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Hans Kelsen e Benedetto Croce, Sbobinature di Filosofia del Diritto

Appunti delle lezioni Lineamenti di dottrina pura del diritto di Hans Kelsen e Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia di Benedetto Croce

Tipologia: Sbobinature

2019/2020
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Caricato il 25/12/2020

lory-sola
lory-sola 🇮🇹

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4 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Hans Kelsen e Benedetto Croce e più Sbobinature in PDF di Filosofia del Diritto solo su Docsity! HANS KELSEN ricevimento del 03-11-2020 Perché Kelsen considera importante separare il diritto dalla morale e il diritto dalla giustizia? A Kelsen interessa tener separato il diritto dalla morale nella misura in cui la morale costituisce un sistema normativo, la similitudine che c'è tra diritto e morale è che sono entrambi sistemi normativi cioè ordinamenti dentro i quali troviamo norme e regole. Queste norme non si limitano a consigliare o ad indicare ma comandano quello che è il comportamento da tenere, questo è un nucleo che il positivismo chiama carattere di coattività del diritto cioè il diritto per ogni giuspositivista resta comunque una norma coattiva (la norma che prescrive) ma lo fa minacciando una reazione dell'ordinamento nell'ipotesi dell'illecito o dell'inadempimento. Il sistema della morale e del diritto (considerati come come sistemi prescrittivi) sono entrambe scienze dello spirito cioè scienze che studiano il comportamento umano e le azioni ma la cosa più specifica è che in entrambi i casi queste scienze studiano dei prodotti artificiali, perché tanto la norma giuridica quanto la morale sono realtà nello spirito perché prodotte dall'ingegno umano. Sto studiando una realtà artificiale = la norma giuridica e morale lo sono. L'impresa positivistica di tenere separato il diritto dalla morale è difficile, proprio in virtù delle similitudini e degli elementi di aderenza che sono riscontrabili tra la norma giuridica e la norma morale. Kelsen sceglie una strada che è quella di occuparsi di quella parola, che in realtà è una parola che aspira ad essere un concetto, nega la possibilità di dire la giustizia. La giustizia, per Kelsen, è un concetto cioè uno strumento conoscitivo, non ha senso parlare di libertà se questo concetto non fa da strumento di intelligenza della realtà che si ha di fronte. La giustizia è la parte socialmente più esposta della morale. Il problema della separazione tra diritto e morale non si annida tanto in una morale esistente ad un livello socialmente rilevante. In qualche modo queste due realtà compongono una dicotomia e dialettica ma non riescono mai a distinguere l'una dall'altra. Il giudizio giuridico, per Kelsen, è quello valido. La dottrina pura si da come programma l'aspetto della non ideologicità, la dottrina pura è antideologica, prende atto della esistenza dei giudizi valutativi cioè di quei giudizi che, per essere chiari, si formano in questo modo. La valutazione non contribuisce a conoscere il diritto, l'interpretazione del diritto, quando nella dottrina si affronta questo tema, è un momento di carattere valutativo in cui io esprimo dei punti di vista governati dallo stesso significato che è l'enunciato che la norma pone. Siamo nella fase della conoscenza del diritto, conosciamo il diritto qual esso è cioè la norma. La valutazione è la cd. ideologia, la giustizia viene, dal discorso di Kelsen, affermata come un'ideale irrazionale e non conoscibile. Ogni qualvolta che si è pensato di adoperare la categoria della giustizia per valutare il diritto si è commessa un'operazione ideologica. Qual è la teoria del diritto che maggiormente ha interpretato questo atteggiamento valutativo? Il giusnaturalismo è quell'atteggiamento valutativo che ha riguardo al diritto, questo lo si può ricostruire in due sostanziali tendenze : 1. giusnaturalismo conservatore = è un giusnaturalismo che valutando il diritto positivo, cioè posto da un legislatore storico, lo giustifica e, come tale, afferma ideologicamente la tesi della sua conservazione. E' sempre un atteggiamento valutativo, anche se rivolto ad affermare un'obbedienza. Il concetto del diritto che Kelsen vuole affermare è un concetto del diritto che vedremo essere norma e forma, il diritto per Kelsen è una norma ed è la struttura della norma. La sua struttura sintattica, ma anche la struttura logica, la proposizione giuridica è la struttura linguistica, logica e sintattica che la norma non può non assumere, è propria e tipica della norma giuridica, non della legge naturale, non della norma morale. Il concetto di diritto è la forma, struttura e proporzione, questo punto consente a Kelsen di distinguere la norma giuridica e la sua struttura dalla norma naturale tanto da quella morale. Kelsen fa uno sforzo teoreticamente fine e sottile di denuncia dei limiti. Il positivismo giuridico nel 19° secolo consacra una dimensione della giuridicità assorbita all'interno del diritto come prodotto della volontà. La norma è quella prescrizione imperativa che è il prodotto della volontà del legislatore, dello Stato. Il contesto in cui cresce la cultura giuridica Ottocentesca è borghese, la dottrina ha illusoriamente ritenuto di aver chiuso il tema della separazione tra diritto e morale, cioè di averla conquistata ed essere riuscita ad affermare una concezione del diritto per nulla attaccabile. Secondo Kelsen è una conquista che non è neanche sulla carta perché quel positivismo non ha potuto realmente raggiungerla, indebolita dalla definizione di norma che quel positivismo ha dato. La concezione del diritto si discosta tanto dalla norma morale quanto dalla legge naturale. Il positivismo ottocentesco per Kelsen fallisce, pensa di aver separato il diritto dalla morale ma in realtà non ci è riuscito perché si è cristallizzata in quel positivismo una definizione del diritto che coincide con una norma imperativa. Questo carattere imperativo (forma verbale che esprime un atto linguistico di comando) ad avviso di Kelsen non è adeguato a tenere sufficientemente lontano il diritto dalla morale perché lascia ancora evidenti dei fili più o meno visibili che tengono insieme la norma giuridica dalla norma morale. Quando io definisco la norma giuridica come un imperativo ho offerto una definizione del dover essere, che è categoria centrale del positivismo e positivismo kelseniano, ed è un'idea trascendente cioè ha un fondamento esteriore al diritto. Questo fondamento del dover essere sta nella doverosità del comportamento = tu devi. E' una doverosità che rinvia a quanto accade nella società, ha il proprio radicamento in una volontà del legislatore, è una dimensione del dover essere che non è propria e tipica del fenomeno giuridico perché rinvia a qualcosa che sta fuori dalla norma, il comportamento da tenere o non tenere. Nel positivismo è un dover essere che non è categoria ma idea, non è trascendentale ma trascendente. Questo dover essere, in quanto trascendente, non è in nient'altro diverso dal dover essere della morale che ha il suo radicamento in una dimensione non storica. L'aderenza fra norma giuridica e morale è il limite in cui cade il positivismo giuridico ottocentesco e della dottrina giuridica tradizionale, contro ciò egli contrappone la categoria del dover essere trascendentale. Importante è l'iter che Kelsen compie in questo paragrafo "Dover essere come categoria trascendentale" spiega come l'unica strada da percorrere sia intendere la struttura della norma giuridica come un giudizio, la struttura della norma giuridica non è un comando ma un giudizio (kantiano = pensiero che si fonda sulla realtà). Questo giudizio presenta la medesima sintassi che ha il giudizio sulla natura. esempio le norme premiali). Al diritto come norma coattiva, la dottrina pura del diritto ritiene che il diritto, in ultima istanza, sia una norma coattiva. E' un'adesione che si riempie di una serie di significati del tutto eterodossi rispetto alla dottrina tradizionale a cominciare dal concetto di illecito, alla distinzione tra norme primarie e secondarie, per arrivare a dare una risposta alla domanda "Quali sono i motivi di obbedienza al diritto?" L'illecito non può definirsi come la dottrina tradizionale lo definisce poiché è diverso, il concetto di illecito sta dentro la norma. E' un fatto sociale qualificato come illecito, una volta accaduto = al contrario in Kelsen la qualificazione dell'illecito è parte della qualificazione normativa, struttura della norma è "la premessa del diritto" cioè il significato proprio ed è rivelatore per il diritto. In realtà è una posizione, per Kelsen, l'illecito cioè comportamento qualificato come tale che occupa il posto nella struttura ipotetica della norma giuridica. L'illecito non è le cose gli altri positivisti pensano che sia. Perché ne sottolineano l'aspetto politico quando dicono che l'illecito è quel comportamento che il legislatore tende a non promuovere. L'illecito non è neanche la negazione del diritto, cioè quel comportamento che per il fatto stesso che si è verificato nega il diritto ma lo afferma in Kelsen. Kelsen ritiene che se non ci fosse l'illecito non ci sarebbe la reazione dell'ordinamento e non si esprimerebbe quel significato che è quello del dover essere. L'illecito non è il comportamento anti-sociale in Kelsen. Per Kelsen sono aspetti che non riguardano la definizione di quella che il diritto è. La sociologia considera le norme come se fossero fatti perché mette in relazione i fenomeni sociali perché il sociologo del diritto è comunque uno scienziato sociale ed umano che adotta un metodo naturalistico, guarda quella realtà normativa adottando un metodo che adotterebbe un biologo. La sociologia adotta il metodo naturalistico, l'illecito è un comportamento anti-sociale che va contro delle regole sociali. Nel '900 H. Hart tornerà sull'affermazione per cu la norma primaria prescrive la condotta da tenere e non tenere, la norma secondaria è di autorizzazione. Le norme secondarie appartengono a degli ordinamenti giuridici più complessi in cui esistono anche delle norme di procedimento. Kelsen ritiene che la classificazione della dottrina tradizionale non convince perché la norma per essere tale non può che essere norma primaria = la norma nella sua completezza, considerata come giudizio ipotetico. Le norme secondarie sono per Kelsen norme primarie. La norma secondaria, per Kelsen, è una semplificazione ricavata dalla norma primaria. Ad esempio se furto allora galera, non rubare. La negazione del dover essere Kelsen polemizza con coloro i quali negano il dover essere (giusrealisti americani), sente la necessità di assumere una posizione rispetto alla principale obiezione che i realisti americani avevano mosso nei riguardi del positivismo. Nel caso della sociologia egli ci dice che è una scienza non normativa ma naturalistica (trattano le norme come se fossero fatti). Il sociologo crede di stare in un quadro positivistico. Il punto di vista dei giusrealisti è rivendicato e consapevole, i giusrealisti non sono degli scienziati positivisti, ma vogliono stare al di fuori di esso. I realisti rivendicano un metodo naturalistico perché danno un altro significato a quell'espressione che Kelsen stesso adopera "descrivere il diritto così com'è". Secondo il realista il diritto non è la regola valida ma quella effettivamente seguita dai consociati. E' la regola sociale e soprattutto ciò che dicono le Corti secondo i realisti. I realisti, qui, negano il dover essere perché dire che la prescrittività e doverosità è un aspetto fondamentale del diritto significa apparentemente descrivere ed esprimere un giudizio di valore perché quel dover essere è frutto di ideologia. Per i realisti tutte le volte in cui il positivismo continua a sostenere il dover essere sta facendo l'ideologia cioè un giudizio falsificante che è tale perché si rifiuta di considerare la realtà. Per i realisti il diritto è quello che è, non quello che deve essere. La dimensione del Sain è il diritto, non quella del Sollen. Kelsen si sente chiamato in causa, in quanto positivista, di fronte all'accusa di ideologia e in quanto autore di una dottrina del diritto che fa aspetto fondamentale quello anti-ideologico. Domande lezione = Spiegare come Kelsen risponde a questa doppia provocazione : attacco al dover essere come contenuto ideologico e attacco che il realismo nel suo complesso muove al positivismo giuridico. Lo specifico nervo che Kelsen sente dolorante cioè quello del carattere anti-ideologico della sua dottrina pura. ricevimento del 17-11-2020 La negazione del dover essere - Il senso normativo del diritto - Dover essere ed essere del diritto Nel III capitolo Kelsen in una sua prospettiva ci propone una difesa del dover essere che però è anche riforma cioè egli riesce a difenderlo in quanto giunge a riformarne la definizione. La definizione estensiva, cioè attributi, conseguenze e aspetti che discendono da ciò, del dover essere è: - difeso e riformato nel senso della sua depurazione perché il dover essere, come ce lo rappresenta Kelsen, è depurato. Naturalmente qui è chiaro che non colgo che cosa significa depurato se ancora una volta non l'ho capito dall'inizio. Depurazione è un'operazione che ha a che fare con una premessa senza la quale la conoscenza del diritto non può dirsi descrizione del diritto, se io non depuro non mi dispongo come teorico del diritto a osservare il diritto, a descriverlo e definirlo in quello che l'oggetto diritto è, non è né il diritto storico dei vari ordinamenti o il diritto vigente ma non è neanche un concetto ideale e astratto. Per Kelsen questo diritto è una forma logica e linguistica che ha a che fare con la norma, ma essa è in Kelsen una proposizione che descrive una sua sintassi che risponde alla figura del giudizio ipotetico. Quando si tratta di addentrarci nella definizione della norma come proposizione ipotetica Kelsen ci fa capire che non è bastato precedentemente depurare la conoscenza per cogliere il diritto nella sua forma perché ora l'operazione della depurazione si ripropone ed è ancora necessaria e, questa volta, l'operazione è riferita all'aspetto centrale di ogni definizione positivistica del diritto cioè, appunto, al dover essere. Il dover essere che noi osserviamo dentro questa norma che è un'ipotesi "se x allora y" è, chiaramente, un dover essere depurato perché un dover essere che non ha alcun collegamento né con gli elementi naturalistici né con gli elementi ideologici, così come la conoscenza doveva essere depurata nel senso che lo sguardo del giurista non si doveva far contaminare anzi doveva tagliare tutti i collegamenti con gli aspetti che avevano a che fare con la natura e i nessi di causalità, per altro con le politiche del diritto cioè l'ideologia, cioè l'atteggiamento in sé legittimo ma per Kelsen non scientifico di non definire il diritto ma di affermare e teorizzare come il diritto dovrebbe essere. Nell'atteggiamento ideologico prevale l'aspetto della normatività cioè del valore (definizione di ciò che io vorrei come soggetto che quell'oggetto fosse) sull'aspetto della validità cioè della mera esistenza. Questo dover essere che Kelsen ci ha proposto è depurato perché, appunto, nonostante il paragone parallelo- sintattico, non è più un dover essere che descrive delle relazioni di necessità perché descrive delle relazioni normative cioè artificiali, quelle che ci sono tra la reazione dell'ordinamento e il fatto dedotto in condizione dentro l'apposizione ipotetica che noi chiamiamo illecito (qualificato come tale). Il concetto di illecito è anch'esso depurato perché non è il fatto che accade ma è il fatto definito, qualificato e, quindi, dotato di quel significato oggettivo che secondo Kelsen è la qualificazione. La qualificazione è il conferimento di un significato oggettivo ad un fatto sociale, privo di significati soggettivi che sono individuali o divisi ma sono relativi, e il fatto che è qualificato si dota di un significato oggettivo che è quello che linguisticamente la norma esprime. Questo dover essere che Kelsen ha difeso è depurato dall'ideologia perché non esprime alcun tipo di collegamento con la morale, ha una forma diversa la norma giuridica da quella morale Il III capitolo è una difesa forte e formalistica del dover essere che è categoria centrale cioè la doverosità di quel nesso che è, deve essere, tra la reazione dell'ordinamento è l'illecito. Ne "La negazione del dover essere" ci rendiamo conto che Kelsen si confronta con delle posizione teoriche che sono prevalenti a quel momento quelle dei realisti, un fenomeno americano. (gli europei guardano ai realisti come dei grandi provocatori cioè giuristi che intendono andar contro alla tradizione mettendo tanti elementi molto interessanti in gioco ma poco dotati di rigore metodologico e serietà scientifica). Il realismo ne coglie la tesi teoricamente più forte cioè non si dilunga. Secondo Kelsen i giusrealisti sono dei giuristi che convergono sulla tesi della negazione del dover essere cioè tutti i realisti ascrivono al dover essere, come categoria, un carattere ideologico perché secondo i realisti il diritto non esiste in quanto prodotto di un'autorità politica che è legittimata a produrlo (non è la norma); la categoria del dover essere, sui cui si è edificato il positivismo giuridico, quando Kelsen si confronta col realismo non lo fa con un momento teorico che intende attaccare ma si erge a difesa del positivismo perché i realisti polemizzano nei riguardi di quello che definiscono formalismo giuridico (versione ottocentesca del positivismo = diritto è norma scritta del legislatore cioè il codice) ma attaccano, in realtà, tutto il positivismo nel momento in cui affermano che il dover essere è un'espressione di carattere ideologico perché il diritto non sta, secondo i realisti, nelle norme di carta ma sta nelle norme reali e concrete, queste sono delle regole che assumono il carattere della giuridicità (esistono) quando sono seguite dai consociati ma soprattutto sono vere regole quando emergono dalla iurisdictio (quando sono i giudici, tribunali a porre e seguire quella regola). Il realismo sposta la dimensione della giuridicità da un aspetto artificiale, ideale, legato comunque ad un atto che è, appunto, la deliberazione politica e posizione della norma, ad un aspetto tutto concreto, reale e sociale, soprattutto dinamico. Kelsen sintetizza dicendo "i realisti negano il dover essere perché collocano il diritto sul piano dell'essere" = il diritto non sta nella sua artificiale doverosità ma in ciò che è, nel senso che esiste, il diritto che esiste è quello efficace non quello valido. In questo cogliamo due aspetti: i realisti sono una provocazione nei riguardi del positivismo, Kelsen si confronta con loro a nome del positivismo e non coglie come diretta espressamente a lui quella critica poiché si rivolge ampiamente al positivismo. Kelsen si ritrova nella posizione di difendere il dover essere ma il suo (non ha intenzione di difendere il dover essere della dottrina giuridica tradizionale). morale?" fin quando, nel 1907 (anno della Riduzione) egli ne scrive; la filosofia del diritto, quindi, per 2 secoli si è dibattuta all'interno di questo problema, perché tutti questi autori, che si possono definire filosofi del diritto, hanno cercato di isolare, definire e catalogare elementi e caratteri differenziali che i filosofi hanno cercato di usare per cercare di separare il diritto dalla morale senza riuscirci poiché si sono rivelati sempre delle formule (Croce in tutto il primo capitolo si occupa di demolirli). La filosofia riguarda il pensiero con rigore concettuale. Croce nella seconda parte darà la sua versione: una soluzione complessa, per Croce il diritto si distingue dalla morale perché il diritto è attività economica cioè il diritto (non lo definisce come norma) è un'attività ed azione. I due testi si collocano in una posizione di giuridicità completamente diversa: Kelsen sta sul piano della forma e Croce su quello dell'azione dell'individuo e il diritto è regola che guida l'azione dell'individuo, quest'attività (che l'attività giuridica è) è un fatto per Croce, questo fatto considerato filosoficamente è un fatto economico. La distinzione non è, quindi, separazione tra diritto e morale e questo costituisce il grande merito e il grosso limite della filosofia del diritto: aver colto il profilo della distinzione tra diritto e morale, secondo Croce, è il merito assoluto della filosofia del diritto ma non averlo saputo risolvere è il limite di tale filosofia. La soluzione non veniva in quanto la domanda era formulata male, più concentrata sulla ricerca delle differenze piuttosto che su un'indagine vera e rigorosa che riguardasse le somiglianze, la soluzione che Croce offre muove proprio dalla similitudine fra attività giuridica e morale: in questa Croce trova la strada. Il demerito o limite della filosofia del diritto dura 2 secoli, che da C. Tomasio in avanti erano stati di domanda della questione di cosa differenziasse il diritto dalla morale. La natura comune dell'attività giuridica e morale è pratica: il diritto e alla morale appartengono alla filosofia della pratica. Il titolo del testo "la negazione della filosofia del diritto a filosofia dell'economia" è forviante perché non c'è negazione della filosofia del diritto come disciplina cioè Croce vuole dire che senza la filosofia del diritto quel problema non sarebbe mai stato colto, essa nasce perché coglie quel problema e quei tentativi girano comunque intorno a un problema vero, ma per Croce è negata l'autonomia dell'attività giuridica perché non ha una sua natura, sotto il profilo concettuale e filosofico, autonoma rispetto all'attività morale, per un verso condivide degli aspetti con l'attività morale (sono entrambe pratiche) ma la cosa fondamentale è che nell'ambito delle partizioni dello spirito pratico che, secondo Croce, sono economica ed etica, l'attività giuridica non ha uno spazio autonomo ma deve ridursi all'uno o all'altro. Croce opta per la riduzione del diritto all'economia: ciò che distingue il diritto dalla morale è il fatto che, in quanto entrambe attività pratiche, il diritto come attività si orienta nell'orizzonte dell'utile cioè l'azione dell'individuo rivolta al conseguimento dell'utile: è questa la definizione dell'attività economica. Il diritto è in sé economia, l'attività giuridica è in sé attività economica, il fatto giuridico in sé è fatto economico. L'attività giuridica, che è sempre economica, è sempre soggetta al giudizio morale (doppio aspetto del problema pratico): un'attività morale ha sempre come presupposto un'attività che in sé è economica, ma non si può dire il contrario cioè per definire l'attività economica non ho bisogno della morale perché è presupposta all'attività morale. ricevimento del 24-11-2020 Fra il lavoro di Kelsen e quello di Croce vi è un comune problema dell'autonomia del diritto rispetto alla morale, è certamente un punto di vista in una prospettiva che condividono Croce e Kelsen. Entrambi, nell'ambito di quelli che sono i percorsi e i riferimenti in termini filosofici e metodologici distinti, intendono affermare le ragioni per definire il diritto come un oggetto diverso dalla morale. Con il linguaggio rigoroso di Kelsen la definizione del diritto come qualcosa di separato dalla morale, in Kelsen c'è questa esigenza della separazione fra diritto e morale che è difficile per il carattere normativo che riguarda diritto e morale ma anche per il carattere umano e sociale delle scienze che studiano diritto e morale. Secondo Kelsen dobbiamo separare il diritto dalla morale perché dobbiamo cogliere gli elementi che separano e tengono il diritto in una condizione di autonomia rispetto alla morale. L'impostazione del problema, in Croce, è più complessa, certamente perché è il prodotto di un orizzonte filosofico definito, molte cose, in questo testo, le comprendiamo capendo il quadro filosofico in cui Croce si sta muovendo: il problema che Kelsen definisce della "separazione" tra diritto e morale, in Croce diventa quello della "distinzione" di tali. Quella difficoltà, già vista in Kelsen, nel tenere separati diritto e morale in Croce diviene esplicita cioè il fatto che diritto e morale non siano la stessa, è in primo piano. In questi termini, questa forma verbale dalla quale discende la categoria della distinzione diventano centrali per capire come in Croce il tema di diritto e morale diventi uno strumento, in qualche modo, per fare chiarezza sugli ambiti e sulle partizioni dell'agire pratico perché diritto e morale sono entrambe attività pratiche, e però, considerarle entrambe come attività pratiche crea dei problemi al quadro crociano perché, per Croce, le attività pratiche sono, esclusivamente, cioè le pattuzioni dell'agire pratico sono economica ed etica (cioè la morale). Se noi raffrontiamo questi due dati: per un verso diritto e morale sono i distinti cioè da distinguersi e dal punto di vista concettuale dei distinti, per altro verso se li consideriamo come attività pratica c'è qualcosa che non torna poiché per Croce l'attività pratica o è economica o etica. Il problema allora è che posto ha il diritto? (cioè l'attività giuridica). La soluzione che Croce darà al che cos'è l'attività giuridica ha strettamente a che fare con la necessità di trovare un posto all'attività giuridica tra quelle due pattuizioni che costituiscono il sistema della pratica. La domanda cosa distingue il diritto dalla morale? tiene banco in tutto il primo capitolo dell'opera e diventa un'altra domanda nel secondo. Nel primo capitolo Croce affronta la tematica del che, se c'è, cosa distingua il diritto dalla morale, ci sono o no degli elementi distintivi del diritto e della morale? Come possono essere individuati? Hanno ragione coloro i quali, da Thomasius in avanti, colgono il problema della distinzione come problema di elementi differenziali che il diritto avrebbe rispetto alla morale? La risposta è no: tutti questi tentativi vanno considerati come lodevoli nella misura in cui esprimono la consapevolezza che la filosofia del diritto ha rispetto al problema, la filosofia del diritto legge il problema e si va a definire in base ad esso. Socrate, Platone, Aristotele e i grandi padri della patristica medievale e poi della prima età moderna, ad es. Tommaso d'Aquino, si sono occupati della natura dell'attività giuridica e del diritto ma nell'idea di Croce non erano ancora filosofi del diritto. Tutti i quali, prima di Thomasius ed età illuminista, rispetto al modo in cui Thomasius imposta la questione, si sono occupati del diritto e di mettere in una qualche forma i rapporti fra diritto e morale ma sono caduti sempre in riduzione cioè talvolta costoro sono caduti in una riduzione del diritto alla morale, in altri casi hanno fatto l'operazione inversa: hanno ritenuto che la morale fosse infondo nient'altro che una norma di diritto positivo. Nel primo caso, considerando la riduzione del diritto alla morale si parla di giusnaturalismo. Per Kelsen il giusnaturalismo non è altro che la forma storica che può essere tradizionale (conservatore) o rivoluzionario (che assume un atteggiamento valutativo), ed è una teoria del diritto, che scienza del diritto non è poiché rinuncia a descrivere e si limita a valutare: il diritto è valido quando è giusto, i profili di questa giustizia si ancorano in alcuni casi ad un aspetto che è possibile trarre dall'ordinamento vigente (giusnaturalismo conservatore "il diritto posto dal legislatore è per ciò stesso giusto") ed in altri casi mette in contrapposizione il dritto reale con il diritto ideale e fa del diritto ideale una sorta di leva che deve essere sempre in grado di trasformare e pensare a delle riforme del diritto vigente (illuminismo, nel nome dei diritti naturali gli ordinamenti degli stati-nazione monarchici sono gettati via perché sono detti ordinamenti ingiusti nella misura in cui non sono in grado di riconoscere i diritti innati dell'individuo). C'è una contrapposizione tra il giusnaturalismo naturalistico dell'illuminismo tra i diritti naturali che sono innati e parte integrante del nostro venire ad esistenza con il diritto reale cioè quello vigente. Anche Croce non reputa degno neanche di essere nominato i giusnaturalismo, non nomina questa tradizione plurimillenaria, perché ritiene che non sia altro che uno dei due riduzionismi: nel caso di specie una riduzione del diritto alla morale cioè quella tendenza a ritenere valido quel diritto anche giusto. N.B. Stiamo considerando la storia che viene prima di Thomasius, perché da Thomasius in avanti per Croce si legge quel problema non ricorrendo più a questa doppia forma di riduzionismo, questo problema si legge come quello della distinzione tra diritto e morale e comincia la filosofia del diritto. In altri termini, per Croce la filosofia del diritto non è nient'altro che la domanda su diritto e morale cioè la distinzione, il primo che la pone in maniera expressis verbis, Christian Thomasius, è il primo filosofo del diritto, tutto ciò che viene prima è un intendere, in termini di polarità, diritto e morale ma questi poli a volte precipitano l'uno sull'altro. Nella storia del pensiero secondo Croce c'è un'oscillazione: in qualche caso il diritto precipita ed è schiacciato sulla morale (tipica della tradizione giusnaturalistica), in altri casi è possibile rintracciare un'altra forma di riduzionismo che schiaccia e assorbe la morale nel diritto. Questo riduzionismo è il positivismo legalistico (o legalismo etico): questa riduzione della morale al diritto va a dire, a coloro i quali vi ricorrono, che la morale è quella che il legislatore detta cioè che il diritto posto è per ciò stesso giusto, è un diritto voluto dal sovrano e dal legislatore e, che come tale, è per ciò stesso giusto, questo riduzionismo non dà adito a nessuna forma di contestazione del diritto legale perché esso è anche giusto. Quindi dall'esterno mettere in questione, in nome della giustizia, questo diritto legale significa, per coloro i quali affermano questa tesi, fa saltare gli ordinamenti: mettere in questione il fatto stesso che il diritto ci sia. L'autore che più di ogni altro ha espresso in maniera chiara questa posizione è Thomas Hobbes. Hobbes viene a costruire le congiunzioni della società civile o politica, c'è un topus nella riflessione politica e giuridica della modernità fino ad Hegel cioè il contrattualismo. Tutti questi autori si interrogano su quali siano le condizioni in base alle quali un determinato ordinamento (società civile o politica) può costituirsi come legittimo sotto il profilo giuridico e giustificato sotto il profilo politico e ricorrono a questo schema che è il rapporto tra una società naturale e una società civile o politica. In altre parole ricorrono a questa narrazione, estremamente efficace a tal punto che tutti si collocheranno nel solco di questo espediente narrativo fino ad Hegel che uscirà fuori da questo contrattualismo e dirà "c'è una società naturale, c'è una società civile che è borghese nel senso in cui noi moderni la intendiamo e poi c'è lo Stato": il dualismo diventa una triade. Hobbes sta all'interno del paradigma contrattualistico, ci definisce una società naturale che è il luogo della paura, della guerra e dell'insicurezza, è la società senza il diritto poiché esistente prima di esso: esistono degli individui che sono in uno stato di natura ma non esiste (si tratta di un luogo dell'immaginazione, è un espediente). Quando, invece, Hobbes scrive questa cosa non ha in mente una società naturale, se non in un momento storico così lontano da essere un momento fondativo della società civile o politica: "esisteva un tempo in cui gli individui vivevano in una posizione naturale" cioè il potere non era organizzato e anche la società verticisticamente e questo, scrive Hobbes nel Lieviatano, un momento di insicurezza (si tratta di un'ipotesi logica), è una fase in cui l'essere umano aveva paura della morte e indifeso di fronte alla naturale e l'aspetto naturale che è il comportamento umano non regolato (lasciato come libera manifestazione dei propri istinti cioè libera perché costretta, ed è costretta perché libera, Croce ci sta dicendo che ogni azione individuale è un'azione che si esprime nelle circostanze date cioè che ha intorno a sé non vuoto. Se io dico che l'azione è libera perché manifestazione di una volontà assoluta sto ipotizzando una riduzione ma sappiamo che questo non è vero perché ciascuna nostra azione e affermazione della volontà avviene a partire dalle circostanze nelle quali ci troviamo e si iscrive dentro la possibilità che queste ci offro. La libertà è una libertà nelle circostanze date, l'azione è un'azione nelle circostanze date ma soprattutto l'azione non è priva di volontà o una volontà priva della sua decaduta in termini di azione perché azione e volontà sono un unicum, quando agisco agisco volendo e volendo non posso che agire. Quello che resta nella mia testa come volontà e che riguardano miei pensieri non levano, Croce ricorre ad una metafora politicamente scorretta e scrive che è come ipotizzare che è un'azione il desiderio di chi sta su una sedia a rotelle di potersi alzare, l'ha voluto ma non è un'azione poiché una volontà che non può tradursi come tale. La volizione è tutte e due le cose assieme: l'azione è volontà che si fa azione e l'azione non esiste senza volontà, nel primo caso Croce ci ha detto che la coazione ci deve spiegare un'ipotesi di adempimento in forza della norma, come opera che schiaccia la libertà dell'individuo non regge, perché io che adempio allora adempio e non perché mi piaccia adempiere necessariamente ma perché adempio nelle circostanze date e la norma è una delle circostanze nelle quali devo iscrivere la mia azione. Per altro verso l'adempimento è una libertà voluta e scissa, l'obiezione che, invece, Croce rivolge alla esteriorità è più semplice perché nel mondo della vita dello spirito, tutto ciò che ha a che fare con le azioni umane in cui c'è un inesplicabile intreccio tra quello che è interno ed esterno. Non è possibile distinguere e separare quello che sta fuori da quello che sta dentro, esteriore ed interiore sono categorie delle scienze fisiche, il fisico si occupa di geometria o fisica e può dire se una cosa è esteriore o interiore ma con le azioni questo discorso non si può fare perché non esiste una libertà che non sia anche volontà, non esiste un'azione non voluta e perché, per altro verso dal punto di vista giuridico secondo quanto scritto da Croce, non si è mai visto un diritto che vincoli solo i comportamenti (azioni esteriori) perché il diritto vincola anche le motivazioni e le ragioni degli esseri umani. ricevimento del 01-12-2020 Il Capo dei Naufragi (è il Capo Horn) e, conseguentemente, al capo per eccellenza dove tutte le navi finiscono per naufragare. Questa metafora è molto importante poiché dà avvio, in qualche modo, alla riflessione di Croce: essa è rivolta ai filosofi del diritto precedente che non sono riusciti a risolverle la distinzione tra diritto e morale. Questa prospettiva è l'idea di una relazione cioè diritto e morale non sono termini irrelati ma hanno una relazione e rappresentano ciascuno un distinto, entrambi appartengono ad una dimensione dell'esperienza pratica; per Croce si tratta di due termini antitetici poiché esperienza è il ruolo dell'empirico ed esso non può avere alcuna dignità filosofica mentre la pratica e la categoria dell'azione che ha dignità filosofica poiché è una partizione dello spirito o pensiero umano che si articola in due traiettorie: lo spirito teoretico e lo spirito pratico o della pratica, esso ci interessa poiché è quest'ambito che Croce sta esplorando nella Riduzione, esso è una delle chiavi interpretative di questo testo. Infatti Croce negli anni in cui sta scrivendo quest'opera ci consegna questa riflessione sul diritto e sulla natura dell'attività giuridica (la riduzione della filosofia del diritto a filosofia dell'economia). Il tema di questo intervento di Croce del 1907 è proprio questo: qual è la natura filosofica dell'attività giuridica? Cos'è? Potremmo dire anche fatto giuridico perché per Croce l'indagine sul diritto è su questa definizione del diritto come fatto, esperienza e cioè azione. Croce, da questo punto di vista, non intende definire il diritto formalisticamente (come, ad esempio, la norma come dimensione del comando generale ed astratto, essa sarà affrontata da Croce quando si occuperà del rapporto tra attività giuridica e legge) ma vuole capire che cos'è l'attività giuridica e si sentirà accompagnato dalla tradizione della filosofia del diritto iniziata da Tomasio. Tornando alla metafora del Capo Horn, questa filosofia del diritto, che intuisce per prima la domanda (Qual è la natura dell'attività giuridica) per due secoli (da quando Tomasio affronta la questione all'inizio del '700 nell'opera di distinzione di diritto e morale dal costume) non è riuscita a dare una risposta a quella domanda cioè ha posto una domanda alla quale non è riuscita a dare risposta. Diritto e morale è il Capo Horn della filosofia del diritto perché è il capo in cui la filosofia naufraga poiché ogni volta che la filosofia si pone il problema della distinzione fra diritto e morale entra in contraddizione. C'è l'aspetto del problema del riconoscimento che Croce va a tributare alla filosofia del diritto che è quella domanda e non la perde mai di vista, prima di averla formulata non è filosofia del diritto perché c'erano i riduzionismi del diritto alla morale o la morale al diritto; quando arriva a formularsi quella domanda nascendo la filosofia del diritto nasce anche un'ossessione: quella di dirigersi verso un promontorio che è talmente tanto battuto da venti e tempestoso che fa naufragare la propria nave. Quella metafora è ricca di significati poiché definisce il merito e i limiti della filosofia del diritto nel porsi la questione della distinzione fra diritto e morale. Nell'opera di Christian Thomasius (1704-1705) per la prima volta la natura dell'attività giuridica viene affidata alla questione della distinzione tra diritto e morale. La riflessione di Thomasius, sulla distinzione tra diritto e morale, ha un suo quadro di riferimento: il trattato di Thomasius, riconosciuto dagli studi successivi come di natura preilluministica poiché ne anticipa una serie di tematiche riferite al diritto e alla sua definizione, resta dentro un quadro che è giusnaturalistico perché quella fase è di riflessione (a partire dal '500) e porta rendere autonomo il diritto. In altre parole si ponevano le basi per una considerazione del diritto come comando del legislatore, diritto reale e storico. Thomasius è in un momento più avanzato di questo lungo percorso e siamo all'alba del sorgere dell'illuminismo, infatti, egli ha influenza ed idee del maestro Kant; il quadro in cui si sta muovendo Thomasius è quello della domanda (o di ricerca e definizione) dei canoni grazie ai quali un ordinamento possa dirsi giusto. Naturalmente egli è già consapevole di ciò ed è per questo che rivisita un'articolazione già posta da Cicerone, egli ritiene che quando parliamo di sistemi (di obblighi) c'è almeno da distinguere 3 sistemi prescrittivi introdotti dal suddetto Cicerone: iustum, honestum e decorum anche se, in realtà, rispetto allo iustum, l'honestum e il decorum finivano per incontrarsi. Thomasius recupera questa articolazione cioè queste 3 dimensioni dell'obbligatorietà e prescrittività con radici classiche, sono 3 dimensioni prescrittive che rispondono a diverse massime e che, di conseguenza, hanno diverse caratteristiche: 1. l'honestum è la dimensione della morale "Fai a te stesso ciò che vorresti che gli altri facessero a sé stessi". 2. il decorum è la dimensione del costume cioè quella che noi oggi definiamo la norma sociale, serie di norme che sono regole della società ma mancano di quel grado di istituzionalizzazione e legittimazione che fa sì che una norma non sia più sociale ma diventi giuridica "Fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te" c'è una dimensione di reciprocità perché io so che se faccio una cosa a te posso aspettarmi che la stessa cosa tu faccia a me. Queste due prime dimensioni hanno una sintassi positiva cioè sono degli imperativi, una sintassi che ha valenza negativa la troviamo nella dimensione dello iustum. 3. lo iustum "Non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te" c'è una dimensione di relazione tra quello che posso fare e quello che vorrei che gli altri facciano a me, Thomasius dirà che c'è l'esteriorità o eteronomia e per altro verso c'è la dimensione del proibito o vietato (non fare) e quest'ultima risponde alla parola che Thomasius indicherà col termine coattività. Gli elementi di interesse che a Croce derivano dalla posizione di Thomasius riguardano l'aver indicato, o comunque l'essersi cimentato con questa necessità, elementi distintivi capaci di poter, in maniera certa e chiara, far comprendere che l'obbligo giuridico è distinto perché non è un'altra cosa rispetto all'obbligo morale ma se ne distingue (quid differenziale) per la coazione e l'esteriorità. Che cosa significa per Thomasius che il diritto ha come elemento la coazione come suo elemento caratteristico? Questo comando è coattivo perché munito di sanzione: va rispettato e adempiuto sotto minaccia, dirà poi Croce, della sanzione. Per Thomasius l'obbligo giuridico è un obbligo coattivo poiché assistito da una coazione. A pag.14 Croce dirà che se si esamina il contenuto del concetto di coazione si vede che esso è posto, di solito, come un concetto a fatto empirico ossia come una rappresentazione generale, intendendosi per coazione certi modi d'azione a differenza di certi altri cioè il modo del mettere in carcere il ladro, espropriare il debitore insolvente, e questo modo di azione (reagire con la forza) è diverso dalla persuasione che è un modo di azione che ha a che fare con l'argomento della parola e il convincimento retorico. Secondo Croce quando devo capire che cosa significa la coazione in Thomasius mi trovo davanti a un qualcosa che è empirico perché ha certi modi dell'azione che si distinguono, ma in concetti empirici stanno bene nelle scienze empiriche cioè non sono idonei a rappresentare i riferimenti a cui ci si può appellare per costruire un sistema filosofico poiché i concetti empirici possono esserci e non, si possono dare e non. Croce inanella altre obiezioni una dopo l'altra: la coazione (concetto empirico), pur ammettendo che possa essere un elemento distintivo del diritto, in ogni caso non spiegherebbe tutto il diritto cioè il fenomeno diritto perché non spiega l'attività legislatrice e allora perché? Perché io posso spiegare l'obbedienza al diritto attraverso la coazione ma non posso spiegare l'attività della legislazione attraverso la coazione (cioè il legislatore non è costretto a legiferare) perché quest'attività è un atto di potere e come tale non è assimilabile ad un'attività costretto. Quindi è possibile intendere il termine coazione in un significato che concettualmente sia solido? Per Croce il concetto di coazione, sotto un punto di vista filosofico, va individuato nella pressione psicologica cioè una forza che esercita una pressione su un'altra forza: la volontà del legislatore esercita una pressione psicologica sulla volontà del singolo consociato o destinatario, il quale adempie per non incorrere nella sanzioni, quindi, per paura. Si ricade nel campo della morale, in quanto pressione psicologica, poiché anche l'obbligo morale esercita una pressione psicologica sulla coscienza e quindi non è un elemento distintivo fra diritto e morale (la coazione). Croce ci introduce il brocardo "Coactus tamen voluit / Coacti tamen volut" che contiene in sé quella che è la definizione di volizione, quindi la volizione è l'azione e non c'è azione che non sia volizione (non c'è volontà che sia volizione): il termine volizione implica questo aspetto del reciproco coesistere nella libertà dell'individuo della volontà e della sua azione cioè dell'aspetto dell'intenzione dei motivi e quello della concretizzazione in un'azione di quelle intenzioni di quei motivi. Secondo Croce non esistono intenzioni, motivi, ragioni che sono preesistenti all'azione cioè si concretizzano sempre in un'azione e l'azione stessa non è pensabile al di fuori delle motivazioni che l'hanno posta, quindi, ci dice che da questo punto di vista l'idea della coazione come pressione psicologica dal punto di vista filosofico non è accettabile perché porrebbe con sé la conseguenza in base alla quale esisterebbe un'azione, nel caso di specie l'azione del destinatario, che si svolge senza essere voluta cioè come pura passività e piegarsi ad una forza più forte. L'esteriorità, in Thomasius, accomuna l'obbligo giuridico ad un costume e non all'obbligo morale (perché l'obbligo giuridico vincola i comportamenti mentre quello morale vincola la coscienza).
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