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Guillem de Berguedà - Contesto storico e analisi linguistica, Tesi di laurea di Filologia romanza

Analisi linguistica su Berguedà incentrata sulle influenze linguistiche catalane nella sua opera in provenzale.

Tipologia: Tesi di laurea

2018/2019

Caricato il 22/08/2019

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annam_93 🇮🇹

4.3

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Scarica Guillem de Berguedà - Contesto storico e analisi linguistica e più Tesi di laurea in PDF di Filologia romanza solo su Docsity! 2. - CONTESTO STORICO 2.1 Linee generali della lirica trobadorica, della figura del trovatore e dell’«amore cortese» La storia della lirica romanza dipende strettamente dalla storia dei trovatori, se ne calcola l’arco vitale infatti dalle prime opere di carattere trobadorico che ci sono giunte che recano la firma di Guglielmo IX duca di Aquitania e VII conte di Poiers (1071-1126), all’ultima poesia di Guiraut Riquer, 1292. Il declino ufficiale risale alla fine del XIII secolo quando, presso l’accademia letteraria del Concistori del Gai Saber, edificata a Tolosa nel 1323, si codificarono le regole stesse della poesia trobadorica con l’intento di promuoverne la koinè e perpetuarla. Dal punto di vista geografico è sbagliato identificare la poesia dei trovatori con l’area linguistica dell’Occitania dato che molti trovatori non furono occitani, basti infatti pensare agli italiani e ai catalani. Già a partire dall’XI secolo fu elaborata nelle corti meridionali una cultura di impianto trobadorico instauratasi successivamente nel nord della Francia attraverso il vernacolo provenzale: equidistante dall’illustre latino dei litterati e dalle forme più strettamente volgari della letteratura popolare (come le canzoni di gesta), la nuova lirica dei trovatori è una lirica accessibile a chiunque: è prima di tutto in forma orale, quindi scevra dalle costrizioni della forma scritta non comprensibile al popolo: la stretta correlazione tra struttura musicale e struttura poetica delle opere trobadoriche suggerisce infatti che i pezzi creati fossero in realtà canzoni vere e proprie, non solo poesie. La tradizione trobadorica era grandemente radicata nella trasmissione orale e, nonostante siano sopravvissuti più di 2600 poemi di più di 450 poeti, solo 275 melodie sono giunte ai giorni nostri.1 Dal punto di vista tematico, era anche una poesia capace di incanalare tutte quelle aspirazioni feudali e laiche tanto care agli aristocratici del tempo. Queste sono le basi che hanno favorito lo sviluppo e la continua ricodificazione dell’opera trobadorica in altri paesi e in altre lingue. I poeti di questa nuova lirica furono i trovatori. La parola “trovatore” deriva dall’occitano “trobaire”, sostantivo del verbo “trobar”, probabilmente derivante dal Latino tropus [Greco: tropus], un’aria o melodia, etimologia che renderebbe il trovatore una sorta di “compositore”, qualcuno che compone rime e poi le musica. Ecco perché quella del trovatore è una figura che differisce da quella del vate, del bardo e del poeta dei greci, la sua è una sorta di creatività non propriamente “nuova” dato che spesso si rifà ad un modello poetico o musicale già prestabilito (si veda per esempio “Cantarey mentre m’estau” di Guillem de Berguedà che utilizza una delle melodie cantate dai macips di Pau) o fondato sull’imitazione letteraria, lessicale, metrica ed anche retorica, al fine di non solo creare un nuovo modello classico ma di superare anche quello preesistente.2 Una teoria vedrebbe la lirica trobadorica come la naturale progressione dalla decadente lirica latina o un’evoluzione delle canzoni intonate dai “joculatores”, quegli artisti, poeti, saltimbanchi e cantori di gesta erranti che intrattenevano piazze e corti, predecessori della più nobilitata figura del trovatore. Accanto a quella del trovatore esisteva anche la figura del giullare che era messaggero ma anche cantore dei versi composti dal proprio padrone. Era una figura itinerante e di solito era accompagnato da una viola, un’arpa, un rebab o da un mandolino3. Se non poteva permettersi l’assunzione di un giullare il trovatore stesso svolgeva le sue funzioni. Vista la natura nomade del trovatore, e viste le origini poco raffinate del suo mestiere, spesso coloro che non possedevano feudi o che provenivano da classi più umili, avevano bisogno di un mecenate che ne riconoscesse la validità artistica e che offrisse loro protezione. 1 “Medieval Music”, Hoppin, pag. 270 2 Antoni Rossell, Arxiu Occità, “L’art de trobar”, Universitat Autònoma de Barcelona, pag. 1 3 Antoni Rossell, Arxiu Occità, “L’art de trobar”, Universitat Autònoma de Barcelona, pag. 3 La lirica trobadorica, nata e sviluppatasi nelle piazze, era però una lirica che ricercava l’atmosfera delle corti dove non solo sarebbe stata accolta ma anche propriamente apprezzata. Qui per sopravvivere acquisì un carattere cavalleresco, decantandone gli ideali e le aspirazioni, assunse una funzione politica e sociale, di diffusione di notizie storiche e si lasciò ispirare da quella purezza e tenera sottomissione rappresentate dall’amor cortese. L’amor cortese, o più propriamente detto, il fin’amor, era quell’amore perfetto, e spesso dichiaratamente sensuale, instauratosi tra il poeta, l’amante, e la sua signora, l’amata. Questo è un amore sproporzionato, fondato sulla gerarchia feudale vigente all’epoca: la donna è assimilata alla figura del signore feudale mentre l’amante al suo vassallo. Quest’ultimo ne richiede aiuto e protezione promettendole in cambio obbedienza ed umiltà. Si parla perciò di uno scambio equo di favori, mai di un godimento pieno del desiderio amoroso che ne annullerebbe la distanza gerarchica. Il fin’amor non si risolve infatti in atti di lussuria, la figura femminile è messa sullo stesso piano spesso dedicato alle dee, decantata come qualcosa di pregiato, raro e mistico. La risoluzione carnale di questa relazione mira solo al fals’amor, mentre la tensione erotica che ne risulta rappresenta un’accettazione consapevole delle regole sociali in vigore (ciò non vuol dire che non vi fossero esempi che divergessero dall’ “ideale cortese”, come ci dimostrano chiaramente le rime di Berguedà). Se la signora rifiutava le condizioni del suo amante quest’ultimo era liberato dal «ligio», dai vincoli esclusivi di lealtà e fedeltà che lo legavano ad ella e, tramite previa dichiarazione formale, poteva passare ad altro servizio, ad altro amore. Il fin’amor trova equilibrio nel giusto uso della misura e ragionevolezza tanto dell’amante, quanto dell’amata. È fondato sulla cortesia, ecco perché è propriamente detto «amore cortese».4 Solitamente questo “amore” riflette un bisogno del trovatore che, sprovvisto di feudo ed economicamente dipendente dal proprio signore feudale, canta le qualità della sovrana a cui sono affidate le cure dei giovani cavalieri. All’inizio del XIII secolo la cultura occitanica si diffuse in Italia, Spagna e in Germania, nacquero addirittura i “Minnesingers”, classe poetica simile a quella dei trovatori provenzali. Questo dinamico movimento intellettuale rese l’Occitania un paese relativamente liberale e culturalmente attivo, tanto da dare adito al movimento eretico del catarismo. I catari si instaurarono nel sud della Francia, e più marcatamente nella regione di Albi (di lì il loro nome “albigesi”), diffondendo il proprio credo su tutto il territorio linguadociano. Rifiutarono prontamente l’ortodossia e l’autorità cristiana imposta dalla Chiesa di Roma e sfidarono tanto apertamente le convenzionali norme sociali e religiose che Il Conte Raimondo V di Tolosa espresse le proprie preoccupazioni alla Chiesa romana. Nel 1209 Innocenzo III indisse la prima crociata contro i catari. Questa persecuzione sterminò la popolazione catara e cambiò per sempre l’assetto sociale e politico dell’Occitania. Nel 1229 fu instaurata l’Inquisizione che monitorò e punì qualsiasi altra forma di eresia nata nel paese. Fu così che la vivace cultura occitanica appassì sotto il peso dell’oppressione e della paura. L’aristocrazia chiuse le porte ai trovatori vietandone la pratica lirica a corte e a loro volta ai poeti non fu più permesso di denunciare la moralità ecclesiastica senza temere gravi ripercussioni.5 2.2 Il provenzale o «lingua d’oc» Il provenzale, conosciuto anche come occitano e «lingua d’oc»6, è una lingua galloromanza parlata in un'area specifica del sud-Europa chiamata Occitania, generalmente identificata con la Francia meridionale. Il provenzale godette di diffusione sovraregionale e di funzioni che lo distinsero dal resto dei dialetti francesi nei secoli XI, XII e XIII in Francia grazie alla fiorente lirica trobadorica. A causa di una serie di fattori storici, come la crociata contro gli Albigesi (1209-1229) e lo stabilimento dell’Inquisizione (1233), il provenzale dovette cedere il passo alla presenza sovrastante del francese e venne relegato ad un sistema dialettale privo ormai di quella koinè 4 Luciano Formisano, “La lirica romanza nel Medioevo”, Il Mulino, Bologna, 2012 pag. 15-16 5 Michael Bryson, Arpi Movsesian, «The Albigensian Crusade and the Death of Fin’amor in Medieval French and English Poetry» in “Love and its Critics”, Open Book Publishers, 2017 6 UNESCO, 1996 e la sua riedizione online, 2009, non distingue il provenzale dall'occitano 3.2 Introduzione all’opera di Guillem de Berguedà. Si conservano 31 poesie di Guillem de Berguedà, più una di attribuzione incerta. Possiamo raggruppare la sua opera in tre cicli di sirventesi: quelli contro Pere de Berga, quelli contro il vescovo di Urgel e quelli contro Ponç di Mataplana. Il resto dell’opera racchiude sirventesi contro il re Alfondo I, Ramon Folc di Cardona, tenzoni, un partimen e un planh rivolto a Ponç de Mataplana dopo la sua morte. Dal punto di vista della lingua sappiamo che Guillem de Berguedà fu un trovatore catalano che scrisse in occitano, una lingua che non gli apparteneva nativamente ma che invece dovette apprendere successivamente. Questa non natività rende propenso qualsiasi poeta all’errore grammaticale e difatti ciò rende lo studio e l’analisi della sua lingua difficoltoso perché non è possibile stabilire con assoluta certezza dove termini l’autorità del poeta e dove subentri quella corruttiva del copista. È possibile che laddove il manoscritto sia stato copiato, per esempio, da mano linguadociana che la lingua del trovatore sia stata corretta e rifinita per rispettare le regole del provenzale classico. È anche possibile che copisti catalani abbiano modificato la grammatica e la grafia provenzale propria del trovatore per rispecchiare più fedelmente quella catalana. La lirica trobadorica è giunta fino ai giorni nostri perché conservata in molteplici codici scritti su pergamena, di fatti l’opera di Berguedà ci è giunta attraverso ventuno differenti manoscritti, tre dei quali di origine catalana: 1. Sᵍ, Abbreviativo di Saragozza, conosciuto come Cançoner Gil, è il canzoniere tramite cui ci sono giunte quattro inedite liriche di Guillem de Berguedà: “Eu no cuidava chantar”, “Cel so qui capol’ e dola”, Cantarey mentre m’estau” e “Can l’ivern”. Dapprima gelosa possessione dell’antiquario don Pablo Gil y Gil, professore e decano della facoltà di Lettere e Filosofia di Saragozza, è oggi proprietà dell’Institut d’Estudis Catalans, Sᵍ è un canzoniere rilegato in cuoio rosso con rifiniture in oro, datato orientativamente intorno al terzo venticinquennio del Trecento, ed ha un valore inestimabile per i provenzalisti in quanto contiene 128 carte di nitida pergamena che riportano numerosi testi sconosciuti all’epoca di prestigiosi poeti come Cerverì di Girona. Il canzoniere è metodico ed ordinato, le poesie in esso ordinate seguono un ordine che può essere raggruppato in 3 distinte sezioni: 1ᵅ rime di Cerverì di Girona; 2ᵅ poesie di trovatori del periodo classico; 3ᵅ composizioni in verso della scuola di Tolosa.12 L’unica “incongruenza” di questa collezione di liriche si presenta nel terzo insieme dove figurano alcune poesie di Guillem de Berguedà il che ci porta a pensare che siano state aggiunte dal copista in un secondo momento, a canzoniere già ultimato. 2. b ,ͨ tramite cui ci è giunta l’inedita “En Gauseran, gardats cal es lo pes”, è un canzoniere completato verso la fine del XV secolo in cui si raggruppano i poeti catalani dei secoli XIV e XV. Fa parte dei manoscritti della Biblioteca de Catalunya; 3. e, copia di testi di canzonieri italiani redatto durante l’ultima parte del XVIII secolo dal tortosino Joaquín Pla che all’opera vi aggiunse traduzioni delle liriche in italiano. Contiene tre poesie di Berguedà, “Qan vei lo temps camjar e refrezir”, “Mais volgra chantar a plazer”, “Lai on hom mellur’e reve”; 12 FRANCESCO A. UGOLINI. Il Canzoniere inedito di Cerverì di Girona in “Reale Academia Nazionale dei Lincei”, Roma, 1936, pag.539 3.3 Analisi comparativa tra il provenzale e l’occitano nell’opera di Guillem de Bergudà Il catalano e il provenzale antico linguisticamente si somigliavano più di quanto non lo facciano al giorno oggi ma ciò non toglie che già prima della separazione politica della Corona d’Aragona dai territori occitani a seguito della sconfitta a Murat (1231) il catalano lirico sentì la necessità di emanciparsi dalla scripta imposta dall’occitano. Questa necessità fu voluta ed alimentata dalla Corona di Aragona che, seguendo l’esempio della prestigiosa scripta francese, italiana e occitanica, riuscì a superare le difficoltà dovute alla frammentazione dialettale del catalano fino a crearne una scripta unitaria, cosa che possiamo vedere nelle Vides de Sants Rossolloneses, realizzate nella diocesi d’Elna, Barcellona13 e in una serie di testi giuridici pubblicati alla fine del secolo XIII. In questi testi si può ben vedere come la scripta catalana si sia liberata da ogni provenzalismo: lo si può vedere da grafie come anats, temets e partits di fronte alle forme provenzali di anatz, temetz e partitz e dalle scelte grafiche di ll e ny dinanzi a lh e nh.14 Alla luce di tutto ciò è importante stabilire dei parametri di analisi al fine di riuscire a capire quando il poeta utilizzasse, in maniera conscia o inconscia, il catalano nelle proprie opere, e quando invece le influenze linguistiche e grammaticali siano state introdotte dal copista. Lo studio del rimario è fondamentale per lo studio delle matrici linguistiche che il poeta ha voluto utilizzare nelle proprie poesie e queste matrici si dimostrano più palesemente nell’assonanza tra le parole in rima. Il momento in cui questa assonanza viene a mancare, vuoi per una mancata comprensione della tonalità delle vocali in rima, vuoi per un errore nella declinazione, solitamente si attribuisce la corruzione al copista. Quando invece un errore ortografico o di declinazione detta il resto delle rime in una poesia se ne attribuisce l’opera all’autore stesso. - DECLINAZIONI. Iniziamo dal problema più complesso, quello delle declinazioni. L’uso corretto o incorretto della declinazione è una buona guida per capire quanta familiarità un poeta avesse con la lingua lirica in cui componeva. Uno degli errori più comuni riscontrati nelle opere di trovatori catalani è la corretta distinzione tra caso di regime e nominativo, come disse Ramon Vidal de Besalú, “li nominatiu singular son plus salvatge a cels que no an la drecha parladura.”15. Berguedà non fu immune a questa confusione e sono da attribuirgli senza dubbio otto casi di confusione tra nominativo e caso di regime: 1. II. v. 33, “qe riran en cavalliers e sirvens” errore nella di declinazione di “sirvens”, un nominativo declinato come un complemento di regime. Attribuibile al poeta perché va a formare le successive rime in -ens. Berguedà però declina bene il primo elemento, “cavallier”; 2. V. v. 13, “c’axis tenria un joglar”, declinazione incorretta del nominativo us joglars che rende impossibile la correzione vista la necessità di mantenere la rima in -ar; 3. XVIII. v. 1, “Un trichaire”, “un” è declinato come un complemento di regime quando è seguito da un corretto caso in nominativo. Entrambi gli elementi sono opera dell’autore: l’opera ci è giunta tramite i manoscritti C ed R, rispettivamente di mano narbonese e linguadociana, entrambi grandi esperti di grammatica che avranno voluto preservare la declinazione errata di “un” per mantenere l’originalità data dal poeta. Anche “trichaire” è opera di Berguedà dato che influenza le successive rime in -aire; 4. XIX. v. 21, “abaz”, invece di “àbas”, attribuibile al poeta per via della rima con “postaz”; 5. XXII. v.3, La parola “nebs/nebot” presenta delle vacillazioni nella lingua del nostro trovatore. La declina bene in XIX, v. 13 (“per nebot ni fraire”) e XI, v. 48 (“dels nebotz”), 13 Antoni Ferrando, «La singularitat de la scripta catalana al si de la Romània occidental» in “Constructing Languages: Norms, myths and emotions”, Francesc Feliu, Josep Maria Nadal; John Benjamin B. V., 2016, pag. 86 14 Antoni Ferrando, «La formaciói l’evolució de la norma cancelleresca catalana» in “Constructing Languages: Norms, myths and emotions”, Francesc Feliu, Josep Maria Nadal; John Benjamin B. V., 2016, pag. 86-87 15 Ramon Vidal, “Las razós de trobar”, Edizione Stengel, pag. 77 ma qui viene declinata come “sos neps” quando il caso di regime vorrebbe “son nebot” che, però, avrebbe reso ipermetro il terzo verso. La stessa cosa accade nel v. 13 quando scrive “si so neps”; 6. XXIII. v. 25, invece di utilizzare il complemento di regime “emperador” Berguedà utilizza il nominativo singolare “emperaire”, errore molto frequente nelle liriche catalane dei secoli XIV e XV che, formando le rime in -aire, è attribuibile all’autore; 7. XXX. v. 15, “abdos”, invece di “abdui”, attribuibile al poeta perché in rima con “vos”. Come è stato detto, è molto difficile riuscire a distinguere perfettamente la mano del copista da quella del poeta, possiamo però riportare le seguenti come le uniche incongruenze certamente ascrivibili a Sᵍ: 1. III. v. 4, “que·m fetz Mon Sogre”, forma incorretta di, “que·m dis Mos Sogre” trasmessa da Sᵍ e riportata correttamente nel resto dei manoscritti; 2. III. v. 16, “E ja no s’en combat’ab mei un cavaler ni dui ne trei”, la declinazione corretta di “un cavaler” è “us cavalers”, declinazione che risulta corretta nel resto dei manoscritti eccetto in quello di Sᵍ. Errore non attribuibile al poeta dato che “trei” (in rima con “mei”) è declinato correttamente nel suo caso nominativo. Di seguito riporto il resto delle declinazioni errate non ascrivibili né a Berguedà né al copista: 1. I. v. 9, “barros”, forma dell’accusativo plur., qui in funzione di vocativo. La forma corretta prevede che il vocativo debba essere uguale al nominativo, forma però non sempre rispettata, neppure nella lingua letteraria classica; 2. I. v. 34, “Mon-Sogre”, non rispetta la corretta declinazione che sarebbe invece “mos”. Questa tecnica di semplificazione della declinazione a due casi che predilige le forme oblique sia al singolare che al plurale è un comportamento morfologico proprio del catalano come riportato nella “Gramatica historica del català antic”, «El sistema de dos casos tan generelitzat en provençal antic i en francés antic és poc conegut en català: solament la influencia provençal antic ha conservat aquest sistema, i encara mal aplicat, en els escriptors provençals de nissaga catalana.» 16 3. III. v. 5, ancora una volta la declinazione non segue le regole di quella provenzale; qui “fei” è stato corretto in altri manoscritti come fes (“dretz ni fes”), ciò però non rispetta l’esigenza della rima che frey (v. 1) impone, segue probabilmente il comportamento morfologico spiegato in I, v. 34; 4. V. v. 3, declinazione in “macips” del nominativo plurale “macip” (vedi I, v. 34); 5. XIV. vv. 14-22, declinazione errata di Dieus in “Dieu”, il manoscritto dell’opera è però molto corrotto; 6. XVII. v.10, la -s desinenziale di “cavals” è una forma errata; 7. XVIII. vv. 46, “Dieus” in caso di regime anziché in nominativo; 8. XX. v. 38, “corbs”, visto che “dreit” non presenta alcuna desinenza è probabile che il copista abbia aggiunto arbitrariamente una -s alla forma corretta di “corb”. 16 A. Griera, “Gramatica historica del català antic”, Barcellona, 1931, pag. 76
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