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Hans Belting, Antropologia delle immagini, Sintesi del corso di Semiotica

Studio antropologico dell'immagine nel corso della storia, dai culti funerari dell'Antico Oriente alle realtà virtuali.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 21/05/2020

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Scarica Hans Belting, Antropologia delle immagini e più Sintesi del corso in PDF di Semiotica solo su Docsity! HANS BELTING, ANTROPOLOGIA DELLE IMMAGINI La natura dell’immagine ha una duplice risposta: immagine come prodotto di un determinato mezzo (fotografia, pittura, scultura, video), ma anche come prodotto del nostro io, nel quale generiamo immagini personali (sogni, immaginazione e percezioni) capaci di interagire con altre immagini del mondo visibile. Interrelazione (e interazione) tra immagine, corpo e il mezzo (medium) come componenti presenti in ogni tentativo di picture-making. Nel 1995 si ha lo studio sul significato della morte nelle diverse regioni e culture del mondo che – seguendo l’analisi antropologica “immagine-morte” (cap. 6) – dimostra come corpo e mezzo siano entrambi coinvolti nel significato delle immagini funerarie, così come il corpo assente del defunto, al posto del quale vengono esibite delle immagini – un corpo perduto viene scambiato/sostituito dal corpo virtuale dell’immagine – capaci di rendere visibile l’assenza fisica trasformandola in presenza iconica. Debray cita la formula di Gaston Bachelard “la morte è prima di tutto un’immagine e resta un’immagine”, visto che non sappiamo che cosa la morte realmente sia. Potremmo dunque dire che il cervello è il luogo della rappresentazione interna (endogene) le quali interagiscono con quelle esterne (esogene); le immagini non esistono solamente alla parete o su uno schermo, né esistono solo nella nostra mente -> Continue interazioni che hanno lasciato, nel tempo, tracce nella storia dei manufatti e che ancora oggi, nell’era delle immagini digitale, continua ancora ad esserci. Belting -> Interazione fra i nostri corpi e le immagini esteriori includono la presenza del medium quale supporto per l’immagine; queste hanno bisogno dei media e dell’uso dei media per divenire visibili a noi. Nella stessa storia delle immagini possono migrare da un mezzo all’altro; in secondo luogo i nostri corpi operano come mezzi viventi, trattando, ricevendo ed emettendo immagini. Grazie a questa innata capacità siamo in grado di distinguere i mezzi dalle immagini, tali da capire che un’immagine non è né un semplice oggetto né un corpo vero e proprio -> Il ruolo dell’utente, capace di scegliere cosa considerare, spiega l’anacronismo (Didi-Huberman) in modo da prendere in considerazione l’immaginazione umana vs il mero progresso lineare dell’evoluzione tecnica. Per meglio comprendere la distinzione tra immagine e mezzo riferiamoci ad alcuni esempi: L’iconoclastia è “distruzione” del mezzo o del supporto-mezzo dell’immagine; l’immagine stessa rimane intatta, mira solo a distruggere la presenza fisica e pubblica: la distruzione delle statue di Saddam a Baghdad sono state mera vittoria simbolica, tale avvenimento non sancisce l’oblio o il disprezzo per l’immagine nella mente delle persone. La distinzione fra immagine e mezzo vale per le immagini come presenza di un’assenza: l’immagine è presente nel nostro sguardo, ma la sua presenza è affidata al medium nel quale l’immagine appare (su un monitor o incarnata da una scultura). Le immagini testimoniano l’assenza di ciò che rendono presente, per cui il medium (sia esso pietra, bronzo, fotografia ecc) contiene in sé l’unica presenza possibile, nonché l’assenza del vero oggetto [paradosso, risultato della nostra capacità di distinguere immagini e mezzi] -> La medialità delle raffigurazioni è il collegamento mancante tra le immagini e i nostri corpi (memoria = esperienza del corpo). Mezzo-immagine-corpo La questione dell’immagine La doppia significazione dell’immagine, interiore ed esteriore, non è separabile dal concetto di immagine (fondazione strutturale antropologica); l’immagine è più di un prodotto della percezione, nasce dal risultato di una simbolizzazione personale/collettiva -> Tutto ciò che ci appare a livello interiore può essere chiarito con un’immagine o trasformato tale = concetto antropologico, viviamo con la immagini e comprendiamo il mondo attraverso esse. Il corpo incontra sempre le medesime esperienze – tempo, spazio, morte – che noi raccogliamo in immagini; dunque l’uomo è luogo delle immagini. Che cos’è un’immagine? Parleremo dunque di artefatti, opere figurative, trasmissione dell’immagine e diagnostica per immagini -> Il concetto di immagine si lega al mezzo, quest’ultimo si contraddistingue per il fatto che in quanto forma (mediazione) dell’immagine scinde due elementi: opere d’arte e oggetti estetici. Ostacoli sulla via della Scienza delle immagini Oggi le teorie mediali concedono alle immagini un ruolo secondario o strettamente legato al mezzo tecnico quale il film o la fotografia; già dal Rinascimento la teoria dell’immagine non ha ereditato un grande interesse. Erwin Panofsky si cimentò sul discorso sull’immagine e la figuratività nel campo dell’arte, circoscrivendolo alle allegorie figurative del Rinascimento che possono essere interpretate attraverso testi storici e con i quali se ne modifica il senso; vi è però ben altro da dire a proposito dei significati che nelle immagini si rendono leggibile e sul significato che acquistano e possiedono in ogni società (Panofsky). W. J. T. Mitchell con la sua “iconologia critica” separa le immagini dai testi ma, nonostante ciò, non chiarì la distinzione tra le immagini e la visual culture. Nella scienza dell’arte l’immagine, inserita in una storia delle forme artistiche, era limitata al suo carattere di opera d’arte; solo con Ernst Cassirer, nella sua Filosofia delle forme simboliche, si esprime una gerarchia del mondo simbolico: le immagini potevano trasmettere conoscenza, rimproverandole però di deviare lo sguardo dello spirito anziché farsi utilizzare come mezzo cognitivo. Lo storico dell’arte Julius von Schlosser, nel suo lavoro sulle immagini in cera, si avvicina nel 1911 a un concetto antropologico dei mezzi figurativi; tuttavia, nell’uso di un corpo fittizio o realistico, ravvisa una tendenza di una mentalità magica – perciò il concetto di “incanto figurativo” limita la discussione. Nella figura di cera vi era il problema dell’uso dei materiali naturali, quali indumenti e capelli, per cui all’arte veniva sottratta la forma autonoma che la differenziava dalla vita -> Nelle forme delle sculture, in pietra o bronzo, nei più antichi culti funerari si ha la necessità di dare loro un mezzo durevole da poter scambiare con il corpo del defunto. L’antitesi tra forma e materia è radicata nella differenza tra immagine e mezzo; tali opere dunque, già nel Rinascimento venivano escluse dal concetto di arte (maschere di cera, maschere funebri, figure votive ibride). La dicotomia tra storia dell’arte e storia dell’immagine si è accentuato nel XIX secolo, mantenendo le distanze dai nuovi mezzi figurativi (fotografia), presto questa ha esteso la sua materia all’arte dell’umanità, ma il concetto di arte fino ad allora acquisito ne ha determinato il discorso. L’odierna polemica sulle immagini Da Foucault, all’immagine viene attribuita la “crisi della rappresentazione”, responsabilità della crisi nella quale è caduta la rappresentazione del mondo. Jean Baudrillard definisce l’immagine “assassina del reale”, dinnanzi al reale le immagini dovrebbero cedere -> Le epoche del passato hanno dominato sulle immagini, controllandone la propria realtà sociale e religiosa per mezzo di immagine legate al proprio tempo. Per Baudrillard, ogni immagine sulla quale non sia possibile leggere una dimostrazione di realtà è uguale a un simulacro (crisi dell’analogia); tale crisi è stata provocata anche dall’immagine digitale, immagini (sintetiche/virtuali) che sfuggono al nostro concetto figurativo -> Solo in un secondo momento l’immagine sintetica sarà considerata come espressione della crisi e come ulteriore tipologia figurativa, seguita da una nuova pratica della percezione del corpo. Le immagini, seguite dal suono e dal movimento, fluite nel cinema e nel video, si allontanano dalla loro autorità simbolica, presentando finzioni. Anche la virtualità necessita del feedback della realtà. Le immagini collettive sorte nelle culture storiche, comprese quelle attuali, provengono da un’antica genealogia dell’interpretazione dell’essere -> La tecnologia delle immagini di cui parla Derrida riguarda la superficie su cui appaiono e non le immagini stesse. Produzione figurativa fisica e mentale La storia delle immagini è sempre stata una storia di mezzi figurativi, osservandola attraverso le azioni simboliche, si comprende l’interazione fra immagine e tecnologia. La produzione figurativa è un atto simbolico che richiede a noi osservatori una percezione che si distingua da quella quotidiana. Le mezzo trasmissivo indipendente (scultura e segno analogo rapporto corporeo: una è imitazione del corpo e l’altra decorazione su un corpo). L’antropologo André Leroi-Gourhan associò alle prime figurazioni umane al linguaggio, atto corporeo (il parlare) e l’atto sociale (la comunicazione tra corpi) doppia predisposizione -> Corporale e sistemico, astratto. La scrittura, così come l’immagine, implica l’uso della mano manifestandosi come immagine del linguaggio – mezzo secondario nel contrasto fra immagine mimetica e la sua narrazione. Dunque, il cosiddetto “ornamento” ha avuto la funzione di linguaggio ante litteram mentre lo si fissava/trasmetteva in un codice sociale. Nell’ambito del corpo e dell’immagine la maschera assume un ruolo particolare (Thomas Macho) -> La correlazione con il volto non può riassumersi in una mera circostanza di velatura o di una rivelazione; il volto autentico – nell’intenzione sociale – è quello prodotto dalla maschera. Questa si trovava perciò all’inizio di un disciplinamento del volto naturale. L’incarnazione della maschera, nel senso di Georges Bataille, sta nell’autorappresentazione del volto non mascherato, maschera di una “maschera facciale”. La trasformazione del volto in maschera costringe colui che la porta alla riduzione naturale della mimica facciale, represso all’interno della maschera a favore di un’espressione stabile – fissando il volto su un’unica autorevole immagine (vedi teschi di Gerico cap.6). Macho si ricollega al contrasto fra vita e morte, offrendo la codifica di un concetto d’immagine generico: il teschio di Gerico, in relazione con le maschere in pietra. Si adattavano a ritualizzare il volto vivo, quanto a conservare il volto che i morti avrebbero perduto -> Sebbene venissero fatte per un corpo trasmittente, esse possono essere considerate separatamente dal corpo. La relazione tra immagine e ritratto si può spiegare per mezzo delle mummie egizie; i pannelli greco-romani in memoria dei defunti, in Egitto venivano legati davanti agli occhi della mummia -> In tal senso possiamo interpretare il ritratto, del passato/presente, come maschera della memoria e dell’identità sociale. La rappresentazione del soggetto si lega alla questione della maschera che lo trasmette, dunque secondo l’immagine che esprime nella maschera. Questa è trasmittente figurativa e mezzo che non può essere distinta dall’immagine che produce. La decorazione corporea e la maschera facciale offrono chiavi di lettura per il rapporto visuale che si ha tra noi e le immagini, nel momento in cui le animiamo involontariamente. Lo scambio di sguardi – generato solo dall’osservatore – in passato era uno scambio di sguardi in cui l’immagine era generata dalla maschera vivente e/o dal volto dipinto. Rituale in grado di fornire un’identità sociale all’osservatore della relazione con divinità/avi/membri della comunità -> lo sguardo riflessivo, in tal senso, è servito al controllo sociale per il quale le immagini hanno espresso modelli. L’immagine digitale Nell’epoca dei mezzi digitali il mezzo trasmissivo è divenuto incorporeo, allontanandosi dal legame fisico tra mezzo e immagine; la loro medialità è oggi impenetrabile, manipolata per mezzi di codici digitali ed elaborata tramite input. Le immagini vengono così generate in un ipermezzo – possiamo parlare di medialità e di immagini oggi? Lev Manovich afferma che “l’immagine in senso tradizionale non esiste più” ma, a ben vedere, nelle video-installazioni il rapporto tra corpo-immagine attiva ancora una volta il corpo. Dunque, mantenendo la rappresentazione legata allo schermo (superficie piatta rettangolo che si apre come una finestra) si ripropone il legame fra immagine-soggetto-oggetto. Teniamo presente che anche l’immagine digitale rimane legata a ciò che rappresenta e, a sua volta, è legata all’utente e ai suoi desideri figurativi: dalla metafora mistica fino allo spazio iperrealistico alla simulazione scientifico-naturale. L’immagine sintetica appartiene alla storia dell’immagine, tenendo in considerazione l’osservatore e il suo comportamento percettivo -> Bernard Stiegler: l’immagine digitale serve per analizzare il visibile e presentarlo in una sintesi, capaci di produrre in noi altre immagini mentali. La nuova tecnologia dà avvio all’epoca di una nuova figurativa analitica ossia un’evoluzione nella conoscenza dell’immagine e nell’uso figurativo da parte dell’osservatore. Stiamo parlando di una storia dell’immagine della persona; la decostruzione dell’immagine mimetica trovano precedenti nelle avanguardie storiche del Novecento: collages e montaggi, al fine di una pratica analitica della percezione. I mass media hanno rafforzato tale perdita di fiducia nelle immagini, sostituendole con la fascinazione di una messa in scena mediale. Immagini tecniche in ambito antropologico Georges Didi-Huberman ha dedicato un’esposizione alle impronte e ai calchi che riproducono corpi o parti di essi, si allarga così la scala delle varianti figurative sul discorso delle immagini. Le maschere funerarie o quelle naturali, così come le orme o le ombre proiettate, riguardano ciò che viene fissato come immagine e ricordano la presenza di un corpo. Questi auto raddoppiamenti del corpo avevano il compito di trasmettere la forza su una figura: in tal senso, nel corso dei secoli, la cristianità ha compiuto numerosi pellegrinaggi verso Roma al fine di osservare i lineamenti riprodotti di Gesù (calco). Le immagini tecniche di oggi, rappresentano una tradizione antica -> La fotografia rientra in questa tradizione, simulazione e animazione – lavoro della fantasia, eredità antropologica – delegate a procedimenti tecnici nei quali si ampliano i confini dell’immaginazione. Già con la pittura Rinascimentale (costruzione campo visivo calcolato) si anticipano le immagini tecniche. Manovich come punto di partenza per l’archeologia del monitor odierno parte dalla pittura (cornice simbolica : illusione nell’osservatore di dominare la percezione del mondo) -> L’Alberti definì il nuovo mezzo come una “finestra”, dunque per mezzo di una “finestra virtuale”, capace di calcolare matematicamente la prospettiva, riusciva a modificare il mondo in una porzione dell’apparenza. Questa finestra inquadra lo sguardo standard che il corpo dell’osservatore volgeva sul mondo – mezzo dello sguardo = basilare concetto d’immagine nell’età moderna – dipinto mezzo dominante della cultura occidentale. Il dipinto negava la propria superficie per simulare un campo visivo nella proiezione dell’osservatore, ossia un mezzo incorporeo capace di trasmettere il mondo corporeo in un’immagine. La pittura, a differenza del video, per ogni singola immagine esigeva un proprio trasmittente figurativo -> In video si racchiude, in uno stesso mezzo, tipi di immagine eterogenee (la pratica culturale definisce il mezzo nella sua storia). L’osservatore esercitava lo sguardo sul mondo ma anche l’espansione dell’immaginazione. Il dipinto è un mezzo occidentale che ha trovato il luogo storico nell’architettura, caratterizzata dall’antitesi di ambienti interni e osservatori affacciati da una finestra, ma anche nella concezione del soggetto che in antitesi con il mondo. La fotografia sorgeva in contraddizione con questo concetto di immagine del dipinto. Non era un mezzo dello sguardo, ma un mezzo del corpo che produceva la sua duratura ombra: essa veniva fuori durante l’esposizione ma perdeva corpo nel momento in cui passava davanti all’osservatore. Il movimento della vita era congelato. Soltanto con l’immagine filmica si colma questa lacuna con il corpo, simulandone il movimento; il flusso temporale del film vive del montaggio [flusso dell’azione] -> Nell’interazione con le immagini cinematografiche si ripete quel doppio senso antropologico di immagini interiori ed esteriori. Nell’immagine in movimento troviamo la teoria figurativa: metafora della doppia elica di Beltour, mettendo insieme la modalità fotografica e del movimento. Manovich, in tal senso, parla di uno “schermo dinamico” davanti al quale l’osservatore è immobilizzato davanti allo schermo, verso uno spazio virtuale. L’immagine mobile e il corpo statico, ove l’occhio si muove verso l’immagine, indica la dimensione esterna (percezione). Sin dagli anni Sessanta per raffigurare il corpo gli artisti si legano alla nuova estetica: l’arte mediale fa appello a un’esperienza corporea integrale che non limita lo spettatore alla visione da distanza; l’osservatore percepisce la sua percezione, che nei luoghi bui lo induce a rimpiazzare la visione passiva d’immagini con l’attenzione semantica. Bill Viola, Slowly turning narrative: due proiettori puntati verso uno schermo rorante sul quale appare una sequenza di immagini ancora non censite. Dall’altra parte appare un volto il cui sguardo non ci permette di capire cosa stia fissando. La rotazione dello schermo tra il flusso di immagini e il volto rappresentano il mondo e la percezione in cui risiedono le immagini. Questioni intermediali Le immagini oggi hanno perso il loro spazio privilegiato entro un affollamento delle nuove vie di comunicazione; oggi i dispositivi di memorizzazione controllano una memoria elettronica di immagini inattive. Spesso i nuovi media non sono altro che specchi della memoria ove sopravvivono le immagini, come nei musei, chiese e libri -> Nuovi e vecchi mezzi figurativi sorgono entro un territorio dinamico, riportando immagini che oggi non esistono più. Il flusso di immagini presenti nella quotidianità visuale ci invitano a guardare alle immagini con gli occhi dell’ammirazione e del ricordo, episodio avvenuto anche nella Controriforma e nell’epoca Baracca quando furono riproposte antiche icone – gli apparati di altare di Roma o di Venezia, eretti per tali icone, non sono che l’equivalente delle odierne installazioni. L’intermedialità è una pratica diffusa nell’arte contemporanea: Jean-Luc Godard, tramite il mezzo cinematografico vi introduce il “linguaggio per immagini”, paragonandolo con la pittura e il linguaggio poetico. Richter utilizza foto amatoriali come basi per trasporle in pittura, applicando loro uno sguardo tecnico simulato su un mezzo antico -> Sorta di “readymade” dipinto. Nella celebre installazione TV-Buddha Nam June Paik ha stilizzato l’immagine intermediale in una metafora atemporale. L’intermedialità richiama immagini che noi conosciamo e che ricordiamo grazie a un altro mezzo trasmissivo: coesistenza o rivalità dei mezzi. Le immagini possiedono una forma del ricordo, i mezzi antichi si sono utilizzati nella forma di un’autocitazione – l’intermedialità è una forma di gioca all’interno dell’interazione tra immagine e mezzo; interazione che nasconde in sé l’essere e l’apparire. La storia dei mezzi trasmissivi è la storia delle tecniche simboliche delle immagini, nonché storia delle percezioni. Questioni interculturali La storia del primitivismo può essere confrontata con altre tradizioni figurative. Le maschere africane, scoperte dagli artisti parigini, venivano considerate come modelli di una propria estetica – il carattere artistico si separava dalla loro vecchia funzione figurativa, si dimenticava che le maschere erano state indossate e che, attraverso la danza, erano divenute immagini. La relazione di Aby Warburg sul rituale del serpente degli indiani Pueblo (visitati in Nord America) testimonia il suo impatto con una pratica figurativa straniera, sensibilizzandolo per tutta la vita sulla questione legata alle immagini. Warburg si opponeva alla storia dell’arte estetizzante, la cui osservazione formale non rendeva giustizia all’immagine. Nel serpente ravvisava un simbolo familiare in molte culture, ciononostante non percepiva la danza del serpente come una rappresentazione naturale di un altro tipo di immagine. Così i suoi studi sul Rinascimento italiano confermano la ricerca di spiegazioni in immagini -> Warburg interpretava l’incontro con l’antichità come un problema interculturale, mettendo in dubbio la genealogia della cultura occidentale così come era. La “migrazione” delle antiche immagini sollevava il dubbio se nel Rinascimento esse avessero potuto avere lo stesso significato; la colonizzazione dei popoli si radicò anche nel loro immaginario collettivo -> L’interculturalità entrava in conflitto nel rapporto tra figuratività e scritturalità. Stiamo parlando dunque di colonizzazione di culture altre per mezzo delle immagini, comprensione figurativa come una questione di identità collettiva. Le immagini degli “altri”, di tipo diverso, sono state tagliate fuori dal discorso sulle immagini e riconosciute come stadio iniziale di un lungo sviluppo (delimitazioni, idealizzazioni e fraintendimenti). Nell’epoca post-coloniale: in Messico, a seguito della dichiarazione di indipendenza, si è reinterpretata l’immagine del culto mariano di Guadalupe; non è stata modificata nell’aspetto, l’immagine è stata identificata con una differente interpretazione dalla tradizione (signoria coloniale) e considerata sotto un inedito punto di vista. L’immaginario collettivo ha modificato lo sguardo rivolto alla medesima immagine -> Questione sull’immagine in un’opera, quella che i suoi osservatori hanno di questa o che possono farsene [immagine fisica – immagine mentale]. Le nuove immagini trasferiscono quelle antiche sul piano estetico ma anche su quello dell’interiorità: l’immagine mentale non è così facilmente distinguibile da quella fisica, il L’arte contemporanea si è adattata alla tecnologia, con il fine di sfruttarla per produrre immagini mentali e immagini del ricordo da offrire come citazioni: David Reed, con il quale Arthur Danto ha scritto Dopo la fine dell’arte -> Prodotto mediale ibrido in cui pittura, film, videoclip e installazione sono privi di contorni e coesistenti l’uno nell’altro. Reed, nel 1992, allestisce a San Francisco un’esposizione di immagini digitali (in prossimità della casa ove fu girata La donna che visse due volte di Hitchcock); a seguito di questa scoperta realizza un’installazione/remake della camera da letto di Judy all’Hotel Empire. Nell’installazione vi è un quadro di Reed sul quale è riprodotto il letto, mentre un video mostra vecchie scene cinematografiche, Reed elimina i livelli temporali, video e pittura sono uniti così come il videoclip successivo al film. Tale esposizione genera associazioni che non valgono più, in quanto opera, ma come un ordinario mondo figurativo: l’esperienza della rappresentazione non è legata al carattere di opera d’arte ma alla finzione artistica. L’immagine del corpo come immagine umana. Una rappresentazione in crisi Uomo-corpo-immagine Immagine umana e quella del corpo sono strettamente legate, basti pensare alla perdita di una persona e del suo corpo; consideriamo quindi l’immagine umana come metafora con la quale esprimere un’idea della persona. Il corpo viene ridotto a immagine non appena si parla di questo ricorrendo a immagini, perdendo così la sua forte carica simbolica. L’immagine, in questo caso, la intenderemo come senso del tutto materiale -> Gli uomini hanno iniziato a realizzare immagine di sé prima ancora dell’invenzione del sistema Kodak (You press the bottom and we do the rest), oggi ci fotografiamo e filmiamo per tutto l’arco della nostra vita. Quando si appare nelle immagini, si rappresentano i corpi: si delinea il corpo ma sta a significare la persona. Nelle scienze naturali con le sue immagini tecniche si perde la rappresentazione della persona , la rappresentazione cartografica non corrisponde più un nome possessivo poiché, seguendo Danto “lì, nel corpo, non ci sarebbe più nessun io”. Le immagini della persona sono un altro tema relativo alle immagini del corpo: ci mostrano il corpo fenomenico nel quale l’uomo si incarna e vive; un corpo fenomenico nel quale ci rappresentiamo in corpore così come vogliamo essere rappresentati se ci consideriamo in effigie. Secondo Lacan la coscienza dell’io comincia nello stadio dello specchio (prima infanzia) come coscienza di un’immagine alla quale reagiamo , questo io possiede di per sé un’immagine controllata nello sguardo speculare -> Secondo Danto la nostra rappresentazione appartiene alla nostra essenza, in quanto noi “ci stiamo rappresentando”; la moda dell’abbigliamento potrebbe esserne un tema poiché anch’essa appartiene all’ambito dell’incarnazione. Il travestimento vale meno per il corpo che per la persona, trasforma con ciò la sua immagine. Ogni incarnazione si basa sulla presenza del corpo -> Posthuman: sostituzione del corpo naturale con un supporto per la mente che vuole incarnarsi. Negli attuali media i corpi manipolano gli osservatori: corpo ultra-umani, dotati di bellezza o corpi virtuali che superano i limiti del corpo naturale – le immagini rappresentano il corpo in maniera sempre diversa, se si attribuisce al corpo un significato culturale, la storia dell’immagine riflette un’analoga storia del corpo. La rappresentazione della persona nel corpo e la rappresentazione del corpo anatomico (neurobiologico) sono immagini opposte. La storia della rappresentazione umana è stata rappresentazione corporea, ove il corpo ha avuto il ruolo di trasmittente di un’essenza sociale [contraddizione anche fra l’essere e l’apparire, sedimentata tra il corpo- ruolo ma anche nel corpo stesso] -> L’indagine di ricercare il corpo reale sotto alla superficie è una variante dell’antico impulso a voler affermare l’essere dietro il fenomeno: dentro siamo tutti uguali, soltanto esteriormente possediamo un’autentica apparenza. Ogni rappresentazione umana, come rappresentazione del corpo, è distaccata dal fenomeno, ciò che l’uomo è attraverso l’immagine in cui lo fa apparire – immagine per mezzo di un sostituto del corpo, mettendo in scena l’evidenza desiderata. Il corpo è immagine ancor prima di essere riprodotto in immagine; la figura è produzione di un’immagine corporea già compresa nell’autorappresentazione. Le avanguardie dei primi del Novecento deridevano ogni tentativo di rappresentazione della persona, volendo rappresentare le macchine come ritratti dotati di espressione e sentimento; nel cortometraggio Ballet Mécanique (1923) Fernand Léger tentò di rappresentare un concerto ove i corpi – come macchine viventi – suonassero insieme a macchine vere e proprie. L’immagine radiografica suscitò una fascinazione tale che nessuna fotografia del corpo fenomenico non era riuscita a fare. Da quando il corpo non è più comprensibile per mezzo di immagini vincolanti (poiché ogni immagine presuppone una distanza figurativa), gli artisti sono ricorsi alla sua rappresentazione per mezzo di allusioni. L’artista americano Coplans fotografa il suo corpo invecchiato in serie infinite, in cui le parziali inquadrature non voglio più rappresentare il corpo in una singola immagine: interrogati e messo in scena, il corpo diventa un inaffidabile complice dell’io. Si cerca così di impiegare il corpo come presenza del reale, creando sul proprio corpo e con il proprio corpo, in opposizione alla crisi delle immagini analogiche e mimetiche; allo stesso modo si ha una ribellione della realtà mediale sul mondo del corpo. Infine, a questo modo, l’artista cerca di risolvere il problema dell’incarnazione – facendo del proprio corpo un’opera [Metamorfosi e incarnazione]. Il problema della verità mimetica nell’arte figurativa si ha da quando l’identità personale del corpo veniva definita attraverso fototessere e impronte digitale; Auguste Rodin cercava una libera espressione del corpo catturandolo in movimenti isolati: L’uomo che cammina è acefalo, anonimo. L’arte figurativa collassa nella decostruzione della tradizionale immagine del corpo. Nel corso del XX secolo il corpo è apparso insufficiente tale da venir sostituito da protesi in grado di alterarne la percezione sensoriale; i movimenti totalitari hanno confiscato il corpo dello standard collettivo in nome di una nuova corporeità (in linea con l’ideale politico). Il corpo ariano era la controimmagine del corpo semita. Oggi vi è l’idea del corpo secondo la possibilità di cambiamenti e perfezionamenti: la pubblicità, che nel sistema capitalistico regola l’ideale corporeo, regola il bisogno di diventare quelle immagini – paralizzando la propria consapevolezza corporea. Nelle palestre il corpo viene sottoposto a ottimizzazioni meccaniche: questo culto del corpo non è che la perdita del corpo. Se prendiamo le statue greche come il Doriforo di Policleto, troviamo la realizzazione del corpo ideale – status sociale; per poi passare all’identificazione antropometrica, di Alphonse Bertillon (prefetto della polizia parigina) basate su misurazioni corporee immutabili. L’immagine stabile della persona non vi è mai stata; basandoci su immagini storiche del corpo diventa palese come l’immagine della persona sia sempre stata instabile [ciò anche in relazione al tema della percezione, sottoposta a un’inarrestabile trasformazione]. La storia dell’immagine che l’umanità ci ha lasciato attraverso testimonianze figurative offre una raccolta di esempi della dinamica storica dell’immagine umana, affermandone l’instabilità. I corpi appaiono in queste immagini in quanto capaci di incarnare un’ideale attuale della persona – l’incarnazione è il significato più importante della rappresentazione corporea; dal momento che il corpo è solo un mezzo, ricopre il ruolo che gli viene dato, indipendentemente dal fatto che mostri o meno la sua corporeità. Le maschere o il travestimento del corpo, per esempio, hanno lo scopo di mostrare ciò che non può essere: crisi dell’immagine corporea messa in atto dal Cristianesimo contro l’antropocentrismo delle antiche culture sia verso il culto del corpo. Le divinità antropomorfe greco-romane erano incompatibili con il culto del dio unico e incorporeo; perciò l’incorporeità, nell’icona cristiana, era il senso dell’immagine corporea: da qui in poi la persona verrà raffigurata come un morto che vive in un altro mondo – corpo e immagine serve a rappresentare corpi in apparizione es: reliquie, capaci di fornire presenze dei santi non più nell’immagine -> Decostruzione dell’idea del corpo. Il corpo astratto dell’icona e quello frammentario della reliquia rappresentano la crisi del rapporto fra l’immagine del corpo e quella umana. Durante il Medioevo, riferendosi al culto mortuario e in quello del sovrano, si ha un dualismo nel corpo: corpo naturale e corpo funzionario, quest’ultimo veniva trasposto in effigie; per cui se nel cerimoniale della morte del re, il corpo fosse apparso impresentabile, l’apparenza del sovrano e la sua importanza veniva affidata a un corpo artificiale -> Doppio concetto di immagine: immagine rappresentante e immagine rappresentata. L’immagine che trasmetteva un corpo vivente veniva trasposta in effigie su un corpo virtuale (es Effigie mortuaria di Elisabetta di York come bambola, p.121). Nel secondo Medioevo si arriva a una tipologia ibrida di doppia tomba che esibiva la salma nello stato di putrefazione [transi: figura della morte, diversa dal corpo figurativo in possesso di segni sociali]: sopra di vedeva il corpo figurativo e al di sotto la salma anonima: corpo fenomenico e corpo naturale. La figura del transi rappresenta un’anti-immagine, immagine umana rappresentata con il corpo; l’anima – separata dal corpo – con la sua immagine terrena ha perso capacità figurativa. Hans Holbein nel dipinto Cristo nella tomba, si ha la tavola dipinta come appartenente alla tradizione del “santo sepolcro”; tuttavia mediante il realismo rappresenta un corpo in equilibrio fra la figura anatomica e l’ideale apollineo; sospeso tra vita e morte, un corpo non ancora corrotta dalla decomposizione. Holbein sottrae l’immagine umana alla doppia impossibilità di una salma. L’immagine del corpo nel Rinascimento si polarizza in figura anatomica e scultura, sottostando a proporzioni di schema ideale del corpo nonché una costruzione teorica basata sull’assoluta armonia. Con l’uomo vitruviano Leonardo da Vinci esprime il conflitto del corpo: anatomia con estetica; il quadrato che contiene l’uomo funziona da prigione della contingenza corporea; il corpo ideale non appartiene alla persona, ma il corpo reale impara i propri limiti. Durante il Rinascimento la rappresentazione della persona veniva effettuata con il corpo e non in riferimento al corpo -> Il corpo era attore e non requisito, divenendo così tema dell’arte; vale il contrario per le statue votive di cera che ereditavano le fattezze del soggetto interessato. Nelle immagini votive l’illusione corporea stava a rappresentare un doppio che, nella propria anatomia, rimandava direttamente a un soggetto umano. L’immagine votiva iperrealistica, con il calco del corpo stava per il corpo reale (Didi-Huberman). Con Cartesio si passa alla concezione che l’io pensante è incorporeo e che il corpo possa essere considerato come una macchina di ossa, nervi e muscoli, capace di funzionare secondo natura ma del tutto inutile per esprimere qualcosa sulla persona -> Clemente Susini realizza per il museo di scienze naturali La Specola, una donna gravida apribile in sei parti, “Venere dei dottori”; mediante il calco si ha un modello del corpo [illusione corporea tradotta in immagine, museo di Madame Tussaud, falsificazioni del corpo alla stregua delle effigi di corte]. Con la fotografia si ha il processo di democratizzazione dell’immagine, la foto manifestava una copia conforme cui nessun intervento avrebbe alterato la verità dell’immagine corporea; su un numero qualsiasi di immagini il soggetto poteva apparire in maniera sempre diversa, senza dire come potesse apparire realmente. La posa davanti alla macchina fotografica conferma che noi, mimicamente o gestualmente, ci trasformiamo in corpore in un’immagine, ancora prima che la fotografia, in effigie, faccia di noi un’immagine. La questione ruota attorno a cosa, una fotografia, esprima sul corpo documentato e di come rappresenti in questo corpo la persona -> estetica e ideologia del corpo. Keith Cottingham, Fiction portrais: ha l’obiettivo di compromettere con l’immagine computerizzata il “mito della fotografia”; i suoi ritratti sono fittizi -> Non solo nell’interpretare la figura ma nello spiegare il soggetto come finzione dopo che nell’immagine viene privato della propria referenza. La fusione di più storie in un unico volto (triplicazione del solito volto nella stessa foto) produce una personalità multipla, mettendo in discussione l’esistenza del soggetto. Oggi il corpo naturale viene sostituito con figure virtuali, i mezzi digitali separano l’analogia con il corpo avviando l’era del post-umano. La liberazione del corpo viene attivata o simulata attraverso i virtual bodies (in effigie) così, come in passato, si avevano per mezzo di corpi artefatti. Appartiene alla competenza dell’immagine poter affermare, o negare, la realtà (in questo caso del corpo). Le immagini, da sempre, non sono mai quel che affermano di essere, cioè figure della realtà; sono contenuti di fede e mode di pensiero ove l’uomo va cercando protezione. L’incarnazione è esistenza: avatar ai giorni odierni, nonché segni digitali creati per assomigliare all’uomo e rappresentarlo nella rete -> Incarnazione in effigie anche dove con il corpo (l’uomo) non può arrivare. dei primi realisti fiamminghi del Quattrocento, hanno l’obiettivo di svincolare il corpo della gerarchia sociale rendendolo trasmittente della persona. La nuova concezione del ritratto viene affidata dal pittore di corte Jan van Eyck nel 1432, Ritratto dell’orefice di Bruges -> Il volto ci osserva in maniera diretta, con sguardo minaccioso il soggetto si rivolge a noi (per mezzo della frontalità fino ad allora concessa solo allo stemma araldico). Il ritratto vuole essere riconosciuto attraverso il ricordo e per la salvezza dell’anima di chi è rappresentato in absentia; l’iscrizione sulla cornice fa coincidere l’inizio dell’opera con la nascita del soggetto: doppio corpo che assume il posto del corpo reale. Il volto frontale che si rivolge allo spettatore è una sorta di maschera ossia un mezzo (dipinto) attraverso il quale comunicare; il ritratto non è solo un documento ma un mezzo del corpo diretto alla sollecitazione/partecipazione dell’osservatore. In qualità di mezzo, per far fronte alla caducità del corpo, acquisisce un’immortalità che era stata data solo al segno araldico. Gli stemmi, nella tradizione figurativa, hanno fatto sì che lo status giuridico della tavola dipinta si accostasse al mezzo figurativo della rappresentazione: il Ritratto di Francesco d’ Este di van der Weyden contribuisce all’equivalenza tra immagine e segno, come visione complementare di una persona d’alto rango. Solo uno sguardo moderno ravvisa nello stemma solo il retro del ritratto. Ritratto e stemma, espressioni del corpo stesso secondo concetti differenti, condividono nell’opera di Weyden il medesimo corpo mediale (la tavola). Da entrambi i lati dello stemma si ha il nome “Francisque” e il motto personale -> Segno genealogico (stemma) e personale (motto) formavano insieme la storia araldica. Il ritratto, in ambito religioso, non aveva l’unico scopo di ricevere onore dai familiari ma era anche un mezzo di comunicazione con Dio. Il rapporto mediale fra ritratto e stemma – fondamentale nella storia antica della rappresentazione personale – si palesa nell’immagine devozionale: il Dittico di Wilton, commissionato da Riccardo II d’Inghilterra alla fine del Trecento. Il re si fece ritrarre nelle vesti di pio donatore, inginocchiato davanti alla Madonna; chiudendo il dittico troviamo due tavole araldiche: uno scudo con elmo e il cappello del proprietario dello stemma; l’altra mostra l’emblema del re ossia la “figura parlante” di un cervo bianco che allude al suo nome. Allegoria personale che, posta assieme allo stemma con valore transpersonale, costituiva un controcanto simile al ritratto autonomo -> Una generazione dopo si usa presso la corte d’Este a Ferrara la medaglia-ritratto che, sul lato posteriore, presentava il motto della persona raffigurata. La relazione fra corpo e immagine ha dato vita alla nascita della moderna descrizione del soggetto in senso semiotico e iconico. Il retro del ritratto di Boltraffio mostra, al posto dello stemma un teschio: la morte è il destino comune, è lo stemma di tutti e di fronte alla morte non valgono distinzioni di rango e proprietà. La morte è anche limite e meta di una vita individuale -> Il teschio (pendant) è un motivo figurativo contemporaneo al ritratto moderno; in alcuni casi il teschio ne ha preso il posto nella confessione di mortalità. Il volto vivo rappresenta un soggetto, di fronte al volto anonimo della morte si ha una concezione individuale dell’esistenza. Agli Uffizi è conservato un coperchio a scorrimento: presenta una maschera bianca dalle orbite vuote e nere, l’iscrizione (in riferimento alla persona rappresentata) recita “a ognuno la sua maschera”, affermazione retorica sul doppio significato di persona intesa come maschera o ruolo che il singolo assume nella società – alla stregua di un attore1. Il ritratto viene realizzato mentre il corpo è vivo e ,poiché questo è mortale, sopravvive solo per chi posa sull’immagine il proprio sguardo vivente [ritratti pieno Rinascimento presentano la scritta “V.V.” ossia “dipinto in vita per il vivo” osservatore]. Tale osservazione era già stata espressa dall’Alberti nel De Pictura, secondo il quale la pittura avrebbe dato al viso del morto una lunga vita; nel ritratto la pittura fornisce un’immagine mnemonica capace di resistere alla morte. Il ritratto genera l’analogia tra corpo e mezzo del corpo: il ritratto rappresenta un individuo che ha vissuto in un corpo che adesso vive per mezzo di un corpo artistico (immagine) -> Vita e morte si muovono simultaneamente davanti allo sguardo dell’osservatore. 1 In Elogio alla follia Erasmo da Rotterdam scrive sulla vita “un dramma in cui ognuno indossa una maschera sul volto e gioca il proprio ruolo” Per i ritratti degli umanisti, nel periodo della Riforma, si aspirava alla gloria pubblica che – oltre la loro esistenza corporea – avrebbe dovuto perdurare nella post-gloria letteraria; approfittarono così del nuovo mezzo della stampa per propagandare le loro opere. Si tratta di pubblicità di una persona, concetto in antitesi con l’io immortale nelle opere e con il corpo destinato alla morte. Non si tratta più di una polarità tra identità collettiva e personale, ma di una differenza fra lo spirito a scapito del corpo; questa si rivendica individualisticamente nel ricordo letterario. Durer e Cranach diffusero così i ritratti degli umanisti e riformatori: Durer, Ritratto di Erasmo da Rotterdam -> Incisione che rappresenta la relazione fra immagine e scrittura come un conflitto fra corpo e opera; Erasmo è raffigurato nell’atto di scrivere su cui punta il proprio sguardo. La scrittura sul lato sinistro diviene un’immagine nell’immagine (inoltre Durer firma qui la sua opera). Si ha un paragone fra il mezzo dello scrittore e il mezzo dell’artista, entrambi utilizzano la stampa; tale congruenza esplica un tema profondo, chiarendo che con la stampa così come con la parola dello scrittore si trasmette il ritratto in modo indiretto. Attraverso la stampa la rappresentazione del corpo subisce un’astrazione simile a quella della parola scritta, tramite una riduzione grafica -> La stampa modifica la concezione del ritratto (discostandosi dall’unicità della tavola dipinta = corpo unico), si ha l’ibrido di un’immagine private e una persona pubblica. La medialità si allarga al corpo sottraendogli il monopolio dell’identità sociale, tramessa adesso all’io; l’iscrizione, come la medaglia, rappresentano un doppio concetto figurativo -> Separazione umanistica tra corpo (effigie vivente/corpo doppio dell’io) e l’io. Nell’incisione a rame di Filippo Melantone ad opera di Durer non rappresenta lo spirito; il ritratto non può mostrare ciò che mostra il corpo stesso. Solo nell’espressione il corpo trasmette in trasparenza l’io. Lo stemma ebbe una referenza simbolica sul corpo dunque non si era legato alla somiglianza che esigeva la referenza iconica del ritratto. In questa lacuna della rappresentazione si introdussero motti, capaci di colmare il mutismo del ritratto. L’unità del soggetto si poteva realizzare solo in una doppia produzione mediale che esigeva, da parte dell’osservatore, un doppio sguardo: sull’immagine e sull’atto linguistico; quanto più il ritratto rappresentava la persona nel suo corpo, tanto più gli stemmi chiarivano la vita della persona. Immagine e morte. L’incarnazione nelle culture dell’antichità (epilogo sulla fotografia) L’analogia tra immagine e morte, antica quanto il potere figurativo stesso, oggi tende a essere dimenticata; solo indagando nella storia della riproduzione figurativa troviamo immagini di morte: contrasto fra presenza e assenza, le immagini richiamano gli occhi dei defunti che non sono più con noi. L’incarnazione di un defunto che ha perso/abbandonato il suo corpo ci porta a chiederci quale ruolo abbia svolto la morte nella collocazione di immagini (prodotto umano) nei luoghi di sepoltura [Antropologia delle immagini -> Per comprendere le azioni simboliche in relazione alle immagini prodotte, si pongono interrogativi alla loro origine]. Maurice Blanchot: osservando la morte i nostri occhi ricevono qualcosa che tuttavia non è lì – l’immagine trova senso in qualcosa da riprodurre che è assente; ragion per cui può essere presente sotto forma di immagine: viene manifestato non ciò che è nell’immagine, ma ciò che può apparire solo in immagine. L’immagine di un defunto è il senso originario di ciò che è un’immagine, la morte è un’assenza colmabile per mezzo dell’immagine; per questo si ha la tomba e un corpo immortale, simbolico con il quale collegarsi al corpo mortale in dissolvenza. Così l’immagine che incarna il defunto acquisisce un valore opposto all’immagine del cadavere stesso. Nel momento del decesso il cadavere diventa un’immagine fissa che assomiglia al corpo vivente, non è più un corpo ma l’immagine di un corpo, nessuno può somigliare a sé stesso: ciò è possibile nell’immagine o come salma. Il corpo appartiene alla vita così come l’immagine che lo rappresenta appartiene alla morte; terminando la vita questa si trasforma nella propria immagine: ciò che rimane è una mera immagine mediante la quale rendere comprensibile la morte -> Il potere figurativo diviene attivo per non essere passivi all’esperienza della morte. La salma è mistero dell’immagine poiché si ha un’assenza che parla della presenza della salma e dell’immagine presente: enigma fra l’essere e l’apparire; il fare le immagini diveniva più importante del possedere immagini in quanto si reagiva attivamente al disturbo della comunità dei vivi, ristabilendo l’ordine naturale. Ai defunti veniva così dato lo status di rappresentanza nel gruppo sociale – una trasformazione ontologica – capace di trasmettere, per mezzo dell’immagine la presenza di un nome e di un corpo (resa tale dallo scambio di sguardi). La presenza del teschio, come completamento di una figura, dava al defunto il ritorno alla comunità: in Polinesia si veneravano statue con teschi; nel neolitico “culto del teschio” i viventi si assicuravano la relazione sociale con gli antenati. La trasformazione del cadavere in effigies era una sorta di conversazione; il corpo si trasformava nell’immagine di sé stesso [significato che ha assunto l’esperienza della morte per la nascita dell’immagine]. La presenza, così come l’assenza del defunto, veniva simbolizzata attraverso immagini capaci di garantire o la memoria collettiva o il rituale della separazione esorcistica -> Le immagini diventano trasmittenti o contenitori anche quando veicolano la sola idea del defunto: un’idea che si materializza in rappresentazione. Corpo figurativo e incanto figurativo Ernst Kris e Otto Kurz, nel libro La Legenda dell’artista, trattano della riproduzione intesa come incantesimo, causa della confusione dei popoli primitivi; dal loro punto di vista si affermava l’identità magica tra immagine e riproduzione. Gli atti rituali possedevano una capacità di simbolizzazione, Kris e Kurz interpretano l’incanto figurativo come l’intenzione di vedere l’artista inserito in una genealogia in cui era preceduto dal mago. Il concetto di arte, ove l’artista ristabiliva una somiglianza tra l’immagine e la persona, si ha con la trasformazione strutturale: separazione dell’immagine dal culto dei defunti (in questi culti le immagini divenivano espressione/accompagnamento di azioni; oppure erano maschere, dipinti, travestimenti e mummie capaci di farne un doppio per mezzo di bambole e feticci. Nella pratica dei rituali le immagini venivano fatte parlare tramite l’invocazione o la rappresentazione in una comunità: per mezzo dell’animazione si dava vita a un’immagine diretta verso l’incarnazione che – attraverso gli artefatti – diveniva un “incanto figurativo”, antico abuso dell’immagine). Teschi, bambole e maschere Fase pre-ceramica della “rivoluzione neolitica” (prima società a carattere sedentario) -> Scavi in Siria, Giordania e Israele. I morti non venivano seppelliti in tombe ma nel territorio di insediamento e/o nelle case; si ha il “culto del teschio” – primo rapporto rituale con la morte. A Gerico, nella valle del Giordano, si sono ritrovati straordinari teschi nonché primi reperti figurativi con volto umano ottenuti mediante rivestimenti in calce o argilla, riuscendo così a dare la forma del volto alle ossa del cranio; per mezzo dei colori (es rosso vivo che forse richiamava il sangue) si trasformava la pelle artificiale in un’immagine della vita. Gli occhi si hanno per mezzo della calce bianca e inserimenti di madreperle e conchiglie: nasce così un corpo simbolico con segni sociali di quello vivente che, ora, circondano il corpo morto come una seconda pelle. Prendendo in esame il contesto storico entro cui sono inseriti tali reperti si evince l’ordine rituale (i crani, a volte anche di bambini e donne, venivano posti su basi di argilla – sorta di famiglia riunita per la cerimonia). Nel Sud-Est dell’Africa era solito mantenere la salma dell’anziano della tribù entro un ossario fino al termine della putrefazione, a quel punto il cranio veniva tolto e posto in una casa; veniva poi ripulito e dipinto in rosso per poi essere consegnato a un parente. Da qui in poi il “compagno silenzioso” avrebbe preso parte agli avvenimenti della vita -> Presenza/assenza. Queste figure neolitiche esibiscono un’esperienza del corpo che poteva essere acquisita solo tramite il culto dei defunti, il corpo del defunto veniva dipinto e dotato di una nuova “pelle” ricostruendolo come lo si era visto da vivo. Il corpo simbolico serviva sia per dimostrazione genealogica sia per il rituale che si esprimeva nel mantenimento degli obblighi della comunità. Vernant parla di un “double” che distingue dall’immagine; i Greci superarono i simboli puri in cui incarnavano l’assente per la creazione di immagini mimetiche -> Teoria della mimesi. L’eidolon era una cosa morta da riempire con la vita; questa era un corpo accessorio che sostituiva la salma: l’eidolon rappresenta sia un corpo figurativo in attesa di un’anima, sia un’anima in cerca di un corpo figurativo (corpo fenomenico). Il Kolossos indica soltanto un semplice artefatto, non è un’immagina ma un double come il morto è il doppio di un vivo; è la controimmagine per la quale incarnare qualcuno. Platone -> Reale è soltanto l’anima, mentre il corpo, poiché mortale, è la semplice ombra dell’anima. La critica figurativa di Platone La teoria platonica sull’apparenza dell’immagine trasformò l’esperienza figurativa nella cultura greca e la pratica figurativa dei culti funerari. Le immagini sulla tomba erano metafore in grado di stimolare il ricordo dei viventi; si voleva difendere la memoria naturale da quella artificiale (scrittura e pittura) poiché solo le essenze vitali potevano essere ricordate. L’opera figurativa raddoppiava in sé la morte: scrittura e pittura imitavano la vita, una il discorso dell’essere e l’altra il corpo – in entrambi i casi viene sottratta la vita alle imitazioni, tali forme sono ritenute mute. Platone dirige il suo interesse a immagini in cui viene simulato o il corpo naturale o quello figurativo e tridimensionale delle sculture; riconosce solo il corpo vivente. Nel Cratilo scinde l’essere umano dalla sua figura, poiché non può esistere una replica esatta della persona; soltanto nel corpo autentico risiede l’anima. Platone si oppone all’arte illusionistica capace di confondere l’essere e l’apparire nel mostrare le insidie delle ombre e dei riflessi. Possiamo dire che viene esclusa ogni altra presenza del defunto che non sia il ricordo, il grado di somiglianza dell’immagine sepolcrale e del ritratto aveva ben poca importanza nel meccanismo dei ricordi poiché questi potevano essere azionati semplicemente attraverso oggetti posseduti dalla persona defunta. Secondo la sua teoria della percezione, Platone afferma che l’unica percezione attuata sulla figura fisica di un uomo è il ricordo: le immagini vengono limitate all’apparenza dell’apparenza (figure del mondo empirico) -> Fratture tra il mondo del corpo e quello delle idee non ammetteva immagini che nel culto funerario richiamassero a sé la reincarnazione. Quest’ultima appartiene all’immagine plastica del mondo. Platone nel Timeo riconosce il modello “tecnomorfico del mondo”: descrive il creatore del mondo come “scultore in cera” capace di realizzare animazioni in cui avviene l’unione dell’anima immortale con un corpo creato appositamente per lei. Le immagini trasmettono al materiale un’idea invisibile che precede l’opera come immagine della fantasia nello spirito del suo creatore; ogni immagine si riduce all’incarnazione di un’immagine modello che esisterebbe anche senza opera. Le onoranze funebri nell’antica Roma Celebrazione funeraria pubblica: un corteo indossava maschere degli avi del defunto accompagnando il feretro al luogo della cerimonia di separazione; l’immagine è una maschera con le conformazioni del volto e dei suoi lineamenti. In attesa della cerimonia successiva, le maschere venivano conservate in casa delle famiglie all’interno di scrigni lignei per poi essere indossate da persone che assomigliassero al defunto. A Roma le immagini funerarie erano quelle degli antenati; l’uso delle maschere rappresentava i morti trovavano legittimazione nella somiglianza ma rappresentavano anche l’antico mezzo dell’incarnazione -> L’antica danza mascherata che conosciamo tramite altre culture, a Roma veniva trasformata in uno spettacolo civico con lo scopo di mantenere/ristabilire nella vita pubblica la presenza del defunto. Nelle culture primitive gli antenati formavano un aldilà istituzionale per essere ammesso; a Roma la comunità degli antenati reclamava propri diritti nella vita dello Stato. La messa in scena durante il rito funebre trova analogie con il teatro per cui, attraverso l’attore, rappresentazione e incarnazione divenivano un’unica cosa. L’immagine che appariva in scena in nome del defunto era il “doppio”, cancellando così la teoria platonica. Con il Cristianesimo la bipartizione fra paradiso e inferno si è fatta più delineata: d’ora in poi il significato della morte sarebbe rimandato al giudizio universale -> Le mura delle chiese si sono riempite di visioni dell’aldilà nelle quali i morti appaiono in immagini beate o dannate. Tali pitture erano incitamenti ai viventi affinché si garantissero la salvezza dell’anima. Silhouette e skiagraphia nell’antichità Secondo la leggenda greca la pittura ha origine nel tentativo di trattenere un corpo nell’immagine della sua ombra. Sia Plinio sia Quintiliano affermano che l’immagine umana sia stata tracciata per la prima volta sul contorno di un’ombra: storia della donna di Cortino che tracciò i contorni dell’ombra del suo amato, il padre vasaio, ne intagliò il contorno e lo riempì di creta. Quando i greci considerarono l’ombra ne scaturì una metafora con i morti; questi vivevano nell’Ade in qualità di ombre o immagini immateriali che rimandavano ai loro corpi defunti. Con la pittura delle ombre o skiagraphia (rivoluzione dell’arte grafica) si chiamarono in causa le ombre: pittura dell’illusione che puntava alla mimesis della vita, questa pittura “dell’apparenza” fu attaccata da Platone – poiché questa simulava le ombre sui corpi, anziché separarli. La skiagraphia, ritraendo per mezzo della pittura un mondo apparente, potrebbe aver ricevuto il suo impulso dal palcoscenico nonché terzo modo fra vita e morte nel quale i morti veniva rappresentati come vivi. Per silhouette non si parla di un tema specifico dell’arte, questa è la fissazione di un’ombra senza corpo ossia di un’ombra nella silhouette. La skiagraphia era illusione della vita, in pittura l’ombra non era relazione fra immagine e la morte bensì un completamento della finzione della vita corporea. Di conseguenza le ombre furono applicate anche alla rappresentazione dei morti – raffiguranti come da vivi. Epilogo: la fotografia Il tema “immagine e morte” si configura anche nel campo della fotografia, e cioè dove l’antica silhouette ha trovato il successore. La fotografia produce un corpo vivo ma, al pari della silhouette, lo fissa come un indice (luce) -> Sulla pellicola si imprime sia la traccia di un corpo sia l’ombra proiettata da questo. La riproduzione fotografica del corpo costituisce una fuga dall’illusione. Talbot nel 1839 riuscì a trasporre per sempre, in un’immagine durevole, l’ombra – nonché simbolo di ciò che è fuggitivo – nominata “word of light”, capace come la scrittura di conservare il passato. L’immagine catturata dalla fotografia sembrò somigliare a un morto vivente: portava fuori dal corpo la vita, i suoi movimenti nonché atti linguistici saldati nell’immagine come ricordo; nell’attimo stesso in cui un corpo è stato fissato su un’immagine, questa inizia il suo processo di invecchiamento – trappola del tempo. Roland Barthes a proposito della fotografia “si diventa tutto- immagine, vale a dire la morte in persona”. Con la costruzione digitale dell’immagine corporea si è persa la differenza tra vita e morte, la post-fotografia genera corpi artificiali che non possono morire; solo con il corpo ci liberiamo dalla morte nelle immagini nelle quali ci trasformiamo in essenze prive di mortalità. Le immagini elettroniche non solo ci sottraggono la percezione del corpo nel tempo e nello spazio ma, divenendo immagini assumiamo un corpo invulnerabile. L’immortalità mediale, pertanto, non è che nuova finzione con la quale nascondere la morte. Nelle memorial photography del XIX secolo, si tentò di combattere la paura di guardare in faccia la morte poiché un morto in immagine è doppiamente morto; così i fotografi si specializzarono nel disporre e sistemare i defunti come se stessero dormendo. In questo modo, all’interno della famiglia, il defunto rimaneva impresso in un’immagine che lo ritraeva come lo si era visto l’ultima volta. Immagine e ombra. La teoria figurativa di Dante nel passaggio a una teoria dell’arte Tra Dante e la cultura generale si trovano due punti di incontro sulla concezione dell’idea della sopravvivenza dei defunti: l’ombra degli antichi e l’anima della cultura cristiana. Attraverso la morte le immagini si paragonano al concetto di assenza, per questo motivo nelle antiche culture l’incarnazione del defunto in immagine non era solo un mezzo figurativo, ma necessitava di un rituale per spezzare il legame del defunto con la sua immagine. Le immagini dei defunti sono costituite da materia inanimata alla quale potersi rivolgere; così Dante nell’oltretomba incontra immagini: vi sono ombre vive che egli anima. L’esperienza dall’ombra è comune alla vita di ognuno di noi, sin dall’infanzia in cui il bambino si vede rincorso da questa; la sua presenza non è che conferma visibile di un corpo – nel caso della morte, l’ombra voleva essere isolata in immagine al fine di dimostrare che lì vi era stato un corpo. Non si lega più al concetto di essere il doppio di una persona vivente bensì di rimanere nel mondo come sostituto di un defunto. Tra le immagini materiali sulla tomba o le immagini virtuali al di là di questa donano al defunto un nuovo mezzo esistenziale: le immagini sulla tomba ricordano un defunto che vive nell’aldilà, le immagini relative a un altro mondo ricordano nel loro copro fittizio colui che ha vissuto nel mondo reale -> Domenico di Michelino, monumento pittorico a Dante. Dante sulla teoria figurativa -> Analogia con l’ombra e contrasto con il corpo; entrambe le definizioni si legano al riferimento corporeo con l’ombra in sé: l’immagine è come un’ombra e quindi diversa dal corpo. Secondo Dante e Tommaso d’Aquino il corpo è inteso in senso fenomenico naturale: una persona vive ancora nel proprio corpo, mentre la sua anima, risiede indietro come un’ombra. Nel suo ciclo dantesco Robert Rauschenberg ricava le ombre infernali dal reportage figurativo dei media: con la tecnica del rubbing, l’artista ha interferito sulla realizzazione e con il nero tipografico ha trasformato i personaggi nelle ombre che rappresentano. Se prendiamo esempi come la skiagraphia o la pittura di luce/ombra di Talbot si trova l’analogia immagine-ombra in trasposizioni fisse e durevoli (denominata “effetto thanatos” in fotografia). Facendo riferimento al mito di Narciso di Ovidio e riprendendone una parte scrive “ciò che vedi è solo l’ombra di un’immagine/ non ha nulla di suo, insieme a te resta o sparisce” chiariamo che, l’ombra deve soccombere al corpo; la loro separazione – come nell’esperienza Dantesca – è un evento della trascendenza. Nel film La nouvelle vague di Jean-Luc Godard in omaggio a Dante, il regista ha palesato i limiti tra vita e morte nella metafora dello specchio d’acqua. I corpi viventi, per mezzo dell’ombra, proiettano al suolo la loro immagine, mentre i defunti incorporei non proiettano niente poiché sono essi stessi ombra; Dante, come viaggiatore dal mondo dei viventi, mostra la differenza tra corpo e immagine -> La differenza tra il corpo autentico e virtuale si ha nel passaggio di Dante e Virgilio, sotto al sole (solo nell’aldilà vi sono immagini per le quali le limitazioni delle arti terrene non esistono, poiché prodotte da un’arte divina). La teoria figurativa di Dante si lega alla doppia nozione: i corpi non sono mai delle immagini e le immagini non hanno mai un corpo -> Giotto, Masaccio e Michelangelo si accostano alla teoria dantesca. Dante rappresenta le sue ombre con caratteristiche corporee, Giotto, al contrario, amplifica l’illusione del corpo evitando la proiezione di ombre. Masaccio, si trovò a decidere se impiegare l’ombra di riporto presso la Chiesa del Carmine: in Adamo ed Eva, si ha la proiezione delle loro ombre simulandone i corpi reali – come mezzo della vita l’immagine si legittima attraverso l’illusione. Tuttavia, Adamo ed Eva, una volta cacciati dal Paradiso sono divenuti mortali e perciò vanno incontro alla morte nel mondo reale. Sempre Masaccio, nelle Scene della vita di San Pietro, rappresenta le ombre proiettate dai corpi. In questa opera, Leonardo e Vasari, vi riscontrano la veridicità dell’uso dell’ombra data ai corpi -> Ciò che Dante aveva descritto nell’aldilà, era divenuto un aldiquà figurativo (finzione pittorica). diviene mero mezzo di ospitalità mediante il quale trasmettere l’immagine indiana – soggetto indiano e sguardo indiano sul mondo [la fotografia, riproducendo un modello, si serve della prospettiva orientale VS disegno di Rembrandt, Quattro sceicchi, che la trasla in una prospettiva occidentale]. Lo sguardo sul mondo Le immagini mutano con il cambiare dei mezzi visuali, potremmo dunque dire che la storia mediale è una storia dello sguardo: cambiamento dei mezzi e cambiamento dello sguardo. La percezione è creata come stile e modello dei mezzi figurativi ai quali essa è rinviata -> Le immagini offrono autorità allo sguardo, per cui la realtà è frutto di una nostra costruzione e in base a questo si modifica anche la relazione con il mezzo che rappresenta la produzione figurativa di un’epoca. Negli anni Cinquanta si ha la mostra The Family of Man di Edward Steichen -> Ultima espressione di una fotografia oggettiva poiché si poneva come un vero e proprio reportage figurativo sulla solidarietà globale dell’umanità. L’illusione di questo progetto stava nell’idea di poter catturare il mondo per mezzo di scatti in racconti lineari per cui, in ogni fotografia, la storia figurativa dell’umanità avrebbe dovuto trovare la sua continuità = verità della fotografia. Tale sguardo idealista vide la sua polemica in Robert Frank con il suo “resoconto figurativo” negli Stati Uniti -> libro The Americans (1959) con l’introduzione di Jack Kerouac; Frank mise così in luce anche la subcultura. Secondo l’artista il mondo era talmente complesso da poter essere rappresentato attraverso fotografie di concetti generali della realtà (progetto The Family of Man), ne è esempio la fotografia Parade in Hoboken -> Falsa pretesa della simbolicità della bandiera americana spezzata dall’illusione di un’unica verità dell’immagine. Vi è la guida di un’attenzione personale verso le immagini del mondo ove, lo sguardo del fotografo viene impiegato come mezzo di prova (fotoreporter). La fotografia potremmo dire che non registra il corpo ma preleva da un altro corpo una serie di immagini per le quali quel corpo rappresenta una materia prima (Blow-up di Antonioni); la fotografia entra prepotentemente sul soggetto e sul mondo, trasformandolo così in immagine. L’autorialità del fotografo sta nel controllo che esercita sull’immagine, dichiarandosi osservatore autonomo. Lo sguardo in scena: Jeff Wall L’artista canadese attribuisce all’arte concettuale degli anni Sessanta questo mutamento (abbandono del proprio status mediale per mettersi in discussione come mezzo; decostruzione dell’arte). La fotografia con l’arte concettuale rimette in gioco nel concetto figurativo la finzionalità: fotografia, pittura e film. Con il superamento dei confini mediali si causa una migrazione di immagini: la pittura produce immagini alla fotografia e il film presta la propria funzione narrativa, rappresentando una storia intera in un’immagine -> “gioco tra ciò che è fotografia e ciò che appare come fotografia”, dunque un procedimento intermediale capace di dare all’osservatore immagini che riceve e che proietta sul mezzo. Jeff Wall, The storyteller -> Esposta come diapositiva in grande formato ove Indiani della British Columbia si trovano in disparte sotto a un ponte autostradale di Vancouver. Jeff Wall muta lo sguardo mettendo in scena “immagini per la definizione della verità che risiede dietro le immagini” -> Queste messe in scena si plasmano come ricostruzione fotografiche della verità. Ogni posa è funzione cui, per mezzo tecnico, si attribuisce una verità. Dal momento che il fotografo può mostrare ciò che sta davanti all’obiettivo, non produce altro che realtà; si evocano così immagini tali da invitare l’osservatore a trascenderle, portando poi alla propria immaginazione per comprenderle. La questione dell’immagine: Robert Frank Robert Frank, da fotografo passa a registra con il fine di non voler più essere un freddo osservatore dietro l’obiettivo, preferendo intervenire nell’immagine che transita davanti all’obiettivo -> Frank, nella sua attività di fotografo, aveva già iniziato a decostruire le immagini: le strappava, le sovrapponeva, scriveva sui negativi e utilizzava le pellicole come storie per immagini secondo una storia personale; una sorta di “videoartista”. Robert Frank nel suo concetto figurativo accosta l’immagine mediale (fotografia) e l’immagine mentale (esperienza, sentimenti, espressione) -> Trasparenza fotografica utilizzata in immagini: analogia tra l’immagine e l’autore ossia il mondo nello sguardo e nell’immagine stessa. Le sue immagini presenti nel libro The lines of my hand sono quindi investite dallo sguardo passato che lo stesso autore (Robert Frank) ha indirizzato sul mondo: nessuno sguardo è ripetibile. Per questo motivo le immagini immagazzinano il tempo nel quale sono nate, diventando visibili solo quando considerate con gli occhi del ricordo -> Immaginazione e immagine si separano; nelle fotografe anche automatiche come nel ciclo dei Bus photographs si ha una continua lotta con la personale percezione del mondo. Per questo motivo Robert Frank sceglie di liberare l’immagine dall’idea che è imprigionata nel mezzo della fotografia: Words, Nova Scotia (serie presente in The Americans) -> L’artista ci presenta un’immagine autoriflessiva; prima ancora di cogliere il paesaggio si incontra una vecchia foto della serie The Americans appesa al filo, accostata all’immagine di un foglio con la scritta “words”. Si hanno perciò due immagini, una in senso letterale e una figurativa: si ha così un paragone fra la parola e l’immagine di un vecchio sguardo capaci, per mezzo di un discorso intermediale, di vedere oggetti delle immagini viste e delle parole pronunciate.
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