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Guida allo studio della Storia Medievale (P. Cammarosano) - Riassunto, Appunti di Storia

Riassunto del libro "Guida allo studio della Storia Medievale" di Paolo Cammarosano.

Tipologia: Appunti

2018/2019

In vendita dal 10/05/2022

brunorinaldi
brunorinaldi 🇮🇹

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Scarica Guida allo studio della Storia Medievale (P. Cammarosano) - Riassunto e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! 1 GUIDA ALLO STUDIO DELLA STORIA MEDIEVALE Autore: Paolo Cammarosano Anno di pubblicazione: 2004 SOMMARIO 01 – L’IDEA DI MEDIOEVO E LO SVILUPPO DELLA MEDIEVISTICA ................................................................................ 2 01.01 – LA FORMAZIONE DEI GIUDIZI DI VALORE ....................................................................................................................... 2 01.02 – FILOLOGIA E PASSIONI .............................................................................................................................................. 4 01.03 – UN ANELLO DELLA CATENA ........................................................................................................................................ 6 02 – PERIODI E QUESTIONI ........................................................................................................................................ 7 02.01 – SPAZI E POPOLAZIONI ............................................................................................................................................... 7 02.02 – RELIGIONE E POTERE POLITICO ................................................................................................................................... 9 02.03 – EVOLUZIONE, ECONOMIA E CLASSI SOCIALI ................................................................................................................. 11 02.04 – LE STRUTTURE DEL GOVERNO CIVILE .......................................................................................................................... 13 02.05 – LE STRUTTURE DELLA CULTURA ................................................................................................................................ 14 03 – LE FONTI .......................................................................................................................................................... 16 03.01 – GENERALITÀ, CLASSIFICAZIONI E DIMENSIONE TEMPORALE DELLE FONTI ............................................................................ 16 03.02 – LE FORME DELLA SCRITTURA .................................................................................................................................... 16 2 01 – L’IDEA DI MEDIOEVO E LO SVILUPPO DELLA MEDIEVISTICA 01.01 – LA FORMAZIONE DEI GIUDIZI DI VALORE Quella del Medioevo è essenzialmente un’idea, un concetto, qualcosa che esiste solo nella mente delle persone e privo di riscontro reale. La definizione del concetto di Medioevo è poi andata incontro a due problematiche: la prima è che essa ha implicato un giudizio di valore, ovvero che si è basata su giudizio dato a posteriori; la seconda è che tale giudizio è stato formulato in un arco di tempo lunghissimo, che ha avuto inizio in epoca umanista ed è terminato con le rivoluzioni di fine Settecento. Non è poi corretto far partire la storia di tale definizione dalle sue prime istanze, quelle di Media aetas, dal momento che esse furono il frutto di uno studio attento e sedimentato, già esistente all’epoca della loro formulazione. L’evento che, secondo i cronisti, segna l’inizio della Media aetas è dunque la caduta dell’Impero Romano, la quale ebbe non solo ripercussioni morali e politiche ad alto livello, ma anche alcuni riscontri sociali relativi alle migrazioni ed ai mutamenti etnici che hanno caratterizzato il medioevo. L’epoca fu segnata dallo spostamento della capitale romana ad oriente, dal momento che dopo la caduta di Roma l’unico impero fu quello con capitale Costantinopoli, mentre una restaurazione dell’Impero Romano la si avrà solo con Carlo Magno nell’800, portando a circa tre secoli di vacanza della sede imperiale romana (476-800). Il nuovo impero, per quanto continuatore della tradizione romana, si distingueva da essa per alcune innovazioni: la prima era la già citata restaurazione franca dell’autorità romana; la seconda era la nuova visione dell’impero in matrice cristiana, con una forte intolleranza verso le altre fedi e la visione dell’imperatore come difensore della fede cattolica. D’altro canto, però, sia la prima che la seconda innovazione furono portate avanti nel segno della continuità: la restaurazione dell’autorità d’occidente fu una continuazione dell’Impero romano, e non la fondazione di un impero nuovo, mentre la posizione di difensore del cattolicesimo fu già assunta da Costantino e Teodosio, di cui Carlo Magno si presentava dunque come continuatore. Quello che cambiava era la concezione della Chiesa, ormai dotata di un ampio potere temporale e sovrano, avvalorato dalla Donazione di Costantino. Dunque, almeno nella prima parte del Medioevo, non vi furono evidentissimi tentativi di creare una sorta di distacco tra l’epoca presente e quella passata, anzi. I primi tentativi in questo si originarono intorno all’anno Mille, sotto Ottone I, nell’ottica di una nuova Renovatio Imperii che accusava di decadenza le istituzioni preesistenti e sollevava dubbi sulla veridicità della Donatio: tali tentativi furono tuttavia circoscritti, e non ebbero grande seguito. Nuovo impulso ebbero le spinte riformatrici dell’Impero nel secolo XII, sotto Federico Barbarossa: la scoperta del corpus iuris civilis di Giustiniano infatti pose le basi per la formazione del diritto romano e del suo studio, mentre al contempo si facevano strada nuovamente, al di sopra di potenti, principi e nobili, gli ideali di una Res Publica garantita dall’imperatore, che avrebbe magari ripreso istituzioni come il Senato romano. Anche questo periodo fu dunque segnato più da una mitologica retrospettiva nei confronti del passato che non da una vera e propria necessità di periodizzare e dividere l’età medievale da quella antica. Fu solo con il XIV secolo che si arrivò ad una ripresa totale del classicismo, ad una sua rivalutazione e ad una sua comparazione con i tempi presenti, che d’altro canto apparivano estremamente bui per via della crescente corruzione della Chiesa. Si formarono così due impulsi, uno politico verso una Res Publica vera e propria, ed uno religioso verso una Chiesa povera, simile a quella delle origini: dall’unione di questi due impulsi nacque la concezione di una “buona antichità” e di un’età, immediatamente successiva, segnata dalla corruzione e dalla povertà di spirito. Così vi fu il recupero dei testi antichi, delle epigrafi, delle fonti testuali e dei monumenti classici (che tuttavia in realtà furono oggetto di ampio recupero anche nel Medioevo). Dalla semplice ripresa dei classici si passò alla loro reinterpretazione ed ai primi esempi di teorizzazioni intorno all’arte, che avvennero nel Quattrocento: in questi trattati si parlava di una età di mezzo che aveva obliterato e distrutto quanto di buono la civiltà romana aveva prodotto. Parimenti, si iniziò ad utilizzare il termine modernus per definire l’età contemporanea a chi scriveva. Parallelamente al recupero dei classici vi fu tuttavia anche un’evoluzione della filologia verso lo studio dei termini medio-latini del Medioevo, che ne consentirono il recupero. Lo slancio filologico dell’epoca permise poi a Lorenzo Valla, intorno al 1440, di confutare la veridicità della Donatio. Con l’epoca della Riforma poi la rilettura della storia della cristianità, ed in particolare di quella del medioevo, fu una lettura giudicante, nel senso che essa ebbe il fine di condannare le deviazioni che avevano prodotto il declino dell’istituzione della Chiesa. Negli scritti di Lutero, pur mancando una sistematicità dei riferimenti storici al passato, 5 Germaniae Historica. Questo interesse si manifestò, in Inghilterra e Francia, in una preferenza del gotico sul classico, nell’architettura quanto nella letteratura e nell’arte, e segnò una sorta di rievocazione del medioevo. In Italia invece la tendenza si manifestò intorno alla metà dell’Ottocento, in prossimità dell’unificazione, quando i grandi archivi cittadini vennero aperti e le fonti medievali utilizzate per la scrittura di trattati sulle grandi città e le signorie italiane del medioevo. Il sentimento patriottico si faceva strada anche in questo ambito: così come i comuni avevano scacciato gli imperiali tedeschi, ora agli italiani toccava scacciare la dominazione austriaca. Il caso italiano fu poi particolarmente studiato durante l’Ottocento, perché esso si presentava come una sorta di declino piuttosto che di ascesa, andando dai fasti dell’impero e della civiltà comunale fino alla decadenza della dominazione straniera e della corruzione della Chiesa. Gli storici italiani non decisero mai di contestare questa affermazione, tesi com’erano tra un bisogno unitario nazionale e i campanilismi preesistenti nella penisola, limitandosi dunque a contribuire alla storiografia medievale con un’imponente opera di archivistica. Fu solo per opera di scrittori come Manzoni che l’aura negativa che circondava il medioevo iniziò a diradarsi, in favore di un maggior positivismo: questo fu dovuto alla tendenza di alcuni illuministi a considerare l’uomo e le sue azioni non come frutto del proprio tempo, ma come tendenze naturali passibili di ripetizione nei secoli (non a caso, nei Promessi Sposi, Manzoni utilizzerà il Seicento come sfondo per parlare, camuffandola, della situazione italiana). Nella seconda metà del XIX secolo si svilupparono poi i primi esempi di storia popolare o etnica in Italia, ovvero di una storia che riguardava le popolazioni della penisola (emblematiche furono in questo senso le ricostruzioni della vita delle popolazioni arabe italiane. Al contempo, in Germania si sviluppava il socialismo scientifico di Marx, che predisponeva le basi per un’analisi della storia basata sul materialismo: rifuggendo ogni periodizzazione, la storia iniziava con l’inizio delle fatiche degli uomini per la sopravvivenza. Qui la storia si faceva, più che politica, culturale, ideologica e relativa ad usi, costumi e tradizioni: le vecchie fonti divenivano insufficienti ed andava sostituite con quelle ancora rimaste negli archivi e finora mai pubblicate perché ritenute di scarso interesse. Ampio interesse assunse anche la storia economica. Riguardo al giudizio sul medioevo, esso rimase sospeso in Marx ed Engels: la tripartizione antichità-medioevo-modernità diventava la tripartizione tra schiavitù, feudalesimo e capitalismo, e pertanto non vi era necessariamente un’epoca migliore (o peggiore) delle altre. Nel Medioevo, ed in particolare tra il XIV ed il XV secolo, Marx ed Engels ravvisano la primissima espressione di quello che poi sarebbe divenuto il capitalismo, e che sbocciò solo nel Cinquecento. Al Medioevo si riconosceva poi un grande merito morale, ovvero quello di aver permesso lo sviluppo dell’amore come passione individuale, in particolare grazie alla società cavalleresca: l’amore adulterino e passionale è qui di primaria importanza e si contrappone al matrimonio, che all’epoca si riassumeva in una forma sociale concertata a tavolino da due famiglie, e che nulla aveva a che fare con la passione degli individui. Il principale merito di Marx ed Engels fu tuttavia quello di aver allargato gli interessi dello storico oltre la storia politica, ed in particolare verso quella economica, che poi si sarebbe rivelata centrale a cavallo tra il XIX ed il XX secolo. Nonostante ciò, la storia politica rimase in auge soprattutto perché fu quella insegnata nelle scuole, che poi risentiva anche di un eccessivo eurocentrismo, che fu solo marginalmente risolto con le colonizzazioni imperialiste. Contrariamente a queste tendenze vi fu tuttavia uno sviluppo della storia universale, che portò sia allo sviluppo della storia etnica ed etnografica che a quello della storia comparata, o comparativistica. Fu dunque tra questa corrente, insieme alla storia culturale, e quella politico-ideologica che si consumò un asprissimo scontro sulla fine del XIX secolo: nello specifico, i fautori della storia culturale volevano che essa fosse una ricostruzione del vero e non una storia dotata di finalità precise sul piano politico-ideologico. Con la pretesa del vero e dell’obiettività, e con l’autonomia del lavoro dello storico dalle esigenze politiche, arrivava così ad assumere importanza la questione metodologica delle fonti, che si concretizzò in un ricorso quanto più ampio possibile ad un larghissimo novero di fonti per la ricerca storiografica. In questo clima di esaltazione dell’attività intellettuale in quanto tale si sviluppò poi la sociologia, che spesso tuttavia ebbe risvolti di tipo storico, come nelle opere di Weber e di Durkheim. Tuttavia, questi sviluppi non scardinarono mai la tradizionale tripartizione della storia in antichità-medioevo-età moderna. Quello che cambiava, nel concetto di Medioevo, era il giudizio che la storiografia aveva sino ad ora dato all’età di mezzo, e che ora virava completamente verso una perdita di negatività. Questo fu dovuto anche alla presa di coscienza di molti studiosi cattolici, del filone del modernismo cattolico, che avversarono fortemente le tesi classiche secondo cui il Medioevo fosse una sorta di età felice per la Chiesa stessa. In ambito laico, fu l’interesse per la storia economica e quella culturale a far perdere al medioevo la sua aura di età buia, mentre la storia politica rimaneva ormai relegata 6 ad un ambito scolastico e marginale. Questi furono poi gli anni della grande disputa tra la storia e le discipline antropologiche e sociologiche, che rifiutavano di essere vicendevolmente accostate. Nasceva così lo storicismo, ovvero la tendenza a vedere ogni epoca, ogni evento ed ogni fatto come il prodotto di specificità particolarissime e per questo lontana da qualsiasi possibilità di ripetersi egualmente in qualsiasi altro momento della storia: questa tendenza contrastava con le discipline antropologiche e sociologiche, che invece predicavano una generale ciclicità delle consuetudini umane. Non fu tuttavia questo un periodo di netti dualismi, ma un periodo complesso dotato di ampie sfaccettature nel dibattito accademico tra scienze umane. Si andò via via a creare una disparità tra università e scuole: le prime erano il luogo del dubbio e della ricerca, le seconde quello della certezza e dell’insegnamento. Rimase anche irrisolto il problema del dualismo tra l’ideologia politica dello storico e il tecnicismo scientifico a cui si anelava nella ricerca storica. La divaricazione più grande era quella tra la visione degli intellettuali della storia e l’andamento della storia stessa: se essi ravvisavano nella storia una naturale tendenza al progresso, e inquadravano il medioevo (ad esempio) nell’ottica di una fase di rinascita ad esso successiva, la storia si muoveva su binari diversi, totalmente propri ed estranei da ogni tipo di finalismo. Le idee di un continuo progresso della storia vennero meno pochi anni dopo, con lo scoppio della Grande Guerra. 01.03 – UN ANELLO DELLA CATENA La Grande Guerra, al netto delle conseguenze disastrose che ebbe da un punto di vista sociale e geopolitico, ebbe conseguenze ben più limitate nell’ambito storiografico, ed in particolare in quello della medievistica. Henri Pirenne fu uno degli storici più intensamente toccati dalla Grande Guerra: egli fu tra i più importanti studiosi del passaggio dall’epoca antica a quella medievale e uno degli avversari della tesi secondo cui essa fu giocata sulla contrapposizione tra germanesimo e civiltà romana. Ad esempio, Pirenne non vide mai la caduta dell’impero romano d’occidente come la fine dell’epoca antica, ma ravvisò in essa le prime fasi dell’espansione araba nel mediterraneo, che scardinarono gli assetti economici, culturali e sociali dell’Europa intera. Le tesi di Pirenne, per quanto interessanti ai fini della periodizzazione, non ebbero grande importanza per quanto riguarda la metodologia storica: essa fu appannaggio della ricerca di Marc Bloch, che si concentrò nella critica delle fonti, delle falsificazioni, degli errori e dell’importanza del pensiero comune in relazione al vero. Con Bloch venivano rivalutate le testimonianze palesemente false, manipolate o frutto di credenze ed errori: è con Bloch che si parla di una vera e propria psicologia della testimonianza, che porta lo storico a domandarsi il perché della falsificazione, i motivi che hanno portato queste a verificarsi in primo luogo. Ebbe quindi luogo la nascita della storia della mentalità, che si sarebbe poi scontrata con gli ambiti a cui questa era generalmente collegata, come la linguistica, la sociologia, l’etnografia e la psicologia: tutte discipline che, se fino alla fine del XIX secolo, erano considerate “nemiche” della storia, ora, nell’ottica di Bloch, con essa dovevano collaborare. Bloch, che negli anni venti aveva fondato la rivista degli Annales con lo storico Lucien Fevbre, si espresse anche sul comparativismo, distinguendone due tipi: • Quello tra civiltà tra loro lontane e diverse, mai entrate a contatto l’una con l’altra, fatto per similitudini ed analogie; • Quello tra civiltà tra loro lontane e diverse che però avevano avuto reciproci contatti, fatto in base ai rapporti che esse avevano intrattenuto; Per Bloch fu il secondo tipo di comparativismo a rivelarsi migliore, e pertanto a meritare di essere studiato e posto al centro dell’analisi storica. Lo scetticismo di Bloch sulle comparazioni etnografiche va tuttavia a ricondursi al clima europeo, specie nel contesto storiografico, degli anni venti e trenta, estremamente eurocentrico e che vedeva nel medioevo il periodo di nascita dell’Europa per come la intendiamo oggi. Sempre in questo periodo, ebbero luogo grandi studi sulla nobiltà medievale, sui clan, sull’organizzazione sociale e del potere nell’alto medioevo. Un forte colpo alla storiografia tradizionale venne assestato quando gli storici si accorsero che la distinzione tra storia politica e storia culturale (o sociale) era inutile, giacché le due sfere del pubblico e del privato non potevano prescindere l’una dall’altra, ma anzi si interpolavano vicendevolmente. L’uomo andava quindi analizzato come uomo politico, ovvero sia per i suoi caratteri individuali che per quelli sociali d’insieme, dal momento gli uni influenzavano gli altri e viceversa. Questa scuola, definita nuova dottrina, ebbe ampio spazio nella storiografia cattolica, ma in 7 definitiva portò ad ampi anacronismi ed a grandi errori di analisi, come alla contrapposizione tra classe e ceto in una definizione universale. Questa storiografia fu poi vittima di un eccessivo eurocentrismo di matrice germanica, e di un’eccessiva concentrazione sulla nobiltà e l’aristocrazia, ai danni dei contadini e dei ceti meno abbienti. Accanto a questa fallimentare esperienza, in Germania rimase in auge la geografia storica, ed in particolare quella legata agli insediamenti agricoli nel lungo periodo, che si accompagnò ad una nuova ricerca archivistica delle fonti, di nuovo nell’ambito dei Monumenta Germaniae Historica. Sempre dall’ambito dei Monumenta arrivò una delle più grandi rivoluzioni della metodologia contemporanea, ovvero quella che definiva la necessità di una duplice contestualizzazione nella pratica della ricerca storica: la prima doveva essere legata all’epoca di stesura della ricerca ed allo storico stesso, e la seconda all’epoca dell’oggetto della ricerca. Questa seconda contestualizzazione doveva portare lo storico a porsi in un’epoca contemporanea all’oggetto del proprio studio, e non a condurre lo stesso in virtù degli sviluppi futuri, che all’epoca erano ancora incerti ed imprevedibili. Queste innovazioni tuttavia non entrarono mai nelle scuole, ancorate alle antiche concezioni di eurocentrismo e di insegnamento del vero: in Italia, anzi, si verificò un’involuzione tale che la storiografia medievale del periodo, ed in particolare quella sulla Penisola, furono opera di scrittori esteri. Nonostante ciò, fu proprio in Italia che si verificarono le prime esperienze di analisi della formazione e dell’evoluzione del concetto di Medioevo fino ai giorni nostri. Il periodo successivo fu segnato dal predominio delle concezioni storicistiche ed idealiste, e terminò solo con la fine del secondo conflitto. Fu solo con la ripresa della democrazia, con la circolazione di ideali marxisti e socialisti e con la disponibilità di fondi da investire nella ricerca che il dibattito metodologico crebbe, arrivando così a riproporsi in una serie di correnti tra le più e le meno tradizionaliste. Fu ad esempio in questo ambiente che si svilupparono le tesi marxiste che cercavano di ricollegare il feudalesimo al capitalismo, vedendo nel primo il prodromo del secondo, ma che ebbero definitiva fortuna solo negli anni ’50. La storiografia tedesca, reduce dell’esperienza nazista, continuò a concentrarsi sulla storia agraria, sull’edizione delle fonti e sulla storia della nobiltà. I Monumenta riacquisirono importanza, e si concentrarono sugli studi della falsificazione delle fonti e sulle metodologie della ricerca critica delle fonti, dedicando ampio spazio allo studio di falsi come la Donatio di Costantino. Oltre a questo solco più tradizionalista, la medievistica tedesca assunse anche caratteri nuovi e diversi, andando verso una storia sociale sotto l’influenza della nuova dottrina e della sociologia del secondo Novecento. In Francia la pubblicazione dell’Apologia della storia di Bloch favorì una riconversione degli storici verso la storia regionale, che doveva fare da base per una sintesi di quella nazionale e poi mondiale. Questo fu favorito anche da una certa tradizione storica regionale presente in Francia, e preso emulata anche in Italia. La storiografia sul medioevo in Italia, anche quella regionale e legata alle singole città, fu appannaggio di studiosi esteri per lungo tempo, giacché la storiografia italiana (sull’Italia) rimase perlopiù legata alla storia economica e agraria, oltre che ai sempreverdi filoni della storia ecclesiastica e politica, salvo alcune rare tendenze uniformatrici di carattere sintetico e generale. In Italia e fuori dall’Italia si sono poi affermati due nuovi filoni: quello della storia della mentalità, inaugurato da Marc Bloch e Lucien Febvre, e quello della storia degli esclusi e degli ultimi, delle minoranze e degli emarginati. Accanto a questi, sorsero interessanti studi sulla tradizione orale e sul suo modo di preservare e tramandare le testimonianze. Ancora, le forme di vita (qui intese come forme della vita associata) iniziarono ad essere oggetto di studi che si basavano perlopiù sul gioco e sull’attività ricreativa individuale e sociale. Si è cercato di creare l’identikit dell’uomo del medioevo, di trattare delle forme non istituzionalizzate e popolari della storia religiosa e della storia politica. Accanto a queste, sono sorte nuove forme di incontro per storici ed appassionati del settore, nuove forme di trasmissione delle testimonianze. 02 – PERIODI E QUESTIONI 02.01 – SPAZI E POPOLAZIONI L’ambito di ricerca principale del medievista è quello europeo, che vede i suoi confini nel Mediterraneo (a sud), nella Fennoscandia (a nord), nella Russia (ad est) e nell’Atlantico (ad ovest): al di fuori di questi confini vivevano infatti popolazioni che avevano vissuto processi di civilizzazione completamente diversi da quello europeo, e rispetto ai quali gli europei erano perlopiù ignari. Non vi è tuttavia da pensare che al di fuori dell’Europa non esistessero civiltà 10 come quella di Roma, erano sotto il diretto controllo del papato. Le figure degli arcivescovi erano tuttavia perlopiù onorarie, giacché la Chiesa concedeva ampia autonomia al clero minuto. Anche la carica papale era principalmente onoraria, e poco aveva da dire in termini dottrinali, religiosi ed amministrativi. Il vero potere della Chiesa era concentrato nelle mani dei vescovi, la cui elezione era tuttavia subordinata non solo ai chierici, ma anche ai laici delle diocesi: questo portò le grandi famiglie cittadine a porre propri membri nei più alti rami del controllo religioso. I vescovi arrivarono così ad avere un primato non solo religioso, ma anche amministrativo, politico e alle volte persino fiscale sulle diocesi che controllavano. La contrapposizione tra un generale lassismo locale ed una dura morale imposta dal potere centrale fecero così scattare grandi dibattiti all’interno della Chiesa, che si accompagnarono alla questione della tolleranza delle altre religioni e delle eresie: tutto questo portò, dal VI al XI secolo, ad una crisi dei rapporti tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente. Il primato cristiano venne aspramente contestato nel VII secolo dall’Islam fondato dal profeta Maometto. Lo sviluppo della religione islamica avviene in una regione, quella dell’Arabia, profondamente variegata per culti e religioni: parte delle popolazioni erano pagane, parte cristiane, parte ebraiche e parte hanif, ovvero seguaci di monoteismi di matrice diversa rispetto alle due religioni della classicità medievale. Maometto riprese la tradizione hanif, che pose come base per il discredito di cristiani ed ebrei, i quali si erano ingiustamente appropriati del primato sull’espressione di Dio, che invece Maometto contestò e accompagnò alla formulazione dei canoni di una nuova religione e di uno “nuovo” Dio, Allah. Il mondo arabo si spaccò tra i seguaci di Maometto e i suoi avversatori: questi ultimi furono infine costretti a soccombere e l’Islam si permeò di un trionfalismo religioso che sfociò dapprima in una dura repressione delle minoranze religiose e poi, alla morte di Maometto, in guerre interne che solo successivamente i califfi riuscirono a convogliare verso l’esterno, ed in particolare verso i bizantini ed i persiani: ai primi venne strappato l’Iraq, che venne arabizzato, mentre i secondi videro il proprio impero disgregarsi e risorgere in una nuova veste islamica. Duri scontri tra islamici, bizantini, turchi e popolazioni locali ci furono nell’Asia minore, che di fatto rimase pressoché indipendente, salvo la Siria, che fu conquistata dagli islamici. L’espansione in Asia lasciò poi il passo a quella africana, dove gli islamici non ebbero problemi nella conquista dell’Egitto, già dilaniato dai dissidi tra ortodossi scismatici, mentre trovarono grandi resistenze, ed una fondamentale battuta d’arresto, contro le popolazioni berbere. Fu solo in questo periodo che si palesarono i primi conflitti interni al califfato, che portarono la dinastia Omayyade ai suoi vertici. La forma di uno stato multietnico ma politicamente e religiosamente unito, predicata da Maometto, si realizzò accanto a quella di una religione unitaria e canonizzata con la scrittura di una versione definitiva del Corano. Fondamentalmente diverso fu l’islamismo dal cristianesimo e dall’ebraismo: esso non predicava una forma istituzionalizzata del clero, l’ascesi monastica o la monogamia (in favore della poligamia), mentre si rivelò ben connivente con gli altri monoteismi, seppur fortemente persecutore nei confronti dei pagani. La vita sociale e politica dell’Islam differiva enormemente da quella del cristianesimo: se questo infatti distingueva le leggi di stato da quelle di religione, il primo si sviluppò a partire da una forma tribale e senza un retroterra antico di diritto (come invece accadde per il diritto romano in Europa), e dunque la legge civile e quella religiosa andarono ad unirsi. Dunque, dal secolo VII il bacino mediterraneo fu diviso tra tre religioni, spesso in contrasto tra di loro e in feroce contrapposizione contro i paganismi. Tutte e tre si svilupparono sul modello del monoteismo e attorno ai libri sacri ma ebbero rapporti diversi con il mondo politico e vissero dissidi interni ben diversi: se le comunità ebree erano eccessivamente frammentate per uno scontro religioso, nell’Islam si consumò la secolare contrapposizione tra sunniti e sciiti, mentre nel cristianesimo le più grandi controversie si sarebbero manifestate solo nei secoli successivi, con lo scisma d’Oriente e la fondazione della Chiesa Ortodossa. Fu con il rapporto tra Chiesa e politica che nacquero i primi intenti riformatori: salvo delle sporadiche spinte del X secolo, il riformismo scoppiò nella seconda metà del secolo XI e tese ad una sempre maggiore esclusione dei laici dalla possibilità di assegnazione delle cariche vescovili, la cui integrità si stava via via degradando. Fu questo il periodo della lotta per le investiture, ovvero lo scontro tra il papato e l’impero per l’attribuzione delle cariche religiose della cristianità. Questa si accompagnò ad una sistemazione del diritto canonico, ad una regolamentazione delle differenze tra normativa e prassi in uso nel medioevo e, infine, all’asserzione del primato della Chiesa di Roma su tutte le altre chiese. Questo generò lo scontro con la chiesa d’Oriente, che sarebbe culminato con lo scisma del 1054, ma anche uno scontro con il Sacro Romano Impero, dal momento che la Chiesa iniziava a rivendicare per sé un potere strettamente politico e temporale. Questo scontro, detto lotta per le investiture andò a fasi alterne di guerra e conciliazione e si concluse precocemente, forse ancor prima di 11 aver trovato una risoluzione, grazie all’impulso dato dal papato alla riconquista del meridione europeo e dei luoghi sacri della cristianità nel vicino oriente. Ebbero così inizio le prime crociate, che riuscirono in qualche modo a rinsaldare i rapporti tra l’aristocrazia guerriera, che si era detta pronta a partire alla volta di Gerusalemme, e il ceto ecclesiastico, trovando un nemico comune negli infedeli musulmani prima e poi in quelli ebraici ed ortodossi. Fu solo con il concordato di Worms, dopo le fallimentari esperienze dei crociati, che la lotta per le investiture arrivò al termine, seppur con alcuni problemi: primo tra tutti rimase quello che i vescovi di nomina ecclesiastica godevano ancora di certi poteri politici, amministrativi e fiscali, e non erano soggetti al controllo laico nel proprio operato. Se contro i movimenti riformisti ed eretici il potere politico e quello religioso seppero creare un fronte comune, questi si separarono nuovamente quando, nel secondo Duecento, la Chiesa di Roma iniziò ad assumere spinte accentratrici che danneggiarono le aspirazioni di re e nobili locali, che anelavano ad una maggiore autonomia ed a poteri più ampi. Questo conflitto si sviluppò in un’epoca di grande mobilità sociale e di dissidi tra sfere del potere politico (baroni, re, duchi, ecc.), mentre i laici tentavano di esprimere forme nuove di devozione tramite la fondazione di ordini monastici e cavallereschi crociati, tramite l’ascesi e la fondazione di scuole teologiche. Questa fase, estremamente caotica, lasciò lo spazio ad una fase di sistemazione durante il regno di Federico II di Svevia, il Barbarossa. Qui furono ribadite la lotta alle eresie, ed in particolare ai catàri, la distinzione e il contrasto con gli ebrei e, successivamente, vennero regolamentati gli ordini monastici al punto che ne venne vietata la costituzione di nuovi. Su questo tuttavia la Chiesa fu costretta a ricredersi per via dell’efficacia del proselitismo domenicano, francescano e gesuita, che portarono alla nascita dei rispettivi ordini monastici. Ampie furono le riflessioni dottrinali portate avanti da questi ordini, perlopiù di ordine teologico (i domenicani erano spesso insegnanti e precettori), e le istanze riformiste verso una Chiesa più povera e aderente al messaggio di Cristo (in questo si specializzarono i francescani). Il successo degli ordini mendicanti si accompagnò ad una sempre maggiore critica verso la curia tradizionale, sempre più ricca ed impiantata nell’ambito del potere temporale. In questo ambito si sviluppò poi il dissidio squisitamente politico che contrappose il papato a Federico II prima ed al figlio Filippo il Bello poi, dando origine alle due parti contrapposte dei Guelfi (filopapali) e dei Ghibellini (filoimperiali), che si concretizzò in un’estensione dei privilegi giuridici e di controllo geopolitico della Chiesa. La contrapposizione si concluse con la creazione di un vero e proprio stato papale, con l’ingerenza sempre maggiore della Francia nel collegio cardinalizio, nell’affermazione dell’autorità temporale del papa e nella creazione di alcuni principati ecclesiastici nel Sacro Romano Impero. Parimenti, il centro della vita politica si spostò ad Est, verso l’Austria, la Moravia e la Boemia, mentre presero luogo istanze riformatrici che avevano l’obiettivo di screditare l’eccesiva opulenza della chiesa romana in favore di quella apostolica e missionaria, di esaltare la lettura delle scritture e di favorire un cristianesimo ideologico e filosofico prima che strettamente dottrinale. Fu nel Trecento che la Chiesa arrivò a vivere il proprio periodo peggiore: dopo il periodo della cattività avignonese, essa si ritrovò scissa in un ramo che obbediva a Roma ed uno ad Avignone, alla compresenza di due, quando non tre papi ed a movimenti eretici sempre più forti, come quello di Wycliffe in Inghilterra e quello di Jan Hus in Boemia. Fu solo con il concilio di Costanza, promosso dall’imperatore Sigismondo (che necessitava di una pace interna nella Chiesa per ottenere la legittimazione imperiale), che la situazione si risollevò: la coesione della Chiesa fu ristabilita e le eresie represse. La Chiesa versava tuttavia in uno stato di corruzione e decadenza morale: tutto ciò pose tuttavia le basi per le istanze riformatrici del XV e XVI secolo, ed in particolare per la Riforma. 02.03 – EVOLUZIONE, ECONOMIA E CLASSI SOCIALI Il cambiamento della società tra il III ed il V secolo d.C. fu al centro della storiografia immediatamente successiva al medioevo: molto storici videro infatti un cambiamento repentino, violento e involutivo. In realtà tale processo non fu affatto un repentino peggioramento, ma un graduale passaggio da un sistema sociale ad un altro che non era affatto peggiore o meno importante. Sempre in quest’epoca, anche la vita economica, e dunque la divisione della società in ceti ed i rapporti tra di essi tesero al cambiamento, complicandone l’analisi. Come dal punto di vista religioso, anche da quello economico il medioevo fu una sorta di periodo di distruzione delle consuetudini in vigore nell’epoca precedente, che tuttavia non fu assolutamente volontaria. Questa ondata distruttiva investì sia l’economia pubblica che quella privata, la moneta, i rapporti tra città e campagne, e dunque tutti i nodi principali dell’economia europea dell’epoca. Se molto dubbie sono le specifiche regionali e generazionali del cambiamento, è chiaro che essa 12 portò al prevalere di un’economia di sussistenza, per cui i contadini si alimentavano solo di ciò che producevano, a sfavore degli scambi commerciali. Al suo tramonto, l’impero versava in una grave crisi demografia ed economica causate dalle migrazioni di massa del IV e V secolo. Solo verso il VII secolo ci furono i primi segni di una lievissima ripresa, specie nelle campagne, che tuttavia fu estremamente lenta e spalmata sul lunghissimo periodo. Tale ripresa permise tuttavia alle campagne di risultare più appetibili delle città, ormai svuotate, a causa della crisi, della propria prominenza come centri mercantili, e dunque favorì un arretramento dell’urbanizzazione e un progressivo abbandono delle città che favorì, verso il X secolo, il ripopolamento delle campagne e la nascita dei castelli, sintomo di una dislocazione del potere cittadino verso le campagne. L’evoluzione economica ebbe poi anche un complesso rapporto con i mutamenti delle classi sociali dell’alto medioevo, che dipendevano moltissimo dalle rendite fondiarie. Qui si riscontra un’assoluta prominenza della piccola e piccolissima proprietà terriera, contro al grande latifondo. La piccola proprietà terriera era onnipresente nell’Europa occidentale. La proprietà di una terra non fu tuttavia troppo importante, giacché la magra ricchezza di molti contadini si basò sull’affitto delle terre da altri possidenti, che a sua volta assunse tipologie ben diverse a seconda dell’epoca e della regione di studio: molte furono le zone di intermezzo tra la totale proprietà di un terreno e la totale mancanza dello stesso. Numerose erano poi le forme di subaffitto e sub-concessione delle terre: tutto ciò si rese evidente nel caso delle concessioni e sub-concessioni a più livelli operate da re e imperatori, che si andavano a dipanare verso decine di migliaia di contadini diversi, e di famiglie diverse. Progressiva fu poi la liberazione dalla schiavitù della società medievale, alla quale si sostituì il servaggio, che presentava caratteri più temperati, dal momento che i servi detenevano ancora gran parte delle libertà civili. Fu questo il contesto di sviluppo delle curtis, ovvero di latifondi divisi tra una sezione destinata a famiglie contadine, con propri campi da coltivare, ed una di proprietà dei possidenti, che si erano garantiti ore di lavoro gratuito da parte dei contadini proprio su quelle terre in cambio delle concessioni degli appezzamenti sopracitati. L’entità e l’importanza del sistema delle curtis non è ancora chiara, ed è solo recentissimamente stata ridimensionata, così come non è chiaro quanto netti fossero i rapporti di potere tra possidenti e contadini. La forma di servitù tipica delle curtis si ravvisa, a partire dal X secolo, anche nelle signorie e nei potentati nobiliari ed ecclesiastici, che imponevano a chi viveva entro i propri confini dei contributi fiscali, materiali o militari, ovvero delle imposte per nulla diverse da quelle imposte ai servi nei grandi possedimenti terrieri. D’altro canto, tra il XI e l’XI secolo, la questione della dipendenza personale e della forma di servitù relativa ad un individuo si spostarono da una condizione assunta per nascita ad una relativa al territorio in cui esso viveva, che dunque prescindeva dal ceto sociale di provenienza. L’evoluzione della signoria ebbe anche riscontri sociali elevati: chi deteneva il castello esercitava diritti amministrativi, politici e fiscali su chi vi viveva attorno, e per questo la detenzione della signoria divenne una questione di primaria importanza. Divenne primaria la conservazione di un lignaggio familiare, quella dell’eredità e della linea di eredità, e si irrigidirono i vincoli familiari e il potere del patriarcato. Fu questo il segnale del sorgere di un’aristocrazia di spada, militare e spesso innestata nei rami dei potentati locali. Con essa nacque anche un nuovo tipo di rapporti tra gli uomini, che si sviluppò a partire dal X secolo: il rapporto feudale. Quello feudale era un rapporto estremamente particolare, giacché esso era estremamente stretto nei confronti di chi lo contraeva, ma non limitava mai le libertà personali del contraente. Al contrario, il rapporto feudale poteva essere contratto solo da individui liberi in un ambito di garanzia della reciproca libertà. Da una parte vi era un signore (senior) e dall’altra un vassallo (vassallus o fidelis), ovvero un uomo che con il signore aveva instaurato rapporto di fede reciproca e di mutuo aiuto. Il vassallo doveva al signore il proprio ausilio, o auxilium, ovvero il servizio di milizia a cavallo per l’esercito del signore, il quale a sua volta doveva dispiegare il proprio esercito in protezione dei suoi vassalli. Presto l’auxilium passò dall’essere prettamente militare ad assumere una forma di contributo economico. Tra vassallo e signore si instaurava poi l’obbligo del consilium, ovvero quello di informazione reciproca e di mantenimento degli altri obblighi feudali. Il signore dunque, che era colui che era dotato della maggiore disponibilità economica, garantiva al vassallo un beneficium, o feudo, come salario e ricompensa per la fede dimostrata e l’attività svolta. Il beneficium fu poi importante e determinante per l’evoluzione dei rapporti feudali: esso infatti favorì l’interpretazione del feudo come un’istituzione ereditaria, mentre esso generalmente veniva meno con la morte del contraente o qualora questi mancasse di fedeltà al signore. Fu solo dal IX secolo che, a causa delle consuetudini in vigore nel Medioevo, l’ereditarietà dei feudi divenne ufficiale. Fu tuttavia solo dal XII secolo che tali consuetudini vennero messe per 15 diffusione di questa conoscenza prevalentemente orale fu quello della valutazione della diffusione della conoscenza scritta: essa fu assente al di fuori dell’Impero Romano, e dopo il VI secolo, anche nei confini europei, fu estremamente limitata ad ambiti clericali e monastici, così come limitata fu l’alfabetizzazione, che comunque per secoli si rifece solo alle lingue greca e latina. Vi è tuttavia una crescente frangia di ottimisti, ovvero di storici convinti che molti laici fossero alfabetizzati ma che non usassero la propria conoscenza se non per firmare documenti. Altra questione è quella del sapere pratico, legato al lavoro, per cui possiamo solo immaginare una trasmissione basata sul tradizionalismo famigliare. In questi ambiti si produssero anche ampie innovazioni, la cui diffusione manifesta, ad esempio, il tipico irraggiamento per cui le conoscenze tecnico-scientifiche in ambiti come la geografia, quelle poetiche e quelle artistiche si irraggiassero da un centro di nascita fino ad ampi spazi geografici lungo un periodo temporale estremamente dilatato. Certo, la divisione della cultura tra una cultura aristocratica ed una cultura popolare rimase in auge, almeno in occidente, fino al XI secolo, mentre in oriente, con la fioritura dell’Islam e dell’impero bizantino, la speculazione e la cultura si fecero più democratiche. Fu con l’XI secolo che la cultura occidentale iniziò ad assumere un più ampio respiro ed una maggior partecipazione popolare: qui infatti giocarono un ruolo centrale movimenti religiosi eretici dapprima isolati ma che si espansero a macchia d’olio nel continente, fino alle feroci repressioni. Essi lasciarono un nuovo modo di intendere il cristianesimo, nuovi edifici, nuove architetture ed un nuovo gusto intellettuale e speculativo presso il ceto medio-basso, che entrò di diritto nel pubblico dei cantori: non a caso la chanson de geste era realizzata non solo per un pubblico cortigiano, ma anche per quello comunale e cittadino. I cicli epici sul modello carolingio si moltiplicarono e fiorirono in diverse nazioni: insieme ad essi fiorirono lingue nazionali nuove, lontane dal greco e dal latino e più vicine al parlato, al volgare. Parallelamente si sviluppò, nell’Europa occidentale, un gusto architettonico e scultoreo che riprendeva i canoni classici: il romanico, che si espanse tra l’XI e il XII secolo. Fu dunque solo col XII secolo che si assistette ad una di rinascita, definita per l’appunto rinascita del XII secolo, dove i tassi di alfabetizzazione si alzarono e la cultura divenne più stratificata, e non solo appannaggio dei ceti alti. Questo non fu solo dovuto alle nuove letterature, ma anche al complesso sistema di leggi, decreti, contabili e documenti vari che ormai regolavano la vita cittadina, e che imponevano a mercanti, artigiani e cittadini medi di conoscere almeno la lingua volgare. La ripresa del secolo XII portò poi alla nascita delle scuole, al fiorire delle scienze e delle tecniche e alla fondazione delle università, che diedero grande impulso agli studi filosofici e teologici. Le università vennero fondate con ampi aiuti pubblici, ma i centri della cultura alta dovevano inserirsi in questo nuovo slancio culturale favorito dalle letterature romanze e dalle arti. La conoscenza tecnica si preservò grazie alle corporazioni, che ora tramandavano anche un sapere pratico dell’artigianato, mentre con il crescente numero di persone alfabetizzate la propaganda politica fece il suo ingresso nella scena sociale europea. Le nuove congregazioni religiose sfruttarono questa fioritura culturale migliorando il livello delle predicazioni ed entrando nelle università, dando impulsi nuovi alle arti, che ora venivano rivolte alla rappresentazione del sacro: fu in questo ambito che nacquero i primi testi teatrali del medioevo europeo. Nelle generazioni che vissero la crisi del Trecento la cultura non solo non peggiorò, ma anzi raggiunse vette ancora più alte: fu questo il periodo della fioritura della letteratura e delle arti nell’Italia centrale, segnatamente riguardo alla narrativa di Boccaccio ed alla poesia del Petrarca. La pittura vide ampi focolai di ritorno in Italia e in Olanda (i pittori fiamminghi), così come la filosofia e la trattatistica, anche nelle proprie accezioni più laiche: va infatti ricordato che sarà in questo periodo, denominato autunno del medioevo, che Lorenzo Valla confuterà la Donatio di Costantino. Ampi rinnovamenti si ebbero anche nella filosofia, che andava ad abbracciare ora non solo l’ambito teologico, ma anche quello naturalistico, scientifico e politico. Infine, la teologia ebbe grande impulso per via della lotta alle eresie, ma essa si concretizzò in intenti riformisti del cattolicesimo che sarebbero sfociati, nel Cinquecento, nella Riforma Protestante. 16 03 – LE FONTI 03.01 – GENERALITÀ, CLASSIFICAZIONI E DIMENSIONE TEMPORALE DELLE FONTI La storia è una scienza indiretta, nel senso che non studia direttamente il proprio oggetto di studio, ma che per fare ciò deve avvalersi di fonti che lo documentino. Per fonte si intende ogni pezzo della storia umana del passato che si è conservata fino ai giorni nostri. Vi è poi da fare una distinzione tra la fonte, ovvero tutto ciò che ci deriva dalla lettura dei testi redatti originariamente nel tempo e nel luogo in cui il fatto stava avvenendo, o immediatamente dopo, e la storiografia, ovvero quel tipo di fonte indiretta che a sua volta ha fatto uso di diverse fonti nella propria costituzione. In moltissimi casi poi, alcune fonti contengono sia una parte di fonte che una di storiografia. Il concetto di fonte è di primaria importanza per il lavoro dello storico, ma vi è qui da fare particolare attenzione: la fonte infatti viene analizzata da uno storico fondamentalmente umano, ovvero da un essere con passioni, pregiudizi ed idee, che vanno limitate quanto più possibile nell’interrogazione della fonte stessa. Ciò che viene richiesto allo storico è dunque un approccio razionale alla narrazione storica, rifacendosi ora alla storiografia, ove dovesse trattare di fatti e cose al di fuori del proprio studio, ora alle fonti vere e proprie, che d’altro canto rimangono alla base anche della storiografia. Dunque, le fonti saranno oggetto principale della ricerca metodologica. Ora, l’attuale definizione di fonte deriva dalla storiografia dell’Ottocento, che ha inteso creare una storia per ogni cosa, dalle culture alle religioni, alla politica ed all’agricoltura. Fino al settecento, ad esempio, i documenti privati avevano un’importanza marginale, se non nulla: oggi invece, dal momento che la storia si è disfatta del proprio scheletro esclusivamente politico per abbracciare una storia più umana, tali documenti assumono valore pari agli altri, e nessuno studioso crea più ordini gerarchici delle fonti. I criteri di divisione non gerarchica delle fonti sono molteplici, ad esempio quello che divide le fonti tra volontarie e involontarie, o ancora quello che le divide tra fonti scritte e fonti non scritte. Queste due classificazioni hanno tuttavia i loro problemi: la prima ad esempio ha un ampio margine di incertezza e varianza, mentre la seconda accomuna nello stesso paniere fonti tra loro diversissime, come quelle non scritte. Questo ha portato ad una distinzione e classificazione assolutamente minuta delle fonti, che solo per la storia medievale ne ha reperite ottanta categorie: tale classificazione tuttavia schiva il problema di creare una visione d’insieme generale, scadendo nell’eccessivamente particolare. Una classificazione generale ma non eccessiva è quella che tiene conto del tempo di produzione delle fonti, che va dalle poche ore di un documento ai molti secoli di un paesaggio urbano. A questa classificazione se ne rende necessaria poi una intorno al ritmo (continuo o discontinuo) di formazione delle fonti, soprattutto a quelle di lungo periodo, ed una relativa alla modalità di produzione. Alcune fonti di lungo periodo poi non sono state prese per tali a lungo: la mentalità, ad esempio, viene tuttora indagata in maniera diversa rispetto ai paesaggi agricoli ed alle altre fonti, pur presentandosi essa stessa come una fonte di lungo periodo. Vi è poi da considerare la geografia delle fonti, ovvero il luogo di provenienza, il luogo di consultazione e il percorso compiuto da una fonte nei secoli. Vi sono poi casi in cui la lettura di una fonte non vada effettuata in senso progressivo, ovvero dalla data di produzione ad oggi, ma in senso regressivo, ovvero da oggi alla data di produzione della fonte. Discorso a parte va fatto per le fonti iconografiche ed archeologiche, che vengono analizzate dalla storia dell’arte e dall’archeologia, le quali sono discipline collaterali della storia di diversissima formazione: la seconda è stata lungamente vista come prolungamento della prima, che ormai possiede un lessico e una forma costituite, e si è resa indipendente solo in tempi molto recenti. Similmente alle fonti scritte, anche per quelle iconografiche si è resa necessaria una geografia delle fonti. Essa dunque ha avuto il compito di stabilire quale fosse il retroterra culturale e geografico che sottende la formazione di una fonte e del suo percorso di trasmissione nel tempo. È invece ancora mancante un’opera sistematica e riassuntiva che faccia da guida nell’analisi dei testi figurativi. Così come per la mancanza di un catalogo iconografico dell’arte medievale, manca anche un catalogo dell’archeologia medievale, che tuttavia può anche derivare dalla relativa giovane età della disciplina. Anche qui, una bibliografia completa dell’archeologia è pressoché impossibile. 03.02 – LE FORME DELLA SCRITTURA Le fonti scritte sono quelle con cui nella maggior parte dei casi ci si deve confrontare nell’ambito della ricerca storica. Esse vanno consultate in ogni ambito della ricerca storica, e vanno ricercate con un metodo archeologico: questo 17 perché, per quanto esse esistano in un numero altissimo, la loro natura è pur sempre quella di frammenti di un unicum totale che non si è completamente preservato. La frammentarietà delle fonti va colta in diversi sensi: • Una o più fonti possono essere parte di un insieme di fonti simili andato in parte perduto; • Una o più fonti possono essere parte di un processo complesso di scritture andato perduto, ovvero di un insieme di fonti di cui quella conservata è solo una copia finale o intermedia, o un documento in un fascicolo composito; • Una o più fonti possono essere parti di un processo complesso di scritture ed elementi estranei (parole, tradizioni, riti o comunque qualsiasi forma non scritta) andato perduto; Quest’ultimo è il tipo più complesso e più importante di fonti, nonché quello che capita di analizzare più spesso nella medievalistica. Fonti di questo tipo sono tutte quelle che presentano trascrizioni di una parola, e dunque prediche, discorsi, verbali, atti notarili, decreti regi e decisioni dei concili. Dalla presa di coscienza della lacunosità della conservazione delle fonti scritte si possono fare due osservazioni: la prima è che una divisione delle fonti di per sé è inutile, ma che essa deve andare incontro ad una divisione dei procedimenti delle fonti, ovvero ad una classificazione di come esse sono state create e di come si sono tramandate fino a noi; la seconda è che le lacune sono di vario genere, ed in particolare incidentali (ovvero intercorse durante l’opera di conservazione nel tempo) o originarie (ovvero preesistenti e dovute alla prassi di non mettere per iscritto alcune pratiche sociali). Vi è dunque da ripercorre la storia della conservazione delle singole fonti, capire se queste facessero parte di insieme più complessi, stabilire la presenza e la tipologia di eventuali lacune: si tratta insomma di creare il paesaggio originario delle fonti. D’altra parte, la produzione scritta di una civiltà è direttamente dipendente dalle sue costruzioni sociali: ciò che in una società viene ritenuto importante e messo per iscritto, in altre può rimanere solo orale. Esistono poi diversi tipi di esigenze a mettere per iscritto, sviluppatesi nel corso del Medioevo e corrispondenti alle esigenze più formali di mettere per iscritto atti ufficiali e leggi a quelle informali di mettere per iscritto prediche, racconti e poesie. D’altro canto, la crescente produzione scritta fu causata dalla crescente alfabetizzazione e a sua volta produsse una migliore comprensione della lingua, che si tradusse di nuovo in un crescendo della produzione scritta, e così via. Questo processo fu tuttavia plurisecolare ed ebbe un definitivo impulso tra XII e XIII secolo: tale lentezza va riscontrata nel dualismo tra lingua parlata, il volgare, e lingua scritta, il greco ed il latino, che era stato ereditato dal mondo classico. Tutta l’Europa infatti, fino al Trecento, vedeva nel greco e nel latino le uniche due lingue degne di essere scritte (ad eccezione di quanto accadde in Inghilterra), e pertanto tutto ciò che veniva detto in volgare era trascritto in latino: ciò rese lentissima l’alfabetizzazione. Se dunque l’uso sociale della scrittura fu fondamentale nella nascita delle fonti scritte, il materiale su cui avveniva la scrittura sarà importantissimo ai fini della conservazione: il papiro, in uso fin dall’epoca antico, si rivelò presto fin troppo fragile e portò alla frammentazione delle fonti antiche preservate fino ad oggi, e pertanto fu sostituito dalla pergamena, molto più durevole e facilmente conservabile: per questo possediamo una foltissima schiera di fonti istituzionali e non risalenti al medioevo. Fu solo nel XIII secolo che si passò alla carta, un supporto altresì durevole ma molto più economico. Col cambiamento del materiale cambiava anche la forma di conservazione delle fonti: i papiri e le pergamene a pagina singola erano arrotolate, mentre le pergamene a più pagine erano piegate in quattro e conservate all’interno di quaderni e di codici appositi, come libri in una biblioteca. Presto poi i diplomi e gli atti a pagina singola vennero trascritti e raccolti in appositi quaderni, detti cartolari. Accanto a papiro, pergamena e carta, nel medioevo trovarono un uso limitato anche i materiali duri, come marmi e metalli, in funzione di scritture epigrafiche. Alle condizioni originali di un documento si aggiunge poi una questione di conservazione nel tempo, che in ultima analisi fa riferimento alla cura conservativa adoperata dagli uomini, ed in particolare a cosa essi ritenessero importante e degno di essere conservato e cosa no. Tutti i documenti pubblici, ovvero i racconti, le poesie, le epistole (almeno quelle dei personaggi più famosi), i trattati, le leggi ed i codici ebbero grande possibilità di conservarsi, giacché, se gli originali si sarebbero avviati sulla via della scomparsa, di essi esistevano numerose copiature ben conservate nei codici. Di contro, i documenti privati, come compravendite, atti privati, testamenti e atti religiosi di battesimo o matrimonio o sepoltura, furono conservati ben più sporadicamente a seconda dei possessori di tali atti: spesso in questo ambito giocò un ruolo fondamentale la Chiesa, che già nel medioevo godeva di una radicata tradizione archivistica. Chiaramente sia le fonti pubbliche che private negli archivi furono oggetto delle calamità naturali
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