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Hollywood-Vietnam. La guerra del Vietnam nel cinema americano: mito e realtà, Tesi di laurea di Relazioni Internazionali

Lo scopo di questa tesi è di analizzare in quale modo e perché l’industria cinematografica americana ha potuto dimostrare volontariamente, o no, la guerra del Vietnam deformando, quando giudicato necessario, la realtà fino a creare un mito attorno al conflitto.

Tipologia: Tesi di laurea

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Scarica Hollywood-Vietnam. La guerra del Vietnam nel cinema americano: mito e realtà e più Tesi di laurea in PDF di Relazioni Internazionali solo su Docsity! 2016 Sotto la direzione di V.Coralluzzo Professore di Analisi della Politica Estera Sacha Martinel HOLLYWOOD-VIETNAM La guerra del Vietnam nel cinema americano: Mito e Realtà TESI DI LAUREA 2 SOMMARIO Introduzione..............................................................................................................................................................3 I- Gli anni sessanta: tra silenzio e contestazione…...…………………………………..……………8 1.1 L’era «pre-Vietnam war films»: un periodo di silenzio collettivo …………………………………………………8 1.1.1 Le cause del silenzio 8 1.1.2 Le strategie d’aggiramento 11 1.1.3 L’eccezione: The Green Berets 14 1.2 La contestazione allo schermo: il ruolo dell’opinione pubblica americana…………………………………….16 1.2.1 La rivolta dei campus: la contro-narrativa degli studenti 17 1.2.2 Il film metafora, o la realtà del Vietnam nascosta dietro altri temi 20 II- Gli anni settanta: dire l’indicibile………...….………………………..……………......………..23 2.1 Inizio del decennio: il «Nuovo Hollywood» cerca la propria strada……………………………………………..23 2.1.1 Il nuovo filone cinematografico di Hollywood 24 2.1.2 « The Vietnam experience » e la preoccupazione fondamentale del realismo 27 2.2 1975, fine della guerra: Hollywood accoglie i vets………………………………………………………………...30 2.2.1 Il ruolo del cinema nel ritorno dal Vietnam 30 2.2.2 I molteplici volti del vet fabbricati dall’industria cinematografica 33 2.3 1978-1980 l’ondata del ritorno dei Vietnam War Films…………………………………………………………...35 2.3.1 La «Post Traumatic Syndrome»: la svolta che rompe il silenzio della Casabianca 36 2.3.2 Due film rilevanti: Il cacciatore e Apocalypse Now 38 III- Gli anni ottanta: periodo d’oro, realismo e interpretazioni………………………...………….43 3.1 Un nuovo approccio del realismo a Hollywood……………………………………………………………………..44 3.1.1 “Platoon: testo fondamentale della guerra del Vietnam” 44 3.1.2 Il corrente pseudo-documentario 48 3.2 Le fonti di ispirazione del decennio …………………….…………………………………………………………….51 3.2.1 Ristrutturazione dell’immagine dell’esercito americano 51 3.2.2 I «POW Movies» e «MIA Movies» 53 3.3 Il recupero della figura del vet………………………………………………………………………………………...55 3.3.1 Un veterano alle innumerevoli sfaccettature 56 3.3.2 Il disinteresse rivelatore per i veterani più realisti 59 Conclusione………………...………………………………………………………………………………...…...62 Allegato……………………………………………………………………………...……………………………64 Bibliografia……………………………………………………………………………………………………….70 5 rilevante nella percezione degli eventi, anche di natura storica. La guerra del Vietnam appare come un incidente di percorso nella storia americana -anche se le manifestazioni pacifiche non hanno ovviamente scomparso- e nel suo proseguimento ideologico e politico. Ad esempio, si può dire che lo scoppio come lo svolgimento del Vietnam si iscrivono nella stirpe ideologica della guerra di Corea, ma anche di quella della Seconda Guerra mondiale, e molto prima, nella storia di guerre indiane: unirsi per il bene comune, come consigliato da Jefferson nel 1801 nel suo discorso inaugurale. Per andare oltre, si può aggiungere che nel corso dei secoli, il senso acuto dell’ eccezionalismo9 dell’America e la fusione tra lo spirito calvinista dei Padri Pellegrini insieme all’aspirazione all’universalità dei Padri Fondatori abbiano creato una filosofia politica specifica e coerente fondata su miti unificatori10 profondamente integrati nella cultura americana, a tal punto che numerosi Americani stimino che gli altri popoli del pianeta aspirerebbero unicamente a divenire americani. Se la disfatta degli Stati Uniti al Vietnam può essere considerata come centrale all’esperienza americana, e se le cause della guerra del Vietnam hanno radici profonde nella storia dell’America, è dunque ovvio che le problematiche ad essa associata -come la realtà del Vietnam stesso- possano essere concettualizzate e analizzate unicamente in una prospettiva americana. Effettivamente, si è parlato molto di “Vietnam Generation”, una generazione profondamente segnata da una guerra che ha intensamente diviso gli Stati Uniti, o ancora del “Vietnam Syndrome” che fa ormai parte della cultura americana. Il “Vietnam Syndrome” e le sue rappresentazioni non rinviano al Vietnam, ma essenzialmente alle lesioni subite dall’America stessa. Lontano dai combattimenti e dalla guerra stessa i film dell’epoca trattano costantemente e prima di tutto degli Stati Uniti, attraverso le famiglie, i gruppi sociali, i grunts e i vets. Amor proprio ferito, innocenza persa. Si ricorda la frase di Frances Fitzgerald in Fire in the Lake11: “una guerra di bianchi fatta dai neri, una guerra di ricchi fatta dai poveri, una guerra di vecchi fatta dai giovani.” Si capiscono allora meglio le implicazioni del termine “Vietnam”. In questo caso, indica l’ideologia che filtra attraverso il linguaggio. In effetti, mentre “Indocina” significava la sottomissione del paese all’influenza francese, “Vietnam” designa il controllo americano, la possessione americana. A loro volta, i grunts (soldati 9 L’“eccezionalismo americano” è una teoria politica e filosofica secondo la quale gli Stati Uniti occupano un posto speciale tramite le nazioni nel mondo in termine di sentimento nazionale, evoluzione storica, istituzioni politiche e religiose, e perché il paese è stato costruito da immigrati. Si parla allora di un popolo eccezionale, una missione eccezionale, un destino eccezionale. Secondo Gaëtan Moreau, L’« exceptionnalisme » de la politique étrangère américaine, UPMF, 2012. 10 Ad esempio il « destino manifesto » o la « città sulla collina » 11 Frances Fitzgerald, Fire in the Lake : The Vietnamese and the Americans in Vietnam, 1972. 6 semplici) e i vets (veterani) esprimeranno sotto il termine di « Nam » la loro appropriazione del paese che al di là di tutta geografia prenderà delle dimensioni mitiche: quelle del combattimento, dell’innocenza persa, delle sofferenze dell’anima aggiunte alle ferite fisiche. Come lo sottolinea Muse12 “Vietnam è un’invenzione americana (…) una scorciatoia stenografica pratica per chiamare un paesaggio che esiste soprattutto nella fantasia e la memoria americana.” Questo è il nocciolo del problema: il Vietnam è alla guerra ciò che Hollywood può essere per il cinema: una mentalità. Per l’Americano medio degli anni sessanta e settanta, questo fu una ricostruzione, un immaginario elaborato a partire di discorsi e di immagini. È questa constatazione che mi ha dato la voglia di abbordare lo svolgimento e le implicazioni della guerra e della politica americane attraverso le loro rappresentazioni cinematografiche. Tenendo conto del fatto che queste rappresentazioni ci rinviano all’immagine e non alla guerra stessa, ma all’America in guerra, poi all’America in lutto, prima di ritrovare l’America in gloria. Si deve anche tenere conto del fatto che a causa dell’attualità televisiva quotidiana e dell’immagine costantemente evocata dagli scrittori di questa generazione (John Wayne, Iwo Jima…), la guerra del Vietnam è stata spesso percepita come un film. Questa mediatizzazione ha dato una sensazione d’immediatezza che, e nostro argomento ne è un esempio ottimo, ha giocato un ruolo importante in questa guerra. Ecco perché si è potuto parlare riguardo al Vietnam di guerra « presente », e non solo sugli schermi televisivi. Al di là del fascino che la guerra esercita, la cosa più rilevante sarebbe allora la percezione più che la realtà del combattimento. Per questo, vedremo che il cinema è un mezzo incomparabile. Già nel 1972 Marc Ferro scriveva : “paradossalmente sono solo i film sul passato, le ricostruzioni storiche, che sono incapaci di oltrepassare la testimonianza sul presente.”13 In una certa misura, il processo è lo stesso per quanto riguarda i film sul Vietnam: senza pretendere necessariamente essere delle ricostruzioni storiche erudite, hanno praticamente tutti visto la luce dopo il conflitto. Ed è precisamente in questo recesso, in questo divario tra l’oggetto e l’occhio che lo guarda, che si manifestano i mutamenti dell’ideologia. Perché se il film può essere considerato come documento, ci si dimentica spesso che la finzione cinematografica è, anch’essa, fondamentalmente una costruzione, una regia. Sorlin nel 1977: “Il nucleo del film è di trasformare, di distorcere l’evento del contesto immediato. (…) Ciò che troviamo al cinema è una proiezione, una presentazione costruita, il contrario di 12 Eben J. Muse, The Land of Nam : The Vietnam War in American Film, The Scarecrow Press, Inc. Lanham, Md., & London, 1995, p.10. 13 Marco Ferro, Cinéma et Histoire, Paris, Gallimard, Folio Histoire, 1993, pp.61,74. 7 un’immagine ingenua. Il film rappresenta il mondo e, così, è uno dei luoghi in cui l’ideologia prende forma.”14 Di conseguenza, lo scopo di questa tesi è di fare emergere gli strati ideologici che vengono usati nei film, in relazione diretta o indiretta alla guerra, per sboccare in una valutazione della situazione americana, considerando che la rappresentazione della guerra serve molto spesso (quando ha avuto luogo, non avviene sempre) solo di filtro o di pretesto. Per questo, analizzeremo in quale modo e perché l’industria cinematografica americana ha potuto dimostrare volontariamente, o no, la guerra del Vietnam deformando, quando giudicato necessario, la realtà fino a creare un mito attorno al conflitto. Il mio approccio sarà duplice. Infatti, ho scelto di congiungere cronologia e tematica, perché un ritaglio cronologico aiuta a distinguere delle tappe o dei temi modulati a secondo delle dominanze di ciascun decennio. Per questo, partiremo dal silenzio degli anni sessanta per arrivare al decennio complesso degli anni settanta, fino al revisionismo degli anni ottanta. Tuttavia, una produzione artistica non si staglia necessariamente seguendo la cronologia dei diversi decenni. Ecco perché ho cercato di realizzare all’interno della cronologia una messa in prospettiva tematica mirando a mettere le grande orientazioni ideologiche dei film maggiori in rilievo. Questo mi ha permesso di disegnare dei temi specifici per ciascun periodo di tempo. Infine, ho provato a mantenere una certa flessibilità nell’elaborazione dei temi, dato che saranno presi in conto un buon numero di film, sono consapevole che ogni opera sia significativa e possa avere la sua propria analisi. 14 Pierre Sorlin, Sociologie du cinéma, Paris, Aubier, 1977, pp.295-296. 10 durante le ostilità”16. Secondo questa concezione, gli Stati Uniti sarebbero in una situazione difensiva, postati ingiustamente in una posizione di inferiorità psicologica in questa guerra, alla differenza delle precedenti. Non ci si «mostra» quando non ci si sente amato, condannato da un’opinione pubblica mondiale e nazionale sempre più ostile. Un altro punto di vista può essere considerato: l’importanza della sensazione di inferiorità si impone quando appare il sentimento di colpevolezza. Rimane adesso da riflettere sull’origine di quest’immaginario della valanga d’immagini americane a proposito del Vietnam. Si capisce infatti facilmente: le immagini televisive hanno sommerso tutto e hanno fatto di questa guerra un prodotto-spettacolo. La rappresentazione degli eventi ha largamente dominato la presentazione dei fatti. Questo nuovo «linguaggio» visivo, lontano da chiarire i posti in gioco del conflitto in corso, si sforza piuttosto di far fare tardi la lenta edificazione di una ragione critica. Contribuisce a rinforzare la confusione tra il mondo reale e l’immagine: l’ovvio è la cosa visibile. Col pretesto di «verità», il visivo funziona come un’operazione di destrutturazione mentale. Invece di servire a produrre delle immagini con la volontà di rappresentare una sensibile realtà, la cinepresa serve piuttosto a cambiare le dimensioni reali, geografiche (se il Vietnam cade, tutto il sud-est asiatico sarà portato via, secondo la famosa teoria del domino). Così si istituisce questa “derealizzazione” come ha giustamente osservato Paul Virilio17. Gli effetti di velocità creano un’altra forma di memoria collettiva. Nel pieno della guerra del Vietnam, con l’osservazione aerea e gli attacchi ad alta distanza, si opera la “derealizzazione” dell’arruolamento su vasta scala. Nel suo aereo, il guerriero diviene notevolmente impassibile alla vita sensibile, si trova in un altro tempo e sente altri suoni. Questa nuova dimensione, questi «Tempi Nuovi» (dopo i «Tempi Moderni»), Stanley Kubrick l’esprime magnificamente nel suo film 2001: A Space Odyssey al momento stesso dell’apice dell’intervento americano al Vietnam nel 1968.18 La forza di 2001 è di mostrare la meccanizzazione-derealizzazione del vivente, di mettere a confronto la nostra civilizzazione ad un’altra, e di ritrovare un’altra dimensione del tempo. La guerra del Vietnam ha dunque accelerato la costruzione di un immaginario di guerra. L’onnipresenza delle immagini del conflitto crea l’illusione contemporaneamente di una 16 Edward F. Dolan. Hollywood s’en va en guerre, Paris, Atlas, 1986, p.116. 17 Paul Virilo, Guerre et cinéma : logistique de la perception, Paris, Cahiers du Cinéma, 1991 ; L’espace critique, Paris, C.Bourgois, 1993. 18 Il film usce sugli schermi al momento della grande offensiva del Têt, il 1° febbraio 1968, condotta dalle truppe nord- vietnamite e dei maquis vietcongs contro le posizioni americane. Richard Nixon è eletto alla presidenza, e ci sono 536 000 soldati americani al Vietnam. 11 «divisione democratica» della disgrazia e di un consenso ideologico sui valori di una democrazia da difendere contro un «nemico invisibile». Entriamo in un'altra rappresentazione del mondo della guerra, «dematerializzata». Nel 1969 il film The Wild Bunch di Sam Peckinpah derealizza anche la morte per darle una visione quasi onirica. L’impatto delle pallottole e i fiumi di sangue filmati al primo piano, la caduta dei corpi dettagliata al rallentatore, i gridi, le detonazioni compongono una sinfonia visuale e sonora sul tema della violenza che può impadronirsi dell’essere umano. Contrariamente alle apparenze, il cinema americano ha dunque prodotto ben pochi film (detti di finzione) durante la guerra del Vietnam. Le cause principali del silenzio collettivo derivano, come abbiamo visto, dal «mito della valanga». 1.1.2. Le strategie d’aggiramento Nel 1975 Julian Smith chiede a Stanley Kramer, Elia Kazan e Samuel Fuller, tre registri americani: “Perché ci sono stati così pochi film sul Vietnam?”19 Tutti hanno risposto che l’argomento non era adattato : «Insensato, scandaloso e immorale» Kazan ha sottolineato. È ovvio che era difficile per i cineasti abbordare un filo poco redditizio e a proposito del quale non avevano ancora delle idee ben fissate. Va ricordato che fino al 1965 il conflitto era ancora più o meno riservato e che l’aiuto americano si presentava sotto forma di «consiglieri». I primi sbarchi massicci cominciano solo nel 1965 e il primo arruolamento pesante (la battaglia di la Drang) avrà luogo solo in ottobre. Ci vuole evidentemente almeno un anno affinché le reclute tornino nel proprio paese, e ancora di più affinché si scoprano i primi racconti autobiografici. Alcuni anni sarebbero quindi necessari affinché l’opinione pubblica si preoccupi degli eventi e cominci a reagire. Si capisce allora il silenzio quasi generale degli anni sessanta: si contava sul fatto che la presa di coscienza si facesse lentamente nel pubblico, e il momento della contestazione aperta non era ancora giunto. Per tale motivo, molti film sulla Seconda Guerra mondiale escono sugli schermi americani. Si constata infatti che a quell’epoca, il Secondo conflitto mondiale, instancabilmente filmato, possa fungere da divertimento, se no di diversivo. Così rielaborata, offre una 19 Julian Smith, Looking Away, Hollywood and Vietnam, New York, Charles Scribner’s Sons, 1975, p.11 12 rappresentazione sicura di una potenza militare incontestata. Così appariscono ad esempio Battle of the Bulge (Ken Annakin, 1965), Bridge at Remagen (John Guillermin, 1969), Where Eagles Dare (Brian G. Hutton, 1968), Patton (Franklin Schnaffner, 1970), o ancora Tora ! Tora ! Tora ! (Richard Fleischer, Toshio Masunda, Kinji Fukasuku, 1970). Tora ! Tora ! Tora ! non conosce il successo aspettato, probabilmente perché rappresenta lo spettacolo di una disfatta cocente nel momento in cui gli Stati Uniti non hanno bisogno di aggiungerlo alla loro disgrazia. Tuttavia, le altre opere, specialmente Patton, ottengono un successo che puo’ sorprendere mentre si immagina il paese intero immerso nell’incubo vietnamita. L’esperto della strategia americana Valantin scrive: “Questi film hanno tutti origine dalla rappresentazione della Seconda Guerra mondiale come una «buona guerra», giusta, condotta con eroismo nel Pacifico contro un imperialismo battagliero e antidemocratico, e in Europa contro la forma moderna del male che è il nazismo.”20 Da ciò si deduce il concetto del « complesso militaro-cinematografico » che ingloba un corpus di film nati negli anni sessanta la cui realizzazione estremamente ambiziosa in termini di mezzi tecnici richiede necessariamente l’aiuto del Pentagono. Secondo Valantin, il film prodotto da Darryl F. Zanuck nel 1962, The Longest Day, avvia gli ingranaggi del complesso. Da una parte, costituisce l’esito esemplare dalla preoccupazione di ricostruzione realista che caratterizza i film di guerra. Dall’altra parte, a causa dell’ampiezza dei mezzi usati, inaugura una serie di film che associano la storia all’epopea, riguardo ad una guerra che beneficia di un consenso raramente messo in discussione. Se non è sicuro che militari e studios siano a tal punto complici, è in ogni caso fondamentale non dimenticare che la realtà della guerra in Vietnam non abbia occultato la linea conservatrice che ritrova le sue aspirazioni e i suoi valori in questo genere di film. Ecco perché, a partire dal 1958 entro la fine degli anni sessanta praticamente, i –pochi– film sul Vietnam assomigliano molto sia a quelli della Seconda Guerra mondiale, sia alla Guerra di Corea. Si può citare The Quiet American realizzato da Mankiewicz nel 1958, o ancora una volta A Yank in Vietnam (Comando in Viêt-nam in Italiano) di Marshall Thompson nel 1964, Operation C.I.A di Christian Nyby nel 1965, oppure To the Shores of Hell di Will Zens nel 1966. I film sono fatti sotto forme diverse come l’intreccio politico-diplomatico e di spionaggio (Operation C.I.A), oppure la rappresentazione dei combattimenti contro dei ribelli comunisti che ritengono 20 Jean-Michel Valantin, Hollywood, le Pentagone et Washington, Autrement, 2010, p.26 15 l’azione si prosegue al Vietnam dove Wayne (il Colonnello Kirby), in quanto «consigliatore militare» ha il compito di aiutare i Sud-Vietnamiti che hanno installato un forte sul bordo della frontiera cambogiana. Questo forte, dove sono ritirati i civili per l’operazione «Strategic Hamlets», sta per divenire il bersaglio del Vietcong, che lo sottomette ad un attacco massiccio. Finalmente gli Alleati avranno la meglio grazie all’aviazione che «pulisce» il terreno all’alba, ma a prezzo di numerose perdite. Dopo una transizione maldestra da “Le Club Sportif” (in francese nel testo) di Da Nang dove Kirby beve un bicchiere, l’azione riparte e il Colonnello è inviato in missione per rapire un militare nord-vietnamita di alto rango. La missione è un sucesso e Kirby recupera un bambino che si è attaccato ad uno dei soldati morti al combattimento. Si ritrova una volta di più il bambino mascotte, eco dei film della guerra di Corea, che diventerà senza dubbio un buono green Beret. Il simbolo è evidente: l’America protettrice è l’unica speranza per il futuro. Detto questo, non c’è tra i due episodi – l’allenamento a Fort Bragg e l’episodio vietnamita – nessun collegamento: questo avrebbe potuto essere oggetto di due film diversi. Si rimprovera a Kubrick lo stesso genere di rottura narrativa in Full Metal Jacket. The Green Berets trova tutta la sua coerenza nell’ideologia che veicola. È certamente facile di rimproverarlo le sue tendenze conservatrici ad un momento in cui l’America accresce infine la sua consapevolezza della realtà del dramma e della potenza del conflitto. Ma la coerenza è innegabile. Dall’inizio alla fine, il film intende essere una dimostrazione della legittimità della guerra e della fondatezza della collaborazione. Il giornalista del Chronicle, George Beckworth incarna questo punto. Ostile, se no contestatario all’inizio del film, finisce col dedicarsi alla causa: racconta la prodezza e le sofferenze degli Americani che lottano per la civiltà contro dei barbari. Si capisce allora che Wayne abbia utilizzato tutti gli stereotipi delle guerre precedenti e del western per fare il suo film. Michael Wayne è chiaro. Ammette perfettamente in un’intervista di Lawrence Suid che considera il film come una sorte di western: “Gli Americani sono i buoni, e il Vietcong è il cattivo. È semplice, tutto qui. Quando si fa un film, i cattivi sono gli Indiani.”22 Per tutte queste ragioni, il film ha ricevuto tantissime cattive critiche. Nel momento dell’uscita del film nel 1968, Renate Adler qualifica l’opera di “indicibile”, “stupida”, “marcia e falsa in ognuno dei suoi dettagli”.23 Ma qui sarebbe inutile indugiare sul divario tra il film e la realtà. Wayne si è semplicemente sbagliato di guerra. Aveva creduto leggere un’epopea 22 Intervista da Suid nella sua tesi « The Film Industry and the Vietnam War » p122. 23 The New York Times, 20 giugno 1968, p.49 16 quando invece si preparava una disfatta. Ironicamente, questa posizione ottimista e rassicurante ha contato molto per il successo del film. Permetteva, almeno durante il tempo della proiezione di assimilare una guerra atipica ai conflitti ben conosciuti e sempre controllati dagli Stati Uniti. Si capisce allora che il successo commerciale sia stato considerevole (più di 8 milioni di dollari in sei mesi per un costo di 6 millioni). Con To the Shores of Hell realizzato nel 1966 da Will Zens, The Green Berets è dunque l’unico film degli anni sessanta ad interessarsi da vicino alla guerra che infuria. L’ironia è che il film di Wayne ci parli di un’altra guerra, e che quello di Zens sia troppo maldestra per fare epoca (abborda una tematica déjà-vu a più riprese, quella di un prigioniero del Vietcong che venga recuperato a forza di elicotteri). Occorrerà aspettare 1978 e Go Tell the Spartans (Vittorie perdute, Ted Post) affinché la guerra si materializzi finalmente sugli schermi. 1.2 La contestazione allo schermo: il ruolo dell’opinione pubblica americana Tuttavia, si sa che la violenza, gli scontri e la rottura dei codici, sono i caratteri essenziali delle sixties, ed evidentemente si è voluto vi vedere l’influenza della violenza diretta della guerra. Infatti le cose sono più complesse. La violenza è sottolineata in modo avvincente dall’assassinio dei Kennedys, quelli di Malcom X e di Martin Luther King. Ma vi è la tendenza a dimenticare molto rapidamente che emerga a partire dagli anni cinquanta, con la repressione delle rivendicazioni della comunità nera nel Sud. L’accesso dei Neri alla cittadinanza nasce nel sangue e nel furore, e le attualità televisive ne sono i primi testimoni. È perfino grazie a loro che l’America media e ben pesante del Nord accrescerà la consapevolezza dell’odio che divide il Sud. Le altre rivendicazioni identitari (American Indian Movement, il femminismo sotto tutte le sue forme fino agli omossessuali con Stonewall nel 1969) si fanno anche loro nel tumulto e la violenza. La guerra del Vietnam, che occupa d'altronde una parte sempre più significativa nei giornali di sera, riversa le sue informazioni quotidiane, il che aggrava le manifestazioni sempre più violenti e lo spostamento d’aria contestatario che dilania il paese al punto di generare quello che si chiamerà civil war o war at home: l’idea di base è che il conflitto vietnamita contamina ed esacerba i conflitti interni. 17 1.2.1 La rivolta dei campus: ritorno alla realtà, volontà di realismo “L’intera questione con la bestialità nella guerra è che siano i più buoni che se ne rendono responsabili…È ACCETTABILE quando si tratta di qualcun altro, di qualcuno da un altro paese o da un altro tempo. Ma quando si tratta del spettatore, della sua epoca, del suo paese, delle sue tradizioni, della sua carne e del suo sangue, quando si tratta di casa sua, Santo Cielo, fa male, suscita del rancore. Quando non si guarda la violenza a distanza ma che la portiamo a casa, questo è la verità. Quello che è accaduto a My Lai non è notevole perché sono degli esseri umani che l’hanno fatto (chi potrebbe oltrepassare in brutalità i nazisti o l’esercito del Pakistan orientale?), neanche perché dei giovani americani l’hanno fatto (dopo tutto, abbiamo in questo paese una tradizione di violenza, di sadismo, e di crudeltà). È notevole perché questi ragazzi che sembravano così gentili, così familiari, come i figli del vicino, il marito della vostra sorella, come il tipo con chi avete guardato la partita domenica scorso, è notevole perché sono loro che l’hanno fatto.”24 Michel Ciment illustra bene, con l’esempio del massacro di civili vietnamiti perpetrato dai membri del G.I.25 il 16 marzo 1968 nel villaggio My Lai26, come si può spiegare la presa di coscienza dell’orrore del conflitto e la rivolta anti-Vietnam che si sono sviluppate in America in questi anni. In effetti, dopo l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy nel 1963 che ha segnato la fine dell’epoca d’oro americana e l’espansione di una contro-cultura in cui la contestazione contro la guerra del Vietnam era il motore principale, l’indignazione sollevata dal massacro è stata il punto di partenza di un grande scandalo internazionale. Il 20 novembre 1969 segna allora contemporaneamente la rivelazione del massacro My Lai al pubblico e in conseguenza uno dei principali movimenti contestatori del decennio. Per esempio, un altro grande movimento si è tenuto il 4 maggio 1970 sul campus dell’università di Kent in cui quattro studenti contestatori sono stati uccisi dalla guardia nazionale. Non solo gli studenti ma anche numerose personalità partecipano alla protesta in questi anni. A titolo di esempio, l’artista Neil Young, sconvolto 24 Michel Ciment, “entretien avec Elia Kazan”, Positif, 138, mai 1972. 25 Nome dato ai soldati dell’esercito americano. In referenza prima a « Galvanized Iron », e rapidamente a « Government Issue » e « General Infantry ». 26 Il massacro di Mỹ Lai è avvenuto il 16 marzo 1968 ed è stato perpetrato da soldati americani contro diverse centinaia di civili vietnamiti, fra cui molte donne e bambini. Il massacro è stato nascosto dall’esercito americano e svelato solo un anno e mezza dopo in un reportage della rivista mensile americana Harper’s. Secondo The Guardian del 22 aprile 2015 « Vietnam 40 years on : how a communist victory gave way to capitalist corruption » (archivio), l’opinione pubblica crede che quel massacro sia unico ed un eccezione ma nel 2001 il giornalista Nick Turse ha trovato nelle US National Archives i dossier di un gruppo di ricerca segreto, il Vietnam War Crimes Working Group che mostrava che l’esercito americano aveva trovato elementi di prova relativi a più di 300 massacri, omicidi, stupri o torture commessi da soldati americani. 20 rispetto alla produzione dell’epoca tenuto conto delle date ideologiche dell’epoca. Essi testimoniano di un considerevole sforzo di creatività necessitato dal fallimento degli studios e facilitato da un nuovo materiale più leggero e dunque più facilmente utilizzabile. Testimoniano anche della realtà della contestazione che non riguarda ancora direttamente la guerra, o non solo. Questa contestazione, anche sugli schermi, ha in sé una morale, una forma d’idealismo. 1.2.2 Il film metafora o la realtà del Vietnam nascosta dietro altri temi Sugli schermi, se la guerra è praticamente non rappresentata, si iscrive implicitamente nella maggior parte delle realizzazioni. Stora parla a giusto titolo di «trasposizione»30. Si può anche parlare di trasferimento o di film metafora. Più precisamente, la guerra trasparisce attraverso due tipi di film: quelli che parlano del Vietnam in modo indiretto o allegorico e quelli che contestano l’ordine interiore. Bisogna ciononostante ben capire anche che il pubblico non abbia particolarmente la voglia di vedere una guerra che si svolge già sul piccolo schermo e che, dal canto loro, gli studios, stimolati dal successo del Giorno più lungo, preferiscono dedicarsi alla rappresentazione della Seconda Guerra mondiale, sempre popolare e… data per scontato. Una nuova categoria di film si distingue allora: i film metafore. Sono dei film che non trattano esplicitamente del Vietnam, parlano di altri conflitti ma trasmettono dei riferimenti espliciti per gli spettatori31. Tranne The Green Berets, che ha lo scopo di rappresentare il conflitto, alcuni film dell’epoca hanno solo sfiorato il soggetto. È stato il caso del film dell’orrore The Night of the Living Dead (la notte dei morti viventi), realizzato nel 1969 da George A. Romero, in cui un gruppo di persone attaccato da un’invasione di zombi cercano di ricreare insieme il disordine causato dal conflitto e i movimenti antiguerra che lo circonda. Infatti, gli attacchi di zombi servono non solo di metafore per illustrare il combattimento terribile contro i Vietnamiti del Nord, ma anche l’aumento dei gruppi di protesta e della controcultura o tutto ciò che rappresentava una minaccia all’ordine costituito: “Further clarification of the subtext of “Night of the Living Dead” requires that the film be read in relation to the significance of the history of both the Vietnam War and the Protest 30 In Imaginaires de guerre, Paris, Edizione La Découverte, 1997. 31 Doug McAdam, The War at Home: Antiwar Protests and Congressional Voting, 1965 to 1973, American Sociological Review, vol.67, no.5, oct. 2002, p.696-721 21 movements.”32 È appunto ciò che un giornalista dalla radio del film spiega verso il terzo del film: “… abbiamo registrato una vera epidemia di omicidi seriali commessi da un esercito di assassini sconosciuti. I serial killer si attaccano ai villaggi, alle città senza valido motivo…”33 Il film, infarcito di simboli e di allusioni legati al conflitto e ai movimenti radicali, rappresenta ciò che diverse critiche abbiano percepito all’epoca, vale a dire lo specchio della repressione collettiva di un fallimento inquietante, quello di una rivoluzione a domicilio mancata e di una guerra all’estero persa.34 In seguito, altri film metafore a piccoli bilanci hanno saputo anche loro esprimere il riflesso dell’opinione e del sentimento sociale: è il caso ad esempio per Alice’s Restaurant (Arthur Penn, 1969), Easy Riders (Dennis Hopper, 1969) e Zabriskie Point (Michelangelo Antonioni, 1970) che possono d'altronde essere legati al movimento della controcultura e della «nuova sinistra»35. Per citarne uno, Alice’s Restaurant da un esempio di contestazione con dileggio: racconta la storia di un gruppo di hippies che si fa di droga e di musica, perseguito dalla polizia per avere buttare dei rifiuti in una discarica selvaggia il giorno di Thanksgiving. Nel film tutto è messo in ridicolo, ma la repressione poliziesca esagerata, l’elicottero che sorvola il luogo del reato e le fotografie prese per confondere i colpevoli connotano immancabilmente la guerra del Vietnam. Si tratta qui di un’evocazione con trasferimento. Il genere western è stato anche utilizzato sotto forma di film metafora in merito alla guerra del Vietnam. Durante il periodo di silenzio collettivo popolare rispetto alla guerra, dei film western hanno tentato di criticare la guerra e soprattutto gli eserciti americani in modo allegorico. Il film di Richard Brooks, The Professionals (1966) è uno dei film che fa nascere questa osservazione. Quest’ultimo sarebbe legato alla tematica vietnamita dalla sua preoccupazione di portare aiuto ad un gruppo di paesani impotenti. Secondo un critico, il film “illustra in modo alquanto enigmatico la preoccupazione costante che manifestava Hollywood per l’onore dell’America e la sua missione al Vietnam.”36 Si può dubitare del nesso stabilito tra il film e il Vietnam, tanto più che nel 1960 Kennedy fosse più preoccupato dalla questione 32 Linda Dittmar, Gene Michaud, From Hanoi to Hollywood : The Vietnam War in American Film, New Brunswick and London: Rutgers University Press,, p.185. 33 George A. Romero, Night of the Living Dead (la notte dei morti viventi), 1968, alle 33 minuti del film, (0:33 min 45s). 34 John Russo, The Complete Night of Living Dead Filmbook, Editore Imagine, Edizione Reissue, 1990. p.115 35 Geneviève Bougie, La représentation cinématographique de la guerre du Vietnam par le cinéma américain de 1969 à 1993, tesi di laurea, UQÀM, Mai 1999, p.77 36 William W.Cobb, Jr., The American Foundation Myth in Vietnam, New York, University Press of America, 1998, pp.86-87. 22 nera che dalla politica americana al Vietnam, e che l’aiuto ai civili servisse appunto a giustificare i bombardamenti. Ciò non toglie che nel corso del decennio viene fuori una linea «revisionista» che riesamina l’America e il western. The Little Big Man L’archetipo del film metafora resta comunque The Big Shave (1967) di Martin Scorsese. È la cattiva coscienza dell’Americano medio contro la guerra del Vietnam che rivolta gli oggetti del quotidiano contro di lui. Più tardi Martin Scorsese affermerà: “Mi sono quasi convinto che era un film contro il Vietnam, che questo ragazzo che si rada meticolosamente e finisca col aprirsi la gola era un simbolo dell’Americano medio di quest’epoca. Per questi motivi politici ho scelto di utilizzare in fondo sonoro la versione originale di “I can’t get started”, quella di Bunny Berigan nel 1939. Volevo anche terminare con dei stock-shots del Vietnam, ma erano inutili. ”37 Il cinema americano durante gli anni sessanta incontra dunque molte difficoltà a resistere. Un certo malese e disinteresse del pubblico predomina. Il silenzio cinematografico instaurato dal governo americano fa della guerra del Vietnam un mito, ma l’onda contestataria e la televisione tendono a dimostrare la realtà ed è chiaro che l’industria cinematografica indipendente abbia anche svolto un ruolo decisivo nel fare emergere la verità. Effettivamente, a partire del 1968 non era più possibile per i realizzatori trattare della guerra nel suo modo lineare e tradizionale. È divenuto l’evento nella storia del America che ha il più seminato la discordia negli animi dall’epoca della guerra civile. L’offensiva del Têt aveva convinto molti che la guerra non potrebbe essere vinta, il che rinforzava i movimenti anti-guerra che cominciavano a diffondersi dappertutto e non potevano essere ulteriormente ignorati. Come l’industria cinematografica poteva rappresentare la guerra quando il Presidente appariva alla televisione richiedendo il consenso mentre il governo stesso era diviso? Appartiene allora al decennio seguente di catturare l’attenzione del pubblico verso altri movimenti (film disastro, film dell’orrore) e di ricostruire il sistema hollywoodiano che si crede perso, d’immaginare altre strategie suscettibili di dire la guerra, di dire la disgrazia, incorporandole all’epopea dell’America... 37 Fonte della citazione: http://www.odysseeducinema.fr/film.php?id=36. 25 passaggio iniziatico che costituisce la prova, ritornerà all’ordine. Questa struttura è vecchissima ma la sua efficacia non è mai smentita tanto fa parte della struttura profonda dell’umano. È quindi anche la struttura fondamentale e profonda del cinema catastrofico: ritrovare l’ordine perso. Così si può citare Airport (George Seaton, 1970), The Towering Inferno (L’inferno di cristallo, John Guillermin, 1974), Earthquake (Terremoto, Mark Robson, 1974) e molti altri nei quali l’America trema della paura come se lo sguardo sfuggisse deliberatamente la realtà. Anche se si potrebbe ritenere che il cinema americano degli anni settanta sia una messa in discussione delle istituzioni, della burocrazia o delle diverse autorità, si deve notare che sia difficile stabilire nella produzione cinematografica una manifestazione costante di malcontento e di contestazione. La contestazione è più individuale, per esempio la critica dell’istituzione militare è ovvia tranne per il film Midway (La battaglia di Midway) nel 1976 che tende a ristabilire l’ordine prima dell’ondata di film dedicati al Vietnam. In fin dei conti, l’aspetto che è messo in evidenza in questi film è quello della ricostruzione della famiglia americana dopo le prove. Il film catastrofico in particolare dunque rassicura attraverso il riferimento ai cari valori del paese. Ecco perché lo schema sia sempre lo stesso: il disastro è annunciato da qualche persone generose e lucide. Poi vengono l’apocalisse e le sue conseguenze, con alla fine una morale primaria (buoni e cattivi, questi ultimi necessariamente uccisi o impenitenti). Così, il malese generale della società americana espressa a Hollywood da un altro argomento da gestire: permette di conseguenza di non abbordare il tema della guerra del Vietnam sugli schermi, e di mostrare che esistono “altre preoccupazioni” nelle ultime notizie. Se l’ondata del cinema catastrofico corrisponde all’incirca al momento in cui non si rappresenta ancora la guerra del Vietnam sugli schermi, si osserva tuttavia l’emergenza di un’altra tendenza nei film di guerra in questi anni. Da una parte, l’industria cinematografica americana è contaminata dalla militanza contestataria, e dall’altra parte si orienta verso un realismo sempre più finito – tenendo certo conto del fatto che tutto realismo sia relativo. Va innanzitutto notato che la rappresentazione della Seconda Guerra mondiale si cancelli malgrado il grande successo di Patton (Patton, generale d’acciaio, Franklin J. Schaffner, sceneggiatura scritta da Francis Ford Coppola e di Edmund H.North, 1970). Nonostante la durata del film poche scene di battaglie sono rappresentate, l’attenzione è portata sulla personalità del generale atipico George S. Patton nominato da Eisenhower per riprendere il comando delle truppe americane dopo la battaglia di Kasserine. Le critiche non riescono a mettersi d’accordo se Patton sia l’illustrazione di un ideale patriotico o della messa in evidenzia degli elementi negativi di un militarismo che poteva permettersi tutte le audaci. Nel contesto 26 della guerra del Vietnam, il gioco ideologico sarebbe allora stato particolarmente intensificato, e il film poteva apparire tanto bene come un’invocazione al patriottismo quanto un incoraggiamento alla resistenza, un rifiuto di approvare un militarismo altezzoso e limitato. Su di questo Peter Lev scrive: “La soluzione di Coppola è stata di scrivere uno script che permetteva al pubblico di scegliere se voleva provare empatia per Patton o respingerlo. Il film che ha immaginato sarebbe un po’ come un test di Rorschach in cui ciascun trova le proprie idee nella figura presentata.”41 La questione si pone infatti fin dalla prima immagine nella quale Patton discorre davanti ad un’immensa bandiera americana e un pubblico invisibile. Ci si può chiedere se si tratti allora dell’invocazione al patriottismo? Oppure se bisogna vi vedere un «simbolo sfatato»? Occorre ricordare che la desacralizzazione della bandiera era una cosa relativamente comune all’epoca a tale punto che la «questione della bandiera» (the flag issue) facesse parte dei dibatti politici rilevanti. Alla fine, Lev constata che Patton potrebbe essere letto allo stesso tempo come un commento sulla guerra del Vietnam che non rappresentiamo ancora, e come un dignitoso discendente dei film sulla Seconda Guerra mondiale. Inoltre, analizza il film rispetto ad Apocalypse Now, tutti e due proponendo delle visioni contrastate dei militari e dal militare, e con la megalomania di Patton che secondo lui anticipi tanto bene il delirio di Kurtz quanto le eccentricità del colonnello Kilgore. Così, la Seconda Guerra mondiale interessa sempre meno il cinema di guerra degli anni settanta, e anche l’interpretazione dell’unico grande successo del decennio Patton è rattaccato al Vietnam o ai problemi di attualità americani. Il bisogno di realismo si risente più che mai. È perciò che l’importanza dei mezzi messi in opera nella maggior parte dei film sia considerevole e incrementi l’illusione realista. Ad esempio il film Tora ! Tora ! Tora ! diretto da Richard Fleicher (1970) è riconosciuto per la sua brillante tecnica. Ma i mezzi tecnici non bastano necessariamente e l’illusione realista è rinforzata tramite l’ideologia che sottolinea le sofferenze e l’assurdità della guerra, più che la gloria. Cross of Iron (La croce di ferro, Sam Pekinpah, 1977) è per esempio un film antinazi e al di là antimilitarista, e A Bridge Too Far (Quell’ultimo ponte, Richard Attenborough, 1977), come lo indica il titolo, si astiene da qualche entusiasmo. Le referenze al Vietnam sono dunque sempre più numerose nei film del decennio. Prendiamo per esempio la commedia satirica americana M*A*S*H (1970) immediatamente divenuta culta. Il film, diretto da Robert Altman, racconta la vita di un ospedale di campagna 41 Peter Lev, American Films of de 70 : Conflicting Visions, PAPERBACK, 2000, p.109 27 durante la guerra di Corea (MASH = Mobile Army Surgical Hospital) ed è concentrato sulle barzellette, sull’umorismo nero, l’orrore e l’assurdità. Se l’argomento dichiarato tratta della guerra di Corea, il trasferimento alla guerra del Vietnam è stato sempre fuor di dubbio. Si vede della guerra solo le sue conseguenze sanguinose che trasporti, corpi e membri ridotti a brandelli che i medici cercano di curare pur bevendo Martinis prima di giocare al golfo e pur correndo dietro alle infermiere. Straripamento di vita e di morta, eccesso, abuso: questo film smisurato denuncia la guerra tramite l’assurdo. La cosa sorprendente nel film è la sua grande coerenza e il controllo che sappia contenere l’eccesso. Le vite che ribollono in mezzo alla morte, il diniego incredibile alla guerra: questa è la grande vittoria. Il film ha avuto notevole successo. Ha ricevuto un Oscar alla migliore sceneggiatura non originale e la Palma d’Oro al ventitreesimo Festival di Cannes. 2.1.2 «The Vietnam experience» e la preoccupazione fondamentale del realismo L’emergenza del Vietnam sugli schermi si fa dunque gradualmente, prima di imporsi talmente abbondantemente che si sia creduto che la sua rappresentazione avesse iniziato molto prima. Benjamin Stora aggiunge a questo riguardo: “L’illusione è grande di una carica delle immagini intrapresa dall’inizio di questa guerra, turbine permanente e frenetico di colori, di forme, di reminiscenze che agiscono apertamente o silenziosamente.”42 Questa “carica” significativa alla televisione, si farà veramente sugli schermi alla fine degli anni settanta, ma lo shock delle fotografie e il peso dell’informazione quotidiana saturano già la coscienza collettiva americana. Si nota spesso che nessuna guerra prima quella del Vietnam, e nessuna guerra dopo abbia così tanto occupato il piccolo schermo neanche sia stato oggetto di così tanti reportage e documentari. La guerra del Golfo, per esempio, si è riassunta ad alcuni immagini del bombardamento notturno di Baghdad ma assomigliavano piuttosto ad un videogioco che alla realtà. E se la guerra in Iraq ha fatto rumore, non si può dire che il conflitto abbia logorato l’America come aveva fatto il Vietnam. Le manifestazioni contro questa guerra che Obama si è impegnato a terminare al più presto sono state poche frequentate, meno 42 Benjamin Stora, Imaginaires de guerre. Les images dans les guerres d’Algérie et du Viêt-nam. Paris, Éd. La Découverte, coll. Essais, 2004, rééd.,. p.126 30 2.2 1975, fine della guerra: Hollywood accoglie i vets “Abbiamo lasciato il Vietnam come delle creature strane, degli esseri con delle spalle giovani che sorreggono delle teste di vegliardi.”49 2.2.1 Il ruolo del cinema nel ritorno dal Vietnam Il ritorno dal Vietnam costituisce una problematica nuova e specifica di questa guerra, e ciò per una ragione essenziale: fino al conflitto vietnamita, le guerre (vittoriose) si finivano con l’armistizio e la smobilitazione, l’occasione per il paese intero di festeggiare e di esprimere la propria riconoscenza ai combattenti. Al momento del Vietnam, il ritorno si fa individualmente e in ordine sparso, senza che il confitto sia terminato e senza che la vittoria elimini l’amarezza o allievi il dolore. Nell’arco di molti anni il porto di Anchorage – una città dell’Alaska –, scalo obbligatorio dei civili e degli aerei militari, gioca il ruolo di centro aeroportuale. All’epoca nessuno era ancora consapevole dell’entità dei danni poiché ognuno si considerava solo nella propria sofferenza. Ecco perché il rituale del ritorno e il trauma eventuale non siano rappresentati immediatamente dagli realizzatori fin dal ritorno dei G.I. Il rituale del ritorno costituisce una tematica che non si confonde necessariamente con quella della guerra. Bisogna aspettare le testimonianze, e particolarmente i libri e la moltitudine di film che rappresentano la tragedia del ritorno, per che si capisca l’entità del disastro psicologico. Questi vegliardi prematuri avvelenano l’America che si sente già fortemente in colpa, perché ogni storia individuale si trasforma in una tragedia americana. In una certa misura il vet e la sua famiglia diventano lo specchio dell’America profondamente ferita e traumatizzata. E questi traumi diventano essi stessi generatori di racconti. La maggior parte dei primi film sul ritorno partono dall’immagine del vet in quanto assassino. Traumatizzato, straziato, il grunt che ha subito l’esperienza del Vietnam può tornarne soltanto con le caratteristiche di un grave malato, eventualmente psicopatico. La giornalista americana Frances Fitzgerald in Fire in the Lake prevede che al momento stesso del ritorno si capisce che “Il Vietnam non lascerebbe mai più gli Stati Uniti. I soldati lo riporterebbero con loro come una dipendenza”.50 Si evince chiaramente che tutta la gamma della sofferenza e dell’orrore si iscrive in questo ritorno, che si 49 A Rumor of War, p.xv (Prologo) 50 Frances Fitzgerald, Fire in the Lake : The Vietnamese and the Americans in Vietnam, 1972, p.232. 31 trasforma esso stesso in esperienza iniziatica dopo quella della guerra. Bisogna per il vet purgarsi dei suoi incubi anteriori ed abituarsi alla nuova America detentrice dei segni della violenza e della guerra ma anche di debolezza e di corruzione. L’utilizzazione della figura del vet a Hollywood non è insignificante. Essa svolge piuttosto un ruolo fondamentale nella rappresentazione del Vietnam sugli schermi. Infatti, appare come un intermediario perfetto per veicolare l’ideologia, i simboli e la storia del Vietnam che le autorità vogliono trasmettere al popolo americano e propagare nel paese. Per questo, la strumentalizzazione del vet consiste nel concederlo delle funzioni. Ecco perché a Hollywood il vet riempia tre funzioni: una funzione ideologica, una funzione narrativa e una funzione simbolica. Prima di tutto, la funzione ideologica del vet si iscrive in un percorso relativamente chiaro. All’inizio, il veterano corrisponde bene all’immagine dell’All American Boy51: ha ubbidito a Kennedy quando è partito in guerra, fedele all’immagine di Audie Murphy e John Wayne in Sands of Iwo Jima (1948), fedele alla sua famiglia, alla sua patria, alla sua fidanzata la cui fotografia rimane preziosamente nel suo portafoglio, e ne torna scombussolato a causa delle prove fisiche e i traumi psicologici. Si potrebbe allora dire che ciò che si è sviluppato nel corso dei film sul veterano sia la trasformazione del Good Boy in eventuale Bad Boy – il malvagio ragazzo. E attraverso i suoi interrogativi si scopre l’ideologia americana. Nella maggior parte dei casi si nota una tematica razzista e nazionalista perché è mostrato che il contatto con questi esseri (i Viet) sono tutti portatori di germi e contaminano i giovani Americani che a loro volta contaminano la società americana. Il hippy e il vet appariscono tutti e due come dei malati del malfunzionamento americano. Il Vietvet (veterano vietnamita)52 possiede dunque una funzione ideologica rispecchiando lo sguardo degli altri. È il buono ragazzo che troviamo con Billy Jack e che, verso la metà degli anni settanta si trasforma in psicopatico, per ridivenire frequentabile in quanto ex combattente, questa volta vittorioso. Effettivamente, se si cerca il legame originale tra l’ex combattente e la società americana, è attraverso la saga dei Billy Jack uscita nel corso degli anni settanta fino agli anni ottanta: The Born Losers (1968, Tom Laughlin), Billy Jack (T.C Frank, 1971), The Trial of Billy Jack (1974), Billy Jack Goes to Washington (1977), e The Return of Billy Jack (1986). Il vet è dunque simulatamente riflesso e detentore del mito. È quello che la società fa di lui. 51 Espressione da Leslie Fiedler usata nel suo libro Love and Death in the American Novel, 1960. 52 Il Vietvet è stato una delle figure più diffuse nel cinema americano degli anni settanta e ottanta. È personnaggio notevolmente enigmatico. Bisogna interessarsi a questa rilevante figura e conoscerne le sue origini tanto quanto le sue rappresentazioni per determinare in quale modo è divenuta una delle figure importanti del cinema americano degli ultimi quarant’anni. 32 La contaminazione del Vietvet da parte dal suo ambiente si presta ad una rappresentazione che si adatta perfettamente al sistema hollywoodiano, il che conferisce al vet delle grandi potenzialità narrative. In effetti, quest’ultimo costituisce un personaggio privilegiato nella misura in cui possa insinuarsi nell’azione di qualsiasi tipo di film. Dal punto di vista narrativo, si può allora distinguere due tipi di film: quelli che sono totalmente centrati sulla problematica del vet, e quelli in cui gioca un ruolo essenziale ma nel quale l’azione non si concentra sulla sua esperienza del Vietnam. È esattamente l’opposizione tra Coming Home (Tornando a casa, Hal Ashby, 1978) e Dirty Harry (Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, Donald Siegel, 1971). Coming Home racconta la storia di una donna impegnata all’ospedale dei veterani durante la guerra del Vietnam perché il suo marito è partito alla guerra. Ritrova il suo amore del liceo divenuto paraplegico e si chiede quello che succederà quando il suo marito tornerà del Vietnam; mentre Ispettore Callaghan rievoca la situazione di un antico del Vietnam determinato ad usare tutti i mezzi possibili per eliminare un uomo che minaccia di commettere un crimine al giorno se non ricupera 200 000 dollari. In ogni caso, il vet diviene il motore, il catalizzatore dell’azione, sia perché quest’ultima è motivata dalla sua sofferenza, sia perché ricorre alla sua esperienza della guerra. Infine, il vet appare come un intermediario adeguato per veicolare i simboli che Hollywood, e dunque per estensione, le autorità americane vogliono fare passare al suo popolo. Nel suo libro Vietnam Veteran Films lo scrittore Mark Walker presenta la categoria dei film sugli veterani del Vietnam come segue: “Quest’opera sostiene che questo gruppo di film (i vet films) riempia meglio di qualsiasi altro gruppo di film del periodo una funzione mitica, uno scambio di simbolo importanti in merito al Vietnam tra il film e il suo pubblico.”53 Uno delle funzioni fondamentali del vet consiste nel materializzare il passaggio dell’innocenza all’esperienza. È divenuto quello che ha visto, quello che sa. E la dialettica del Bene e del Male è tanto al cuore della rappresentazione del vet quanto nella psiche americana. Riportiamoci ad esempio alle figure di Travis Bickle (Robert De Niro) in Taxi Driver (1976) oppure a Nick (Christopher Walker) nel cacciatore (1978) che ne sono dei ottimi esempi. Si capisce allora meglio la figura del vet e la sua importanza simbolica se si ritrova l’origine del mito. Perché si tratta bene di questo. Buono o cattivo, dipende tutto di quale lato guarda il vet. A questo riguardo, Benjamin Stora sottolinea bene il valore e i simboli del ritorno: 53 Mark Walker, Vietnam Veteran Films, Metuchen, N.J., & London, The Scarecrow Press, Inc. 1991, p.1 35 Giustiziere, eroe, ferito… Alla fine degli anni settanta, la rappresentazione del veterano oscilla tra questi tre immagini, con una predilezione certa per le due prime. L’eroe popolare è più difficile da incarnare, e il veterano si identifica male a questo genere di figura, perché ha perso molto della sua ingenuità. Il che può essere ritenuto come una degradazione psicologica considerevole: dove sono passati gli eroi? Billy Jack, certo! Ma rinvia soprattutto al passato, ad un pasturalissimo mistico che non trovi più il proprio posto nell’America del Watergate, e occorrerà quindi trovare un'altra faccia all’eroe americano, nel rischio di riscrivere la guerra. Alla fine degli anni settanta, l’ex combattente apparisce sotto la forma di tre immagini a volte contradditorie ma sempre complementari: quella quasi emblematica del vigilante e quindi del giustiziere, quella tranquillizzante del eroe popolare e populista. E quella notevolmente imbarazzante dell’uomo ferito e divenuto un eventuale psicopatico, immagine che domina infatti il decennio e che si stampa nella coscienza collettiva americana. A tale riguardo, il cinema fa bene l’eco alla società americana. Il che spiega anche perché le scene che evochino il Vietnam in questi film rientrino essenzialmente nelle competenze dell’incubo e dell’orrore. Certamente, si tratta di guerra. Ma in queste scene la realtà è messa tra parentesi a tale punto che appaiano allora al di là di tutta realtà e prive di ognuna dimensione politica. Si tratta infatti già di un ribaltamento preannunciatore delle modificazioni del testo del decennio seguente che andranno oltre reiscrivendo la guerra nella realtà – anche lei rivista e corretta. 2.3 1978-1980 l’ondata del ritorno dei Vietnam War Films “As we can see, the volte-face arrived in 1979, when The Deer Hunter won the Academy award as best picture and Jon Voight and Jane Fonda the Oscars as best actor and best actress for Coming Home. Then, the well-known director Francis Ford Coppola announced the up-coming of his last film, Apocalypse Now. Suddenly, Vietnam had become fashionable.”55 55 Eusebio V.Llácer Llorca, Esther Enjuto, Coping Strategies : Three Decades of Vietnam War in Hollywood, Film-Historia, Vol. VIII, No.1 (1998): 3-27 36 2.3.1 La «Post Traumatic Syndrome»: la svolta che rompe definitivamente il silenzio della Casabianca Prima che venga effettuata l’analisi degli «uomini forti» che sarà il nucleo degli anni ottanta, ritorniamo su un fenomeno che ha particolarmente segnato la rappresentazione del veterano alla fine degli anni settanta e che si ritrova anche molto negli anni ottanta: Il disturbo post- traumatico da stress (DPTS). IL DPTS designa una reazione psicologica grave che si manifesta in seguito ad un’esperienza vissuta come traumatizzante e con il confronto con delle idee di morte.56 Una valutazione iniziale del numero di vittime della malattia – fatta in modo molto impreciso – stima tra 500 000 e 1,3 milioni di uomini, “cioè dal 18% al 54% degli effettivi mandati al Vietnam.”57 Poi le cifre sono divenute più precise, e si è giunto ad una media del 50%, il che ha evidenziato l’entità dei danni e del problema. Si potrebbe ritenere che il Post Traumatic Syndrome Disorder sia semplicemente l’erede del cosiddetto shell shock durante la Prima Guerra mondiale o della neuropsychosis durante la Seconda. Ma la terminologia corrisponde ad un’evoluzione scientifica sempre più precisa nel corso degli anni. Lo psichiatra francese Louis Crocq, specialista delle nevrosi di guerra, rievoca bene la graduale progressione negli Stati Uniti della consapevolezza di questa sindrome collegata al Vietnam, e sottolinea il cambiamento considerevole intervenuto in questo campo a partire dal momento in cui le autorità americane si sono decise a considerare il problema come una realtà: “La rivelazione e la presa in consegna dei sindromi Post-Vietnam negli Stati Uniti, a partire dagli anni ottanta, inaugurano dunque la nuova consapevolezza collettiva, e una svolta nella storia della psichiatria di guerra: per la prima volta, l’intera problematica, dalla sua origine fino all’ultimazione delle sue conseguenze, è presa in considerazione; e ormai nulla è più come prima, ne per il comando, ne per i governanti, ne per la nazione, ne per i psichiatri che con la scoperta di questa patologia in tutta la sua ampiezza così come le sue implicazioni, possano vi riflettere ed elaborare delle nuove misure preventive e curative, di cui una nuova psichiatria ed una terapia radicale della nevrosi della guerra.” Sottolineiamo soprattutto che il Post Traumatic Syndrome è stato oggetto di utilizzazione narrative e ricuperazione per la finzione. Mentre la sindrome era restata praticamente 56 Brunet A, Akerib V, Birmes P, « Don't throw out the baby with the bathwater (PTSD is not overdiagnosed) », Can J Psychiatry, vol. 52, no 8, 2007, p. 501–2; discussion 503 57 Louis Crocq, Les traumatismes psychiques de guerre, Paris, Odile Jacob, 1999, p.20 37 inesplorata durante e dopo le due grandi guerre, il DPTS funziona come uno scatto, e poi come supporto della narrazione. C’è ne una rappresentazione di rilievo al momento della guerra di Corea attraverso il personaggio del colonello sbalordito di Men in War di Anthony Mann (Uomini in guerra, 1957) e forse anche nel personaggio preoccupante del «vecchio sergente», Croft, in The Naked and the Dead (Il nudo e il morto, Raoul Walsh, 1958). Ma è evidentemente il Vietnam che offre le situazioni le più numerose e le più notevoli, contemporaneamente perché la malattia colpisce degli uomini giovani (dei «veterani» che non hanno neanche vent’anni) di ritorno al paese (dunque in contatto stretto, se no intimo con i civili), e perché la malattia – utilizzata dagli veterani stessi che reclamano il risarcimento e dagli movimenti pacifici – diviene un vettore estremamente rappresentativo di opposizione alla guerra di cui i scrittori e i registi potranno sfruttare tutte le possibilità senza rischio di censura. Il recupero del soggetto dagli sceneggiatori e la sua propagazione tra un pubblico che non aveva nessuna idea della sua entità fanno l’effetto di una bomba di realismo in tutta l’America. Da una parte, le reazioni sono state variabili nel popolo condiviso tra ammirazione, sgomento, e ira contro questi «assassini di bebè» a tale punto che i monumenti ai caduti – simboli chiari della riconoscenza popolare – abbiano messo dieci anni ad emergere (in particolare il famoso «muro» di Washington, cioè il Vietnam Veterans Memorial, finalmente inaugurato il 13 novembre 1982). Dall’altra parte, il sentimento crescente d’impotenza nei confronti della politica americana, e d’inutilità rispetto ad una guerra che aveva perso la sua significazione (almeno dal 1968), ha generato nel paese un risentimento considerevole, suscettibile di aggravare l’incomprensione tra quelli che avevano vissuto la guerra e quelli che li rendevano almeno parzialmente responsabili della disfatta. Questo rancore generalizzato, come la collera dei combattenti che si consideravano spesso come degli incompresi (è qua pero necessario ricordare il lavoro considerevole effettuato dall’associazione dei veterani), cominciano a esprimersi, ma solamente verso la fine degli anni settanta e in un numero abbastanza limitato di film fra cui Taxi Driver, Tornando a casa, e Il cacciatore. 40 inglese Joseph Conrad, Heart of Darkness (Cuore di tenebra, prima edizione originale nel 1899 e uscito in Italia nel 1924), si può dire che sia il film dell’eccesso, in eco alla dismisura dell’America. Più si familiarizza con il film e più si capisce a che punto esso abbia sfiorato il disastro rasentando da vicino il grottesco e il ridicolo. L’originalità della rappresentazione della guerra nella sua dimensione fantastica salta agli occhi dall’inizio del film, con il paesaggio davanti al quale evolvono degli elicotteri il cui ronzio serve di fondo sonore alla canzone del gruppo The Doors. Poi il paesaggio si infiamma in un’apocalisse di napalm, e ricopre la faccia di Willard, ubriaco e drogato, caricato dalla missione di «liquidare» nella sua tana cambogiana un Colonnello Kurtz divenuto megalomane. Lo script sarebbe inspirato, così come la novella, dal Green Beret murder case, vale a dire l’esecuzione dal colonnello Robert B.Rheault, capo delle «forze speciali» (termine ufficiale per designare i Berretti verdi), di un agente vietnamita al Sud-Vietnam. Lo scandalo ha fatto rumore nel 1969 perché rivelava un lato oscuro che a priori rientrava nelle competenze della CIA. Inoltre, il film si inspira della rivalità storica tra Montanari e Vietnamiti, una rivalità che ha permesso agli Americani di stringere delle relazioni per infiltrare meglio i Communisti. Peter Lev nota che il film, estremamente complesso, sembri spesso inafferrabile, un po’ come Patton. Sta esitando tra una rappresentazione dei militari che mostra la follia della guerra e degli uomini che la conducano, ed una rappresentazione che conferisce a questa follia del Male, una dimensione epica e una sensazione d’ebbrezza: “Il film è diviso tra Willard, Kurtz, l’equipaggio della vedetta, e i contadini vietnamiti. Alcune parti del film sembrano essere favorevoli alla guerra; altre sembrano vi essere opposte con forza.”60 L’autore, in “Looking Back to Vietnam: Apocalypse Now”, aggiunge che la complessità del film è aggravata dal fatto che esistano numerose versioni del film, di cui particolarmente Apocalypse Now Redux, la versione lunga, senza dubbio quella definitiva. Si aggiungono tutta la letteratura attorno al film, di cui l’interessante documentario di Eleanor Coppola, Hearts of Darkness, una sorta di “making of” sviluppato in un film completo.61 In definitiva, l’importante del film è soprattutto la restituzione di quest’universo claustrofobico che crea la guerra, di questo disordine e di questo caos permanenti in questi visioni tetri, metafore forse della guerra o dello spirito che finisce per perdersi nella follia. Gli 60 Peter Lev, American Films of the 70s, p.121 61 Peter Lev, “Looking Back to Vietnam: Apocalypse Now” in Movies and the End of an Era, Lester D.Friedman, Ed., p.241 e seguenti. 41 incontri che si succedano col passare dell’acqua ci immerge in un mondo sempre più aberrante, con tra l’altro, Kirby che attacca dei villaggi e che si gode dell’odore del napalm la mattina presto, oppure Lance, il giovane campione californiano che fa surf sotto le granate. La risalita del fiume è una metafora del tempo. A mano a mano che la vegetazione attenui la luce del giorno, in un’atmosfera sempre più pesante di umidità e di mistero, si capisce che più si avvicini alla sorgente del fiume verso la Cambogia, più si avvinci alle origini della vita e della morte, e che la fonte della conoscenza sia anche quella dell’orrore. Il percorso geografico diviene chiaramente un percorso nel tempo, una discesa all’inferno. Così, l’ultima parte del film abbandona deliberatamente il realismo per immergerci in un mondo in cui i fumogeni e la foschia costante che avvolga i paesaggi costruiscono un mondo surreale, irreale. La ricchezza del film è incontestabile. Ma si capisce quanto Coppola abbia preso un rischio enorme. Questa miscela dei generi avrebbe potuto condurre al disastro di una rappresentazione ridicolamente kitsch. Ma l’audacia è tale, l’ambiguità è talmente magnifica, l’orrore talmente immondo che lo spettatore accetti l’insopportabile. Insomma, tanti eccessi finiscono col dare un’impressione generale d’omogeneità, il meraviglioso e l’orrore si ricongiungono da ciò proviene l’ambiguità e probabilmente il successo del film. Il processo è complesso: lo spettatore tramite Willard è dilaniato tra la tentazione del razionale (sfuggire l’ignoranza e l’orrore) e il fascino dell’al di là dell’orrore. Come lo scrive Foucault: “la follia affascina perché è sapere”.62 Di conseguenza, anche se Apocalypse Now costituisce un caso molto particolato dato l’emergenza col passare dell’acqua, della trama di Conrad, si osserva che il conflitto vietnamita abbia ancora una volta permesso di declinare le modalità specifiche del fantastico e dell’orrore. Pretesto evidente, naturalmente, che, una volta di più, mostri quanto effettivamente il Vietnam sia prima l’America, e quanto questo film malmeni il realismo. Affermato ed onorato come un’opera molto importante, il film non è stato ciononostante sempre compreso subito dopo la sua uscita, neanche quando era considerato come una dichiarazione contro la guerra del Vietnam. Si trattava allo stesso tempo di molto di più e di molto di meno di questo. Gli anni settanti si terminano dunque senza che sia davvero rappresentata al cinema questa guerra così particolare, ma assistiamo alla prima presa di coscienza collettiva di una disfatta comune (e non solo in termini militari), ed alle prime espressioni di una sofferenza che a lungo ossessionerà questo paese che credeva di non potere essere riscattato per scopi diversi 62 Michel Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, Paris, U.G.E, « 10/18 », s.d., pp.35 e 37 42 dalla famosissima “pursuit of happiness”, “il proseguimento della felicità”. Nel corso degli anni settanta, Il Nuovo Hollywood oscilla dunque tra incorporare sempre più di realismo nei suoi film sul Vietnam (la nuova consapevolezza della necessità di rappresentare “un paesaggio che non è mai esistito”63, il ritorno al Vietnam, la rivelazione del DPTS…l’illusione realista è sempre più verificata) o intrattenere il mito del «sogno d’America», un’America grande che non vuole perdere la faccia e soprattutto il suo statuto di grande potenza. Così, all’inizio del decennio, si fa solo allusione al Vietnam attraverso il film catastrofico e le ultime produzioni sulla Seconda Guerra mondiale, poi il veterano è strumentalizzato al cinema per veicolare i cari valori americani, e si ritroverà tante volte delle referenze patriotiche, simile al God Bless America in The Deer Hunter. Prima di lasciare questo decennio, cerchiamo di commentare il ruolo indescrivibile che il sonoro abbia giocato in tutti i film degli anni settanta, che ha utilizzato la musica degli anni sessanta come fondo sonoro efficace. The Doors cantano «The End» quando il napalm incendia la giungla in Apocalypse Now e in Coming Home, The Beatles, Jimmy Hendrix, Simon and Garfunkel tra molti altri servono di sottofondo musicale. Ci sono anche alcuni notevoli film in questa fase: Heroes (1977) oppure Go Tell the Spartans e The Boys in the Compagny C; entrambi sono stati girati nel 1978 e ritraggono un misto di orrore della guerra, e della routine militare. Nonostante questi due ultimi nomi, quello che è chiaramente definito come il tratto più caratteristico di questo decennio è che i registi tendano a rappresentare, più della guerra stessa, i personaggi psicologicamente in difficoltà di nuovo a casa. 63 cfr. L’espressione di Muse già menzionata p.29 45 diversa e le sue illusioni cadono l’una dopo l’altra. Il film conosce un enorme successo. La lista delle ricompense che il film ha ricevuto è impressionante, di cui quattro premi Oscar e l’Orso d’argento del festival di Berlino. Partito con un bilancio di produzione di 6,5 di dollari (cioè all’incirca la metà di un bilancio medio all’epoca), ne raccoglierà 250 milioni. Il critico Daniel Lee Thompson Miller sottolinea a che punto l’impatto del film sia stato considerevole, e le reazioni assolutamente molteplici e «fenomenali»: “Il film è stato il primo da ogni punto di vista: il primo a dire la verità sul Vietnam e sui veterani del Vietnam, il primo ad offrire un messaggio anti-guerra davvero di sinistra, e il primo a cercare di guarire le ferite che la nazione, il pubblico, e i veterani, abbiano subito in conseguenza della guerra.”66 Ecco perché Miller intitoli il suo quinto capitolo come segue: “Platoon: il testo fondamentale della guerra del Vietnam”67. Il successo del film viene forse del fatto che Stone abbia dovuto aspettare dieci anni per fare accettare il suo script. Va detto che Platoon arriva al momento in cui dei monumenti cominciano ad innalzarsi e dunque al momento in cui la guerra e i suoi combattenti acquisiscono finalmente uno statuto ufficiale, e in cui si ammette finalmente la legittimità della sofferenza anche per quelli che hanno subito la disfatta. In relazione a questo punto si può dire che Reagan abbia ben capito la posta in gioco, poiché trasforma il Vietnam in una «nobile causa» e organizza nel maggio 1985 la prima sfilata nazionale (national parade) dei combattenti del Vietnam. Si può quindi ritenere che Platoon permetta finalmente un trasferimento della sofferenza, così come la cristallizzazione di una mitologia americana pesantemente impregnata di cristianismo. In fondo, Stone illustra la dichiarazione del poeta Walt Whitman, di cui conosciamo il potente radicamento nel mito: “I am the man – I suffer’d – I was there”.68 Il film riesce non solo a fare il collegamento tra l’individuo e il collettivo, ma anche tra realismo e simbolismo. Eppure, ancora una volta, la grandezza del film viene dall’eccesso. La sofferenza è eccessiva, la guerra è eccessiva, la morte è eccessiva. Come Caputo, Come Kovic, Chris Taylor, interpretato da Charlie Sheen, imparerà la violenza e l’orrore. Quest’apprendimento dell’orrore e la propria interiorizzazione dal personaggio sono magnificamente messi in valore dalle tonalità epici del film e dalla musica che accompagna 66 Daniel Lee Thompson Miller, « The Popular Media Recontruction of the Vietnam War : Texts and Contexts », Ph.D., 1995, p.147 67 Daniel Lee Thompson Miller, « The Popular Media Recontruction of the Vietnam War : Texts and Contexts », Ph.D., 1995. È il titolo del suo quinto capitolo. 68 Walt Whitman, « Song of Myself », sezione 33. 46 questa violenza e questo strazio dell’animo. E naturalmente, il nucleo principale dell’azione, questa lotta tra il Bene e il Male di cui abbiamo tanto parlato, quest’affronto tra il personaggio di Barnes nettamente animale, assassino all’erta costante, e quello di Elias ancora profondamente umano, situa il film nel registro epico e mitico: la tragedia della natura umana dalle sue origini, il Bene e il Male come essenza dell’essere. Tutto, o quasi tutto, oppone Barnes e Elias. “Barnes crede in quello che fa” dichiara Elias a Chris mentre contemplano (momento particolarmente eccezionale) il magnifico cielo attraversato da una stella cadente. “E tu, credi in quello che fai?” Gli risponde Chris. In tre anni, Elias ha capito le cose. “Nel 65, si… Adesso, no. Ciò che è accaduto oggi è solo l’inizio. Perderemmo questa guerra.” Barnes si batterà fino alla fine. Perché incarna da solo la potenza e la cecità di questa guerra. D’altronde, dice ai quelli che, in seguito alla morte di Elias, hanno l’intenzione di ucciderlo per vendicare quest’ultimo: “Voi fumate per sfuggire alla realtà. Io non ho bisogno di questa merda. C’è il mondo ideale e il mondo reale. Elias si credeva giustiziere…” Se Platoon si situa solidamente sul piano simbolico – si ricorda il daino spuntato da nessuna parte in questo silenzio e nel bel mezzo della terra devastata e degli alberi carbonizzati, sbalorditivo simbolo della pastorale americana smarrito in un campo di cadaveri in piena giungla vietnamita e probabilmente frutto dell’immaginazione di Chris allora ferito; Platoon coltiva anche il realismo con molto di abilità. È questo realismo che sorprende a prima vista. Infatti, Stone ha trovato la tonalità esatta: vocabolario, comportamento, scenografia e paesaggi. Il giornalista Richard Corliss afferma nel Time il 26 gennaio 1987: “Platoon: Viet-Nam the way it really was, on film”. Un altro giornalista del Time, David Halberstam, apprezza anche il film: “Platoon è il vero primo film sul Vietnam, ed è uno dei più grandi film di guerra di tutti tempi. Gli altri film sul Vietnam hanno fatto violenza alla storia. Ma Platoon è esatto tanto bene storicamente quanto politicamente. Penso che questo film diventerà un classico.” In maniera generale, gli elogi portano principalmente sul realismo del film. Il presidente del Center of the Study of the Vietnam Generation a Washington, John Wheeler, ha anche fatto una dichiarazione spesso ripresa: “Prima, noi (i veterani) eravamo o degli oggetti di pietà, o degli oggetti che bisognava sventare per tenerli a distanza. Platoon ci rende reali. Il «Vietnam Veterans Memorial» è stato una delle soglie che il nostro paese abbia dovuto varcare; Platoon ne è un’altra. Il film fa parte del 47 processo di guarigione. Parla alla nostra generazione. Questi ragazzi, siamo noi.”69 A giusto titolo, Platoon è considerato dalla maggior parte dei veterani come la rappresentazione la più fedele di quel che hanno conosciuto. Tranne qualche rara eccezione, come per esempio Michael Lee Lanning, tenente colonnello, dichiara nel 1994: “È una vergogna per gli spettatori, ed è un insulto ad ogni veterano del Vietnam, di far pensare alla stragrande maggioranza di quelli che vedono il film che si tratti lì della vera storia di cosa sia accaduto realmente durante questa guerra. Purtroppo, un po’ di verità e una buona regia hanno l’effetto di un film che sia senza dubbio il più negativo mai diretto finora sulla guerra del Vietnam. Infatti, si tratta di un film eccellente, ma con una visione mediocre e falsa della storia.”70 Quando si legge le critiche, si ne ritiene due essenziali: da una parte l’ambiguità di una rappresentazione che rende sempre la guerra più o meno fotogenica (a causa della sceneggiatura talmente elaborata), e dall’altra parte il fatto che, se presa di posizione c’è nel film, essa rimanga abbastanza vaga e generale. Così si nota che, questo realismo del dettaglio che ha tanto contribuito al successo del film, sia anche la sua principale debolezza. Ciò detto, con la precisione del dettaglio, Platoon ha quasi imposto le regole che determinano la rappresentazione della guerra del Vietnam allo schermo. Nonostante le critiche su Platoon, occorre riconoscere che il film abbia saputo rappresentare, con la confusione della guerra, con la confusione degli animi, il coraggio e la perseveranza individuali nel contesto di uno sforzo destinato alla perdita, catturando nel contempo, l’essenza del combattimento. È proprio questo che Stone abbia saputo dirigere. Abbiamo visto che con Reagan, la guerra prenda una significazione ben diversa. I film maggiori che seguiranno (e i pochi che hanno preceduto) a proposito della guerra saranno spesso ideologicamente molto più ambigui. Ma formalmente, essi parteciperanno tutti più o meno ad un approccio nuovo del realismo, un iperrealismo, un «realismo documentario», molto preoccupato dal dettaglio. Questo è bene il caso con Platoon, ma anche con altri film, e particolarmente Urla del silenzio diretto da Roland Joffé, uscito nel 1984. La rappresentazione del film così come il lavoro sull’immagine, restituiscono il più vicino possibile un’impressione di documentario, tanto bene quando i giornalisti aspettano nei corridori dell’ambasciata di Francia quanto al 69 David Halbertstam e John Wheeler sono menzionati nello stesso articolo del Time, il 26 gennaio 1987. 70 Michael Lee Lanning, Vietnam at the Movies, New York, Fawcett Columbine, 1994, p.293 50 Così, Hamburger Hill fa semplicemente parte della moltitudine di film revisionisti degli anni ottanta che hanno riscritto la guerra o perlomeno le cause del suo fallimento. Si può citare in questo riguardo The Siege of Firebase Gloria (Brian Trenchard-Smith, 1989). Il film rincara la dose sulla violenza e l’orrore. Molto diversi sono dei film come Casualties of War (Vittime di guerra, 1989) o Off Limits (Saigon, 1988). Sempre fondati su una volontà realista, assomigliano molto di più alle rappresentazioni hollywoodiani più elaborate e, lasciando a perdere la tecnica del documentario grezzo, sviluppano un intreccio a partire di una sceneggiatura accuratamente costruita. Infine, si deve anche vedere in questi film delle possibilità narrative supplementari, e nel migliore dei casi, originali. Il Vietnam ha inspirato delle storie di corruzione, ma ugualmente di servizi segreti, di burocrati troppo facili a comprare, e di una società marcia dal denaro. Uno degli esempi più significativi in questo campo è sicuramente Full Metal Jacket di Stanley Kubrick.73 Realizzato a partire dal romanzo di Gustav Hasford The Short-Timers, e rielaborato – per la trama – da Hasford, Kubrick e Herr insieme, il film si compone in due parti: la formazione di un plotone di marine a Parris Island in California del Nord nel 1967, poi il combattimento al Vietnam durante l’offensiva del Têt. Due parte e infatti due film, anche se tutto e collegato dalle immagini della fine. Già la divisione e la complementarità delle due parti del film dimostrano bene la singolarità di cui si fa riferimento qui.74 Alle quali si aggiungono l’originale scelta della figura della donna. Le proiezioni mostrano delle scene oscene, brutte e mortifere in cui le reclute si abbandonano con abbondanza ad una donna. Questa donna simboleggia la rivolta e la determinazione di un intero paese: una rivolta tanto più incomprensibile che sia incarnata da una donna. Così, questa donna concede al film un senso ben diverso dalla consueta guerra «tra uomini». Queste ultime illustrazioni sono dei esempi per sostenere l’argomento sullo sfruttamento delle possibilità narrative nell’industria cinematografica americana degli anni ottanta, ma tra i tanti altri, perché ci sarebbe ancora tanto da dire su Full Metal Jacket, così come sulle altre produzioni. Questi film della fine degli anni ottanta sono certamente disuguali, e le mire ideologiche possono variare. Ma che lo si voglia o meno, parteciperanno alla scrittura o riscrittura della storia, e, come A Rumor of War o Platoon, si inscrivono in questo corrente pseudo- documentario, che va dall’documento grezzo (Dear America…) alla sceneggiatura la più 73 Quest’analisi proviene parzialmente da « Full Metal Jacket ou les perversions du réalisme », un articolo pubblicato in Ciné Nice, n°23, 1° trimestre 2010, p.33-37 74 L’analisi è stata parzialmente ripresa da quella di Paolo Ceola nel suo articolo War on the Screen. Democracy and Arms Seen through Films, scritto per la rivista semestrale di studi internazionali WARning, Morlacchi Editore, 2012, rivista n°1, p.73-75 51 elaborata (Off Limits). 3.2 Le fonti di ispirazione del decennio Nel corso e alla fine del decennio, la deriva del film relativo al Vietnam è abbastanza logica. L’ottimismo reaganiano, che rifiuta ogni idea di disfatta, e le possibilità tecniche della nuova «formula hollywoodiana», incitano gli studios a sviluppare le innumerevoli possibilità del film d’azione. 3.2.1 La ristrutturazione dell’immagine dell’esercito americano Al centro degli anni anni ottanta, l’industria cinematografica americana è segnata dalla preoccupazione degli studios di rappresentare la guerra attraverso dei film (divenuti film di riferimento in materia per alcuni) che dimostrino la volontà di rivelare. Ma parallelamente a queste interpretazioni pessimiste e negative della guerra, si rinforza un corrente che perpetua la rappresentazione più classica, non della guerra e sicuramente non del Vietnam, ma quella del militare in generale. Così, appariscono nel corso del decennio delle opere che costituiscono tante bene formalmente quanto ideologicamente una sorta di riformattazione dell’immagine divenuta troppo negativa, dell’esercito e del comando in generale. Sotto l’impulsione delle tendenze conservatrici sempre più appoggiate, si ritorna sui temi degli anni precedenti, rifiutandoli il più spesso, cosicché emerga tutto un corpo di film che riesaminano i rapporti di autorità, e ristabiliscono l’immagine di una gerarchia più responsabile congiuntamente ad una potenza militare paterna e ragionevole. Si può allora citare i film seguenti: Taps (Taps, Squilli di rivolta, 1981), An Officier and a Gentleman (Ufficiale e gentiluomo, 1982), Firefox (Firefox – Volpe di fuoco, 1982), The Lords of Discipline (Cavalli di razza, 1983), Gardens of Stone (Giardini di pietra, Francis Ford Coppola, 1983), Call to Glory (Squadriglia top secret, serie televisiva,1984), Heartbreak Ridge (1986) e lo stesso anno il famosissimo Top Gun in cui, grazie allo splendente gioco di Tom Cruise, l’America riprende gloria e bellezza. Si trattano di film che possano rappresentare dei veterani del Vietnam (ad esempio Firefox o Gardens of Stone), ma il cui interesse si orienti in generale in modo totalmente diverso, in particolare verso la denunciazione dell’Impero del Male tanto biasimato da Reagan in piena guerra fredda. 52 Firefox e Top Gun riprendono le caratteristiche del film «aereo» in una forma modernizzata. Questo genere di film suscita sempre da parte dallo spettatore l’ammirazione di fronte allo spettacolo di queste macchine magnifiche sviluppate dalla tecnicità americana. Top Gun è un miscuglio di pubblicità per l’Aeronautica militare e di videoclip musicale, e Tom Cruise nel ruolo del tenete Maverick Mitchell, fa pensare a Luke Skywalker in Star Wars. Si nota anche in queste opere la preoccupazione di restaurare i codici e i valori vilipesi dai pacifisti, e seriamente danneggiati dall’episodio del Vietnam. In questo ambito, i film Taps, Ufficiale e gentiluomo, e Heartbreak Ridge sono molto eloquenti. Tutti i tre costituiscono delle variazioni a partire da un registro ben conosciuto: quello dell’allenamento delle reclute, magnificamente ripreso da Kubrick, l’abbiamo visto. Altro esempio, l’opera di Coppola, Giardini di pietra, offre una riflessione tragica sui valori militari e sul passato. Una constatazione è stata unanime: si stenta fatica a concepire che il film sia diretto dallo stesso regista di Apocalypse Now. Tanto Apocalypse Now è barocco, eccessivo, quasi gotico a tratti, tanto Giardini di pietra è sobrio e classico. Tony Williams ritiene che “a dispetto di stili visivi diversi, i film siano finalmente complementari”.75 Lo sono certamente nella misura in cui parlano tutti e due del Vietnam. Ma mentre la guerra e la follia sono al centro della prima opera, è una riflessione molto più moderata ma ugualmente profonda che motiva la seconda. Riflessione sul dovere, l’ubbidienza, l’onore. In Giardini di pietra, gli scambi verbali ma anche amorosi tra il sergente Clell Hazard (James Caan) e la giornalista Samantha Davis (Anjelica Huston) lasciano in modo efficace percepire il dilemma americano al momento del conflitto: come servire il proprio paese in un conflitto ingiusto per una causa persa? L’azione si svolge nel 1968-1969. Hazard e Davis sono contrari alla guerra, ma, mentre l’una, giornalista al Washington Post vi si oppone con veemenza, l’altro si ostina a volere fare il suo dovere, e a formare le reclute nel miglior modo possibile per aiutarli a ripararsi ed a difendersi. Si dice che Giardini di pietra sia un film di lutto, di silenzio e di raccoglimento. Ma non è né un film di collera, né un film di rottura. Attraverso l’evocazione della perdita del padre in Corea, di quella del bambino al Vietnam, il film riannoda in modo suo con il passato. Reimposta il Vietnam nel continuum della storia americana al posto di farne un’eccezione. 75 Analisi del film in Vietnam War Films (Jean-Jacques Malo e Tony Williams, Eds.), Jefferson, N.C e Londra, McFarland & Compagny, Inc., Publishers, 1994, p.171 55 che sono stati elaborati sotto le forme le più diverse nel corso del decennio: il veterano e il ritorno, figure chiavi della società americana. 3.3 Il recupero della figura del vet Il veterano e il suo ritorno costituiscono il nucleo narrativo il più fertile e il più vario del cinema americano degli anni ottanta. Abbiamo visto a che punto gli anni settanta avevano già considerevolmente giocato su questo personaggio e sul ritorno. Negli anni ottanta, la problematica si arricchisce, irradia in tutte le direzioni, si appropria quasi tutti i registri pur privilegiando logicamente il film d’azione. In tale misura, il veterano diviene non solo un’icona della guerra ma anche un’allegoria dell’America. Attraverso la sua figura si concentrano la maggior parte dei problemi psicologici e sociali, si esprimono i malesi, i rancori, a volte le speranze, ma anche spesso l’aggressività di una società ancora segnata dai postumi psicologici della disfatta. Per motivi evidenti e legittimi – lo vedremmo –, è Rambo che viene inevitabilmente in mente. Tuttavia, non si può ridurre a lui solo la problematica del veterano e del ritorno, sarebbe insufficiente. La tematica legata al veterano si scompone in quattro assi fondamentali che conviene di distinguere per capire il processo di rappresentazione, poi di recupero, dell’immagine. Prima, e soprattutto all’inizio degli anni ottanta, mentre si risente ancora la sofferenza della guerra, incontriamo il vet, vulnerabile dal dolore e dal fallimento, l’«assassino di bebè» che non è in grado di riprendersi dall’orrore che ha attraversato. Poi, in conseguenza alla propria esperienza militare, il veterano si trova anche molto spesso al centro di una violenza di cui non è sempre responsabile, ma che accentua il suo tratto asociale. Questa tematica dell’asocialità del vet sarà dunque ripresa, facendo l’eco naturalmente al decennio precedente. Nonostante ciò, vedremmo che nella metà degli anni ottanta, Rambo da un’altra ampiezza a questa figura, con la rappresentazione di un uomo contemporaneamente fragile e forte di chi si finisce col fidarsi. A tale punto che, pur riprendendo la tradizione iniziata specialmente dall’ispettore Harry, si trasformerà in giustiziere, e, in altre occasioni, si troverà totalmente inserito nel corpo sociale, come liberato del passato vietnamita. Naturalmente, la maggior parte di queste linee d’azione sono già emerso nel corso degli anni settanta. Ciononostante è dopo la guerra che si tracciano con la massima nitidezza, elaborando così una mitologia che permette di riscostruire più facilmente un passato discutibile. Dopo un momento di perturbazione, si fa dunque del veterano la chiave di volta della riscrittura 56 della guerra in una società che contribuisce a pacificare – nel migliore delle ipotesi –. 3.3.1 Un veterano alle innumerevoli sfaccettature Il veterano sarà dunque al cuore dei film degli anni ottanta. Gli spettatori potranno ritrovare il vet che conoscono già bene, con delle caratteristiche familiari; ma lo vedremmo, la figura che domina in questo decennio è senza dubbio quella dell’uomo forte. Innanzitutto, si assiste negli anni ottanta ad un recupero delle diverse figure del vet già sfruttate dalle produzioni del decennio precedente. La prima figura che ci viene in mente è forse quella dell’uomo indebolito. Logorato dall’orrore che ha subito e inflitto, o semplicemente dalla colpevolezza che prova di essere ancora vivente mentre tot compagni sono scomparsi, il veterano cerca la sua identità in un paese che non conosce più. Nulla di nuovo qui, ma si nota che la tematica sia molto cresciuta dalla fine della guerra e che le possibilità offerte dal DPTS si moltiplichino. Il film tipico di quest’approccio è Memorial Day, un telefilm realizzato nel 1983 da Joseph Sargent, in cui un veterano non può sopravvivere con le immagini che lo abitano: quello del massacro di bambini vietnamiti al quale ha partecipato. Gli anni ottanta abbondano di questi personaggi squilibrati e suicidi, a tale punto che questa tematica offra una deriva verso il film di orrore. Poi, assistiamo al cinema al ritorno del veterano alla giungla. John Hellman dimostra bene la fusione tra la giungla vietnamita e la foresta americana: “La giungla vietnamita e i selvaggi vietcong che l’occupano sono l’inversione da incubo della foresta americana e dei suoi magnifici daini. Il Vietnam funziona nel film come un’immagine allo specchio dell’America.”77 Per questo, il film il più rappresentativo è Distant Thunder (Rick Rosenthal, 1988). Esso vibra di tutti gli echi di una mitologia americana onnipresente, e soprattutto con questa natura certamente ambigua poiché dissimula la violenza e le trappole, ma che resti in fondo benevola e materna poiché invita alla redenzione e al perdono. Questa sete di redenzione è anche rappresentata sugli schermi nel corso degli anni ottanta. In maniera generale, si osserva che il ritorno dal Vietnam corrisponda piuttosto per i combattenti alla ricerca della pace all’interno. Tutte le narrazioni sottolineano d’altronde la 77 In « Vietnam and the Hollywood Genre Film » Michael Anderegg, Ed., Inventing Vietnam, 1991, p.56-80 57 necessità fondamentale dello scambio amoroso, o semplicemente affettivo. Il veterano appare sempre come quello che l’esperienza e la sofferenza hanno isolato, quello che si deve raggiungere attraverso il mistero e l’orrore. Così si disegnano la struttura dei quattro film più interessanti di questo periodo: Birdy (Birdy – Le ali della libertà, Alan Parker, 1984), Jacknife (Jacknife – Jack il coltello, David Hugh Jones, 1989), In Country (Vietnam – Verità da dimenticare, Norman Jewison, 1989) e Born on the Fourth of July (Nato il quattro luglio, Oliver Stone, 1989). Si trova ad esempio in Jacknife e in Nato il quattro luglio, la rappresentazione di un veterano che sprofonda in alcol e droga, naturalmente perché è stato una realtà, ma probabilmente anche perché si presta a degli effetti spettacolari. Oliver Stone porta lo spettatore nella spirale infernale del degrado fisico e morale, a partire dell’autobiografia di Ron Kovic, veterano del Vietnam, che, come abbiamo già visto, nel corso del suo secondo tour of duty nel 1968 è stato ferito alla colonna vertebrale ed è diventato paraplegico. L’alcol e la droga fanno dunque parte in questi film del processo di guarigione delle ferite del Vietnam. Inoltre, il veterano appare anche sugli schermi come catalizzatore della violenza. Ne testimoniano dei film come The Exterminator (Exterminator, James Lickenhaus,1980) e i seguiti, The Exterminator II (Mark Buntzman, 1984), Blue Thunder (Tuono Blu, John Badham, 1983), Nighthawks (i Nottambuli, Bruce Malmuth, 1981), Extreme Prejudice (Ricercati: ufficialmente morti, Walter Hill, 1987), The Return of Superfly (Il ritorno di Superfly, Sig Shore, 1990) o ancora American Commandos (o Hitman) di Bobby Suarez nel 1985. Il denominatore comune di questi film è naturalmente la violenza, una violenza urbana il più spesso, molto chiaramente inspirata del New York degli anni settanta e ottanta, sottomessa ad una pulizia severa da un veterano appassionato di ordine e poco attento quanto al mezzo di ottenerlo. Ad esempio, in The Exterminator, un architetto riprende le armi in seguito allo stupro della sua moglie e della sua figlia; e American Commandos racconta la trama della vendetta consecutiva a degli omicidi nella famiglia. Infine, si ritrova nel decennio in eco agli anni settanta, la figura del vet come giustiziere. È nel corso della seconda parte degli anni ottanta che si fissa, questa volta senz’alcun ambiguità, quest’immagine del veterano. Ciò, in modo soddisfacente per tutti. Soddisfacente per i veterani, la cui immagine diviene positiva; soddisfacente per la società che non vede più nel veterano una minaccia; e soddisfazione dall’industria cinematografica che lo associa al film d’azione e si dissocia della rappresentazione realista che altri registi ne fanno. A partire del 1985, il processo di accelera. Gli action flicks (film d’azione di mediocre qualità) si moltiplicano. Si può citare il famoso Lethal Weapon di Richard Donner (Arma letale, 1987) 60 un’ultima volta di fare pace con il suo padre, ancora fiero e ottuso. In questo western contemporaneo, il dialogo che si stabilisce nonostante tutto all’inizio tra i due uomini mira evidentemente a correggere le incomprensioni reciproche pur informando lo spettatore. “Uccidevo delle donne e dei bebè” spiega il figlio. “E perché?” E ogni parola tende a far capire al suo padre che ha disertato non per viltà ma per disgusto e convinzione. “Non credere che sia stato facile lasciare il mio paese. È stato un incubo. E non credere neanche che non sia stato l’inferno di schierarmi contro te.” Fortunatamente, alcuni personaggi, come quello della madre, creano un clima di tenerezza. La riconciliazione avrà luogo dopo una rissa tra il padre e il figlio, dopo di che quest’ultimo riprenderà la tradizione interrotta. Il film è melodrammatico, ma la qualità del gioco degli attori – di cui Charlton Heston nel ruolo del padre – rende l’insieme credibile, il che fa di Proud Men un film raro nella ricerca di conforto e di verità. Ashes and Embers è ancora più raro nella sua costruzione così come nella sua concezione. Totalmente indipendente, è stato diretto, scritto, prodotto da Haile Gerima. Il film rappresenta un veterano del Vietnam che fa fatica a ritrovare la vita civile a causa del fatto che sia nero e che si sia battuto in una guerra coloniale. In quanto nero, è ancora difficile per Nick Charles vivere negli Stati Uniti. Attraverso la tematica del ritorno dal Vietnam si impara anche la storia e lo statuto degli Africani-Americani. Il personaggio della sua nonna simbolizza il suo passato. Del ritrovarsi con lei non si vede niente tranne la cena che gli prepara. Si capisce attraverso questo cibo che Nick sta per ritrovare il passato. E in fin dei conti, Nick decide definitivamente di far rivivere la sua cultura. Il vet si ricostruisce dunque grazie alla cultura afro-americana. “Sono di ritorno, eppure non lo sono. Mi domando se qui sono me stesso.” Poi si torna verso la sua amica “Sono al Vietnam. Il Vietnam è qui.” Ritrovando la sua identità, il veterano ritrova dunque anche la sua comunità. La guerra del Vietnam apparisce da allora come una tapa supplementare nello sfruttamento dell’Africano- Americano dal sistema (capitalista) bianco. Discorso radicale, rivoltato: questo film è la voce di un’altra America che lascia uno sguardo sensibilmente diverso per l’epoca, sul significato della guerra. Questa voce radicale è davvero una scarsità nel percorso ideologico, e il radicalismo si rivolge contro l’America bianca piuttosto che la guerra stessa. Del resto, quando Nick Charles rinasce alla vita, lo fa in quanto Africano-Americano, e non in quanto opponente alla guerra. Questo riflesso etnocentrico è la caratteristica la più ricorrente che condividono questi film. Tutti rinviano ai benefici di un modo di vivere e di pensare che non hanno infatti molto a 61 che fare con la specificità vietnamita. Ora, ricordiamo che all’epoca il mondo è ancora lungi dall’esser globalizzato e che i rapporti dei vietnamiti con la terra, con la famiglia, con i morti, per citare unicamente delle evidenze, differiscono tantissimo da quelli degli occidentali. Rari sono i responsabili americani che se preoccupano di queste differenze essenziali. Il Vietnamita resta sempre per molti un enigma – il che permette probabilmente di provare meno scrupoli per quanto riguarda la sua eventuale eliminazione. Infine, come abbiamo già detto, la rappresentazione dei veterani “normali” al cinema non ha avuto grande successo, ma si deve sottolineare questi eccezioni che offrono non solo altri sguardi al tema della guerra del Vietnam, ma anche illustrano bene l’immensa versatilità narrativa degli anni ottanta. Così, al termine di questo decennio ci si rende conto di due punti fondamentali: l’industria cinematografica americana aveva tanto bisogno di dire la verità sulla guerra del Vietnam quanto divenire una nobile causa. I numerosi documentari dimostrano finalmente la realtà, ma la guerra viene comunque glorificata sugli schermi sulla domanda delle autorità. L’enorme volume di produzione del decennio permette la rappresentazione di questi due aspetti allo stesso tempo – e di tanti altri, l’abbiamo visto con la diversità delle possibilità narrative. Così, l’empatia dello spettatore per i protagonisti (che si ricordano con amarezza e orgoglio dei sacrifici adempiuti «per l’America») riconcilia un po’ più la società americana con il ricordo di questa guerra traumatizzante. 62 CONCLUSIONE “Non mi resta che scrivere qualche ultime parole e chiedere la dispersione, Vietnam Vietnam Vietnam, ci siamo tutti andati.” Michael Herr, Dispatches. Si può stimare che sia la guerra del Golfo che ha davvero posto termine alle ricadute del Vietnam nelle menti degli Americani. Il fatto stesso che gli Stati Uniti, vincitori della Guerra Fredda, osino impegnarsi in una nuova guerra senza sollevare delle enormi manifestazioni pacifiste dimostra che il ricordo della guerra del Vietnam sia un ricordo tranquillizzato e un trauma «digerito». Nel campo cinematografico, le cifre parlano da sole: il numero di film dedicati al conflitto vietnamita diminuisce già nel 1990, ed è in caduta libera nel 1991. Nel corso del periodo 1991- 2009, la totalità delle opere relativi al Vietnam non supera la dozzina. In ogni caso, si sente che l’analisi storica, sociologica ed ideologica sia da lungo stata «rivista», reinterpretata e riscritta. I film d’azione attingono d’ora in poi da altri fonti, in primo luogo perché il materiale militare degli anni sessanta e settanta è ormai obsoleto. La giungla vietnamita non possiede più l’attrazione di prima. La guerra del Vietnam è stata il più grande trauma vissuto dagli Americani nel ventesimo secolo, una «macchia» nel «loro secolo» che la società ha progressivamente attenuata per far entrare il racconto di questa guerra nella logica del «destino manifesto» e del trionfo degli Stati Uniti e dei suoi valori sui propri nemici. Questo lavoro è dunque stato un lavoro di memoria, di rilettura, di reinterpretazioni per aiutare gli Americani a vivere più o meno comodamente con il ricordo di questo fallimento. Abbiamo visto a che punto l’industria cinematografica abbia giocato un ruolo determinante nell’evoluzione di questo lavoro di memoria, attraverso dei film che coprono un ampio spettro: dall’elaborazione della realtà fino alle fantasticherie apocalittiche. Le immagini hanno il potere di colpire l’immaginazione del pubblico. Così della guerra del Vietnam restano in mente delle immagini, fisse o animate, reali o di finzione, ma sempre delle immagini. Dalla tipica fascia rossa di Rambo alla fotografia in bianco e nero della ragazzina bruciata al napalm, oppure l’arrivo degli elicotteri sullo fondo sonoro della Cavalcata delle Valchirie di Richard Wagner in Apocalypse Now, la guerra del Vietnam è diventata audiovisuale. Le immagini che si sono accumulate col passare degli anni hanno fatto del 65 Figura 2. « Saigon Execution », fotografia di Edward Adams, scattata il 1° febbraio 1968, NEW YORK – Associated Press. Esecuzione del soldato vietcong Nguyen Van Lem dal capo della polizia del Sud-Vietnam Nguyễn Ngọc Loan. Figura 3. Coperta del Life del 15 maggio 1970. 66 Figura 4. Un prigioniero in prima pagina del Life, 26 novembre 1965. 67 Figura 5. « The Green Berets », Ray Hellogg, John Wayne, 1968. 70 FILMOGRAFIA A Yank in Viet-Nam (altro titolo : Year of the Tiger). Marshall, Thompson, 1964. A Bridge Too Far. Richard Attenborough, 1977. A Rumor of War. Richard T. Heffron, 1980. Apocalypse Now. Francis Ford Coppola, 1979. Ashes and Embers. Haile Gerima, 1982. Alice’s Restaurant. Arthur Penn, 1969. Behind Enemy Lines. Gideon Amir, 1986. Birdy. Alan Parker, 1985. Blue Thunder. John Badham, 1983. Born on the Fourth of July. Oliver Stone, 1989. The Boys in Compagny C. Sidney J.Furie, 1978. Braddock : Missing in Action III. Aaron Norris, 1988. Casualties of War. Brian de Palma, 1989. Coming Home. Hal Ashby, 1978. Dear America : Letters Home from Vietnam. Bill Couturié, 1987. The Deer Hunter. Michael Cimino, 1978. 84 Charlie Mopic. Patrick Duncan, 1989. The Exterminator. James Lickenhaus, 1980. Extreme Prejudice. Walter Hill, 1987. First Blood. Ted Kotcheff, 1982. The Forgotten. James Keach, 1989. Full Metal Jacket, Stanley Kubrick, 1987. Gardens of Stone. Francis Ford Coppola, 1983. Go Tell The Spartans. Ted Post, 1978. Good Guys Wear Black. Ted Post, 1977. Good Morning Vietnam. Barry Levinson, 1987. The Green Berets. Ray Hellogg, John Wayne, 1968. Hamburger Hill. John Irvin, 1987. The Hanoi Hilton. Lionel Chetwynd, 1987. Heartbreak Ridge. Clint Eastwood, 1986. Heaven and Earth. Oliver Stone, 1993. Heroes. Jeremy Paul Kagan, 1977. Ice. Robert Kramer, 1970. In The Country. Robert Kramer, 1966. The Edge. Robert Kramer, 1968. In Country. Norman Jewison, 1989. Jacknife. David Hugh Jones, 1989. M*A*S*H. Robert Altman, 1970. Missing in Action. Joseph Zito, 1984. Missing in Action 2 – The Beginning. Lance Hool, 1985. Men in War. Anthony Mann. 1957. Motor Psycho. 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