modo di vita. Nelle miniere lo sfruttamento era disumano, infatti in Spagna si preferiva lasciar morire uno schiavo sovraccaricandolo di lavoro, piuttosto che correre il rischio di doverlo mantenere una volta divenuto inabile. Ci furono diversi tentativi di rivolta, ma nessuno di questi finì per acquisire la forma di una ribellione coscientemente orientata verso l’abolizione della schiavitù. Per quanto riguarda le province, quest’ultime venivano istituite con una legge (la lex provinciae), la cui attuazione era demandata al governatore il quale all’inizio veniva scelto tra i consoli e i pretori in carica (escludendo il pretore urbano e il peregrino che svolgevano funzioni giudiziarie a Roma), e il cui imperium era esteso alla provincia assegnata dal Senato. L’assegnazione per un po’ di tempo avvenne con il sorteggio, per evitare accordi preliminari di tipo elettorale; poi però si generalizzò il ricorso ad un istituto: la prorogatio imperii, cioè la proroga dei poteri di consoli e pretori che rimanevano nella provincia. Questa procedura fu applicata per evitare l’aumento dei magistrati e per mantenere intatto il carattere degli ordinamenti cittadini. Il governatore era accompagnato dal questore provinciale, che aveva le stesse competenze amministrative e finanziarie del questore urbano, e agiva per delega del governatore. Quest’ultimo, oltre alla possibilità di esercitare il comando militare, aveva potere giurisdizionale. Si tenevano infatti nelle province regolari sessioni giudiziarie. Inoltre egli aveva una larga autonomia nella conduzione dei processi, infatti un proconsole o propretore era padrone della sua provincia, durante il suo mandato, ma questi doveva sottostare ad un rigoroso scrutinio. In ogni provincia i romani stabilirono una serie di rapporti: alcune città mantennero la condizione di città alleate, altre, invece, entrarono nella categoria di città libere o immuni, come il modello che Roma aveva trovato in Sicilia. La libertà e l’immunità (esenzione fiscale) erano frutto di un atto unilaterale di Roma, e quindi revocabile. Tuttavia, questo tipo di città godevano formalmente di una piena autonomia anche se con limiti precisi sul piano dell’iniziativa politica. In Sicilia vigeva la legge Ieronica, promulgata da Gerone II di Siracusa, in base alla quale i contadini pagavano la decima sui prodotti, stabilita mediante un accordo stipulato di volta in volta tra un appaltatore, a cui era demandata l’esazione, e il produttore (pactio). Dove non si pagava la decima, e spesso anche dove si pagava, vi era il vectigal, ovvero una tassa sull’agro pubblico dato a privati sulla base di assegnazioni che, quando avvenivano a Roma su responsabilità del censore, si chiamavano censorio. Un altro tipo di tassa si applicava ai terreni a pascolo, sui quali si pagava la scriptura, una tassa sul bestiame. Vi era infine la vasta categoria dei territori soggetti allo stipendium, una tassa fissa con cui si pagava il soldo alle truppe. Il regime di organizzazione del territorio provinciale variò, quindi, a seconda delle province e delle situazioni preesistenti. Dove esisteva, come in Sicilia o in Grecia o in Macedonia, un sistema sviluppato, i romani tesero a mantenerlo introducendo alcune norme nuove; dove invece le condizioni politiche erano meno sviluppate, come in Spagna o Sardegna, venne utilizzato il sistema dello stipendium. Le entrate della Repubblica si basavano anche sui portoria, i diritti doganali che si esigevano per la circolazione delle merci in alcune aree dell’impero, e al gettito dei vari tipi di terre nelle province, oltre allo sfruttamento delle miniere e di alcuni monopoli. Fino alla metà del II secolo a.C., la principale fonte di reddito fu costituita dal bottino di guerra. Gli alleati: i rapporti romano-italici nacquero nel piano generale dell’interesse romano a lasciare larga autonomia ai popoli alleati, controllandoli però sul piano politico e garantendosi la disponibilità delle risorse umane e materiali. Queste erano definite in un documento, formula togatorum, che garantiva alcune certezze sulla quantità dei contributi richiesti. Finché non ebbe inizio l’espansione imperialistica, l’autonomia era sentita come un vantaggio da parte degli Italici. Con l’aumento dello sforzo militare e le trasformazioni economiche e sociali nella penisola, la situazione iniziò a mutare. I romani dovettero ricorrere più massicciamente agli alleati italici per il reclutamento militare e le contribuzioni di guerra, mentre i guasti della guerra annibalica rimanevano vivi. Nella penisola i ricchi italici dovettero occupare vaste parti di agro pubblico e comunque, anche se espropriati, rimanevano spesso come possessori, ovvero come legalmente occupanti, nelle loro vecchie proprietà. Tuttavia, il divario tra alleati italici, anche ricchi, e i romani fu enorme. Infatti, i romani tendevano sempre più a trattarli come sudditi; sono noti gli episodi di magistrati locali puniti, anche con la morte, per motivi futili. Gaio Gracco, ad esempio, raccontò che un magistrato di Teano venne fustigato perché la moglie di un senatore di passaggio, volendosi fare il bagno nelle terme che erano riservate agli uomini (sgomberati in quell’occasione), le trovò completamente sporche. Mentre per i cittadini italici queste punizioni erano che divenisse oggetto di rappresaglia da parte dell’aristocrazia e per questo egli si ricandidò, contra legem, nel 132 a.C. Tiberio sperava che il favore popolare lo avrebbe aiutato in questa occasione, invece l’aristocrazia ne approfittò per lanciargli l’accusa gravissima che la sua seconda candidatura fosse finalizzata a riproporre la monarchia (un ritorno che incuteva da sempre un certo timore: la temporaneità e la collegialità erano state determinate proprio da questa paura). Quando ciò venne alla luce scoppiarono dei tumulti e il Senato a quel punto emanò un senatus consultum e il pontefice massimo si incaricò di porre termine ai tumulti (Publio Cornelio Scipione Nasica) e di uccidere Tiberio e i suoi seguaci. L’anno 132 a.C. fu un tempo di processi contro i seguaci di Tiberio, condannati poi a morte o all’esilio senza la prorogatio ad populum (un appello che un condannato ad una pena rivolgeva al popolo affinché avesse mitigato o gli venisse tolta la pena comminatagli). I consoli in carica, Publio Popilio Lenate (costruttore della strada romana da Capua a Reggio) e Publio Rutilio Lupo, commisero così un grave delitto. La morte di Tiberio e la reazione aristocratica contro i suoi seguaci produssero un arresto di attività della commissione triumvirale, anche perché uno dei suoi membri era deceduto. Solo l’anno successivo, 131 a.C., riprese la sua attività, anche perché gli eccessi dell’aristocrazia provocarono la reazione popolare. Il Senato, quindi, per stemperare gli animi diede nuovamente il potere alla commissione triumvirale per l’attuazione della legge di Tiberio. Questa commissione, però, incontrerà delle difficoltà inerenti la ricognizione dell’agro pubblico occupato in eccesso, i confini, i contratti di vendita. Prima di incamerarlo, la commissione doveva stabilire lo status di quel tratto di agro pubblico. Tra gli occupatori iniziò a nascere il malcontento per questioni di eredità, interesse o di altro genere. Ognuno rivendicava i propri diritti con la speranza di avere un indennizzo. I lavori della commissione agraria divennero lenti e difficoltosi e per un certo periodo questa commissione ebbe anche un carattere giudiziario (questi fatti scatenavano liti che conducevano al processo) e infatti poté giudicare queste situazioni fin quando il potere non le venne tolto. Alcuni studiosi ritengono che la legge di Tiberio non fu mai applicata; in realtà vi sono delle fonti che testimoniano tale applicazione soprattutto nell’Italia meridionale dove vi erano cippi di confine che erano stati posti dalla commissione laddove furono distribuiti i 30 iugera, limiti che delimitavano le singole proprietà. Vi è una fonte, il cosiddetto Liber coloniarum, che riporta l’elenco delle colonie istituite ai tempi di Augusto, con una minimale descrizione delle assegnazioni coloniali: a Cosenza venne effettuata una centuriazione di 200 iugera limitibus graccani (secondo i confini graccani) orientata verso sud. La centuriazione rappresentava la lottizzazione del terreno mediante uno schema a reticolo. La prima linea che veniva tracciata era quella da est a ovest, ma non sempre, o almeno non quando vi era già una line di riferimento su cui poggiare la lottizzazione. Nel caso di Cosenza la lottizzazione avvenne da nord a sud appoggiandosi sulla strada romana che già esisteva. L’espressione potrebbe significare che la centuriazione fatta ai tempi di Augusto segua quella precedente fatta al tempo dei Gracchi. Comunque sia, risulta che all’epoca dei Gracchi fu effettuata una centuriazione e quindi la legge agraria fu messa in atto. Con questa legge vi erano più contadini che avevano il reddito sufficiente per essere reclutati. Evidentemente, però, questa legge non funzionò visto che intorno al 128 a.C. il limite che separava i cittadini reclutabili dai nullatenenti (400 assi) venne portato a 1.500 assi. Fu necessario, dunque, recuperare per il reclutamento tutti quelli che avevano un reddito tra 4.000 e 1.500 assi. Se fu necessario abbassare la soglia probabilmente la legge non funzionò. Pochi anni dopo, il movimento graccano mostrò di essere cresciuto quando il suo maggiore esponente, Fulvio Flacco, console del 125 a.C., propose di concedere la cittadinanza a tutti gli Italici. La proposta venne respinta e Flacco fu allontanato prudentemente dall’Italia con l’incarico di condurre una guerra nella Gallia meridionale, dove le popolazioni celtiche avevano aggredito Marsiglia, alleata romana. Solo Fregelle si ribellò per l’abbandono della proposta di Flacco e per questo i romani la rasero al suolo. Nel decennio tra il 133 e il 123 a.C., i graccani riuscirono a rimuovere un ostacolo facendo passare una legge che consentiva la iterazione del tribunato della plebe (uno dei problemi che compromise l’azione di Tiberio). La legge di Tiberio fu ripresa dieci anni dopo quando, nel 123 a.C., il fratello di Tiberio, Gaio Gracco, venne eletto al tribunato per l’anno 124 a.C., il quale metterà sotto accusa Popilio Lenate per aver condannato a morte e all’esilio persone senza la provocatio ad populum e Popilio fu costretto a fuggire da Roma prima del processo. Gaio Gracco, riprendendo la legge di Tiberio, rivitalizzerà l’attività della commissione agraria proponendo una serie di leggi (alcune approvate). In questo caso si parlerà di progetto politico proprio perché queste leggi avevano lo scopo di ridimensionare il potere del Senato. Attraverso queste leggi cercava di procurarsi il favore di tutti coloro che, potenzialmente ostili all’oligarchia, sarebbero potute divenire delle alleanze preziose, ovvero gli Italici, la plebe urbana, i cavalieri e i ceti commerciali ad essi legati. Una prima legge fu quella FRUMENTARIA: tale legge si riferiva alla redistribuzione di grano alla plebe ad un prezzo politico, cioè più basso rispetto a quello di mercato. Questo poteva condurre ad una crisi di mercato, ma tale crisi non ebbe luogo poiché sarebbe intervenuto lo Stato a pagare la differenza al mercante. Vi furono due provvedimenti destinati al risparmio per la copertura finanziaria della legge: uno era quello di comprare grosse quantità di grano, così da avere un buono sconto che potesse diminuire la differenza che lo Stato andava a pagare; l’altro era quello di attingere al tesoro del regno di Pergamo, regno dell’Asia Minore, il cui sovrano Attalo III, prima di morire, lasciava in eredità al popolo romano. Questa legge aveva comunque uno scopo popolare e quasi demagogico, in quanto Gaio si accaparrava le simpatie della plebe, soprattutto quella urbana (poiché quella rurale, vivendo in campagna, disponeva già di grano) che usufruiva di una grande quantità di grano. Un’altra legge fu quella PER LA DEDUZIONE DI COLONIE: con questa legge un certo numero di plebei doveva essere portato lontano da Roma con assegnazioni coloniali, quindi con terre. In un primo momento Gaio propose la fondazione delle colonie di Tarentum Nettunae e Scolacium Minervae. L’aggiunta degli aggettivi sacri rappresentava la protezione che Taranto e Squillace possedevano. Squillace fu abbandonata tra il VI e il VII secolo, probabilmente per la malaria, e si formarono i centri di Borgia e Squillace. Fu poi abbandonata definitivamente quando, con la conquista araba della Sicilia agli inizi del X secolo, le incursioni saracene divennero pesanti. Anche questa legge coloniaria fu a favore della plebe poiché le permetteva di raggiungere territori dove occupare vaste parti di terreno. Vi è la legge ELETTORALE: secondo la prassi, quando si votava nei comitia centuriata (assemblee popolari), si iniziava a votare dalla classe più ricca e si votava per centuria (ogni centuria valeva un voto). Dopo che avevano votato i cavalieri (18 centurie) e la prima classe (80 centurie) si arrivava ad una somma di 98 centurie, e quindi 98 voti; tutte le altre classi messe insieme arrivavano a 95 centurie. In questo modo l’accordo tra cavalieri e prima classe determinava già la votazione. Gaio propose una legge che prevedeva il sorteggio nell’ordine di votazione: in sostanza non cambiava, ma almeno le altre classi avevano la possibilità di votare. Le cose poi potevano cambiare nel corso della situazione perché molti si lasciavano influenzare dal contesto. Un’altra legge fu quella GIUDIZIARIA: riguardava le questiones de pecuniis repetundi, i tribunali sui denari che venivano richiesti, tribunali sui reati di concussione e corruzione. Una componente importante della società romana era il ceto equestre, cioè il ceto imprenditoriale ed economico di Roma, che per la sua ricchezza nutriva una certa ostilità nei confronti del Senato. Queste questiones de pecuniis repetundi, istituite a partire dal 149 a.C. (abbastanza di recente, poiché prima, grazie alla legge sulla provocatio, il popolo aveva governato la città) erano rappresentate da dei giudici, scelti tra i membri del Senato, i quali dovevano giudicare i reati commessi dall’aristocrazia, e per tale motivo erano molto leggeri sulle pene. Quando invece giudicavano i reati commessi dai cavalieri erano molto pesanti e commettevano soprusi e ingiustizie. Con la legge proposta da Gaio venne stabilito che la maggior parte dei collegi giudicanti i reati di corruzione dovesse essere costituita dai cavalieri, i quali si sarebbero comportati allo stesso modo del ceto aristocratico, favorendo i cavalieri. La legge fu approvata e i cavalieri ebbero il potere di giudicare, condannare e confiscare i beni degli aristocratici. Così Gaio si procurò il favore dei cavalieri e il controllo sulle amministrazioni provinciali veniva trasferito dall’ordine senatorio a quello equestre. Questo è quello che sappiamo in base alla versione di Appiano di Alessandria; altri storici, come Tito Livio e Plutarco, parlarono di un’aggiunta di 300 cavalieri accanto ai 300 senatori e tra questi venivano scelti in numero pari i membri dei diversi collegi giudicanti. È ritenuta comunque più probabile la versione di Appiano poiché più avanti si parlò di soprusi commessi dai cavalieri. Vi è poi la legge sulla DECIMA D’ASIA: le province romane dovevano pagare a Roma un tributo che veniva definito decima, ovvero una tassa che corrispondeva alla decima parte. La Decima d’Asia era perciò la tassa che la provincia doveva dare alla Repubblica. Questo servizio non era svolto dai funzionari dello Stato, ma dai pubblicani (cavalieri che appaltavano servizi dello Stato, tra cui l’esazione delle tasse). Normalmente l’appalto dei servizi era svolto nella città più importante della provincia (per esempio in Sicilia si svolgeva a Siracusa). In base alla legge di Gaio, l’appalto della provincia d’Asia si sarebbe dovuto tenere da quel momento in poi a Roma, poiché la provincia era quella più ricca posseduta dalla potenza romana. Questo significava favorire i cavalieri romani, i quali in passato parteciparono all’appalto svolto in Asia, ma lo fecero mediante i loro delegati e rimanendo in svantaggio rispetto, invece, ai cavalieri che vivevano in Asia. Con queste leggi Gaio ottenne l’appoggio della plebe e del ceto equestre, però i problemi già sollevati dal fratello e la situazione generale dell’Italia lo indussero a cercare un nuovo alleato: gli Italici, che furono danneggiati dalla legge di Tiberio perché, non essendo cittadini romani, non rientravano nella redistribuzione di terreno dell’agro pubblico, e anzi gli Italici rimasti sui loro stessi terreni, anche se confiscati, ora erano tolti perdendo quel poco di agro pubblico che riuscirono a mantenere. Propose allora una legge sulla CITTADINANZA: sapendo che questa legge fallirebbe immediatamente, propone una legge che assicura una fase di transizione, cioè propone la cittadinanza romana ai latini e la cittadinanza latina agli Italici, in modo che gli Italici (tutti gli abitanti dell’Italia), avendo la cittadinanza latina e quindi i diritti, avrebbero potuto votare. Il loro voto valeva molto, visto quanti erano. Il Senato non approvava questa legge ed emanò un editto con il quale tenere lontani, nel giorno in cui si sarebbe votata la legge, tutti quei latini che non avessero urgenza di trovarsi a Roma. L’editto fu esteso anche agli Italici i quali potevano fare pressione per fare approvare la legge. Oltre a questo, il Senato cercò di condizionare la plebe per alienarla da Gaio convincendo un altro tribuno della plebe, Livio Druso, ad ostacolare Gaio. Druso avrebbe dovuto proporre leggi più demagogiche e popolari, anche contro lo stesso Senato al quale importava solo disfarsi di Gaio. Gaio propose una legge con cui fondare due colonie, legge che viene però bocciata dal Senato che approva invece la legge di Druso di fondare dodici colonie. Questo sistema avvicina la plebe a Druso. Verso la fine del 122 a.C. venne approvata la Lex Rubria, che prevedeva la fondazione di una colonia in Africa. Il Senato approvò questa legge poiché prevedeva che nel triumvirato che avrebbe dedotto la colonia sarebbero stati presenti Gaio Gracco e Fulvio Flacco, i quali avrebbero lasciato Roma per giungere in Africa. Questo avrebbe dato il tempo a Druso di guadagnarsi il favore popolare. Recatisi in Africa stabilirono il luogo su cui fondare la colonia col nome di Cartago Iunonia. Tale colonia andrà a ricoprire la stessa area occupata in precedenza da Cartagine, distrutta dall’Emiliano, il quale la cosparse di sale per non far coltivare il terreno giurando agli dei che nessun’altra città sarebbe sorta in quel punto. Gaio decise invece di fondare la colonia in questo luogo con 6.000 coloni. In seguito i Gracco e Flacco rientrarono a Roma lasciando i loro delegati a completare la centuriazione. Il clima a Roma era completamente mutato nei suoi confronti, inoltre arrivò la notizia secondo cui alcuni lupi avevano distrutto i cippi confinari posti per la colonia e questo venne interpretato dai sacerdoti come un fatto negativo. Il Senato decise, allora, di abrogare la Lex Rubria. Ne seguirono diversi tumulti e di questo il Senato approfittò emanando un senatus consultum ultimum (estremo), con il quale venne ordinato l’arresto di Gaio. Il console Opimio lo inseguì e lo uccise. Anche Flacco trovò la morte. I due morirono senza provocatio, poiché considerati hostis (nemici estremi) e non più cives (questa fu la giustificazione dei magistrati). Dopo la morte di Gaio Gracco sembrò spegnersi il movimento a cui dette vita e ci fu una reazione antigraccana pesante: vennero abolite col tempo le sue leggi, e vi fu una reazione senatoria prepotente e prevaricante. Nella guerra Giugurtina, Sallustio dirà che con Mario si andrà per la prima volta contro l’arroganza della nobiltà. Una delle cose per cui la plebe lodò Gaio era che quando il propretore di Spagna, Quinto Fabio Massimo, rastrellò tutto il grano di Spagna per mandarlo a Roma, Gaio vendette il grano e rinviò il denaro nelle città spagnole come risarcimento insieme ad una nota di biasimo per il disonore subito. Gaio voleva avere anche l’appoggio dei provinciali, e in effetti ottenne grandi apprezzamenti da tutte le parti del dominio romano per aver mantenuto il rispetto della dignità di tutti. Questo fece parte della dignitas romana che per lunghi 15 anni verrà meno. Sallustio fu uno dei pochi storici proplebeo, seguace e amico di Cesare che disapprovava la corruzione presente a Roma. arruolati e regolarmente pagati tutti i volontari. Questa riforma, dilectus mariano (leva militare), venne accolta con favore da tutti. Anche l’aristocrazia fu favorevole a questa riforma poiché così i giovani aristocratici non sarebbero stati obbligati a partecipare alla guerra, e in cambio offrivano due schiavi. Si arrivò, quindi, ad una forma di accordo con lo Stato pur di non far partire i giovani, che potevano così dedicarsi al cursus honorum. Il ceto equestre era anch’esso d’accordo con la riforma perché i giovani cavalieri sarebbero potuti entrare prima nell’economia finanziaria. Era contenta la plebe urbana perché possedeva un reddito che le consentiva di arruolarsi; e lo era anche la plebe rurale perché il servizio militare divenne una sorta di ascesa sociale e quindi il contadino poteva salire nella gerarchia militare crescendo socialmente all’interno del paese. Mario riuscì a portare in Numidia un esercito molto numeroso, occupò tutti gli accampamenti costringendo Giugurta a rifugiarsi fuori dalla Numidia presso Bocco, il suocero, nel regno di Mauretania. Mario, che non aveva il mandato da parte del Senato per combattere in Mauretania, per sbloccare la situazione inviò nel regno in missione diplomatica un suo legato di astrazione aristocratica, Lucio Cornelio Silla, per convincere Bocco a consegnare Giugurta. Silla riuscì nel suo scopo attraverso un discorso: i romani si trovavano in Numidia, al confine con la Mauretania, e nulla li avrebbe fermati dall’attaccare il regno. Per Giugurta dunque era finita, ed ora Silla invitava Bocco a consegnare il genero per salvare il suo regno e divenire alleato dei romani. Bocco non se lo fece ripetere due volte e decise di accettare le richieste, anche perché tra i numidi vi era l’usanza di avere più mogli. Nel 105 a.C. terminò la guerra Giugurtina, più per intrighi che per l’uso delle armi, e iniziò l’ostilità tra Mario e Silla. Pare che Silla si fece fare un anello con sopra inciso il ritratto di Giugurta e che lo ostentasse in giro come se la vittoria dovesse essere attribuita a lui e Mario non accettava questa situazione. Nel gennaio del 104 a.C., Mario celebrò il trionfo consolare per la vittoria su Giugurta, il quale precedeva incatenato il corteo (il trionfo era un omaggio fatto al vincitore della guerra: consisteva in un corteo che partiva da fuori Roma, preceduto dai prigionieri incatenati, seguiva il vincitore che portava una corona di alloro in segno di vittoria, vi era poi il bottino di guerra e seguivano i soldati che intonavano i carmina triumphalia, ovvero canti che schernivano il generale per evitare che questo si inorgoglisse e si impadronisse del potere. Quest’ultimo atto rispecchiava il timore di un ritorno alla monarchia). In seguito Mario venne chiamato dal Senato e nominato, contra legem, console per l’anno 104 a.C. Guerra contro Cimbri e Teutoni Il Senato era contro Mario, ma gli avvenimenti esterni alla guerra Giugurtina permisero l’ascesa del generale vittorioso: alcune popolazioni di stirpe germanica, i Cimbri e i Teutoni, si mossero col tempo dalle loro sedi nella penisola danese scendendo nell’Europa centrale e occidentale. Per i romani il pericolo dei barbari del Nord era un qualcosa di tremendo (basti pensare al sacco gallico del 390 a.C.). La paura di una nuova invasione si profilò con l’arrivo dei Cimbri e dei Teutoni in Provenza e nell’Italia settentrionale. I Cimbri abitavano la Kersonesun Cimbrica, l’odierna Danimarca, e furono costretti, secondo Tacito, ad abbandonare le loro città lungo la costa della penisola a causa di terremoti e conseguenti maremoti del Mar Baltico che allagarono le città. Questi allora iniziarono a spostarsi verso Sud unendosi ai Teutoni che abitavano le coste settentrionali della Germania, lungo il Baltico. Inizialmente i due popoli si spinsero verso Oriente, ma furono respinti dalle popolazioni che abitavano la Pannonia (Ungheria) e allora si diressero verso le Alpi, nel 113 a.C., dove si scontrarono con un esercito romano, guidato dal console Papirio Carbone, che fu sconfitto presso Noreia, nell’odierna Austria. Il Senato non lo difese, anzi il console fu sottoposto ad un’inchiesta e alla fine si suicidò. In piena guerra Giugurtina i due popoli ebbero il passaggio libero per la Padania ma deviarono verso l’attuale Svizzera, giungendo nella Gallia Transalpina, dove compirono diverse devastazioni e ruberie per raggiungere poi la Spagna. Nel 106 a.C. il console aristocratico, Servilio Cepione, fu mandato in Gallia a reprimere una rivolta a Tolosa, si narra che saccheggiò il tesoro della città, del quale faceva parte anche il famoso oro che, secondo la tradizione, i Celti sottrassero al santuario di Delfi durante la loro scorreria in Grecia nel 279 a.C. Al ritorno da Tolosa l’oro andò perduto, secondo Cepione, ma più importante fu quello che avvenne dopo: ritornando dalla Spagna, questa volta dal lato francese, i due popoli vennero affrontati dall’esercito consolare, il cui console (Cepione) fu incaricato di fermare i Germani. Il generale fu sconfitto duramente ad Aurasio, l’odierna Orange (in Francia) nel 105 a.C.; si disse allora che la maledizione della profanazione di Delfi era ricaduta sui romani. Ancora una volta i due popoli ritornarono in Spagna, anziché proseguire verso l’Italia. Questi eventi costrinsero il Senato, che sapeva che i due popoli sarebbero ritornati, a richiamare Mario. Quest’ultimo fu eletto console per il 104 a.C. e, contro ogni consuetudine, fu rieletto per quattro volte consecutive, finché il pericolo barbarico non fu allontanato. Mario iniziò a riorganizzare l’esercito in coorti. La coorte era un reparto costituito da tre manipoli (ogni manipolo comprendeva due centurie): quindi erano quasi 450/500 uomini. La strutturazione in manipoli era avvenuta al tempo delle Forche Caudine. La coorte era dotata di una certa mobilità ma anche solidità. Per contrapporsi ai due popoli, Mario usò una tecnica già sperimentata in Numidia. Nella battaglia presso Numidia, la divisione in coorti fu dettata dal fatto che occupare gli insediamenti comportava riunire più manipoli. In uno scontro con Cimbri e Teutoni il motivo dell’utilizzo di questa tattica riguardava il fatto che questi popoli erano di grossa statura e quindi Mario decise di organizzare i soldati in reparti più solidi, per reggere l’urto con i Germani. nel 103 a.C. quest’ultimi ancora non si diressero verso l’Italia e di questo Mario ne approfittò facendo rafforzare i soldati ordinandogli la costruzione della Fossa Mariana. Pensando che questi popoli sarebbero giunti dalla Spagna, Mario si schierò sul fiume Rodano, che sfocia nel Mediterraneo. La foce del Rodano, però, si interrava facilmente e quindi risultava difficile attraversarlo con le navi romane. Allora fece costruire un canale che scavalcava la foce del Rodano, così da far passare velocemente le navi romane, le cosiddette onerarie, da onus (peso), che trasportavano il grano. In questo modo i legionari rafforzavano il loro fisico e al contempo facevano qualcosa di pubblica utilità. Nel 102 a.C. i due popoli ritornarono dalla Spagna, ma non attaccarono subito Mario, anzi decisero di separarsi: i Teutoni rimasero sulle Alpi francesi, i Cimbri, invece, aggirarono l’arco alpino presentandosi sul Brennero (Trentino). Questa divisione poteva essere spiegata sia col fatto che in questo modo potevano rifornirsi più facilmente e sia perché potevano attaccare l’Italia su due fronti diversi. Nel 102 a.C. avvenne lo scontro tra Mario e i Teutoni ad Aquae Sextiae (odierna Aix-en-Provence): qui, racconta Plutarco, Mario esercitò il suo intuito psicologico evitando all’inizio lo scontro, mentre i Teutoni non riuscivano ad espugnare l’accampamento solido costruito da Mario, e poi condusse i suoi soldati a guardare come il popolo si dava alla ritirata; egli decise poi di raggiungerli schierandosi di fronte e dando luogo alla battaglia. Il modo di combattere dei germani consisteva nello schierarsi su di una linea e nell’andare incontro al nemico urlando e col viso dipinto per spaventarlo. I romani, comunque, riuscirono a reggere sia il primo che il secondo assalto in cui i Teutoni vennero sconfitti. Mario catturò i loro capi e si diresse poi verso la Pianura Padana (Piemonte-Lombardia). Intanto i Cimbri si dovettero scontrare con l’altro esercito romano, comandato dal console Lutatio Càtulo, il quale effettuò però una ritirata strategica perché non fu in grado di reggere l’urto dei Cimbri che piombarono sulla Pianura Padana dove vissero per circa 5-6 mesi mentre i romani si ritirarono nell’Emilia. Quando Mario venne a conoscenza di quanto accaduto, riorganizzò l’esercito per giungere incontro ai Cimbri che avevano inviato un’ambasceria a Mario chiedendogli di rimanere in quel luogo assoggettandosi a Roma. Mario non accettò la richiesta poiché i Teutoni erano stati già sconfitti e quindi non sarebbe stato difficile fare altrettanto con i Cimbri. Nell’agosto del 101 a.C. Mario scelse di attaccare i Cimbri a mezzogiorno col sole alle spalle, così avrebbe potuto abbagliare con le armature i propri nemici. Fu così che riuscì a sconfiggere anche questa popolazione barbara. Secondo le fonti ciò avvenne “ai Campi Raudi, presso Vecelli”, e quindi per secoli si è ritenuto che la battaglia fosse avvenuta a Vercelli. Questo però non era geograficamente possibile perché significava che Mario tornò indietro. Invece, nell’area tra Ravenna e Padova, vi era la tribù dei Vecelli, in un’area tra la foce del Po e quella dell’Adige. Nello scontro contro i Cimbri, Mario si unì con l’esercito di Càtulo, il quale scriverà un testo in cui rivendicherà la vittoria sui Cimbri. La cosa fu discussa molto in Senato, che tendeva ad appoggiare Càtulo e alla fine si decise di inviare una commissione incaricata di raccogliere i giavellotti, sui quali veniva inciso il nome del generale che comandava l’esercito. Vennero trovati un maggiore numero di giavellotti col nome di Càtulo, al quale infine fu attribuita la vittoria. Mario approfittò delle vittorie da lui ottenute per realizzare il suo potere a Roma, ma inesorabilmente iniziò la sua discesa essendo, nell’anno 100 a.C., al culmine della sua gloria. È in questo anno che fu eletto console per la sesta e ultima volta, ed anche i suoi seguaci ricoprirono importanti magistrature: Glaucia fu eletto pretore, Saturnino invece tribuno della plebe (anche se sospettato di imbrogli elettorali). Il dilectus mariano ebbe delle conseguenze: ora il soldato veniva reclutato e pagato dal generale. Infatti prima di ogni battaglia il generale spronava i suoi soldati con la promessa di terre; in questo modo si veniva a creare un rapporto diretto tra il soldato e il suo generale, non più un rapporto soldato/Stato, quindi era quasi come avere un esercito personale. La stessa aristocrazia all’inizio riconobbe questo dilectus mariano, ma poi dovette ricredersi quando iniziò a considerarlo come la base delle guerre civili, rese possibili grazie al fatto che i suoi protagonisti potevano organizzarsi con dei loro eserciti. La concentrazione del potere nelle mani di Mario e dei suoi seguaci, che iniziarono a costituire il partito dei populares, porterà il tribuno Apuleio Saturnino a proporre una legge agraria: quando Mario sconfisse i Cimbri, egli non restituì le terre occupate dal popolo ai Galli ma li trasformò in agro pubblico; allora il tribuno propose una legge in base alla quale si effettuava la distribuzione delle terre ai 100.000 veterani di Mario. Di fronte a questo atto il Senato assunse un atteggiamento negativo: il Senato non gradiva Mario e accettare questa legge significava mettere Roma completamente nelle sue mani, il quale avrebbe avuto dalla sua parte quei 100.000 veterani. Saturnino riuscì comunque a farla approvare grazie all’afflusso di ex militari a Roma. Nacque però un problema: Saturnino e Glaucia si resero conto del fatto che una volta scaduta la loro carica il Senato avrebbe fatto eliminare o rendere inefficace la legge. Fu allora che decisero di far approvare un’ulteriore legge con cui il Senato veniva obbligato a giurare la legge agraria, che così non sarebbe stata ritirata. Chiunque avesse rifiutato di giurare sarebbe stato punito con la confisca dei beni o con l’esilio (cosa che avvenne per Cecilio Metello, che fu mandato in esilio). Glaucia e Saturnino, nonostante il successo, non furono soddisfatti: Glaucia volle candidarsi al consolato per il 99 a.C., in modo da non divenire oggetto di soprusi come pubblico cittadino, però il suo avversario nella campagna elettorale era un personaggio forte. Glaucia decise allora di farlo uccidere. Scoppiarono i tumulti, Glaucia e Saturnino furono costretti a fuggire e a rifugiarsi insieme ai loro seguaci. Il Senato emanò un senatus consultum ultimum con il quale ordinava al console di quell’anno di arrestare quelli che riteneva fossero i congiurati e di portarli al processo. Il console non era altro che Mario e dunque gli fu chiesto di consegnare i suoi stessi seguaci; perciò si trovò ad un bivio: obbedire al Senato e rimanere fedele alla Repubblica, oppure prendere le parti dei suoi seguaci e conquistare il potere mediante un colpo di Stato. Egli fece una scelta sofferta schierandosi con il Senato e arrestando quindi gli pseudo rivoltosi. Glaucia e Saturnino negli scontri persero la vita e intanto iniziò la discesa di Mario che non poté appoggiarsi al Senato che non lo aveva mai voluto, né ai suoi seguaci, i populares, che egli stesso aveva abbandonato e che lo considerarono un traditore. Per qualche anno Mario sparì dalla scena politica con la scusa di un incarico in Asia. La domanda che ci si può porre è: per quale motivo egli scelse lo Stato? Molto probabilmente Mario non si sentì abbastanza maturo per dare a Roma ciò di cui iniziava ad avere bisogno, ovvero il governo di una sola persona. Mario non fu pronto per un passaggio dai principi repubblicani a quelli monarchici e neppure il popolo lo era ancora. Si trattava di una impreparazione della stessa società romana a questo nuovo modo di governare che si renderà, in seguito, necessario. Mario è considerato il punto di evoluzione dalla Repubblica alla Monarchia; questo percorso, che iniziò con Mario, dovette attendere fino all’imperatore Vespasiano per essere completato. La questione italica e la guerra sociale La paura dell’anno 100 a.C. aveva ricreato, provvisoriamente, la fittizia unità della classe dirigente, ma nessuno dei fattori di crisi della Repubblica fu eliminato. Gli sviluppi successivi, infatti, vedranno la drammaticità delle lotte aggravate dalle difficoltà esterne, dal riemergere della questione italica e dal nuovo ruolo che un capo aristocratico, Lucio Cornelio Silla, arrivò ad attribuire all’esercito ormai pronto ad entrare nella lotta per il potere scatenata dai suoi capi. (poiché alcuni ritennero che il gruppo sannita dei Marsi fu quello più tenace). In quello stesso anno Gaio Mario, insieme a Silla, fu chiamato a sedare la pericolosa rivolta, e dunque fu rieletto console. Mario e Silla: la guerra civile Gli avvenimenti in Italia si intrecciarono strettamente con quelli che si svolgevano in Asia intorno a Mitridate VI, re del Ponto (un regno dell’Asia Minore che si affaccia sul Ponto Eusino: Mar Nero). L’Asia Minore, con la ricca provincia costituita col regno di Pergamo e le notevoli opportunità finanziarie e commerciali, fu sempre un terreno di scontro tra Senato e appaltatori. Dopo il 100 a.C. aumentò l’attivismo di Mitridate, il quale cercava di mutare a suo vantaggio l’assetto dell’Asia a spese dei regni di Bitinia e Cappadocia, legati a Roma; inoltre il re tentò di suscitare un moto sociale di rivolta antiromana con una propaganda destinata alle classi povere. Mario, nel 99 a.C., compì una missione in Oriente con la quale assunse un duro atteggiamento nei confronti di Mitridate, mostrandosi favorevole ad una soluzione drastica della questione asiatica, patrocinata dai suoi alleati equestri. Silla, al contrario, alcuni anni dopo seguì una linea più moderata, d’accordo con la volontà dell’oligarchia senatoria, cercò di non lasciarsi coinvolgere in un conflitto, finché fosse possibile evitarlo. In un primo momento, nell’89 a.C., Roma non poté combattere contro Mitridate, il quale nel frattempo allargò le sue conquiste in Asia. Nell’88 a.C. Silla, in quanto console (l’altro console fu Mario), si fece assegnare la guerra contro il re del Ponto e iniziò a raggruppare il suo esercito a Nola, pronto per imbarcarsi. Tuttavia, a Roma le cose congiurarono contro Silla; infatti, un tribuno della plebe che era stato legato allo stesso Silla, Sulpicio Rufo, colse l’occasione dello sconvolgimento dell’opinione pubblica romana e delle difficoltà in cui si trascinava l’applicazione delle leggi sulla cittadinanza per ricostituire un’alleanza di cavalieri e popolari in favore di Mario. Egli propose, in primo luogo, l’inserimento dei cittadini Italici nelle 35 tribù tradizionali e non nelle 10 nuove tribù che erano la soluzione ambita dall’oligarchia senatoria poiché limitavano al massimo il danno delle nuove massicce immissioni di cittadini i quali, confinati nelle 10 tribù, non avrebbero avuto la maggioranza. Sulpicio, così facendo, legò a sé gli Italici che utilizzò a favore di Mario e del ceto equestre, facendo passare dai comizi una legge che trasferiva allo stesso Mario il compito di condurre la guerra contro Mitridate, togliendo così a Silla la sua provincia. Venuto a conoscenza di quanto stava accadendo, Silla radunò il suo esercito e invitò, dunque, le sue truppe a marciare su Roma per difendere il loro comandante e, con lui, la possibilità di un ricco bottino di guerra che altrimenti sarebbe toccato ad altri. Silla condusse il suo esercito contro Roma, dove scacciò i Mariani mentre Mario si diede alla fuga. Nel frattempo, però, un esercito Mariano partì per l’Asia e Silla, decise di non perdere troppo tempo a Roma in modo da risolvere prima la questione mitridatica; inoltre, con l’appoggio dei consoli dell’87 a.C., Cinna e Ottavio, avviò alcune riforme istituzionali che avrebbe poi ripreso al suo ritorno, e abrogò la legislazione di Sulpicio ripartendo per l’Oriente. In questo modo Silla proclamò quasi una sorta di dittatura. Nell’87 a.C. vi erano in Asia due eserciti romani (uno comandato da Silla, l’altro da Valerio Flacco) che combatterono contro Mitridate. Il buonsenso dei due comandanti fece sì che i due eserciti non combattessero fra di loro. Alla fine, però, Flacco morì durante i combattimenti e al suo posto venne messo Gaio Flavio Fimbria che non aveva le stesse capacità del suo predecessore e quindi fece confluire il suo esercito con quello di Silla. Comunque i due eserciti riuscirono a sconfiggere nell’83 a.C. Mitridate; venne siglato il Trattato di Dardano tra Silla e Mitridate secondo cui quest’ultimo avrebbe dovuto consegnare la flotta, i romani fatti prigionieri e ripristinare la precedente situazione. I due si incontrarono a Dardano, nella Troade, per una conferenza di pace che terminò con la ritirata di Mitridate nel suo regno del Ponto. Intanto a Roma, una volta che Silla partì per l’Asia, Mario rientrò dal suo esilio forzato in Africa, dove si era rifugiato per sfuggire alla repressione sillana e iniziò la battaglia per il controllo di Roma. Secondo le fonti, Cinna, alla partenza di Silla, sposò senza alcuna reticenza la causa popolare facendo revocare l’esilio decretato dallo stesso Silla ai Mariani. Si narra, inoltre, che Ottavio indispettito da questo atteggiamento lo cacciò dalla città e per questo Cinna raggiunse Mario in Africa; altre fonti, invece, narrano che Mario raggiunse Cinna in Italia. Fatto sta che, una volta ricongiuntisi a Roma, fecero uccidere Ottavio e instaurarono il loro potere a Roma. Padroni del campo, i Mariani imposero al consolato per l’anno 86 a.C., lo stesso Mario e Cinna. Tuttavia, dopo soli sedici giorni del suo settimo consolato, Mario morì. Il protagonista a Roma, tra l’86 e l’83 a.C., fu Cinna. Quest’ultimo si fece rinnovare i consolati dell’85 e dell’84 a.C. senza convocare i comizi; ebbe luogo, durante il suo consolato, la strage dei seguaci di Silla così da poter assicurare la tranquillità al suo governo. Nell’83 a.C., però, una volta sconfitto Mitridate, Silla sbarcò a Brindisi dove proclamò il suo intento di restaurare la Repubblica e iniziò la sua marcia verso Roma, raccogliendo al suo passaggio numerosi seguaci. Una volta arrivato a Roma, nell’82 a.C., si svolse la battaglia di Porta Collina, sotto le mura di Roma, in cui gli ex-Mariani vennero travolti dall’esercito di Silla e Cinna venne ucciso. Silla Nell’82 a.C. il Senato conferì a Silla la dittatura, secondo alcuni decennale, secondo altri a vita. Assunta la dittatura, Silla varò alcuni importanti provvedimenti: innanzitutto attuò un nuovo sistema, ovvero quello delle liste di proscrizione, con cui appunto si veniva a creare un elenco di persone considerate avversari politici e che, quindi, dovevano essere uccise e i loro beni confiscati; di questi beni metà andavano allo Stato, mentre l’altra metà andava a chi ne aveva favorito la cattura o a chi li aveva uccisi. Questo comportò anche la presa in considerazione di numerose persone che non si erano mai interessate di politica ma che risultavano molto ricche. Diversi Sillani si arricchirono, come Catilina e Licinio Crasso. Le fonti narrano che Crasso tra i Brutti denunciò ricchi proprietari come nemici confiscando i loro beni, senza però avere l’autorizzazione di Silla. Quando Silla venne a conoscenza di questi atti gli proibì di occuparsi delle liste di proscrizione. Silla, in pratica, riprese il programma dell’aristocrazia moderata che fu di Druso nel 91 a.C. Egli, infatti, rinnovò profondamente il Senato portandolo a 600 membri e immettendovi quindi centinaia di nuovi senatori presi dal ceto equestre, dai suoi ufficiali e dai ceti elevati italici; il tribunale de repetundis, per contro, tornò ai giudici senatori. Il tribunato della plebe venne riformato con la privazione del diritto di veto e la proibizione di ricoprire ulteriori cariche a quanti scegliessero la strada del tribunato. Divenne una magistratura chiusa, chi intraprendeva il tribunato non poteva più candidarsi ad altre magistrature, cioè non proseguiva la sua carriera politica. Varò, quindi, una sorta di Costituzione Sillana con cui ridusse i poteri del tribuno della plebe, stabilendo che, mentre prima i tribuni autorizzavano o meno le leggi del Senato, adesso era il Senato a decidere quali leggi essi dovevano proporre. Questo provvedimento fece ridurre di molto l’importanza del tribunato che era la carica maggiormente ambita. Un’altra legge Sillana riguardò il cursus honorum (carriera politica), nella quale Silla stabilì un ordine da seguire: vi era prima la questura, poi la pretura, poi l’edilità e infine il consolato. Ogni magistratura doveva essere propedeutica a quella successiva. Stabilì anche un’età minima per la copertura di ogni carica; il cursus honorum non poteva iniziare se non si avevano 30 anni. L’organizzazione delle magistrature fu resa più razionale, così da evitare i rischi di colpi di Stato e poteri personali: i consoli, nell’anno di carica, dovevano rimanere in Italia senza esercitare nella pratica il potere militare, affidato invece a proconsoli e propretori, ovvero ai magistrati usciti di carica, ai quali veniva prorogato l’imperium. Con l’aumento dei pretori a otto, Silla ottenne che vi fossero ogni anno dieci ex- magistrati (compresi i due consoli) che andavano ad amministrare altrettante province; si evitava così il cumulo di più province sotto un solo comando, e veniva meno l’esigenza di mantenere più di un anno ogni governatore nella sua carica. Questa riforma fu perfezionata con lo spostamento del pomoerium (la linea entro la quale non si poteva esercitare il comando militare) fino al Magra e al Rubicone, a comprendere quindi tutta l’Italia peninsulare, quella che, per gli antichi, era in effetti l’Italia, poiché la valle Padana era la Gallia Cisalpina, fino ai tempi di Cesare una provincia. Nei propositi di Silla ciò doveva evitare il ripetersi della situazione che, console a Nola, gli aveva consentito di marciare su Roma nell’88 a.C. Aumentò, inoltre, a venti il numero dei questori, così, oltre ad una maggiore efficienza amministrativa, poneva le basi per un ordinato ricambio nel Senato, a cui gli ex-magistrati erano per tradizione destinati. Il Senato rafforzato e rinnovato fu al centro dei nuovi ordinamenti, e aveva, in teoria, gli strumenti per mantenere il controllo della situazione ed evitare i pericolosi poteri personali. Una parte considerevole delle riforme sillane sopravvisse a lungo, almeno fino a Cesare. Ma un assetto istituzionale, per quanto studiato, non eliminò da solo le cause profonde di una crisi politica e sociale, quale quella che scuoteva la Repubblica. Dopo tre anni di dittatura, Silla si ritirò a vita privata, poiché riteneva di aver esaurito il suo compito; eppure egli godeva di grande prestigio, quindi avrebbe potuto instaurare una Monarchia. Come Mario, però, neanche Silla si sentì pronto ad assumere questo ruolo. Ancora non si sentiva quella consapevolezza per cui un dominio tanto esteso, come quello romano, avesse bisogno di una mente sola. Nell’80 a.C., quindi, abbandonò la dittatura proclamandosi cittadino privato (affermando anche di essere disponibile a sottoporsi a un processo se avesse compiuto soprusi; ma nessuno lo accusò). Si ritirò in Campania, circondato dai veterani e dai suoi liberti (che stanziò numerosi anche in questa regione), e poco dopo morì, nel 79 a.C. L’impero in difficoltà Tra il 79 e il 70 a.C. iniziarono ad emergere personaggi come Pompeo e Licinio Crasso, i quali, essendo entrambi Sillani, non si tolleravano l’un l’altro. In questo decennio, tra la morte di Silla e il primo consolato di Pompeo e Crasso (79 a.C.), le forze tradizionali della vita pubblica ripresero il sopravvento. In particolare, l’affermarsi di Silla, aveva spinto alcuni nostalgici Mariani a rimanere in attività nelle province e a porre in atto la lotta contro l’oligarchia. I superstiti Mariani presenti in Spagna erano guidati da Sertorio, il quale riuscì a resistere all’avvento di Silla in Spagna dove creò un piccolo regno grazie alla creazione di un suo esercito. Egli si fece consegnare dai capi tribù spagnoli vicini i figli come ostaggi (600 giovani). Nella città, capitale di questo suo regno, Osca, creò una scuola romana per questi giovani spagnoli. La sua idea consisteva nel fatto che questa generazione, educata in una scuola romana, avrebbe accelerato la romanizzazione nella penisola iberica. Sertorio credeva che Roma potesse divenire il centro di tutto il mondo; tuttavia, la sua avventura si concluse quando Silla ordinò a Pompeo di attaccarlo. Sertorio, all’arrivo di Pompeo in Spagna, venne ucciso dal suo luogotenente, Perperna, il quale prese il suo posto e poi si arrese a Pompeo. Quest’ultimo con la vittoria in Spagna acquisì popolarità a tal punto da essere soprannominato Magnus. Mentre generali come Metello e Pompeo dal 77 al 72 a.C. combatterono in Spagna, nel 74 a.C. iniziarono a nascere nuovi contrasti: da una parte Mitridate riaprì le ostilità in Oriente, dopo anni di preparazione. Il sovrano pontico, impegnato nell’estensione della sua area di influenza in Asia, costruì una nuova capitale, Tigranocerta, e strinse alleanze con Armenia ed Egitto. Quando i romani, nel 74 a.C., accettarono di ricevere in eredità la Bitinia, alla morte del re Nicomede, da sempre alleato di Roma e strumento di controllo dell’area asiatica, la guerra fu inevitabile; dall’altra, nel 73 a.C. ebbe luogo una nuova insurrezione di schiavi, la più grave ed estesa, guidata da Spartaco. La terza guerra servile, Spartaco: La terza guerra servile, a differenza delle prime due che terminarono con la vittoria romana, fu la più estesa poiché mise in pericolo il controllo romano sull’Italia. Gli schiavi erano considerati come delle proprietà personali di cui il padrone poteva abusare, danneggiare o uccidere, senza subire alcuna conseguenza legale. Il trattamento oppressivo nei confronti degli schiavi portò allo scoppio di alcune rivolte: la prima nel 135 a.C. e la seconda nel 104 a.C., entrambe scoppiate in Sicilia. Non furono ritenute delle gravi minacce per Roma, ma questa situazione mutò con la terza guerra. A Roma, come intrattenimento, vi erano i giochi gladiatorii, e per avere più combattenti furono costruite delle scuole apposite in cui venivano immessi i prigionieri di guerra e i criminali (considerati schiavi), i quali ricevevano un addestramento per combattere nell’arena. Spartaco si mise a capo di un gruppo di gladiatori della scuola di Capua e, in breve tempo, riunì un numero enorme di schiavi fuggitivi. L’esercito che Spartaco formò era scarsamente organizzato (circa 200.000 uomini), ma riuscì a sconfiggere alcuni eserciti romani. Tentò di raggiungere l’Italia Settentrionale, ma, senza riuscirvi, fu respinto verso Sud. Allora decise di raggiungere la punta dell’Italia (Calabria) per poi imbarcarsi per raggiungere l’Oriente, grazie all’aiuto dei pirati (che lo avrebbero portato in Sicilia), i quali però non mantennero l’accordo e lo abbandonarono; dunque Spartaco dovette risalire la penisola. Nel atteggiamento da parte del Senato, poiché in questo modo non avrebbe potuto mantenere le promesse fatte ai soldati, e ciò avrebbe minato la sua autorità di comandante. Cesare, in questo frangente, si dimostrò un buon politico: seppe approfittare dello scontento di Pompeo, portando dalla sua parte anche Crasso e riuscì a far mettere da parte l’inimicizia fra i due. I tre stipularono, come privati cittadini, un accordo segreto; nacque così, nel 60 a.C., il primo triumvirato. Qui non si parlava di una magistratura, ma di un’alleanza privata tra tre uomini politici che si erano, di fatto, impadroniti dello Stato. La situazione che ne consegue prenderà il nome di concordia ordinum (o come la definirà Cicerone: “il mostro a tre teste”). Ognuno dei tre metteva sul piatto della bilancia il necessario per un colpo di Stato: Cesare, aveva alle spalle un passato di uomo politico antioligarchico ed una reputazione da popolare costruita sia onorando i legami di parentela con Mario e sia con atti specifici come la sua opposizione all’esecuzione dei catilinari senza processo. Fu avverso al regime sillano, e durante la dittatura di Silla si allontanò da Roma. Pronunciò l’elogio della moglie di Mario, che era anche sua zia, e durante la sua edilità fece ricollocare al loro posto le statue di Mario che furono abbattute. Dunque, Cesare era considerato l’erede politico di Mario, e quindi in questa alleanza rappresentava la parte politica; Pompeo, invece, aveva l’esercito, dunque costituiva la parte militare; infine, vi era Crasso, un uomo legato agli ambienti finanziari e che, perciò, raffigurava la parte economica. Così facendo, essi si impadronirono dello Stato dall’interno, volgendo lo sguardo soprattutto ai loro interessi. Cesare assunse il consolato per l’anno 59 a.C., con il quale poté attuare le misure di Pompeo che il Senato aveva respinto. Infatti Pompeo ebbe l’approvazione della legge agraria con cui poter accontentare i suoi veterani, con la distribuzione totale delle terre pubbliche romane in Italia e gli venne riconosciuto, inoltre, il suo operato in Asia. Crasso, d’altra parte, ottenne favorevoli condizioni negli appalti per l’esazione dei tributi asiatici, favorendo il ceto equestre e ottenendo anche per i pubblicani la riduzione di un terzo del canone sugli appalti dello Stato. Tale concordia ordinum fu un’alleanza di dubbia sincerità, infatti, mentre i suoi alleati si aiutavano l’uno con l’altro, ognuno pensava ai propri interessi e a preparare una propria base esclusiva. L’accordo tra tre uomini, privati cittadini, per attuare un programma politico e personale, e la facilità con cui questo obiettivo fu raggiunto mostrava lo stato di crisi in cui versavano le istituzioni repubblicane. Cesare fu quello che guadagnò di più da questo triumvirato. Essendo console, aveva diritto come proconsole nel 58 a.C., a governare una provincia. Inizialmente il Senato, per scherno, gli assegnò la provincia per calles et silvas, quindi un incarico per provvedere alle strade e ai boschi. Questo non piacque a Cesare e ai suoi seguaci e infatti, in base agli accordi triumvirali, fece votare per sé, dal tribuno Vatinio, una legge che gli assegnava per cinque anni un proconsolato nelle Gallie (Gallia Cisalpina e Gallia Narbonese) e nell’Illirico (coste Jugoslavia), a cui in seguito fu aggiunta la Gallia Transalpina, per quello che sarebbe riuscito a conquistare. L’assegnazione dell’Illirico si giustificava per il fatto che qualche anno prima il re Burebista riuscì a raccogliere intorno a sé tutte le tribù daciche (Dacia: attuale Romania), e con queste si mosse verso i confini dell’impero romano. Per cui, verso il 60/59 a.C., si configurò per Roma il pericolo dei Daci. Perciò l’assegnazione dell’Illirico fu fatta per premunirsi contro eventuali attacchi dei Daci che, dopo la morte di Burebista, si ritirarono. Nell’anno 58 a.C. Cesare iniziò la conquista della Gallia Transalpina (raggiungerà la Gallia il 28 marzo del 58 a.C.; il suo intervento sarebbe stato necessario otto giorni prima, ma dovette aspettare il 28 marzo per fare approvare una legge contro Cicerone). Nel 63 a.C. Cesare fu Pontefice Massimo, ovvero il capo del collegio sacerdotale dei pontefici, quindi il capo di tutte le religioni che si professavano a Roma. Roma accolse molte divinità al suo interno. Nella casa di Cesare si celebravano i riti della dea Bona, rituali femminili che erano celebrati nella casa di un magistrato alla presenza di sole donne. Un giovane patrizio romano, Clodio, si intrufolò vestito da donna a casa di Cesare, ma venne sorpreso dalla madre dello stesso Cesare e fu cacciato via. L’episodio in sé si sarebbe potuto considerare una semplice bravata, ma i nemici di Cesare ne approfittarono per metterlo in cattiva luce. Secondo la legislazione romana, il marito che è cosciente del tradimento della moglie e che non divorzia poteva essere accusato di lenocinio, cioè di favoreggiamento alla prostituzione. Perciò fu costretto a divorziare dalla moglie. Quando venne fatto il processo a Clodio per il sacrilegio commesso, Cesare non testimoniò, poiché sosteneva che neppure il sospetto dovesse toccare la sua casa. Clodio si difese dall’accusa negando tutto e allora intervenne Cicerone, sconfessando l’alibi di Clodio (che aveva detto di essere a Terni, insieme ad un amico) e affermando che egli fosse a Roma il giorno del reato, poiché si recò proprio da Cicerone a chiedere consigli. Il fatto che egli andò da Cicerone dimostrava che in un primo momento furono amici; dopo questo fatto, Clodio iniziò a tramare contro Cicerone. Clodio, alla fine, fu assolto per corruzione dei magistrati e pressione dell’aristocrazia e del Senato. Cesare, inoltre, aiutò Clodio quando egli volle diventare tribuno. L’intento di Clodio consisteva nel divenire tribuno della plebe per potersi vendicare di Cicerone. Clodio però era un aristocratico, e al tribunato potevano accedervi solo i plebei: e qui che subentrò Cesare che trovò dei plebei disposti ad adottarlo, ma per fare questo non ottenne il consenso dei magistrati. Cesare, nel 59 a.C., durante una seduta in Senato, fu inveito duramente da Cicerone; comunque nel giro di poche ore, una volta uscito dal Senato, Cesare accolse l’adozione di Clodio che divenuto plebeo poté candidarsi al tribunato per l’anno 58 a.C. Agli inizi di questo stesso anno venne proposta la rogatio clodiana, ovvero una proposta di legge con la quale ci si riferiva ai magistrati che avevano condannato a morte i cittadini romani senza la provocatio ad populum. Il riferimento a Cicerone fu palese (Cicerone fece eseguire subito la sentenza di morte contro i catilinari), anche se in realtà fu il Senato a non volere la provocatio, ma ciò che importava a Clodio fu chi eseguì la sentenza. Egli si provò a difendere già in precedenza sostenendo che il Senato li aveva dichiarati hostis e non più cives, ma furono tutte giustificazioni giuridiche che non lo scagionarono. Clodio assicurò a Cicerone che non gli sarebbe successo nulla, nonostante la legge. In realtà, dopo poco, Clodio propose un’ulteriore legge con cui Cicerone fu mandato in esilio (che preferì alla morte). Cesare e la conquista della Gallia Cesare rimase a Roma fino al 28 marzo proprio per controllare che questa legge venisse approvata, poi partì per la Gallia così da risolvere un problema con gli Elvezi, tribù che abitava l’odierna Svizzera (infatti ancora oggi si parla della Svizzera come Confederazione Elvetica) e che ritenevano che il loro territorio fosse troppo angusto per la popolazione e quindi progettarono uno spostamento (erano circa 100.000 uomini) attraverso la Gallia Meridionale, verso le coste dell’Oceano Atlantico. Per spostarsi, però, dovevano attraversare la provincia Narbonese, cioè attraverso un territorio soggetto al dominio romano. Una volta arrivato in Gallia, a Cesare venne chiesto da un’ambasceria elvetica il libero passaggio, ma Cesare lo negò, poiché ciò avrebbe comportato devastazioni e la necessità di approvvigionamenti. Gli Elvezi, allora, tentarono il passaggio lungo il lago di Ginevra, ma non vi riuscirono e dovettero prendere il passaggio ad ovest che passava per il territorio degli Edui (una tranquilla regione rurale non abituata alla violenza), antichi alleati romani. Gli Edui concessero il passaggio agli Elvezi ma, durante il loro passaggio, subirono saccheggi eccessivi e si rivolsero a Cesare, il quale si trovava già pronto ai confini. Cesare si giustificò affermando che, andandosene, gli Elvezi avrebbero lasciato un vuoto di territorio che sarebbe stato poi occupato dai Germani; per i romani era meglio avere ai confini gli Elvezi, piuttosto che i Germani. Una volta sconfitti gli Elvezi, da Cesare si presentò un’ambasceria degli Edui con Diviziaco, un druido gallico: gli Edui, da tempo, erano in lotta con un’altra grande tribù, quella degli Arverni che, sconfitti dagli Edui, avevano chiesto aiuto ad Ariovisto, re degli Svevi, una tribù germanica. Ariovisto aveva accettato di aiutarli e, oltrepassato il Reno, si era insediato nel campo aiutando gli Arverni e sconfiggendo gli Edui. Una volta sconfitti, Ariovisto non andò via, ma finì per assoggettare non solo gli Edui, ma anche gli stessi Arverni e vi era anche la minaccia che potessero affluire altre tribù germaniche. Il loro timore riguardava il fatto che i Germani spostandosi avrebbero cacciato queste tribù dalla Gallia che presentava condizioni climatiche, economiche e agricole superiori rispetto a quelle della Germania. Quindi chiesero a Cesare di intervenire. Sia Diviziaco che Ariovisto erano conosciuti a Roma, poiché quando gli Edui furono sconfitti da Ariovisto, Diviziaco si era rifugiato a Roma e qui fu ospitato dal fratello di Cicerone (ed è qui che lo conobbe Cicerone. I druidi erano la casata sacerdotale del mondo celtico, che ebbero la grave colpa di non essere riusciti a riunificare le tribù galliche. I figli dei nobili di queste tribù erano mandati a scuola da questi druidi e qui insegnavano ai giovani a scrivere). Quindi Cicerone, che conobbe Diviziaco a Roma, appoggiò la sua richiesta d’aiuto al Senato. Cesare, per non lasciare mano libera a Cicerone, premette affinché Ariovisto, nemico di Diviziaco, avesse il titolo dal Senato di re e amico del popolo romano, che implicava un rapporto privilegiato tra Roma e Ariovisto. Inoltre, Cesare doveva rendere conto al Senato di ogni sua azione, perciò redisse dei rapporti con cui giustificare il proprio operato, dai quali nacque poi il De bello Gallico (ovvero le lettere che Cesare scrisse al Senato), e giustificò la guerra contro Ariovisto spiegando che fosse necessaria per evitare che divenissero i nuovi Teutoni e Cimbri. Bisogna precisare che tra i legati di Cesare vi erano il fratello di Cicerone, Quinto, e il figlio di Crasso, per questo dovette giustificare le sue azioni. In questo modo dimostrava anche di non cercare la guerra, cercando un incontro con lo stesso Ariovisto: qui, però, si verificò un tranello in cui Cesare e il suo seguito furono presi a frecciate. Fu inevitabile lo scontro. Di fronte ai racconti sui Germani il morale dei soldati romani calava, per questo Cesare decise di radunarli per fare un discorso in cui vengono tratti due punti importanti: i soldati erano comandati da un generale vincente che non aveva mai perso una battaglia, e inoltre avevano un generale non avido, che avrebbe diviso il bottino tra i soldati in parti uguali. Lo scontro, che avvenne nell’odierna Besançon, fu vittorioso per i romani poiché Cesare seppe approfittare di un fattore psicologico: i segni avevano detto agli Arverni che gli dei non volevano che essi combattessero e per questo Cesare fece di tutto per far sì che prendessero le armi così non avrebbero avuto dalla loro parte la volontà degli dei. Ed è per questo che si concluse a favore di Cesare la prima campagna gallica. Negli anni successivi Cesare conquisterà pezzo per pezzo la Gallia. Assicurata la pace e la tranquillità alle popolazioni galliche, Cesare continuò la sua spedizione in Gallia affrontando le popolazioni settentrionali e arrivando con le armi fino alle coste della Manica. Col tempo Cesare ritenne di aver affermato l’autorità romana su tutta la Gallia e decise di dirigersi oltre la Manica. Nel 55 a.C., dopo il rinnovo del proconsolato, accese la fantasia dei romani considerando una rapida esplorazione in Britannia, un’isola di cui si sapeva pochissimo, era lontanissima e delle sue ricchezze spesso si favoleggiava. Nel 54 a.C. riuscì ad arrivare fino al Tamigi, ma dovette abbandonare il territorio poiché pericoloso da presidiare senza forze maggiori, e anche perché, nel 52 a.C., in Gallia una rivolta di alcune tribù assunse l’aspetto di una sollevazione nazionale, guidata da Vercingetorige, il capo degli Arverni. I Galli si erano resi conto del fatto che solo unendosi potevano battere Cesare, e quindi ci fu una rivolta generalizzata a cui presero parte persino gli Edui. Solo la tribù dei Remi rimase fedele a Roma. Il capo di queste tribù fu dunque un principe arverno che riuscì ad ottenere dei successi parziali, il ché inorgogliva i Galli. Poi, però, commise un errore nella scelta di strategia: infatti iniziò a chiudersi in una grande fortezza, quella di Alesia, per attirare le forze romane così da sconfiggerle riunendole intorno ad Alesia. Secondo le tattiche di Cesare vi erano diverse truppe romane sparse nei punti nevralgici della Gallia e con ciò, anche se i Galli avessero sconfitto una legione, vi era subito un’altra a sostituirla. Per questo Vercingetorige voleva attirare tutti i romani intorno ad Alesia, così poi sarebbero stati raggiunti da tutti gli altri Galli e avrebbero intrappolato i romani. Si parla in questo caso di tre cerchi concentrici: quello di Alesia, quello dei romani e quello dei Galli. Questa tecnica avrebbe potuto avere successo, considerando la grande fortezza di Alesia. Ma Cesare ideò un piano: assediare la città con la costruzione di trincee, ovvero palizzate intorno alla città assediata così da bloccare l’afflusso di viveri verso la città. Ad un certo punto, i Galli posti all’interno chiesero di fare uscire donne, vecchi e bambini, ma Cesare non accetterà questa richiesta. Cesare non si limitò solo alle trincee, ma fece un altro cerchio concentrico composto da fortificazioni, così erano protetti sia dall’attacco all’interno di Alesia e sia da quello dei Galli all’esterno. Chiese ai suoi uomini di costruire un doppio vallo: uno per non fare uscire i Galli e l’altro per non fare arrivare loro i rinforzi. La prima linea era composta dagli “stimuli”, cioè dei pioli appuntiti, piantati nel terreno; dopo di essi vi erano i “gigli”, cioè pali appuntiti inseriti in buche profonde almeno un metro, e che sporgevano di soli pochi centimetri dal suolo. Quando arrivarono i rinforzi dei Galli, i romani riuscirono a reggere entrambi gli attacchi. Da assediante Cesare divenne l’assediato: Vercingetorige dovette arrendersi. Quella di Alesia fu la più grande sfida affrontata da Cesare che si aiutò anche con l’utilizzo di nuove tecniche, come le navi oceaniche, che erano XIII operò un ulteriore aggiustamento: vi era una discrasia di un quarto d’ora, per cui nel corso di 15 secoli vi fu un eccesso di 15 giorni. Il Papa eliminò 10 giorni dal calendario: questo sarà il calendario gregoriano). Il programma di Cesare corrispondeva ad una ricostruzione della città, cambiando le leggi fiscali e fondando nuove colonie. Egli fu il primo leader romano ad immaginare l’impero, quindi divenne in un certo modo lo Stato, sostituendosi alla Repubblica. Rimaneva, però, ancora il problema dei nostalgici della Repubblica che si trovavano all’interno dello stesso apparato dirigente. Cesare cercò di sistemare le cose tentando di affidargli incarichi di governo importanti, come il governo di province strategiche, come la Siria (strategica per i rifornimenti) che fu assegnata al generale Donabella, che era sempre stato con Cesare. Cesare pensava di non dover temere più nulla e di poter ricostruire l’impero in tranquillità. Innanzitutto volle occuparsi della rivincita sui Parti, e organizzò una spedizione, della durata di tre anni, per raggiungerli e attaccarli alle spalle (passando attraverso i Germani). La partenza era prevista per la fine di marzo, dell’anno 44 a.C. e Cesare si era già posto il problema di come trattare con re e imperatori di quei luoghi, presentandosi come un dictator, titolo che non era alla pari del loro. Quindi cercò di diffondere in qualche modo il desiderio di divenire re presso la folla che, però, ancora temeva di parlare di Monarchia. Decise quindi di farsi eleggere re da una delle province orientali, più abituate al governo di un solo uomo; così facendo si acquietava il problema del titolo. Aveva perciò progettato la sua partenza nel 44 a.C., partenza che non verrà realizzata poiché, il 15 marzo del 44 a.C., verrà ucciso da 23 pugnalate, inflittegli da persone a lui molte vicine (40 congiurati, tra cui il suo pupillo Decimo Bruto). Il suo corpo, esanime, venne lasciato rotolare ai piedi della statua di Pompeo, quasi fosse una vendetta attuata da quest’ultimo. Uno degli ispiratori dell’assassinio di Cesare fu Cicerone, che si ritenne essere il responsabile morale della congiura. Cesare veniva considerato l’assassino della Repubblica e dei principi repubblicani e per questo un nemico. Ma la sua morte provocò un grande scalpore, e la speranza dei congiurati di eliminare con lui anche la crisi della Repubblica fu un’utopia. Pugnalato nel Teatro di Pompeo, dove doveva riunirsi il Senato quel giorno, i congiurati non seppero assumere nessuna iniziativa, ma subirono la reazione dei cesariani, e ne furono spaventati. Dalla morte di Cesare non rinacque la Repubblica, ma si venne a creare un vuoto di cui si seppe approfittare Marco Antonio, console di quell’anno e il più fedele e autorevole dei suoi ufficiali. Dopo la morte di Cesare: l’affermazione di Marco Antonio e Ottaviano Marco Antonio decise di agire con determinazione. Mentre Lepido voleva uccidere i congiurati immediatamente, Marco Antonio ne era contrario poiché era intenzionato non a punire i nemici, ma a capirne il loro utile. I congiurati che credevano di essere acclamati come degli eroi dovettero ricredersi. Il 17 marzo fu convocata una seduta del Senato indetta dallo stesso Antonio, in cui lo stesso Antonio e Cicerone furono per la prima volta in accordo. Il Senato doveva decidere cosa fare della figura di Cesare e su come inquadrare la posizione dei congiurati. Vi erano due opzioni: o considerare Cesare un tiranno, e quelli che l’avevano ucciso erano degli eroi, però in questo caso i suoi decreti venivano eliminati (nei suoi decreti vi era anche la nomina di Decimo Bruto come governatore della Gallia Cisalpina, l’assegnazione di importanti magistrature a Cassio Longino e Giunio Bruto; e anche questi avrebbero perso le loro nomine); oppure considerare Cesare un grande uomo, salvatore della patria e quindi i congiurati erano degli assassini e dovevano essere condannati a morte. Entrambe le opzioni non erano favorevoli per i congiurati. Cicerone, intanto, prese dal diritto greco il concetto di Amnistia, tramite cui il Senato decideva per la seconda opzione, senza però punire i congiurati, che vengono condannati senza conseguenze giuridiche. Essi vengono amnistiati, ovvero perdonati, mantenendo le loro magistrature. Antonio ottenne dal Senato il compito di leggere il testamento di Cesare, di custodirne gli appunti, di utilizzare le sue carte private applicando le delibere già note e quelle ancora non conosciute. Il testamento, però, che una volta era in favore di Antonio, riservò delle sorprese: Cesare lasciava 600 sesterzi ad ogni cittadino romano, e tutto il resto al nipote da poco adottato, Ottaviano, nominato magister equitum dell’armata contro i Parti da Cesare. Antonio però non diede ad Ottaviano quanto gli spettava, e questo fu motivo di ostilità fra i due. Ottaviano rivendicò, nella seduta del 17 marzo, ciò che gli era stato assegnato da Cesare, ma questo gli verrà negato da Antonio che cercò di trarre il maggior vantaggio possibile dal vuoto di potere che si era venuto a creare. Antonio, dunque, approfittò dei propri poteri consolari soprattutto per tenere a bada gli altri e per tutelare i propri interessi. A poco a poco, però, iniziò a risorgere l’opposizione dei nemici di Cesare: Decimo Bruto che era stato nominato governatore della Gallia Cisalpina e che aveva un esercito, rimase un pericolo costante per Antonio e per la stessa Roma; quindi quest’ultimo cercò di togliergli l’incarico e come proconsole nel 43 a.C. decise di farsi assegnare il governo della Gallia Cisalpina, la provincia più vicina all’Italia, essenziale per il controllo del governo a Roma. Agli inizi dell’anno Antonio tentò di anticipare il suo ingresso nella Gallia Cisalpina, ma Bruto non intendeva abbandonare il suo mandato prima della scadenza naturale. Perciò Antonio, con le legioni a suo comando, marciò sulla Gallia per combattere contro Bruto. La cosa non piacque al Senato, favorevole alle posizioni di Bruto, che ordinò ai consoli del 43 a.C., Irzio e Panza (ex combattenti di Cesare) di fermare Antonio. In questo contesto, anche Ottaviano si mise in gioco: armò un esercito a sue spese e si affiancò ai consoli, contro Antonio. Si ebbero due schieramenti: da una parte Marco Antonio, e dall’altra Bruto, i due consoli e Ottaviano (Quest’ultimo, che non aveva nessuna carica istituzionale, molto probabilmente fu influenzato nelle sue scelte da Cicerone, che voleva manovrarlo e utilizzarlo contro Antonio). Lo scontro si concentrò presso la città di Modena, una guerra in cui Antonio venne sconfitto, anche se non definitivamente, invece dei due consoli uno venne ucciso, l’altro fu ferito gravemente. Antonio riuscì ad organizzare una ritirata magistrale, senza causare perdite ingenti, e si diresse verso l’altro generale cesariano, Lepido. Ottaviano invece di inseguire Antonio, come si sarebbe atteso il Senato, nell’agosto del 43 a.C. tornò a Roma per farsi assegnare il consolato, cosa che non gli fu concessa. Il rifiuto fu un atto che Ottaviano non perdonò al Senato. Antonio, intanto, si rese conto che con la situazione profilatasi non avrebbe potuto vincere alcuna causa; inoltre, i soldati agli ordini di Ottaviano, così come quelli agli ordini di Antonio e di Lepido, erano tutti cesariani, dunque non avrebbero accettato di scontrarsi in modo decisivo. Fu allora che Antonio decise di sfruttare la situazione di malcontento che gravava su Ottaviano, formando il secondo triumvirato, l’accordo tra i tre generali (Antonio, Lepido e Ottaviano) che si incontrarono a Bologna. Questo accordo non costituì più un fatto privato, anzi divenne una magistratura, di durata quinquennale, istituito da una legge Tizia, che prevedeva una spartizione di compiti, eserciti e territori tra i triumviri per il governo dell’impero, la restaurazione delle istituzioni repubblicane, l’attività legislativa e la lotta a oltranza contro i cesaricidi (i congiurati potevano essere perdonati, ma i cesaricidi no), che vedevano così sanzionata la fine di ogni possibile compromesso. I triumviri erano equiparati ai consoli. La legge Pedia sugli uccisori di Cesare li dichiarò nemici pubblici. I triumviri vararono quindi le liste di proscrizione già usate da Silla, liste in cui non veniva omesso nessuno, né amici, né familiari. Antonio volle mettere in cima alla sua lista Cicerone, che iniziò a scrivere lunghissime orazioni contro di lui nelle sue Filippiche; nelle liste finì anche il fratello di Lepido, che lui non poté salvare (anche se non venne ucciso poi). Questa lista di proscrizione unica fu stilata in maniera crudele, poiché vennero inseriti 17 nomi che non si conoscevano, per cui nessuno sapeva chi era stato proscritto. Venne poi stabilito che era necessario distribuire le terre ai veterani di Cesare, ma questo non era semplice, poiché tutti i soldati in servizio erano stati soldati di Cesare, erano all’incirca 200.000 uomini. I veterani volevano le terre e i triumviri erano interessati ad accontentarli per averli dalla loro parte; la complicazione era che i veterani volevano le terre in Italia, terre che fossero già avviate: i triumviri allora decisero di fare un elenco delle 18 città più ricche d’Italia per poter espropriare i terreni e assegnarli ai veterani. Le fonti non forniscono questo elenco, ma fra le 6 città più illustri delle 18 più ricche vi sono Valentia e Reggio. Ciò implica che queste città dei Brutti erano tra le più ricche d’Italia. Per la prima volta i membri del triumvirato ottenevano qualcosa di personale: Antonio ottenne l’Oriente, dove si erano rifugiati i cesaricidi verso cui Antonio mosse guerra, e la Gallia; Lepido ottenne l’Africa; Ottaviano la Spagna e l’Italia, e quindi doveva provvedere alla distribuzione di terre ai veterani. Il motivo per cui ad Ottaviano fu assegnata l’Italia era il fatto che, essendo malato, sarebbe convenuto che non facesse spostamenti. In realtà, però, Antonio volle metterlo in difficoltà perché per distribuire le terre ai veterani bisognava espropriare quelle già abitate, appartenenti alla classe aristocratica, quindi senatoria. Ottaviano fu costretto a mettersi contro il ceto senatorio, ma anche contro le medie-proprietà, perciò contro di lui ci fu una vera e proprio rivolta in Italia da parte dei proprietari. Il problema della distribuzione delle terre in Italia fu un problema per Ottaviano, il quale rimarrà comunque inflessibile, riuscendo ad assegnare terre anche ai veterani di Antonio, cosa che non piacque al fratello di Marco Antonio, ovvero Lucio Antonio, console del 42 a.C. Per questo motivo nacque uno scontro fra Ottaviano e Lucio Antonio, nel 41 a.C., al punto che quest’ultimo, istigato da senatori disposti a seguirlo, si rinchiuse con un esercito a Perugia, sfidando Ottaviano che decise di porre l’assedio alla città di Perugia. In questo evento ebbe un ruolo anche Flavia, moglie di Marco Antonio, la quale inizialmente non volle interessarsi alla situazione, sapendo che il marito non voleva problemi con Ottaviano; poi però le venne fatto notare che se fosse scoppiata una guerra tra i due, Antonio avrebbe dovuto lasciare Cleopatra per tornare in patria. Flavia, allora, decise di congiungersi col cognato nella città di Perugia, mentre venne mandato a chiamare Marco Antonio che però non rispose, perché impegnato ad occuparsi dei cesaricidi e della guerra contro i Parti. La città di Perugia, alla fine, cadde sotto l’assedio di Ottaviano e fu significativo il discorso che Lucio Antonio rivolse ad Ottaviano, riportatoci dallo storico alessandrino Appiano. Lucio Antonio uscì dalla città e andò incontro ad Ottaviano, arrendendosi a lui, chiedendogli la vita salva non per sé stesso, ma per coloro che erano rinchiusi nella città. Affermò che “il triumvirato è un mostro che, con la scusa di uccidere i cesaricidi, sta opprimendo lo Stato, togliendo l’autorità a quest’ultimo che ha costruito l’Impero di Roma”. Ottaviano fece notare il fatto che uno di questi triumviri era il fratello, ma Lucio era convinto di poter convincere Marco Antonio ad abbandonare il triumvirato e a restituire al Senato la sua autorità. Ottaviano lasciò in vita Lucio, con la speranza di averlo dalla sua parte, ma egli, se in un primo momento fingerà di stare dalla parte di Ottaviano, dopo gli si rivolterà contro. Antonio si recò in Oriente e, fermatosi ad Atene, andò in Asia Minore, dove iniziò a tassare pesantemente i provinciali, già tassati dai cesaricidi, e questo atto suscitò il malcontento nei suoi confronti. Intanto chiamò, per interrogarla, Cleopatra (che fu portata da Cesare a Roma) per capire quanto poteva fidarsi di questa donna, quanto poteva contare sull’Egitto e sull’approvvigionamento di grano proveniente da questa regione. Antonio si innamorò di Cleopatra, e in lui nacque il progetto di portare avanti la guerra contro i Parti, guerra che considerava eredità morale di Cesare. Il vero scopo, però, fu quello di creare un Impero Romano d’Oriente. Antonio, intanto, riuscì a braccare i cesaricidi e, una volta congiuntosi con le truppe di Ottaviano e di Lepido, li attaccarono in due scontri, verificatesi nel mese di ottobre del 42 a.C., a Filippi, cittadina della provincia di Macedonia, posta lungo la via Egnatia, alle pendici del monte Pangeo. Fu soprattutto per merito di Antonio che si ottenne un esito positivo in battaglia. Quest’ultimo ebbe la meglio contro l’esercito di Cassio Longino, il quale, sconvolto dalla sconfitta, si suicidò non sapendo che l’esercito di Giunio Bruto ebbe la meglio su quello di Ottaviano. Nella seconda battaglia le forze di entrambi i veterani si congiunsero (mentre Lepido rimase a Roma) fino a sconfiggere l’esercito di Giunio Bruto, il quale a sua volta preferì suicidarsi che cadere in mano nemica. Dopo la battaglia di Filippi, ci fu una nuova ripartizione dei territori: ad Antonio toccò l’Oriente, non più la Gallia che fu assegnata ad Ottaviano, insieme alla Spagna, all’Italia ed anche all’Africa, poiché si ebbe il sospetto che Lepido non fosse più tanto convinto del triumvirato, quindi venne messo sotto inchiesta; Ottaviano con l’assegnazione dell’Africa avrebbe dovuto controllare la lealtà di Lepido. Se fosse risultato innocente gli sarebbe stata restituita la provincia. Il problema, ora, non riguardava più i congiurati o i cesaricidi superstiti, ma bisognava occuparsi dei problemi interni allo Stato. Ottaviano volle occuparsi di portare a termine l’assegnazione delle terre, che procedeva molto lentamente perché ostacolato dalla resistenza dei proprietari. Sorse poi un ulteriore problema riguardante la figura di Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno. Sesto Pompeo fu graziato da Cesare, ed anche onorato da lui che lo mise a capo della flotta romana del Tirreno (la flotta romana era divisa in due sezioni, c’era quella del Tirreno che aveva stanza a Capo Miseno, e vi era quella dell’Adriatico, con stanza a Ravenna). Alla notizia della morte di Cesare, Sesto si organizzò accaparrandosi tutte le navi romane del Tirreno. Con esse e con poche legioni si impadronì della Sicilia, che fortificò contro eventuali sbarchi e da qui ostacolò il traffico di grano che dall’Egitto veniva trasportato a Roma.
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