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Hornblower - La Grecia classica, Sintesi del corso di Storia Antica

Storia della Grecia dalle guerre persiane fino d Alessandro Magno. NB: il riassunto comprende solo i capitoli 12-18 (dalla guerra del Peloponneso fino ad Alessandro)

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Hornblower - La Grecia classica e più Sintesi del corso in PDF di Storia Antica solo su Docsity! 12. La guerra del Peloponneso In vista della guerra contro Sparta, la strategia di Pericle era evitarla cercando di resistere agli attacchi degli avversari. Se ci fosse riuscito, Atene avrebbe vinto. Da qui l’ambiguità del termine usato da Tucidide per illustrare la strategia ateniese: perieinai, ovvero riuscire a farcela. Di contro, la strategia di Sparta, ovvero la liberazione del mondo greco, prevedeva un certo auto- annullamento dell’esercizio dell’egemonia spartana sul continente. La città si trovava di fronte ad un dilemma di natura finanziaria, perché dovette contare per forza sull’aiuto persiano, che però non sarebbe giunto se dalla liberazione non fossero stati esclusi i “Greci d’Asia”, ovvero quelli che erano stati soggetti al dominio persiano. Per Sparta, riuscire a farcela non bastava, ma occorreva assumere l’iniziativa essendo però molto male attrezzata a causa del suo precario sistema sociale. In un primo tempo, la città puntò all’invasione del territorio attico ogni estate, peraltro non decisive anche se dannose per l’economia ateniese. In seguito, negli anni Venti, Brasida iniziò a spostare la guerra conto gli alleati di Atene nella Grecia settentrionale riscuotendo più successi. Pericle aveva raccomandato agli Ateniesi di restare fermi dentro le mura e di cercare di non espandere il proprio impero. È dunque improbabile che l’evacuazione dell’Attica sia stata completa, come testimoniano i resti di fortificazioni presso Decelea o Ramnunte. Atene si astenne anche dall’intraprendere campagne oltremare, ma solo un’operazione di saccheggio contro Epidauro, nel Peloponneso, forse per tenere lontane le truppe durante la pestilenza, anche se si fece già largo l’idea di impadronirsi di teste di ponte in territorio nemico, non configurandosi però come una “estensione dell’impero”. Dopo la morte di Pericle, chi fu il responsabile delle deviazioni dalla linea di condotta da lui propugnata? Tucidide afferma che tali deviazioni non ci furono, ma forse si riferisce solo al corso della guerra archidamica (431-421) o forse all’intero corso della guerra. Comunque sia, la spedizione in Sicilia, all’inizio, non era un’idea sbagliata. Ma ci furono tali deviazioni? Per rispondere alla domanda, non è sufficiente rifarsi al giudizio di Tucidide, ma occorre considerare una prospettiva più ampia. Il nucleo centrale della narrazione tucididea nel primo libro è: 1. La prima invasione dell’Attica 2. La pestilenza ad Atene 3. L’assedio di Platea da parte di Tebe Il secondo libro descrive i combattimenti navali nel golfo di Corinto tra i Peloponnesiaci e le forze ateniesi, cercando di insistere più su alcuni dettagli che sull’importanza degli eventi descritti. Il terzo libro si apre con (1) la rivolta di Mitilene, alleata ateniese, e (2) la continuazione della vicenda di Platea. Tucidide sminuisce la perdita di Platea contrapponendola con quella di Mitilene, affrontata con rapidità e severità, forse perché ritenuta più importante. (3) Terzo grande pezzo del terzo libro è la descrizione della rivoluzione a Corcira. Ma contemporanea a questa vicenda si registra anche una prima spedizione in Sicilia, per portare aiuto a Leontini e anche per impedire che dalla Sicilia venisse esportato grano nel Peloponneso. Nel 426 Sparta fonda una colonia a Eralcea, a sud della Tessaglia, per bloccare ad Atene il passaggio verso nord e tagliarla fuori dall’Eubea, dove c’era grande abbondanza di risorse alimentari. Il passo di Tucidide è molto importante dal momento che mostra le ambizioni spartane sia per la comprensione mostrata dallo storico per le cause del conflitto, profonde (bloccare le ambizioni spartane in Tracia ed Eubea) ed immediate (portare aiuto ai Trachini ed ai Dori, suoi alleati contro i vicini Etei), nella sua globalità. Anche se condotta in grande stile, i risultati della fondazione ad Eraclea non furono all’altezza, l’impresa è un anello importante nella catena degli interessi spartani in Grecia centrale. Eraclea fu forse perduta all’epoca della pace di Nicia, per poi essere recuperata poco dopo, a dimostrazione che, anche dopo la morte del “troppo audace” Brasida la condotta ufficiale della guerra spartana non mutò. (4) Ultimo tema del terzo libro sono le operazioni di Demostene in Etolia contro gli Ambracioti, dove vennero persi 120 soldati “nel fiore degli anni”. Caratteristica maggiore di questo conflitto fu l’utilizzo di 1 soldati armati alla leggera, una sorta di anticipazione dei peltasti. La narrazione tucididea è anche qui “diagnostica”, ovvero lo storico isola e sottolinea elementi che gli sembrano idonei a spiegare un fenomeno di ordine generale. Con il quarto libro la narrazione assume un ritmo più serrato e Tucidide comincia a conferire un ruolo maggiore alla tyche e la presa di Pilo da parte di Demostene ne è un esempio, anche se la cattura di circa 400 cittadini spartani e perieci fu sì questione di fortuna e di audacia ma iniziò dalla valutazione del sito compiuta da un esperto di tattica militare. La fama per l’impresa fu però rubata a Demostene da Cleone, un politico, che riuscì a far approvare l’invio di un corpo di spedizione a Pilo e a far condurre i prigionieri ad Atene. L’episodio è il primo di una seria di collaborazioni tra politici e militari, fenomeno poi tipico del IV secolo. Con i prigionieri in mano, Atene disponeva di uno strumento di contrattazione con Sparta, a corto di uomini. Atene rifiutò una proposta di pace spartana, su consiglio di Cleone. La sua mano è anche riconoscibile in un provvedimento del 425:  Gli Ateniesi, abbagliati dal successo di Pilo, al ritorno dei generali dalla Sicilia li punirono perché non avevano conquistato l’intera isola. A ciò si aggiunse l’assalto all’isola di Citera antistante la costa spartana, la quale fece temere agli Spartani una sollevazione degli iloti, per altro non sfruttata da Atene, la quale avrebbe potuto facilmente vincere la guerra se avesse spinto in questo senso, ma non lo fece. Contemporaneamente, ad Atene andò peggio in un altro teatro di guerra, ovvero a Megare, dove Brasida riuscì a infiltrarsi nella città ed a favorire un colpo di stato oligarchico. Ancora peggio andò il tentativo di riprendere il controllo sulla Beozia, fatti che spensero l’entusiasmo ateniese dopo Pilo. In Beozia, la sconfitta ateniese a Delio fu un’anticipazione delle vittorie tebane culminate con Leuttra (371), dove i Tebani arrivarono a schierare ben 25 file di armate sull’ala destra dello schieramento, per arginare la tendenza degli opliti a slittare sul loro lato destro per ripararsi il fianco scoperto con lo scudo del compagno. Atene non pensò alla pace finché le cose non iniziarono ad andare male anche nel nord, quando molti siti finirono nella mani di Brasida, attivo nell’area dell’Istmo, dove faceva ricorso alla tecnica della “liberazione”. Perdita maggiore per Atene fu quella di Anfipoli (422), di notevole valore economico. Il generale ateniese responsabile della perdita fu proprio Tucidide. Ad Anfipoli persero anche la vita Brasida e Cleone, ritenuti da Tucidide i “principali impedimenti alla pace”. Entrambi muoiono in prima linea, ad evidenziare una caratteristica tipica degli scontri antichi che vedeva i generali combattere in prima oltre che pensare. In quest’ottica si deve considerare la volontà di pace spartana, dovuta sia ai Citera e ai prigionieri presi a Pilo sia allo scadere, nel 421, della Pace dei trent’anni con Argo. La pace di Nicia, del 421, mise fine ai primi dieci anni del conflitto, noti come guerra archidamica, a condizioni che equivalevano ad una vittoria per Atene, la quale ce l’aveva fatta, conservando il suo impero, ma dovendo cedere Citera. Per liberare Sparta da ogni paura di una rivoluzione sociale, Atene offrì una garanzia che avrebbe recato aiuto contro i suoi iloti, a riprova dei forti timori di Sparta circa la sua situazione interna. In quale misura, durante la guerra archidamica, Atene si attenne alle linee di condotta indicate da Pericle, specialmente tra il 429 e l’anno della sua morte (421)? Chi fu il responsabile degli elementi non “periclei”? Si è visto che anche prima del 429 il pensiero di Pericle non escludeva azioni di saccheggio. Ma come si colloca la spedizione in Sicilia? È difficile stabilire quale fosse l’interesse ateniese in Sicilia negli anni Venti. Quando Atene rispose all’appello di Leontini ciò era coerente alla linea di condotta di Pericle. Forse egli intendeva “congelare” temporaneamente ogni attività aggressiva in tempo di guerra, senza però precludere una diplomazia anche aggressiva verso le posizioni nemiche. Infatti, Siracusa stava diventando una minaccia e doveva essere fermata. Probabilmente l’euforia per il colpo di fortuna di Pilo portò l’assemblea a sbilanciarsi ed a pretendere che i generali in Sicilia conseguissero un successo più grande e tangibile. Le operazioni di Demostene in Etolia appaiono abbastanza coerenti nell’ottica periclea, ma solo se le si considera come un piano per arrivare in Beozia passando da dietro e per rendere sicura la frontiera settentrionale dell’Attica. Pericle, però, avrebbe accettato le proposte di pace spartane del 425? 2 Furono le conseguenze economiche della Sicilia ad infrangere per la prima volta dopo molti anni la concordia ordinum. La concordia tra i vari ceti sociali si basava sul comune interesse alla sopravvivenza dell’impero, tradotta in cleruchie e denaro per gli opliti e per i teti, proprietà terriere ed esenzione dall’obbligo di finanziare la flotta per i ricchi. Se questo fosse venuto meno, allora sarebbero venute a mancare anche le ragioni della solidarietà tra classi operante nei decenni precedenti. Le conseguenze della disfatta in Sicilia furono la perdita della flotta e il fatto che il malcontento degli alleati portasse all’interruzione del versamento del tributo attingendo al quale veniva finanziata la costruzione delle navi. Altro aspetto caratteristico dell’economia ateniese era l’esistenza di un vasto ceto di meteci, le cui perdite in Sicilia furono però consistenti, al punto che essi finirono per condividere l’irritazione delle classi alte verso il modo irresponsabile con il quale veniva condotto il conflitto. La rivoluzione oligarchica del 411 è un episodio rilevante e viene diffusamente trattata da Tucidide nell’ottavo libro. A riguardo si può anche disporre della Costituzione degli Ateniesi di Aristotele come fonte alternativa. Secondo Tucidide, non era facile togliere la libertà agli Ateniesi dopo un secolo durante il quale si erano abituati a dominare gli altri. Questo moto fu però di breve durata e cercò di sfruttare l’assenza dei teti da Atene, facendo leva su una supposta spaccatura politica tra questi e gli opliti. Il movimento oligarchico partì dal presupposto che un cambiamento nel sistema politico ateniese fosse auspicato dalla Persia, in modo da farla schierare al fianco di Atene. Venne così liquidato il Consiglio e Tucidide parla dell’episodio in un clima di terrore e incertezza, anche se l’episodio è assente nell’opera di Aristotele. Lo storico fa capire che i 400 oligarchi cercarono pretestuosamente di mettere il potere nelle mani di 5.000 cittadini, anche se l’opera aristotelica è vaga su questo passaggio, sostenendo che i 5.000 esistettero “solo a parole”. Ma la rivoluzione dei 400 non ebbe successo a causa delle divergenze interne alla cerchia oligarchica in riferimento a due questioni: 1. Il grado di partecipazione popolare nel nuovo regime 2. L’atteggiamento verso Sparta Gli oligarchi credevano di poter combattere contro Sparta con più efficacia dei democratici, ma, appena assunto il potere, fecero proposte di pace al re Agide, di stanza a Decelea. A capo dell’opposizione democratica vi era Teramene anche se, rispetto ai suoi sodali, era su posizioni più moderate e costituzionaliste sulla questione della partecipazione popolare. Nella Costituzione egli sostiene una proposta avanzata da Clitofonte sul “diritto di cittadinanza riservato agli opliti”, ovvero per coloro che “erano in grado di servire lo stato con il cavallo o con lo scudo”. La figura di Teramene è una delle più interessanti degli ultimi anni del V secolo: egli fu un fautore del rientro in patria di Alcibiade, a prova del suo disinteressato senso dello stato. La sua ricerca del compromesso politico ne fa una figura non comune in un’epoca di polarizzazione politica e di estremismo. L’occasione della caduta dei 400 fu la fortificazione a Eezionea, dove era stato costruito un muro. Teramene volle fosse abbattuto e che in città fosse instaurata una vera costituzione dei 5.000. in che cosa consistette questo regime è controverso, ma Tucidide lo elogia e mette in cattiva luce la democrazia radicale precedente e quella che verrà poi ripristinata. Ma questa interpretazione non è corretta: 1. Tucidide dice che ai 5.000 furono assegnati gli “affari” (pragmata), termine che viene interpretato comunemente come un riferimento ai compiti dell’assemblea e dei tribunali, in verità limitati agli opliti 2. Lo storico distingue tra i 5.000 e “l’aperta democrazia”, volendo dire che il regime dei 5.000 non era pienamente democratico 3. L’espressione metria xynkrasis, ovvero “misurata combinazione”, dovrebbe essere intesa in riferimento ad una costituzione mista, le quali, solitamente, negavano la cittadinanza a quanti nella scala sociale si trovavano più in basso degli opliti. Quando Tucidide definisce la costituzione dei 5.000 una “combinazione tra i pochi e i molti” non intende dire che i molti godevano di diritti politici sostanziali, ma solo che la costituzione rappresentava una combinazione degli interessi dei pochi e dei molti Sei mesi dopo la caduta dei 400 Atene vinse la battaglia navale di Cizico, nella regione dell’Ellesponto, nel marzo del 410. La vittoria ripristinò il morale ateniese ed indusse gli Spartani a chiedere la pace. Essa significò anche la fine dei 5.000. Atene era di nuovo in piedi e riuscì a riprendere il controllo di molti centri dell’Egeo orientale. 5 I successi di Alcibiade e degli altri generali nell’Ellesponto crearono una situazione delicata per quanto riguarda gli anni 410-407: essi erano troppo forti per essere deposti ma erano anche politicamente compromessi perché coinvolti nel regime dei 5.000. La soluzione fu che non vennero rimossi ma non ricevettero rinforzi: ne derivò la mancanza di un seguito alla vittoria di Cizico. Accade invece che Trasillo venisse inviato più a sud, in Ionia, dove pertanto non ottenne alcun successo, mentre i generali nel’Ellesponto agivano molto bene, eliminando così ogni motivo di tensione. Alcibiade ritornò ad Atene: egli era convinto che la chiave del conflitto fosse nella regione dell’Ellesponto e non altrove. Però, pochi mesi dopo, Antioco, comandante in seconda di Alcibiade, venne sconfitto a Nozio, decretando la fine di Alcibiade. Non era però finita Atene: il nuovo collegio di generali ateniesi fu in grado di sconfiggere nel 406 le forze spartane nella battaglia delle Arginuse. Nel momento in cui cessa la narrazione tucididea Sparta sembra aver vinto grazie al favore dei satrapi. Abbandonando le sue pretese nei confronti dell’Asia minore si era garantita l’aiuto finanziario di cui aveva bisogno per iniziare una guerra navale. La situazione era stata subito favorevole per la città: poco prima di Nozio, infatti, Sparta fa appello direttamente al Gran Re, mentre suo figlio, Ciro il Giovane, ottiene poteri supremi in riferimento alla parte occidentale dell’impero allo scopo di condurre nella zona operazioni nell’interesse spartano, in collaborazione con il comandante spartano Lisandro. La questione, però, risollevò il problema dei Greci d’Asia, chiusasi in apparenza nel 411 quando fu riconosciuto che essi appartenevano alla Persia. Ma i successi ateniesi misero in allarme Dario II e si tradussero in alcune concessioni fatte a Sparta a proposito dell’autonomia dei Greci della costa. Gli effetti dell’arrivo di Ciro si sentirono subito, come Nozio dimostra. Ma la vittoria ateniese alle Arginuse dell’anno dopo dimostrò che nemmeno tutto l’oro e l’argento del’impero persiano potessero compensare l’assenza di un comandante capace. Il comandante spartano era infatti Callicratida, generale mediocre. La battaglia delle Arginuse è memorabile soprattutto per quel che accadde subito dopo ad Atene: i generali avevano mancato di sottrarre alle acque i superstiti e la scusante data, ovvero una tempesta, venne rifiutata. Essi furono condannati a morte in blocco. Priva di Alcibiade e dei vincitori delle Arginuse, tra il 410 ed il 406 Atene, che era stata sul punto di vincere la guerra, sembrava che potesse difficilmente evitare di perderla. Poco prima della definitiva sconfitta del 405 a Egospotami si intravede ancora la figura di Alcibiade, il quale consiglia ai generali ateniesi di non commettere l’imprudenza di ricoverare le navi sulla spiaggia, dove sarebbero state esposte all’attacco di Lisandro. Il consiglio non venne accolto e la battaglia venne perduta. Atene era alla fame: non fu Egospotami e porre fine al conflitto, ma il taglio dei rifornimenti. La resa ateniese ed il ruolo di Teramene sono controversi. Senofonte afferma che Teramene venne inviato a Samo, quartier generale di Lisandro, e che li temporeggiò per tre mesi, forse per i dissensi che vi erano a Sparta circa la condotta da tenere nei confronti di Atene. Teramene fu quindi costretto all’attesa e non fu il responsabile del prolungarsi dei patimenti della città. Seconda accusa mossagli contro era che mancò di mantenere la promessa di recare al suo ritorno condizioni di pace tali da consentire ad Atene il mantenimento della flotta e delle mura. Però è abbastanza improbabile che Teramene avesse fatto tali promesse, dal momento che era impossibile fossero mantenute. Il vero ostacolo alla pace fu il demagogo Cleofonte, ma con la sua eliminazione Atene accettò ciò a cui non poteva opporsi, ovvero l’obbligo di cedere la flotta, tranne 12 navi, di abbattere le Lunghe Mura, di entrare a far parte della Lega peloponnesiaca e di “porsi al seguito di Sparta ovunque questa la conducesse”. La guerra era conclusa e l’impero ateniese era finito. 6 13. Gli effetti della guerra del Peloponneso La prima trattazione delle conseguenze della guerra del Peloponneso si trova nel secondo libro di Tucidide, nel passo in cui esamina il significato che per gli Ateniesi ebbe l’evacuazione dell’Attica. Anche essa non fu totale, l’inizio della guerra significò un mutamento di costumi di vita antichissimi e, parallelamente, una maggior concentrazione ed intensità della vita politica. Il desiderio, la “moda”, di scrivere monografie sopravvisse alla fine della guerra: si misero per iscritto moltissime tipologie di conoscenze. Ad Atene, dopo il Vecchio Oligarca, critico del sistema democratico ateniese, con il IV secolo si entra in un periodo di costruzioni sistematiche di teorie politiche, in primis la Repubblica e le Leggi di Platone. L’intento principale di Platone nella Repubblica è quello di dar vita ad una società ideale immune dal cambiamento e abbastanza forte da evitare di essere sopraffatta dall’esterno. La ragione di ciò sta nel fatto che, ormai, le potenze internazionali rivali erano molteplici, nessuna delle quali però in grado di imporsi definitivamente. Inoltre, il declino delle due potenze rivali, Sparta e Atene, aveva eliminato gli ostacoli che impedivano alle città stato più piccole di usare la forza l’una contro l’altra. Ne derivò un aumento dell’instabilità sia negli affari interni sia in quelli internazionali, come l’esempio di Argo nel 370-69 dimostra: dopo aver eliminato un migliaio di oligarchi, la massa d’un tratto aggredì i suoi stessi capi demagoghi. Oppure, nel 364-63 Orcomeno venne distrutta da Tebe e i suoi cittadini venduti come schiavi. Da queste circostanze sorse l’aspirazione di Platone, testimone diretto della tirannide siracusana. Egli era ostile alla democrazia radicale ateniese e questa ostilità era condivisa anche dal suo allievo Aristotele, il quale però non rifiutava alcuni elementi democratici e che metteva l’accento sulla qualificazione censitaria vista come pre-condizione dell’esercizio dei pieni diritti politici, creando un forte nesso tra cittadinanza e proprietà della terra- Della delusione nei confronti della democrazia furono presi anche altri pensatori. Lo Ierone di Senofonte discute della tirannide e mostra come essa possa essere compatibile con la felicità e con la giustizia, equivalente alla munificenza. Questa è una conclusione simile alla definizione di giustizia data da Platone, nella Repubblica, quando suggerisce che essa consista nel dare benefici agli amici. La Ciropedia, sempre di Senofonte, presenta aspetti romanzeschi ed è un contributo all’autocrate che fondò l’impero persiano. La ragione della scelta di un simile soggetto è il disincanto dell’autore di fronte agli ideali democratici, per altro tipico del IV secolo, secolo di convinzioni monarchiche. Quest’opera è il primo dei trattati sulla monarchia: Ciro è il capo che esercita il potere non per diritto divino o con l’opposizione, ma in virtù dei titoli di merito conferitigli dai suoi sforzi, facendolo una sorta di servitore dello stato. Questa teoria della sovranità era condivisa dai cinici, i quali credevano nella rinuncia a vivere nella società, paradosso radicale per un greco, ma che mostra quanto ormai l’idea di polis fosse sull’orlo del fallimento. Tra i pensatori di questo secolo c’è anche Isocrate, nella cui opera, il Filippo, si rivolge a Filippo II di Macedonia. Tra le sue pagine si scorge la convinzione che i problemi del mondo greco sono troppo grandi per essere risolti da decisioni prese a maggioranza. È dunque richiesto un autocrate. La moda di scritti di questo tenore non era limitata alla sola Atene, come dimostra l’opera di un certo Cleone di Alicarnasso, il quale scrisse un trattatello dove consigliava Lisandro su come cominciare a riformare la regalità spartana, rendendola una “carriera aperta al talento”, una professione come le altre. Il IV secolo, in effetti, è un’epoca di professionismo in generale, come dimostrano i molteplici trattati di ordine tecnico pubblicati. Molti autori sono solo dei nomi e solo per caso si sa che Androzione, il grande storico dell’Attica, scrisse un trattato sull’agricoltura, a riprova dei sentimenti politici conservatori ed all’attività del tempo libero di un gentiluomo proprietario di terre. L’ambito, però, nel quale si avverte maggiormente lo scarto tra i due periodi, pre e post guerra del Peloponneso, è quello della teoria e della pratica della guerra. 7 Politicamente, la democrazia batte ovunque in ritirata. Il 446 era stato l’anno culmine per la democrazia ateniese: la flotta di Atene, strumento del proselitismo democratico, ora non c’era più, cessò di esistere nel 404. Le sue ambizioni marittime erano però sopravvissute, ma la città non riuscì più ad esportare e ad imporre la democrazia come aveva fatto ai vecchi tempi. Sul piano interno la democrazia ateniese assunse un carattere meno radicale ed i poteri delle magistrature esecutive vennero potenziati a danno dell’assemblea. Dato che Atene esercitava un’influenza minore che in passato, si dovettero mettere alla prova altri sistemi politici, il più ovvio dei quali fu quello spartano. La vittoria del 404 portò al potere regimi oligarchici e spesso controllati da Sparta, come i Trenta tiranni ad Atene. Il responsabile di questa politica di imposizione di questi regimi fu Lisandro. L’imperialismo spartano era duro ma popolare presso le cassi proletarie, come ad esempio a Samo, dove furono tributati a Lisandro onori cultuali. I metodi spartani non erano però in genere accettabili e nel complesso del mondo greco il dominio della classe conservatrice dei proletari per radicarsi dovette attendere l’epoca ellenistica e romana. L’esperienza della democrazia ateniese e dei regimi oligarchici appoggiati da Sparta portarono alla ricerca di sistemi politici di tipo diverso. Uno fu la tirannide vecchio stile. Una sua caratteristica fu che essa si affiancò all’urbanizzazione. A fine V secolo e ad inizio IV si trova la tirannide in zone, come la Tessaglia, che prima ne erano state esenti: la ragione è che in questo momento vi sono centri urbani come Fere, dominata da Licofrone e poi Giasone. I tiranni tessali del IV secolo non furono gli unici, dato che alcuni satrapi assomigliarono, per ricchezza, mecenatismo e per il loro controllo sulle istituzioni cittadine, ai Pisistratidi ad Atene. Non era automatico che i Greci detestassero i tiranni, come dimostra Senofonte quando parla dei funerali tributati a Eufrone di Sicione. Il più grande vivaio dei tiranni fu comunque la Sicilia, che dopo il 406 tornò ad essere retta dal tiranno Dionisio I. Tuttavia, l’ideale democratico ateniese alla lunga non fu messo in crisi da simili tirannidi, ma da un quarto tipo di regime: la monarchia ereditaria tradizionale della Macedonia, la cui struttura poleica era meno sviluppata della Tessaglia di Giasone. Filippo non aveva assemblee civiche che lo ostacolavano. Da questo punto di vista, la monarchia epirota sembra aver avuto un carattere più avanzato: già prima del 385 le tribù montane dei Molossi si erano unite a quelle vicine per dare luogo ad uno stato con un re, dei magistrati, dei rappresentanti delle tribù e delle figure di carattere sacrale. L’Epiro era un misto di tribalismo, di monarchia di stampo omerico e di governo greco costituzionale. La coalizione di stati rappresentata dal koinon dei Molossi porta direttamente al quinto tipo di regime politico dell’epoca post-guerra del Peloponneso, ovvero il regime federale. Le “Leghe” in Grecia ebbero, in principio, carattere sacrale piuttosto che politico. Né la Lega di Delo né quella peloponnesiaca contribuirono poi molto allo sviluppo del federalismo. Il più antico e importante dei koina greci e la Lega beotica. Le potenze egemoni non apprezzavano questi raggruppamenti federali e non si fidavano di loro, come dimostrano i tentativi spartani di smantellare la Lega arcadica dopo Leuttra o le preoccupazioni ateniesi affinché l’isola di Ceo, organizzatasi forse negli anni Cinquanta su base federale, amministrasse i propri affari kata poleis. In verità, il sistema federale fu più democratico di quanto lo fossero molte assemblee primarie delle cosiddette democrazie. Sul piano politico, il disinganno nei confronti delle “superpotenze” Atene e Sparta dopo la guerra del Peloponneso spinse a cercare altre forme di organizzazione politica ed a rivolgersi ad altri che potessero salvare gli stati greci, questa volta all’esterno del mondo ellenico. Dunque gli stati secessionisti che combatterono contro Atene nella guerra sociale (357-355) si rivolsero alla Persia e non furono più democratici, nonostante, come Rodi, fossero all’inizio delle democrazie. La spiegazione di ciò sta nella politica ateniese: non era più vero che ovunque il demos fosse favorevole ad Atene. Coloro che poi chiesero aiuto alla Macedonia non fecero altro alleviare la paura di Sparta, debole dopo la perdita della Messenia per opera di Tebe. Ciò era dovuto allo scarso attaccamento per Sparta e Atene e per i loro metodi, oltre che per i loro passato imperialismo. Comunque sia, nessun re o satrapo si sarebbe potuto imporre in Grecia se una della grandi città-stato avesse avuto la forza di stroncarli sul nascere. Il fatto è che nessuna delle poleis lo fu e le motivazioni sono prettamente di natura economica. 10 Infatti, per vincere la guerra del Peloponneso erano serviti i denari persiani, senza i quali nessuna potenza in lotta avrebbe potuto vincere il conflitto. La debolezza economica degli stati greci fu dunque messa in risalto con la guerra. Polibio, per parte sua, si impressiona per il modo in cui Roma riesce a lottare per decenni contro Cartagine: ciò è dovuto alla politica di integrazione italica e di inserimento nella macchina bellica romana dei popoli assoggettati nella penisola, cosa che Atene non fece mai per i membri del suo impero. Ad Atene, oltre che ad un problema economico, ve ne era anche uno di tipo umano, al punto che si nota come gli Ateniesi fossero attestati come mercenari già all’inizio del IV secolo. La povertà dei Greci implicava la necessità di far uso di mercenari invece che di opliti cittadini, ma gli stessi mercenari erano un problema, dato che creavano disordine sociale ed accrescevano la povertà. Atene aveva sempre fatto fronte al problema economico sorvegliando con attenzione le vie d’approvvigionamento di grano e spedendo nelle cleruchie le bocche da sfamare, ma nel IV secolo tutto questo non era più possibile, nonostante cerchi sempre di liberarsi della popolazione in eccesso con sforzi coloniali vecchio stile, come a Samo, una specie di aporrox (ramo o canale di scarico?) della città. Altri espedienti per liberarsi della popolazione in eccesso passavo tramite il mercenariato ed altre forme di emigrazione volontaria. Il crollo dell’impero ateniese, in grado di dare lavoro a molte persone, provocò una diaspora di scultori, ceramisti, architetti e capomastri che vi lavoravano. Alcuni si trasferirono in Italia ed in Sicilia, altri presso le corti dei satrapi e dei re di altre regioni, contribuendo così alla diffusione della grecità. La popolosità è un indice di prosperità: ad Atene le statistiche non sono però semplici, ma se la capacità della città di dare sostentamento diminuisce, allora potrebbe essere corretto parlare di sovrappopolamento nel V secolo e a metà del IV. Tucidide afferma che ad Atene c’erano 43.000 cittadini maschi, da moltiplicarsi per 2,25 in modo da tener conto anche donne e bambini, alzando il numero a poco più di 96.000 persone. La guerra del Peloponneso portò ad un calo drastico, tanto che la popolazione oplitica, intorno al 322, contò forse 14.500 uomini, diminuendo ancora al tempo di Alessandro con l’emigrazione in Asia. Le cifre del consumo di grano danno conferma di questi numeri. La Penteconteia, dunque, è un periodo di grande prosperità e la popolazione ateniese raggiunge l’apice nel 432 circa. Poi la pestilenza e le perdite in guerra provocano un pesante calo. Nel IV secolo la popolazione aumenta nuovamente e da qui sorge la necessità delle forme di emigrazione. Atene è ora priva dell’impero e la prosperità economica non è più quella di prima, dato che i ricchi non dispongono più delle loro proprietà oltremare e i poveri non hanno più la possibilità di avere cleruchie. Tenendo conto di ciò si può comprendere il desiderio di recuperare tutto ciò che si era perduto, potendo così comprendere la politica estera ateniese tra il 400 e il 350. Dopo la guerra, tutta l’Attica fu di nuovo ateniese, con la riorganizzazione dei demi lontani. Furono anni duri dal punto di vista finanziario, ma non si devono accentuare troppo le tinte fosche di quegli storici che parlano di una “crisi” dell’Attica durante il IV secolo. Una spiegazione marxista delle difficoltà economiche è che i latifondisti si accaparrarono tutta la terra, espellendone i piccoli proprietari ed i contadini. L’ipotesi si basa sul consistente numero di horoi, ritenuti prova dell’esistenza di una classe contadina impoverita. È stato però dimostrato che di solito queste ipoteche erano un modo per procurarsi denaro usato da gente che era in condizione di notevole prosperità economica e che intendeva farne uso per mettere insieme una dote o per dare in affitto proprietà di figli minorenni, ad esempio. Verso la metà del IV secolo è anche documentata un’accresciuta attività imprenditoriale individuale nelle miniere d’argento del Laurio. I problemi economici di Sparta nel periodo 425-370 sono acuti e trovano espressione nelle difficoltà di ordine demografico. Gli Spartani, dopo aver ottenuto un impero nel 404, imposero un tributo ai popoli assoggettati, la cui cifra riportata (mille talenti) è troppo alta. Essi non riuscirono a risolvere il solito vecchio problema, ovvero come possedere e amministrare un impero e nello stesso tempo tenere sotto controllo la popolazione ilotica soggetta. La questione balzò in primo piano dopo il 400, in occasione di una rivolta di massa nota come congiura di Cinadone, scoperta e schiacciata solo con una brutale repressione. In Beozia le conseguenze economiche della guerra furono opposte a quelle che si ebbero ad Atene: la Beozia crebbe non appena Atene cadde in basso. 11 I Beoti approfittarono delle difficoltà economiche che l’occupazione spartana di Decelea causò ad Atene, accaparrandosi a basso prezzo gli sfollati, gli schiavi, saccheggiando le campagne che i ricchi ateniesi avevano abbandonato e impossessandosi di qualsiasi cosa fosse di valore. Questa prosperità spiega anche l’esplosione del potenziale umano beotico. Corinto, invece, risentì della guerra. La sua flotta venne rimpicciolita, così come diminuì il potere d’acquisto dei mercanti di pesce della città. Il risultato di questa contrazione della classe media fu, negli anni Novanta del IV secolo, la fusione di Corinto con Argo in un unione democratica. Dopo la guerra del Peloponneso, la città non tornò mai più ad essere la potenza che era un tempo. Concentrarsi sulle vecchie città-stato può risultare fuorviante, perché nella prima metà del IV secolo c’era un gran numero di ambienti del mondo greco o ellenizzato che non risentivano della depressione economica, come la Tessaglia, la Macedonia e la Sicilia. In Macedonia, l’opera di ristrutturazione promossa da re Archelao fu possibile grazie al fatto che l’interferenza ostile di Sparta e Atene era stata eliminata con la guerra, procurandogli grandi vantaggi. Il re poté espandersi anche in Tessaglia. Alla sua morte, nel 399, terminò questa fase energica per la Macedonia, che visse decenni di anarchia politica fino all’arrivo di Filippo. Nell’Asia Minore persiana il declino dell’influenza greca durante il IV secolo fu un disastro dal punto di vista degli ammiratori della democrazia, ma fu un incremento della prosperità della regione, la quale si manifestò in molti modi, come la costruzione di monumenti o lo spostamento di siti urbani per far posto ad una popolazione più numerosa. Il mecenatismo dei satrapi avvantaggiò i Greci sul piano individuale, attirando presso di loro numerosi artisti e tecnici ateniesi, creando una sorte di arte “ibrida”. Concludendo, è opportuno parlare dei mutamenti di ordine religioso dovuti alla guerra del Peloponneso. Figura ricorrente di questo periodo è il mercenario greco, il cui impatto si fece sentire anche entro questa sfera. Nonostante le novità cultuali, l’antica religione olimpica sopravvisse, come testimonia Senofonte, a differenza dell’agnostico Tucidide. Il predominio delle credenze individuali è evidente nella spedizione in Sicilia, dove lo storico narra di come Nicia si fece convincere da un’eclissi di luna a rimanere in Sicilia più a lungo di quanto era sensato fare. Uno studio recente osserva che a un gran numero di Ateniesi gli scrupoli religiosi furono spesso un impedimento. Sopravvive anche la fede nei misteri eleusini, come dimostra l’attenzione prestata al santuario nel IV secolo dal punto di vista materiale. Da ultimo, gli oracoli: l’atteggiamento “medizzante” di Delfi nelle guerre persine non ne danneggiò certo la reputazione, tanto che gli Spartani all’inizio della guerra del Peloponneso si rivolsero all’oracolo come se fosse una questione di normale amministrazione. La fede di Senofonte nella punizione divina dei misfatti e negli oracoli è normale. Inoltre registra come l’oracolo delfico sia più prestigioso di quello olimpico. Senofonte non era l’unico ateniese di ceto sociale elevato ad essere superstizioso, ma era cosa condivisa dai suoi concittadini. È sullo sfondo di questo conservatorismo religioso che vanno valutate le innovazioni di quest’epoca. Le forti tensioni provocate dalla guerra fecero sì che intellettuali come Platone ed Euripide prendessero le distanze dal razionalismo per abbracciare una religiosità più acritica. Sorgono così nuovi culti, come quello di Bendis, attestato nella Repubblica. La pestilenza, ad esempio, portò notevole popolarità ad Ascelpio, mentre sorse un altro culto di stampo oracolare, ovvero quello di Ammone, in Egitto. Infine, luoghi come Sardi erano sotto l’attrazione dello Zoroastrismo. Quale conclusione si può fare alla luce di quanto detto? Si osserva, ad esempio, che gli Ateniesi erano sempre stati innovatori in campo religioso, come testimonia l’impulso di Pisistrato al culto di Dioniso, di Artemide Brauronia, di Atena Nike e di Eracle. Ma il carattere “esotico” dei culti sorti dopo la guerra del Peloponneso richiede una spiegazione, una delle quali potrebbe essere la diffusione di un certo irrazionalismo verso la fine del V secolo: l’interesse per i culti di origine remota sarebbe un desiderio di evasione spirituale dalla realtà. 12 Anche in Asia Minore i metodi di Lisandro vennero abbandonati per quella data, anche se la presenza di Sparta nell’Egeo orientale fu motivo di irritazione per i satrapi e per il re persiano. La ragione principale risiede nel fatto che quando nel 401 Ciro si rivoltò contro Artaserse II, suo fratello, lo fece con l’appoggio spartano. La spedizione contro la Persia, però, mancò il suo obiettivo e Ciro fallì a Cunasa, morendo in battaglia. L’esercito greco, reclutato in Tessaglia e noto come i Diecimila, riuscì a tornare indietro, arrivando fino al Mar Nero e proseguendo poi verso la Grecia, come narra l’Anabasi di Senofonte. Alcuni Greci, però, rimasero in Asia, per essere poi accolti da Tibrone, comandante spartano giunto nella zona con l’intento di liberare le città della Ionia. Come si arriva alla missione di Tibrone? Le città greche della Ionia vivevano una situazione cruciale: a quanto pare esse, nel momento della rivolta di Ciro, allora satrapo di Lidia, erano assegnate alla satrapia di Tissaferne, ma passarono dalla parte del ribelle, in virtù della sua amicizia con gli Spartani. Tissaferne aveva dunque ottime ragioni per risentirsi del comportamento spartano nel corso degli ultimi anni del secolo, dal momento che non solo aveva cospirato per togliere il trono ad Artaserse, ma lo aveva anche privato delle città ioniche. Così quando i Diecimila tornarono indietro, il satrapo tentò di recuperare le città ioniche perse, le quali, da parte loro, chiesero aiuto a Sparta. Da qui la missione di Tibrone. La politica spartana in Asia, dunque, continuò ad essere dinamica anche quando non fu più condizionata da Lisandro. L’ostilità persiana verso la città è dovuta alla costante presenza di truppe spartana in Asia per tutta la prima metà degli anni Novanta del IV secolo. La minaccia non era solo per la Persia, ma anche per gli altri stati greci, i quali sapevano quale fosse l’importanza strategica del controllo della costa anatolica. L’allarme provocato da questa posizione di Sparta è una causa della guerra corinzia, ma non l’unica. A ciò si deve aggiungere l’espansione spartana in Grecia centrale e nell’Egeo settentrionale. 2. Nell’Egeo settentrionale fu Taso ad essere oggetto delle attenzioni di Lisandro, il quale massacrò i democratici del luogo. La città era stata parte del sistema imperiale ateniese ed era stata estremamente fedele ad Atene, come Samo, dunque, in un certo senso, sono sensate le rappresaglie spartane. Ma Lisandro fu molto più ambizioso, recandosi in Tracia e assediando Afiti nell’area di Potidea in Calcidica. La documentazione più interessante è però il discorso Peri politeista che va sotto il nome di Erode, dove si sollecita i cittadini della tessala Larissa ad unirsi a Sparta nella lotta contro il re macedone Archelao, il quale aveva occupato la zona cuscinetto tra la Tessaglia e la Macedonia, forse la Perrebia. Dunque Sparta, dopo la guerra, era attiva in Tessaglia ed in Macedonia con un gioco diplomatico ad alta tensione. Queste attività sono da ricondursi a Lisandro, anche se non fu esclusiva sua, dato che nel 400 circa lo spartano Erippida fu inviato ad occuparsi di un stasis ad Eraclea Trachinia, colonia fondata nel 426 per controllare le vie d’accesso da sud alla Tessaglia. Altri riferimenti collocano una guarnigione spartana a Farsalo e che Licofrone di Fere era alleato di Sparta verso l’inizio del IV secolo. Dunque, dopo il 405, la città stava riprendendo la sua politica di espansione in Grecia centrale, specialmente in Tessaglia e Macedonia. 3. La terza area dove si esercitò il coinvolgimento spartano è la Sicilia, dove dopo la sconfitta inflitta agli Ateniesi era seguito uno stato di guerra permanente contro i Cartaginesi. A Siracusa, nel 406, si era insediato il tiranno Dioniso I, la cui posizione non salda venne sfruttata da Sparta. In primis inviò sull’isola un certo Arete con il pretesto di aiutare i Siracusani e recuperare la libertà, ma contribuendo di fatto a consolidare il potere di Dioniso. Non si tratta di un caso isolato dei rapporti tra Sparta e Siracusa, come mostrano gli esempi di Gilippo, salvatore di Siracusa nel 414/413, Ermocrate, il quale combatté per Sparta nelle acque della Ionia, e di un certo Dessippo il Lacedemone, il quale aveva ricevuto, nell’ultima fase della guerra del Peloponneso, il controllo di Gela da parte dei Siracusani e che Dioniso cercò di corrompere. Egli non volle però cooperare e fu quindi cacciato dalla Sicilia da Dioniso, nel timore che potesse cercare di ripristinare la libertà in città. Arete, invece, incoraggiò gli oppositori del tiranno ottenendone la fiducia, salvo poi informare il tiranno sul loro conto. L’aiuto di Sparta a Dioniso arrivò in un momento difficile, dato che la lotta con Cartagine era finita con una pace negoziata che lasciava ampia influenza sull’isola alla città punica, nonché il diritto di imporre un tributo 15 ad alcune città greche. Dioniso necessitava di consolidare il suo potere dando proprio il via ad una campagna contro i Siculi, la quale rischiava però di generare un forte malcontento e, infatti, portò ad una rivolta. Il tiranno, assediato nella cittadella, promise di ritirarsi con sole cinque navi, ma infine riuscì a resistere. In questa delicata situazione giunse Arete. In Sicilia riuscì a Sparta quello che non era riuscito a Cunassa con Ciro. Dioniso non mancò di mostrare la sua gratitudine, dato che doveva alla città lacedemone la sopravvivenza della sua tirannide. Arete, pare, fu inviato da solo. Man mano, però, che il potere di Dioniso cresceva e che si preparava, nel 396, a rinnovare lo scontro con Cartagine, diventava sempre meno rischioso appoggiarlo. Così vennero inviati in Sicilia aiuti sempre più concreti, ovvero trenta navi al comando di Farace, il quale chiarì da subito che era venuto per aiutare il tiranno e non per rovesciarlo. Gli interessi spartani in Occidente vennero mantenuti vivi continuamente, anche se assunsero una forma più concreta con la fine della guerra del Peloponneso. Dal punto di vista spartano, l’appoggio a Dioniso fu fruttuoso, dato che, la Pace del Re del 387/386 fu determinata dalla superiorità spartana sul mare, a cui contribuì sicuramente la Persia ma anche l’apporto siracusano. Come vedevano tutto ciò gli altri stati greci? L’attività spartana in Sicilia non viene citata tradizionalmente come una delle cause della guerra corinzia, ma ciò forse dipende da una tendenza storiografica di trattare la Sicilia in separata sede. Atene, ad esempio, era abbastanza ansiosa di portare Dioniso dalla sua parte, come dimostra un’iscrizione di onori civici tributatigli a partire dal 393 e che Conone fece sì che fosse inviata nello stesso periodo un’ambasceria ateniese in città, ma invano. I tentativi ateniesi non terminarono ed infine riuscì ad ottenere un’alleanza con il tiranno nel 368, anche se morì subito, anche se ormai a quell’epoca Atene e Sparta erano ormai alleate contro Tebe e dunque lo schieramento di Dioniso a fianco degli Ateniesi non deve essere visto in chiave anti-spartana. Ma il timore di un antico asse Sparta-Siracusa rese plausibile il timore o la gelosia di Atene a proposito della Sicilia. A ciò va poi aggiunta l’ostilità di Corinto, alimentata non tanto dall’attività di Arete e Farace in Sicilia, ma piuttosto dall’eliminazione a Siracusa del corinzio Nicotele forse proprio per mano dello stesso Arete. 4. Ultima area dove i tentativi espansionistici di Sparta sono manifesti e anche quella meno documentata: l’Egitto. Vi sono solo due elementi a riguardo: 1. Una visita di Lisandro all’oracolo di Ammone, troppo a ridosso dell’impero persiano per non destare sospetti 2. L’invio, nel 396, da parte di un faraone ribelle di aiuti materiali a Sparta destinati alla guerra contro la Persia Questi dati suggeriscono un interesse di Lisandro per il continente africano, non di natura religiosa ma di indagine verso le possibilità di un eventuale appoggio di Sparta nei confronti di qualche figura emergente, esattamente come il caso di Ciro e Dioniso testimoniano. Insomma, Sparta si stava proiettando verso tutti e quattro i punti cardinali: 1. Est: Samo 2. Nord: Macedonia, Tracia, Tessaglia, Taso 3. Ovest: Siracusa 4. Sud: Egitto Di questa espansione, la Persia si sentì minacciata da quella orientale e meridionale. Atene e la Beozia temevano invece un accerchiamento: se Sparta avesse, attraverso la Tessaglia, la Macedonia e la Tracia, puntato all’Ellesponto e avesse anche preso posizione in Asia allora avrebbe potuto procurarsi il dominio permanente degli stretti, controllando i rifornimenti di grano degli stati che, come Atene, se lo procuravano attraverso il Mar Nero. Queste sono le “vere cause” della guerra corinzia, riconducibili all’accrescimento della potenza spartana nelle aree sopracitate fino al punto in cui essa destò allarme presso i Greci e li “obbligò alla guerra”, come dice Tucidide. Prima a muoversi fu la Persia. La missione di Tibrone in aiuto alle città della Ionia era diretta contro Tissaferne, allora satrapo di Lidia. Ma sotto Dercidilla, successore di Tibrone, la guerra fu ampliata e portata verso nord, in quanto egli stipulò un 16 armistizio con Tissaferne e attaccò il satrapo della Frigia ellespontica, Farnabazo. Le ragioni, secondo Senofonte, sono di ordine personale e risalgono al 407, quando il satrapo era stato la causa delle sue punizioni per un crimine di guerra. Comunque sia, i due satrapi fecero causa comune e mandarono messaggi d’allarme al re, anche se non si era ancora arrivati al punto di scoppio di una guerra se non fosse stato per l’odio personale che il re nutriva verso gli Spartani, risalenti forse al loro appoggio a Ciro. Il re persiano Artaserse ordinò quindi che fosse allestita una flotta al comando dell’ateniese Conone, il quale, dopo Egospotami, era rimasto a Cipro. Sparta, saputo dalla flotta in allestimento, alzò il livello dell’impegno bellico inviando il nuovo re Agesilao, accompagnato da Lisandro, affinché intraprendesse una “crociata” anti-persiana. Senofonte inserisce in questo periodo la vicenda di Cinadone, la cui repressione della congiura spiega come mai Sparta potesse inviare con molta sicurezza una grande spedizione al di là del mare, laddove il timore di una sollevazione degli iloti la distoglieva sempre da quel genere di imprese. Il comportamento di Agesilao al momento della partenza, ovvero il suo sacrifico celebrato in Aulide ad imitazione di Agamennone provocò un incidente, ovvero l’impedimento del sacrificio da parte dei Beotarchi. Le intenzioni di Agesilao erano così ambiziose come suggerisce Senofonte? I Beotarchi facevano bene ad essere tanto suscettibili? È inevitabile riconoscere in questo gesto un enorme valore simbolico: esso rivela un piano di conquista su vasta scala, tale da rivaleggiare con la guerra combattuta dai Greci contro Troia. Colpisce però che, quando Agesilao arriva in Asia, offra a Tissaferne un accordo più realistico, basato sull’”autonomia dei Greci d’Asia”. Forse, l’incidente dell’Aulide era pura propaganda con lo scopo di accelerare le trattative diplomatiche circa la reale questione sul tappeto, che era proprio l’autonomia dei Greci della costa asiatica. Agesilao, il cui vero intento era di staccare dalla Persia alcune satrapie ribelli, abbia in un certo senso “ingannato” Senofonte, molto incline ad un “panellenismo” che consisteva nel sogno di una guerra dei Greci contro la Persia. A conferma delle intenzioni di Agesilao ci sono le numerose “amicizie ospitali” che allacciò in Asia con singoli Persiani, mentre si mostrava nello stesso momento come un campione della grecità contro l’impero persiano. Questa ambivalenza di atteggiamenti anticipa in qualche modo la politica di Alessandro, il quale distrusse l’impero persiano ma ne promosse il personale dirigente e ne perpetuò la stirpe regale mediante i matrimoni con i suoi ufficiali. L’accordo con Tissaferne fu solo temporaneo (tre mesi). Quali che fossero i motivi di Agesilao, il satrapo mirava solo a guadagnare tempo per chiedere al re un esercito. Non l’ebbe e nella battaglia di Sardi (395) morì. Questo fu il culmine dei successi spartani sulla terraferma. L’offensiva persiana arrivò dal mare, un anno dopo, con la rivolta di Rodi, incoraggiata dalla ripresa persiano-ateniese e dalle prospettive che essa lasciava intravedere. Sostituto di Tissaferne era Titrauste, che offrì ad Agesilao a nome del re ciò che questi aveva cercato, ovvero l’autonomia dei Greci d’Asia a condizione che gli Spartani facessero ritorno in patria. La vittoria di Sardi aveva però incoraggiato gli Spartani, tanto che si mossero verso la satrapia di Farnabazo, cercando di distoglierlo dalla sua fedeltà alla Persia. Senofonte sostiene qui che il progetto di Agesilao era di “spingersi il più possibile ad Oriente”, sostenendo dunque che avesse ancora progetti di conquiste su larga scala. Non si può sapere quali fossero però i veri piani di Agesilao dal momento che i sospetti nei confronti di Sparta avevano dato origine ad una guerra che lo costrinse a tornare indietro. Le vere cause di questa guerra sono state discusse sopra, ma le aitiai, le cause occasionali erano molto banali. Lo storico di Ossirinco e Senofonte le espongono in due versioni leggermente diverse: due popoli della Grecia centrali, i Locresi ed i Focidesi, erano venuti a contesa riguardo alcuni territori. Il partito anti- spartano in Beozia, guidato da Ismenia, incitò i Focidesi ad invadere la Locride, la quale protestò contro la Beozia, che, a sua volta, mandò aiuti ai Locresi. Dunque i Focidesi si rivolsero a Sparta, che prima cercò di intavolare un arbitrato, ma poi andò in aiuto alla Focide. Lisandro, tornato in Grecia prima di Agesilao, invase la Beozia fino ad Aliarto. Senofonte afferma che gli Spartani erano ben contenti di combattere non perché fossero ostili ai Beoti, ma perché in Asia le cose stavano andando bene e non c’erano altri conflitti in corso. Occorre però andare oltre questa posizione superficiale. Le Ellenice di Ossirinco offrono una documentazione preziosa sulle fazioni interne delle singole città, anche se la sua opera dà troppo peso a fattori banali e di natura personale, nonostante siano anch’essi di grande importanza. La chiave degli avvenimenti, secondo lo storico, era rappresentata proprio da queste divergenze 17 15 Dalla Pace del Re a Leuttra Senofonte ed Isocrate parlano di Sparta come la custode della Pace del Re. Dopo il 386 il suo prestigio di fatto crebbe molto, anche se, come afferma Diodoro basandosi su Eforo di Cuma, perse parte della sua reputazione per aver abbandonato i Greci d’Asia. Il prestigio che Senofonte ha in mente è una questione di potere e non di ideologia, conferito ovvero dalla mera egemonia militare sulla Grecia. Prima di considerare come Sparta approfittò di questa egemonia, ci si deve chiedere con quanto scrupolo i Greci, dopo la stipula della Pace del Re, si tennero lontani dall’impero persiano. Tiribazo e Oronte, agenti del re, riuscirono a recuperare Cipro senza interferenze greche, mentre in Egitto Titrauste e Farnabazo andarono incontro ad un pesante insuccesso. A fianco del faraone ribelle Acori era presente l’ateniese Cabria con alcuni mercenari, che non può essere considerato come del tutto indipendente da Atene. Però, dopo il 386, l’atteggiamento della città verso i protagonisti della sua effimera impennata imperialistica fu di disapprovazione, la quale prova più che altro l’irritazione per il fallimento delle iniziative intraprese. Ora Atene poteva agire solo per vie indirette, come tramite Cabria. Negli anni successivi si sente di occasionali azioni ateniesi sul continente asiatico, di poco conto. Comunque, in sostanza, Atene fu rispettosa della clausola “asiatica” della pace. Quanto a Sparta, l’unica infrazione alla clausola fu l’aiuto che concesse al ribelle Glos, soleva tosi contro i Persiani in Ionia alla fine degli anni Ottanta, un episodio curioso dal quale non sortì nulla. Diodoro non è quindi molto lontano dal vero quando parla di un abbandono politico dell’Asia dal momento che Atene è incapace di agire e l’atteggiamento aggressivo di Sparta è confinato solo alla Grecia continentale. La città aveva usato qui la sua posizione di influenza contro la democratica città arcade di Mantinea, nata dalla concentrazione di alcuni villaggi e dunque una violazione all’autonomia delle varie unità che formavano quella concentrazione. Senofonte sostiene però che non sia il legalismo a muovere Sparta, bensì la volontà di punire Mantinea per una serie di colpe passate che nel complesso sembravano una dimostrazione di indipendenza: richiamarsi alla Pace del Re era solo un modo per giustificare qualsiasi azione. Ci si occupò anche di Filunte, la quale, dopo essere stata castigata, rimase fedele a Sparta. La città rispose anche ad un appello che le venne rivolto dalla Grecia settentrionale, dove la morte del re macedone Archelao, cui non aveva fatto seguito l’ascesa al trono di uno sovrano forte, ritardò di 40 anni l’unificazione della Tessaglia e dei Balcani sotto un macedone. La situazione poteva quindi essere sfruttata da molte potenze piccole e grandi, come infatti avvenne. Sparta era già presente nell’area, a Eraclea ed a Farsalo, già all’epoca di Archelao. In seguito, però, la guerra corinzia aveva ostacolato l’espansione al nord: la guarnigione a Farsalo fu annientata ed Eraclea fu presa da Tebe. Dopo la Pace del Re Eraclea tornò nella mani di Sparta, ma nel frattempo Tebe aveva iniziato a nutrire interesse per la Tessaglia, dove iniziò a tessere alleanze con Larissa, Crannone, Farsalo e Scotussa. Inoltre, ad avvantaggiarsi della debolezza macedone c’era anche la Lega calcidica, incentrata su Olinto, con la quale sembra che Aminta, padre di Filippo il Macedone, abbia stipulato un’alleanza cinquantennale contemplante garanzie di aiuto in caso di invasione ed accordi commerciali. In effetti Aminta usò l’aiuto calcidese quando la Macedonia venne attaccata dagli Illiri negli anni Ottanta: il re venne temporaneamente cacciato, ma riottenne il trono grazie all’aiuto dei Tessali e sicuramente dei Calcidesi, i quali, secondo Diodoro, ottennero anche vaste concessioni territoriali come contropartita, che rifiutarono di rendere quando la situazione politica di Aminta migliorò e li rivolle indietro. Il riferimento ad un aiuto dei Tessali è notevolmente importante, dal momento che mostra che nessuno, in Tessaglia, aveva interesse che la Macedonia cadesse nelle mani degli Illiri, a sottolineare il ruolo di ammortizzatore della regione verso gli attacchi esterni diretti alla Grecia. Inoltre mostra che la Tessaglia, spesso oggetto del desiderio altrui, avesse in potenza una forza che non la obbligava alla passività e che a volte fosse in grado di agire unitariamente per il proprio interesse. I “Tessali”, espressione vaga, sembra indicare un’azione pan-tessala del tiranno Giasone di Fere, la cui attività è da collocarsi in quegli anni. 20 Il rifiuto di Olinto di restituire i territori e la preoccupazione di altre città calcidesi, in particolare Acanto e Apollonia, furono la causa dell’appello di Aminta a Sparta, che si dovette considerare, stando alla versione di Senofonte, più vicina al vero, un appello solo delle città calcidesi. La versione di Diodoro, però, non può essere ignorata: Tebe e Atene stavano considerando, nel frattempo, di unirsi a Olinto, cosa che avrebbero fatto solo se l’avversario di Sparta fosse stato un re macedone e non le città greche di Acanto e Apollonia perché, in quel caso, avrebbero violato la clausola dell’autonomia, rischiando una rappresaglia spartana. Comunque sia, Tebe e Atene non si spinsero così in là da stipulare un’alleanza. Fu commesso però un atto gratuito ed ingiustificato di aggressione quando il comandante spartano Febida, oltrepassata Tebe alla volta di Olinto, accettò l’invito della fazione filo-spartana tebana e si impadronì della città installandovi una guarnigione. Tebe, da parte sua, non aveva violato la Pace del Re: Sparta, al massimo, poteva invocare il fatto che nessun Tebano stesse partecipando alla campagna di Olinto in qualità di alleato. Insomma, gli Spartani, come nel caso di Mantinea, stavano solo facendo i loro interessi. Senofonte stesso, simpatizzante e amico degli Spartani, vede l’occupazione della Cadmea come un’empietà, la cui punizione divina sarà Leuttra. Olinto chiese la pace nel 380 dopo alcuni combattimenti non decisivi: la città fu costretta ad accettare l’egemonia militare spartana e fornire truppe su richiesta. Sparta, vista la carenza di Spartiati, non poteva permettersi l’installazione di una guarnigione in due grandi città contemporaneamente come Olinto e Tebe, quindi si basò sulla strategia di controllo di Agesilao, che andava sotto il nome di philetairia, ovvero “appoggio dei propri sostenitori” e che si fondava sull’economia nell’uso della forza. L’occupazione della Cadmea di Tebe, però, causò problemi. L’azione di Febida fu un vero oltraggio dato che non capitava spesso di impadronirsi e di mantenere sotto il proprio controllo un’importante polis greca. Febida venne multato, ma venne impiegato nuovamente come armosta a Tespie, mentre la Cadmea non venne evacuata: gli Spartani, come osserva Plutarco, “punirono l’autore dell’offesa, ma approvarono l’offesa stessa”. Il 380, per Diodoro, fu il culmine della potenza spartana: Tebe era occupata, Corinto e Argo erano state intimidite e Atene era ancora impopolare per la sua politica delle cleruchie sul territorio degli stati sconfitti. In quest’epoca, inoltre, l’armosta spartano di Tebe, Erippida, fu in grado anche di bloccare i tentativi espansionistici in Eubea di Giasone di Fere. La situazione della città è simile a quella del 395: i successi militari fecero sì che si sviluppassero quelle dinamiche ostili che avrebbero poi distrutto quei successi e dato il via alla guerra. Vi è anche un parallelo con il 404/405, quando fu Atene ad aver bisogno di Tebe per liberarsi della propria guarnigione spartana e degli oligarchi mantenuti al potere da Sparta. Ora era Tebe ad aver bisogno di Atene: è la famosa “liberazione della Cadmea”. La reazione ateniese all’espansionismo spartano negli anni Ottanta è cauta: un’alleanza con Ebrizelmi, re di Tracia, forse per conservare una certa influenza nel Nord, e un’alleanza con Chio, in accordo ai termini della Pace del Re, la quale mostra però come fosse l’umore delle isole dell’Egeo orientale, dove l’egemonia persiana era incontestata ed il timore dei satrapi abbastanza forte. Atene non disponeva della forza sufficiente per fare nulla: l’alleanza con Chio non era così utile per rinforzare la flotta, nonostante Isocrate, nel suo Panegirico, esortasse la città a liberare le isole dell’Egeo, le quali guardavano a lei come alla loro protettrice. La deferenza formale nei confronti della Persia dimostra ben altro, così come il richiamo di Cabria dall’Egitto su richiesta esplicita del re. Nel 379/378 la fortuna smise però di girare a favore di Sparta: nell’inverno un gruppo di esuli tebani, tra i quali Pelopida, entrò in città ed assassinò i “tiranni” tebani messi da Sparta. Tutto ciò avvenne con l’aiuto ateniese, cui seguì una seconda spedizione di Atene, più grande, benché smentita da Senofonte. I due generali che ne avevano però preso parte vennero poi processati e condannati, a riprova dell’agitazione ateniese per la vicenda e del fatto che Atene guardasse alla sua sicurezza, come dimostrano i trattati con Chio, Bisanzio e varie altre isole, che diedero la nascita alla seconda Confederazione ateniese, che Senofonte non cita nemmeno. Lo storico menziona però un’incursione al Pireo dello spartano Sfodria, sensata nell’ottica della preoccupazione verso la rinascita ateniese. 21 Nel febbraio del 377 venne promulgato l’atto costitutivo della fondazione della Confederazione, la quale dovette affrontare da subito la sua collocazione entro i vincoli della Pace del Re. Una rasatura deliberata di una parte del testo all’inizio del documento implica che la righe in questione non possono essere utilizzate senza cadere in un circolo vizioso. Però, alcuni riferimenti del testo all’alleanza precedentemente fatta con Chio sembrano voler inquadrare la nuova confederazione entro la pace. L’atto costitutivo rende noti i timori e gli intenti ateniesi: in primo luogo l’atteggiamento verso Tebe, benevolo verso la sua democrazia, anche se i Tebani non vengono chiamati Beoti, significando che Atene non riconosce le pretese di sovranità della città sulla Beozia. Inoltre, un’espressione menziona degli ambasciatori da mandarsi a Tebe per persuadere i Tebani “a quelle buone deliberazioni cui era loro possibile indurli”, riferendosi probabilmente al riaccendersi dell’attività tebana in quel periodo nell’ambito della riunificazione della Beozia sotto l’egemonia tebana. Vi è forse anche un timore di un avvicinamento tra Tebe e Sparta. Non ci sono oscurità riguardo all’identità del principale nemico contro il quale la confederazione era rivolta: Sparta, la quale deve consentire ai Greci di essere autonomi. Nel frattempo Sparta aveva assolto Sfodria per il gesto al Pireo, allo stesso modo in cui aveva fatto con Febida. Tuttavia, il programma anti-spartano passa in secondo piano quando si dice che “chiunque faccia la guerra agli strati segnatari … Atene ed i loro alleati risponderanno in loro soccorso”. Il riferimento non è a Tebe, ma sicuramente alla Persia ed ai satrapi: Rodi, Chio e altri non temevano tanto la lontana Sparta quando la minaccia vicina dei Persiani. La deferenza ateniese verso la Pace del Re va quindi vista entro una giusta ottica. Per quanto riguarda la rappresentanza, 1. Atene si propose di evitare gli eccessi che avevano contraddistinto il suo impero nel V secolo. I poteri degli stati alleati erano vasti: vi erano due Camere, una per loro e una per Atene 2. Per quanto riguardava il tributo, esso veniva fissato dai synedroi 3. Per terzo, l’atto costitutivo implica l’esistenza di un tesoro comune, del quale potevano disporre gli alleati 4. Gli Alleati avevano diritti giudiziari: la violazione delle garanzie doveva essere giudicata in seno “agli Ateniesi e agli alleati” 5. La presidenza del sinedrio degli Alleati era esercitata da un non-Ateniese Cosa implicava tutto ciò? In sostanza, meno di quanto sembri. I poteri giudiziari del quarto punto, ad esempio, altro non erano che la partecipazione degli Alleati ad un procedimento giudiziario ateniese. Nei processi di ci si ha notizia, poi, gli Alleati non appaiono nemmeno. A proposito del tributo, la sua imposizione era una violazione alle garanzie (vedi sotto). La presenza del tesoro ebbe pochissima importanza ed il quinto punto, nonostante fosse di grande importanza l’istituzione di un sinedrio per gli Alleati, altro non era che l’accettazione dell’egemonia ateniese. Si aggiunga poi che non tutti gli alleati di Atene erano anche alleati della confederazione: a questo proposito si possono citare alleanze essenzialmente ateniesi con Aminta, con i sovrani Traci. Il parere degli Alleati fu poi ignorato quando si trattò di stabilire la pace con Filippo nel 346, nonostante gli alleati fossero presenti nei negoziati nella persona di Aglaocreonte di Tenedo. Passando alle garanzie, 1. Non dovrà esserci un tributo, phoros. Esso venne denominato semplicemente syntaxis, ovvero “contribuzione, introdotta da Callistrato 2. Non ci saranno governatori e guarnigioni 3. Dovranno essere abbandonate le proprietà possedute nei territori degli alleati, facendo esplicito riferimento alle cleruchie, le uniche esistenti delle quali erano Lemno, Imbro e Sciro, che pertanto non furono restituite né si pensò di farlo 4. Nessun Ateniese dovrà coltivare terreni in territorio alleato 5. “Le stele sfavorevoli dovranno essere abbattute”: ovvero? Forse ci si riferisce ai cippi di confine che delimitavano le terre confiscate da Atene o forse stele che davano a cittadini ateniesi il diritto di possedere terre in territorio alleato 6. Sono garantite le libertà costituzionali e l’autonomia 7. Un certo numero di diritto degli stati membri sono presupposti, inclusa la libertà da interferenze finanziarie, religiose e giudiziarie 8. È garantita la sicurezza materiale dai saccheggi dei pirati, definizione puramente di convenienza Molte di queste garanzie vennero presto violate. 22 16 Da Leuttra a Mantinea e alla rivolta dei satrapi Dopo Leuttra, Giasone di Fere parve trarne un vantaggio immediato: distrusse le fortificazioni di Eraclea “per rimuovere ogni ostacolo al suo ingresso in Grecia” (Senofonte), eliminando definitivamente Sparta dalla Grecia centrale. Annetté anche la Perrebia, precedentemente possesso di Archelao di Macedonia. Senofonte sostiene che Giasone avesse delle aspirazioni concrete sulla Grecia meridionale, mentre Polidamante di Farsalo gli attribuisce progetti più grandiosi, quali una guerra contro la Persia. Quali che fossero questi piani, essi non vennero realizzati, dal momento che Giasone venne assassinato nel 370: gli succedette suo nipote Alessandro, dopo una lunga e sanguinosa contesa per il potere. Dopo Leuttra, Giasone, personaggio che impressiona fortemente Senofonte, era apparso l’ago della bilancia tra le potenze greche dislocate a sud dei suoi domini, soprattutto quando convinse i Tebani a non distruggere ciò che rimaneva dell’esercito spartano ed insistette perché essi abbandonassero al momento la partita mentre la stavano vincendo. La morte di Giasone, e di Aminta poco dopo, riaprirono ancora il teatro della Grecia centrale e settentrionale agli intrighi ed alle invasioni estere, soprattutto Sparta ed Atene, ora che Sparta era fuori dai giochi. La politica estera tebana duranti gli anni Sessanta si concentrò in tre aree: 1. Peloponneso 2. Tessaglia e Macedonia 3. Mar Egeo, con la “politica navale” di Epaminonda Ad Atene, dopo Leuttra, era stata conclusa una pace generale dalla quale Tebe era stata ancora una volta esclusa. Atene sperava ancora di poter limitare la capacità tebana di procurare danni ed al contempo di promuovere i propri interessi, anche se la preoccupazione cresceva. Quanto alta fosse la preoccupazione ateniese è evidente in un incidente non trattato da Senofonte. Leuttra era destinata ad incoraggiare i regimi democratici e le prime avvisaglie di ciò si ebbero in Arcadia, dove la popolazione dispersa di Mantinea ribaltò la situazione che le era stata imposta da Sparta nel 384 e si diede a ripopolare e fortificare il centro urbano. Licomede di Mantinea organizzò anche tutta l’Arcadia in uno stato federale, edificando in pochissimo tempo una capitale, Megalopoli. Tegea era stata costretta ad entrare nella lega e gli esuli contrari a ciò si rifugiarono a Sparta. Contro il certo intervento di Sparta, gli Arcadi si rivolsero ad Atene, ma le loro richieste vennero respinte. Dunque, si rivolsero a Tebe, la quale nell’inverno del 370/369 invase il Peloponneso. La prima invasione è illustrata da Senofonte come un’iniziativa presa a malincuore da Epaminonda, anche se Pausania la inquadra entro una precisa determinazione. I risultati furono tangibili: la lega arcadica fu consolidata abbastanza da rappresentare un continuo ostacolo nei confronti di Sparta, ma soprattutto avvenne l’invasione della Laconia e la liberazione della Messenia, la quale provocò l’annullamento concreto della potenza spartana, a causa della mancanza dei fertili kleroi messeni, essenziali al mantenimento dello stile di vita spartano. Atene inviò soccorsi a Sparta, ma l’esercito beotico lasciò il Peloponneso incolume. La seconda invasione andò peggio, dal momento che Epaminonda si ritirò di fronte ad un esercito che includeva anche aiuti provenienti da Dioniso I di Siracusa. Stavolta gli Arcadi stessi mostrarono risentimento nei confronti di Tebe, quanto bastava per rialzare il morale di Sparta, la quale sconfisse gli Arcadi nella cosiddetta “battaglia senza lacrime”. Nel 367 Tebe era pronta a cercare una soluzione diplomatica nella conferenza di pace di Susa. Occorre però prima considerare la Grecia settentrionale negli anni 371-367. La prima invasione tebana includeva nell’esercito dei Tessali. Durante la seconda, gli Ateniesi suggerirono agli Spartani di usare le truppe di Dioniso contro i Tebani in Tessaglia, a riprova che l’espansione tebana nel nord trovava la viva opposizione ateniese. Ma quanto vigore aveva la politica ateniese nel nord della Grecia in questi anni? Molto poco, se non nessuno. Solo dopo Leuttra tornarono a galla dei problemi quali Anfipoli o il Chersoneso in Tracia, con qualche isolata rivendicazione. Di fatto, Atene non fece nulla fino al 368, quando Ificrate fu inviato ad Anfipoli, dal momento che l’anno prima Pelopida aveva visitato brevemente la Macedonia durante il breve regno di Alessandro II. Probabilmente questa era una strategia complementare a quella di 25 Epaminonda nel Peloponneso: smantellare la potenza spartana li e neutralizzare l’influenza ateniese qui. L’intervento di Pelopida nel nord va anche inteso come una risposta al mutamento di direzione dell’imperialismo ateniese, il quale rispondeva sì ad un mutamento geografico, ma soprattutto una tendenza politica, dato che il coinvolgimento ateniese nel nord non prometteva altro se non uno spreco delle risorse degli alleati. Pelopida, comunque, era stata condotto nel nord per rispondere ad una richiesta d’aiuto delle città tessale contro il successore di Giasone, Alessandro di Fere, e contro l’altro Alessandro, quello di Macedonia, il quale aveva installato guarnigioni a Larissa ed a Crannone. Pelopida riprese Larissa, obbligò Alessandro a ritirarsi in Macedonia ma non abbatté lo strapotere di Alessandro di Fere, tornandosene a Tebe. Poco dopo, in Macedonia Alessandro fu ucciso e gli succedette Tolomeo in qualità di reggente in nome del figlio di Aminta, Perdicca. Una serie di lagnanze contro Tolomeo ed Alessandro di Fere riportarono poi Pelopida nel nord nel 368. Però, in Macedonia, Tolomeo ed Euridice, vedova di Aminta, erano riusciti ad assicurarsi l’aiuto ateniese di Ificrate, tanto che all’arrivo di Pelopida parve che l’influenza tebana nell’area fosse venuta meno. Comunque sia, Tolomeo si accordò subito con Pelopida, nonostante le sue scarse forze, consegnandogli anche degli ostaggi, tra i quali il futuro re, Filippo II. Probabilmente, Tolomeo aveva compreso che Atene si sarebbe rivelata una cliente più scomoda di Tebe, date le ambizioni territoriali ateniesi ad Anfipoli. In Tessaglia, invece, Alessandro di Fere fece prigioniero Pelopida con l’inganno e ci vollero due spedizioni tebane per farselo riconsegnare. La prima fallì perché Alessandro si era rivolto ad Atene, la quale inviò degli aiuti, cercando anche di convincere gli Spartani ad usare in quella zona le truppe di Dioniso I. Quando infine Pelopida venne rilasciato si pagò un prezzo: Tebe si sarebbe tenuta lontana per 3 anni dal nord della Grecia. Il coinvolgimento di Tebe nel nord in questi anni, comunque, non portò a grandi risultati: la missione di Pelopida non era di rendere la Tessaglia una provincia tebana ma di procurarsi il maggior numero di amici e seguaci per evitare che un futuro Giasone penetrasse nel sud. Ad ogni modo, Tebe poteva essere invocata come un potenziale ostacolo nei confronti di Alessandro di Fere, accontentandosi di essere una sorta di asso nella manica per i sostenitori tessali. Non vanno dimenticati gli aspetti religiosi del controllo della Tessaglia, dato che lì era presente il Consiglio anfizionico di Delfi: tale controllo, esercitato bene da Tebe negli anni Sessanta, è importante per capire come la città beotica riuscirà a provocare la Guerra sacra. Verso il 368, però, Tebe dovette sentirsi a corto di amici, con Atene ed Alessandro di Fere schierati contro nel Nord e con l’Arcadia che creava problemi nel Peloponneso. Così, Tebe e Sparta si incontrarono per una conferenza di pace tenutasi in quell’anno a Delfi, convocata da Filippo di Abido, un rappresentante di Ariobarzane, satrapo della Frigia ellespontica. La riunione fu un fallimento, dal momento che fu chiesto a Sparta di riconoscere l’indipendenza della Messenia. Ma la città di Filisco fornì dei mercenari agli Spartani, migliorando la loro situazione e permettendo alla città di continuare a rappresentare una minaccia nei confronti di Tebe. Una sforzo più serio in vista del conseguimento della pace venne fanno nel 367 a Susa, dove Pelopida fu la figura centrale, il quale chiese che Sparta acconsentisse alla perdita della Messenia e che le navi ateniesi fossero tirate in secco. La Persia approvò il piano di Tebe, ma l’accordo non fu accettato da Sparta ed Atene, la quale fu però poi costretta a rassegnarsi quando, nel 366, Tebe si impadronì del territorio conteso di Oropo, nell’Attica nord-orientale al confine con la Beozia, conseguenza diretta della secessione dell’Eubea dalla confederazione ateniese, dopo Leuttra. Questo fatto contribuì ad un mutamento nei sentimenti ateniesi: Callistrato, responsabile della politica anti- tebana ateniese, fu processato ed esiliato. Fu tentata una condotta diversa, quella delle concessioni a Tebe: Atene acconsentiva al possesso tebano di Oropo ed alla sua egemonia sulla Beozia, ma in cambio chiedeva il riconoscimento “da parte del re di Persia e dei Greci”, del diritto di Atene al Chersoneso. Il patto fu formalizzato nel 366/365 nei termini di una Pace del Re. Piegandosi alla pace alle condizioni di Tebe, Atene aveva acquisito il diritto di dar seguito alle sue pretese sul Chersoneso. A differenza poi della prima Pace del Re, questa non impediva di agire contro la Persia, anzi, nel 366 Atene inizia una decisa attività anti-persiana, caratterizzata da un imperialismo più aggressivo entro la Lega, consentendo a Tebe di sfidare Atene sul mare, dove la città era diventata impopolare. 26 Il teatro dello scontro degli interessi ateniesi e persiani fu Samo: probabilmente dopo la pace del 366 Timoteo fu inviato in aiuto al satrapo Ariobarzane, ormai in aperta rivolta. Giunto sull’isola sconfisse la guarnigione persiana ed assediò la città, installandovi una cleruchia e cacciando i Sami. Samo, a favore di Atene, non faceva parte della Confederazione e non era dunque garantita dagli impegni presi nell’atto costitutivo. Inoltre, la guarnigione persiana era una violazione alla Pace del Re, con la quale la Persia si era impegnata a rispettare le autonomie delle isole greche, a parte Cipro e Clazomene. Samo occupava una posizione strategicamente importantissima ai fini del controllo della navigazione attraverso l’Egeo: la guarnigione persiana era sia un indebolimento per Atene sia una provocazione nei confronti della capacità ateniese di proteggere i suoi alleati insulari. All’opposto, a sfavore di Atene si nota che molti stati greci fecero buona accoglienza dei Sami espulsi, a riprova dei sentimenti di ostilità verso gli Ateniesi. Non fu saggio, secondo Cidia, oratore ateniese, rinfocolare gli antichi timori associati alla parola “cleruchia” in un momento personaggi come Epaminonda potevano sfruttare a loro piacimento gli errori ateniesi. La ricerca di “amici che non fossero la Persia”, come prospettato da Leone, un delegato ateniese, nel 367 alla conferenza di Susa, getta una luce diversa sull’intervento ateniese a Samo in aiuto ad Ariobarzane, da intendersi forse come un colpo inferto ad Artaserse, non solo da parte ateniese: anche il re di Sparta Agesilao venne in aiuto al satrapo quando era assediato in Eolide da Mausolo di Caria e da Autofradate di Lidia, entrambi ancora fedeli alla Persia. È ragionevole dunque sospettare che l’attività congiunta di Timoteo e di Agesilao facesse parte di un accordo volto a fornire ai satrapi che erano sul punto di rivoltarsi dei mercenari greci. Il che equivale a dire che la fase principale della Rivolta dei satrapi, collocata da Diodoro al solo 362, fosse di fatto già iniziata. Le operazioni di Timoteo e la cleruchia che ne derivò diedero ad Epaminonda l’opportunità di sfruttare l’impopolarità di Atene erigendosi a sua rivale nel mare, esortando i Tebani a “trasferire sulla Cadmea i propilei dell’acropoli ateniese” ed a avviare le costruzione di cento triremi, operazione che non portò a molto, anche se alcune navi tebane furono mandate a Bisanzio e nel Mar Nero in aiuto ad Eraclea. Il “viaggio” per mare di Epaminonda portò dalla sua parte Rodi, Chio e Bisanzio, alleate di Atene, anche se, per il momento le prime due non la abbandonarono. Bisanzio lo fece ed il suo abbandono fu dannoso per l’Attica per la sua collocazione lungo le rotte dei rifornimenti granari. Tutto ciò fu l’indizio di un generale malcontento entro la Confederazione ateniese, ma vi erano anche altri segnali. I satrapi non si stavano infiltrando solo a Samo, dove era stata eliminata l’influenza persiana, ma anche altrove, come a Coo, “autonoma” in base alla Pace del Re, o a Ceo. Cosa aveva fatto però Atene per meritarsi una manifestazione di non completa fiducia? Quanto si era attenuta agli impegni assunti nell’atto costitutivo delle Lega? Rispetto ad una decina di anni prima, il quadro del suo operato risultava abbastanza apprezzabile. Però, era stata violata ampliamente la garanzia relativa alle cleruchie, come si vede a Samo, ad Amorgo, ad Andro, a Sesto ed a Potidea. Atene stava anche interferendo con alcune libertà di ordine commerciale ed economico che gli alleati davano per scontate. Più impopolare di tutte fu però la finalizzazione di risorse appartenenti ad Atene ed alla Lega ad obiettivi posti nel Nord (Anfipoli ed il Chersoneso), i quali, anche se conseguiti, sarebbero andati a vantaggio solo degli Ateniesi. Cosa aveva fatto dunque Atene per gli Alleati nel corso degli ultimi anni? Il programma navale di Epaminonda nel 364 era frutto di un calcolo ambizioso e ponderato. La ripresa, invece, delle operazioni nel Nord fu frutto del caso, ovvero una nuova richiesta d’aiuto dei Tessali contro Alessandro di Fere. Fu l’ultima campagna di Pelopida, il quale rimase ucciso nella battaglia di Cinoscefale. Tebe inviò un secondo e più numeroso esercito che sconfisse Alessandro e ridusse i suoi territori, costringendolo ad aderire alla lega beotica. La morte di Pelopida aveva però scosso i Tebani, come dimostra il grosso esercito inviato contro Alessandro, il cui costo fu così elevato che forse mise fine al programma di costruzione delle cento triremi. La politica tebana nell’Egeo, all’epoca, si basava su due elementi fondamentali: Bisanzio, il cui controllo era fondamentale contro Atene, ed il satrapo della Caria Mausolo, la cui flotta di cento navi esisteva sulla carta, non come quella tebana. Altro elemento da aggiungersi era la situazione nel Peloponneso, dove le cose iniziavano a sfuggire dalle mani di Tebe: già nel 368 gli Arcadi avevano iniziato ad essere animati da uno spirito di indipendenza. Inoltre, la proposta, fatta a Susa, di assegnare il territorio contesa della Trifilia,conteso tra l’Elide e l’Arcadia, 27 17 Filippo Nel 365 morì Tolomeo di Macedonia, reggente per Perdicca, il quale salì al trono. I suoi successi sono oscurati dalla sua morte nel 359, quando insieme a 4.000 uomini perse la vita contro gli invasori illirici guidati dal re Bardili. Il nuovo re fu Filippo II. Per i contemporanei il successo di Filippo fu dovuto alla sua grandezza: Teopompo affermò che “l’Europa non aveva mai prodotto un uomo quale Filippo, figlio di Aminta” ed intitolò Philippika la sua storia di questo periodo. Gli storici moderni non faticano a riconoscere a Filippo i meriti per quel che fece, ma la spiegazione della sua ascesa deve essere formulata anche in termini negativi, ovvero notando l’assenza o l’inefficacia di una precoce opposizione nei suoi confronti. Si dice di Cesare che non avrebbe mai avuto un impatto così immediato se lo stato romano non fosse stato “misero” e “instabile”: qualcosa del genere si può dire anche di Filippo e del suo rapporto con le potenze tradizionali del mondo greco. Negli anni Cinquanta, ognuna di esse era in difficoltà:  Tebe a causa della lunga ed inutile Guerra sacra degli anni 355-346  Sparta a causa della perdita della Messenia e dei suoi problemi nel Peloponneso  Atene a causa della “guerra sociale” combattuta contro i suoi alleati secessionisti nel 357 e 355 Cosa dire delle potenza poste al di fuori della Grecia? 1. La Persia tornò ad essere forte dopo il 360, quando salì al trono Artaserse III, il quale ordinò lo scioglimento degli eserciti mercenari dei satrapi, completando così la punizione per i ribelli. La Persia aveva in comune con Filippo l’interesse a porre limiti alla potenza ateniese sul mare. Solo dal 346 sono provati dei progetti anti-persiani di Filippo: prima di questa data la Persia non aveva motivo di prendere alcuna iniziativa nei confronti dei Macedoni. 2. L’altra potenza al di fuori della Grecia era Siracusa, la quale però, dopo la morte di Dioniso I nel 367, non era in condizione di intervenire negli affari greci. Le narrazioni del crollo della potenza siracusana e della ricostruzione della Sicilia negli anni Quaranta del secolo per opera del corinzio Timoleonte sono documentate dalla narrazione di Diodoro. Ma persino la “nuova” Sicilia timoleontea non era sufficientemente forte o interessata a coinvolgersi nelle vicende della Grecia. Dopo la morte di Dioniso I, suo figlio, Dioniso II, aveva avuto una disputa con Dione, consigliere del padre. Fu esiliato nel 366 ed una decina di anni dopo fece un tentativo di rientrare a Siracusa con la forza. Costrinse Dioniso ad abbandonare la città, ma nel 354 venne assassinato, permettendo il ritorno del tiranno nel 346. Una richiesta d’aiuto contro il tiranno venne inviata a Corinto, madrepatria della città. In riposta venne mandato Timoleonte, il quale sconfisse Dioniso ed i Cartaginesi, ripristinando la prosperità di Siracusa e della Sicilia in generale. La riorganizzazione operata da Timoleonte mostra che egli era figlio di una città oligarchica: introdusse infatti una costituzione oligarchica. Era anche figlio del suo tempo dal momento, caratterizzato da tendenze “monarchiche”: la sua posizione si distingue da quella di un normale tiranno perché alla fine egli abdicò. Inoltre le altre tirannidi dell’isola sopravvissero, non tutte ma in parte. Le cifre sulle truppe di Timoleonte (3.000 uomini) indicano che, in confronto a quello che riuscì a fare, la Sicilia si era impoverita e spopolata, spiegando come mai Siracusa ormai conti così poco all’esterno. Ci fu anche un nuovo esodo coloniale, interpretabile come conseguenza della debilitazione delle vecchie poleis e con l’incombere di un nuovo ordine che Filippo stava per stabilire in Grecia. La Sicilia rappresentò quindi al massimo una via di scampo dal nuovo potere macedone piuttosto che unì’arma contro di esso. 30 Ma quali erano i veri problemi degli stati della Grecia? A. Atene alla fine degli anni Sessanta ed all’inizio degli anni Cinquanta non conseguì nel Nord più successi di quanti ne aveva conseguiti di solito. Quanto alla Confederazione, le isole egee di Pepareto e Teno furono attaccate da Alessandro di Fere ed a Corcira Carete appoggiò un colpo di stato oligarchico. Ci fu qualche successo, in compenso: Pidna e Metone erano state guadagnate all’inizio degli anni Sessanta (anche se verranno prese poco dopo da Filippo) ed in Eubea l’influenza ateniese si era sostituita a quella di Tebe. Ma le violazioni ateniesi agli impegni assunti, la caccia all’acquisizione di territori nell’area settentrionale, l’incapacità di proteggere gli alleati egei contro Alessandro furono i motivi per il malcontento. Demostene ritiene come causa profonda della guerra sociale il risentimento degli alleati per quelle che essi consideravano le “trame” degli Ateniesi (l’imperialismo?) e per il “recupero di ciò che era suo” (Anfipoli?). Causa scatenante furono però gli intrighi e gli incitamenti del satrapo persiano Mausolo, pronto ad estendere la sua influenza verso occidente, a spese del fianco orientale di Atene. Demostene, che narra di questa causa, minimizza le responsabilità ateniesi mettendo l’accento su quelle del satrapo, ma esiste una documentazione indipendente che ne confronta le asserzioni: Diodoro attesta infatti che Mausolo aiutò concretamente gli alleati con delle navi e alcune monete suggeriscono che la sua influenza su isole come Rodi e Chio fosse forte. La guerra scoppiò nel 357 e Atene perse quasi subito Cabria, così che Carete restò solo al comando. I ribelli devastarono le cleruchie ateniesi di Lemno, Samo e Imbro, forse per affermare il loro punto di vista contrario quella istituzione. A Embata Carete volle attaccare la flotta ribelle ma i suoi nuovi due colleghi, Ificrate e Timoteo, non lo supportarono: egli li denunciò entrambi chiedendo e ottenendo di restare l’unico comandante, salvo poi, a corto di denaro, mettersi al servizio del satrapo Artabazo, il quale controllava la Frigia ellespontica ed era stato uno dei protagonisti dell’ultima fase della rivolta dei satrapi. Prima conseguì importantissimi successi in una sorta di “seconda Maratona” in suolo persiano, poi devastò il territorio di un feudatario della Frigia, tale Titrauste. A metà 355, però, il re persiano chiese agli Ateniesi di ritirare Carete, altrimenti avrebbe aiutato i rivoltosi con 300 navi. Ciò che aveva spinto Carete a farsi pagare per i suoi servigi da un satrapo ribelle era essenzialmente la mancanza di denaro, la quale aveva però rischiato di scatenare l’intervento persiano al fianco dei ribelli. Il problema della flotta ateniese era la mancanza non di navi, ma di navi opportunamente equipaggiate. I trierarchi, infatti, i cittadini ricchi incaricati di pagare l’equipaggiamento di una trireme, facevano il minimo loro richiesto o non lo facevano affatto, così che gli obblighi di pagamento delle liturgie venivano affidati ad altri. Si faceva anche fatica a far funzionare il sistema della proeisphora, ovvero il pagamento anticipato dell’imposta sul capitale, affidato a 300 cittadini ricchi che dovevano poi farsi risarcire. Furono compiuti dei tentativi per ristrutturare il sistema, mal’ampiezza della classe dei possidenti non poteva essere estesa con un semplice atto legale o amministrativo. Quel che mancava era la buona volontà dei ricchi, ma anche dei meteci, esclusi dalla trierarchia ma non dalla proeisphora. Anche sul piano dei dettagli, ovvero l’equipaggiamento e l’allestimento degli equipaggi, tutto dipendeva in modo troppo elevato dall’iniziativa individuale. In ogni caso, nel 357 le difficoltà erano così alte che tutto ciò di cui disponevano i privati venne requisito dallo stato. Non c’è dunque da meravigliarsi se, in quell’anno, “non c’era equipaggiamento negli arsenali”. Furono presi però dei provvedimenti quando scoppiò la guerra, soprattutto la “nazionalizzazione” degli equipaggiamento fornito dai privati. Tutti questi metodi presi erano molto adatti a campagne di guerra dove era Atene a decidere dove e quando colpire, ma inadatti a guerre in cui l’iniziativa non fosse nelle sue mani, come la guerra sociale. Le conseguenze di ciò furono nientemeno che i rapporti di Carete con Artabazo e la fine ingloriosa della guerra. B. Vi è poi Sparta. La battaglia di Mantinea non le diede nemmeno la consolazione di vedere i Tebani andarsene dal Peloponneso, dato che nel 361 vi fu un’invasione di Pammene di Tebe, il quale prevenì con la forza la dissoluzione di Megalopoli che una fazione secessionista all’interno stava tentando. 31 Negli anni Cinquanta la politica estera spartana ha orizzonti limitati: è vero che nel 355 fornì aiuti in chiave anti-tebana alla Focide e che combatté vittoriosamente una battaglia a Ornee contro Argo, ma il suo potenziale era molto scarso. In questo momento, nel Peloponneso, erano i Focidesi quelli che apparivano più forti, con la guida di Onomarco. I Tebani, tuttavia, invasero la regione per aiutare i loro alleati e costrinsero Sparta ad un pareggio, mostrando che la città non era nemmeno in grado di intervenire contro una Tebe indebolita dalla Guerra sacra. C. L’importanza del conflitto (355-346) è notevole, dato che proprio alla fine degli anni Cinquanta Filippo fece per la prima volta il suo ingresso in Grecia, il quale, alla fine, ebbe la meglio, ottenendo il primato incontrastato nell’ambito degli stati greci. L’eliminazione dell’influenza tebana nell’Eubea nel 357 fu un colpo per il prestigio di Tebe. In più, la decisione di attaccare la Focide, l’alleata recalcitrante, era occasionata unicamente dal desiderio di affermarsi a spese di uno stato vicino collocato in posizione adatta. La preponderanza di Tebe entro l’Anfizionia delfica era stato assicurata dalla sistemazione data alla Tessaglia nel 346: grazie all’alleanza con i Magneti e gli Ahcei Ftioti, separati dal resto della Tessaglia, la città beotica controllava 16 dei 24 voti nel Consiglio. Inoltre, nella persona del presidente tessalo Andronico, aveva stroncato, forse nel 363, un moto anti-tebano a Delfi. Non fu dunque difficile persuadere gli Anfizioni a condannare la Focide ad una pensate ammenda, con il pretesto che essi “avevano coltivato la terra sacra”. Tebe si aspettava di ricevere la direzione della guerra che sarebbe scoppiata se i Focidesi non fossero stati in grado di pagare. Essi, però, si rifiutarono al pagamento, impadronendosi a sorpresa della stessa Delfi con i suoi tesori. L’anno dopo, nell’autunno del 355, l’Anfizionia dichiarò guerra alla Focide, la quale aveva amicizie potenti, come Atene. Infatti, i nemici della regione entrarono in azione solo dopo che Atene ebbe chiaramente perso la guerra contro i suoi ex-alleati della Lega navale. I Focidesi, resi forti dal controllo del santuario, mantennero in un primo momento l’iniziativa: invasero, con Filomelo, nel 356 la Locride e riuscirono nel medesimo anno a tradurre l’amicizia con Sparta ed Atene in alleanze formali. Ma a questo punto era terminato il conflitto sociale ed i tessali furono pronti ad intervenire offrendo un concreto appoggio a Tebe. Negli scontri del 354, Filomelo conseguì alcuni successi iniziali contro i Locresi ed i Tessali, ma subì una decisa sconfitta ad opera dei Beoti a Neon, nella Focide. Filomelo si suicidò e la guerra pareva già sul punto di finire, o almeno lo pensavano i Tebani, dato che, quando Artabazo lo chiese, offrirono 5.000 uomini al comando di Pammene. Fu un errore: Onomarco, che aveva rilevato l’esercito focidese, riprese la guerra e le forze prestate al satrapo (circa un terzo dell’esercito tebano) si trovarono bloccate in Asia. Così, quando Artabazo fu sconfitto, i Tebani si misero al soldo del suo nemico, ovvero il re di Persia, non potendo più essere utilizzati in Grecia. Onomarco prese altro denaro di Apollo e si alleò con Licofrone e con Pitolao, al potere al momento a Fere al posto di Alessandro. Per la prima volta c’era la possibilità che i Focidesi finissero la guerra ottenendo la rescissione, su iniziativa tessala, del decreto di condanna originario, sempre sperando che i tirannidi Fere riuscissero a portare dalla loro parte il resto della Tessaglia, desiderando anche annullare l’influenza tebana sulla regione. Ma per le altre città della Tessaglia esisteva un’alternativa, ovvero il tradizionale ricorso alla Macedonia contro la dinastia dei tiranni di Fere. E così, nel 353 gli Alevadi di Larissa invitarono Filippo II, volendo usarlo come bastone per assestare un colpo ai nemici, ma i risultati concreti furono molto diversi. I primi sei anni del regno di Filippo erano cominciati con un programma di riorganizzazione militare. Aveva sbaragliato i Peoni e gli Illiri e si era assicurato, grazie a dei matrimoni politici, che la Macedonia fosse circondata da potenze amiche. Si fiondò nel 358 in Tessaglia, preoccupato che la regione gli creasse problemi, senza usare la mano pesante, ma fornendo un rapido e poco convincente aiuto a Larissa contro Alessandro negli ultimi tempi della sua tirannide. Il mondo greco forse non colse il senso della campagna illirica di Filippo e forse vide nella sua prima avventura tessala la ripresa di un’invasione politica macedone. Non era però chiaro che nel 357 ad Anfipoli era stata dato un chiaro annuncio che ormai la Macedonia aveva un sovrano di un nuovo genere, più pericolo militarmente, politicamente e diplomaticamente di ogni suo precedessore. 32 Nel periodo 346-344 Filippo aveva fatto ben poco da dare pensiero a chiunque, al di là della sua interferenza nel Peloponneso a favore di Argo e della Messenia, tanto bastava però per dare preoccupazione a Demostene circa l’incremento della potenza macedone. Da quel momento l’oratore, patrocinante per la pace del 346, cercherà con ogni mezzo di porvi fine ricorrendo al tentativo di dimostrare che Filippo l’aveva infranta. Nel 344 persuase l’assemblea a respingere con sdegno un’offerta di rinnovo della pace. Il problema è qui determinare se Filippo avesse veramente violato la pace o se le presunte violazioni altro non siano che un’invenzione di Demostene. Punto nodale è l’Eubea: nella terza Filippica, l’oratore denuncia il Macedone per le sue interferenze sull’isola, anche se queste non sono citate in altre orazioni contemporanee. Secondo un’opinione estrema, questa è la prova che Demostene mentiva, anche se va accettato che probabilmente Filippo fosse fortemente coinvolto, non solo sul piano diplomatico, nell’ascesa al potere di chi si stava affermando in Eubea. Le campagne traciche portarono Filippo sempre più a Oriente finché nella metà del 340 attaccò Perinto, nella Propontide, anche se non deve considerarsi come un atto di aggressione contro Atene, come vorrebbe Demostene asserendo che il Macedone voglia affamare Atene attaccando una città alla quale essa era legata, quanto la naturale prosecuzione delle operazioni in Tracia. L’assedio di Perinto, però, fu un fallimento, in parte perché il re persiano inviò rinforzi alla città tramite i suoi satrapi, trattandosi del primo scontro aperto tra Filippo e la Persia. Infine, quando il re macedone spostò la sua attenzione su Bisanzio, il grano ateniese risultò seriamente minacciato e Atene inviò aiuti concreti. Così, ci fu la guerra. Filippo prese l’iniziativa impadronendosi di 230 navi granarie all’entrata del Bosforo. Dopo pochi mesi nel 339 ruppe l’assedio e mosse verso sud, arrivando a Elatea, in Focide. In questo momento ci fu un susseguirsi di mosse diplomatiche che consentirono a Filippo di attirare i Tebani dalla sua parte, ma invano. Demostene organizzò quindi un’alleanza con i vecchi nemici, proprio i Tebani, consentendo agli opliti greci una qualche parità numerica con la falange macedone. La battaglia decisiva avvenne a Cheronea nell’agosto del 338 e fu vinta da Filippo mediante una finta ritirata, dopo la quale ricompattò le sue truppe sbaragliando gli Ateniesi lanciati all’inseguimento. Diodoro riporta che la cavalleria macedone fu condotta alla vittoria proprio da Alessandro. Filippo non inseguì a lungo le truppe greche sconfitte, dal momento che desiderava che i Greci cooperassero con lui. Il re regolò la situazione greca senza imporre regimi filo-macedoni, al di là di Tebe, la quale fu obbligata a riaccogliere gli esuli per motivi politici, reinsediando così al potere i sostenitori della Macedonia. La vittoria, comunque, portò naturalmente “uomini” di Filippo al potere nelle singole città greche. Persino a Sparta, Filippo non arrivò a rovesciare la costituzione sebbene avesse invaso il territorio spartano e avesse assegnato alla Messenia l’area di frontiera della Dentaliatide. Modifiche territoriali del genere erano un mezzo per conseguire l’equilibrio di forze cui Filippo sembrava aver mirato, ad esempio isolando Sparta nel Peloponneso. Tebe fu privata, come “punizione”, di Oropo, anche se Filippo non ricostruì, come minacciato, Orcomeno, Tespie e Platea. Inoltre, non frazionò le confederazioni, anche se Atene perse gran parte della sua Lega navale. Sopravvissero la confederazione beotica, la lega Euboica, Arcade ed Achea, con l’unica eccezione di quella Etolica, forse punita per aver sottratto Naupatto agli Achei, raro caso in cui Filippo usò un trattamento del genere, preferendo invece rafforzare le federazioni per bilanciare il peso delle poleis. Molte di queste misure non si proponevano scopi costruttivi ed avevano un carattere preparatorio: strumento costruttivo fu invece la Lega di Corinto del 337, della quale si dispone la pietra con l’iscrizione con la quale i partecipanti giurano nell’ambito di una pace generale stipulata tra i Greci e Filippo, corredata con i nomi dei partecipanti ed enigmatiche cifre, forse interpretate come una specie di principio proporzionale o forse le truppe che si voleva che ognuno fornisse. Quanto al resto, l’epigrafe può essere restituita con l’ausilio della diciassettesima orazione di Demostene Sul trattato di Alessandro, la quale tratta delle supposte infrazioni macedoni al trattato. La Lega garantiva le costituzioni vigenti e proibiva qualsiasi mutamento politico non nell’interesse della Macedonia. Demostene para di “libertà ed autonomia”, termini molto elastici che non sembrano escludere la presenza di guarnigioni macedoni a Tebe, Ambracia, Calcide e Corinto, i famosi “ceppi della Grecia”. 35 La soluzione era considerare questa guarnigioni delle forze preposte alla tutela della pace e della sicurezza generale. Sono state avanzate delle ipotesi circa il fatto che oltre alla pace si sia stipulata anche un’alleanza e dubitarne è irragionevole: la pietra, poiché frammentaria, non cita la parola alleanza, ma la documentazione letteraria la presuppone. I precedenti poi, come la Pace di Filocrate, dimostrano che proprio un’alleanza era ciò che si aspettavano tutti. Inoltre, in questo momento Filippo desiderava una guerra dei Greci contro la Persia. Le prime mosse macedonia erano in questo senso: Attalo e Parmenione passarono in Asia con delle unità avanzate. Però, le parole dell’oracolo delfico furono male interpretate: “la corona era stata posta sulla testa della vittima ed il sacerdote incaricato al sacrificio era presente”. La “vittima” non fu, come ci si aspettava, l’impero persiano, ma Filippo, il quale nel 336 venne pugnalato a morte nel momento della massima gloria. Pausania, il suo assassino, non agiva per conto di un avversario politico, ma era uno psicopatico omosessuale con vecchi motivi di risentimento. Alessandro, il figlio, aveva però ormai un’età (20 anni) e una capacità idonea per assumere tranquillamente la successione. 36 18 Alessandro Definire tranquilla l’ascesa al trono di un qualsiasi sovrano macedone significa usare un termine da intendersi entro un contesto: la successione di Alessandro fu sì incontrastata, ma si accompagnò ad essa lo scorrimento di sangue nobile macedone. Provocò anche l’insurrezione di Tebe e la sollevazione degli Illiri. Plutarco narra che dopo la morte di Filippo la Macedonia stesse “ribollendo” e che gli occhi erano puntati su Aminta e sui figli di Areopo di Lincestide. È forse un’esagerazione: Alessandro aveva la situazione in pugno. Inoltre è anche dubbio che la dinastia dei Lincestidi, della Macedonia superiore, fosse imparentata con i Temenidi, la dinastia ufficiale. I figli di Aeropo erano Eromene, Arrabeo ed Alessandro. I primi due furono eliminati immediatamente, mentre il terzo venne arrestato nel 343/333 e giustiziato tre anni dopo. Egli era sfuggito alla morte dei fratelli perché era stato rapido a rendere omaggio al nuovo re e perché era il genero dell’influente generale anziano Antiparto. Dopo il 336 Alessandro di Lincestide ricoprì la prestigiosa carica di “generale della Tracia”, ma la sua morte si collega ad uno scontro tra il re Alessandro e la nobiltà macedone in preda al malcontento. L’altro “candidato al trono” era Aminta, le cui rivendicazioni dinastiche erano più serie: era figlio di Perdicca, il fratello di Filippo II. Giustino afferma che Filippo fu effettivamente il reggente per conto del giovane Aminta, ma la monetazione mostra che Filippo si atteggiò a sovrano fin dal primo momento e che Aminta non fu mai considerato re. La Macedonia, dunque, “ribollì” per poco tempo. Per ultimo perse la vita Carano, figlio che Filippo aveva avuto da Fila. Infine, Alessandro, prima di partire per la spedizione persiana, fece uccidere i parenti dell’ultima mogli del padre, Cleopatra. Nel 335 Alessandro attaccò i Triballi e gli Illiri. Tolomeo, che partecipa alle campagne, afferma che Alessandro volle prevenire la loro rivoluzione, di cui aveva avuto sentore, ma Arriano suggerisce che questa azione militare fosse in un certo senso gratuita. Tali era infatti la maggior parte delle azioni militari di Alessandro, in cui si differenziava in questo dal padre, il quale non era meno espansionista di lui, ma preferiva agire per via diplomatica e ricorrere anche alla corruzione. In effetti, nel 336 non c’era un chiaro pericolo illirico paragonabile a quello del 359, anche se la marcia di Alessandro verso di loro dovette forse provocare la loro rivolta. Le campagne che seguirono portarono il re fino al Danubio, che venne attraversato in linea al bruciante desiderio di “andare più in là”. La “curiosità naturale” fu senza dubbio una delle motivazioni maggiori di tutta la breve vita di Alessandro. Gli Illiri furono schiacciati grazie al superiore addestramento macedone ed alla velocità con cui venivano condotti gli attacchi. Nel medesimo anno si sollevò Tebe, stimolata dal “desiderio di libertà” dopo il ritorno degli esuli, ma anche dalla voce popolare che Alessandro fosse stato ucciso in Illiria. Ma così non era e raggiunse la Beozia nel giro di cinque giorni, sbaragliando i Tebani e saccheggiando la città, dando ai Greci una terribile impressioni che sopravvisse negli anni a venire. Le fonti principali discolpano in un certo senso Alessandro, dando la colpa dell’accaduto ai Greci nemici di Tebe, ma Diodoro funge da correttivo: la responsabilità morale fu senza dubbio del Macedone, perché egli avrebbe potuto fermare il massacro, ma la decisione finale circa la sorte della città fu lasciata alla Lega di Corinto. Il re risparmiò solo la casa di Pindaro, mostrando che il filoellenismo culturale non combaciava con quello politico. Pindaro, in verità, aveva scritto un encomio al re macedone chiamandolo Filelleno. Alessandro fece ben poco ricorso ai metodi procedurali della Lega, vedendola come uno strumento utile a far sì che i Greci si punissero tra loro. Però, un altro storico come Callistene insiste spesso sulla “grecità” di Alessandro, il quale era in stile molto propagandistico, come si nota nella lettera inviata da lui a Dario nel tentativo di rappresentare la crociata contro la Persia come una punizione per l’incendio dei templi ateniesi da parte di Serse. Dopo la “sistemazione” di Tebe fu chiesto agli Ateniesi, i quali avevano mostrato simpatia per la causa tebana, di consegnare un certo numero di uomini politici di primo piano. L’ordine fu poi revocato a seguito di un appello alla clemenza, ma la sfiducia reciproca rimase viva. Infatti, il re utilizzò raramente Greci 37 Alessandro aveva però un grosso vantaggio, grazie alla presenza tra le sue fila di uomini come Diade in grado di assediare e prendere città fortificate, quali non solo Alicarnasso, ma anche Tiro e Gaza. Una volta padrone di questi centri poteva pretendere di “conquistare la flotta persiana da terra”. La resistenza offerta da queste tre città mostra che la tolleranza mostrata dai Persiani verso quanti, nativi del luogo, governavano questi centri in quanto clienti era stata saggia. Invece, in Egitto essi erano stati avidi, come dice Curzio Rufo, e ciò è la spiegazione della buona accoglienza fatta da Alessandro nel novembre del 332, oltre all’alcuna resistenza incontrata. In Egitto Alessandro diede istruzioni per la prima delle grandi fondazioni che da lui presero il nome: Alessandria, destinata ad essere prima città del mondo ellenistico e seconda di quello romano. L’attività di fondazione di colonie fu un’eredità paterna, dove la funzione di presidio militare era associata all’intento di disfarsi della popolazione indesiderata. Altra influenza, in quest’opera, fu persiana, forte nell’analogia tra le rifondazioni di Mausolo in Ionia e di Alessandro e nel fatto che la fondazione di Alessandra Eschate fu fatta allo scopo di “imitare Ciro il Grande”, come dice Strabone, il quale fu un grande fondatore di città. Inoltre, per le sue fondazioni il Macedone utilizzò dei centri achemenidi precedenti, come nel caso di Alessandria in Aracosia (Kandahar) e Ai Khanoum in Afghanistan. Plutarco attribuisce ad Alessandro circa 70 fondazioni, un grossolana esagerazione di natura plutarchea che vede l’attività di fondatore di città come parte integrante della grandezza di Alessandro. L’autore narra che egli mutò la natura delle selvagge tribù entro le quali le città vennero fondate, anche se la notizia è falsa, così come l’asserzione che Alessandro avrebbe disseminato magistrature greche in tutta l’Asia. Gli studiosi moderni hanno seguito Plutarco fino a poco tempo fa, quando si è fatta largo la tendenza di vedere nella maggior parte delle fondazioni di Alessandro mezzi di repressione con limitati intenti culturali e una funzione strumentale all’assoggettamento delle popolazioni locali. Molte delle fondazioni orientali sorgevano anche su siti desolati, come Alessandria in Margiana, forse rifondata in età ellenistica dopo essere stata distrutta dai barbari. Anche in questi centri era tuttavia possibile praticare uno stile di vita “cittadino”, come dimostrano alcune dediche votive e la presenza di teatri. Alessandro, inoltre, inaugurò la nascita delle nuove città in modo tipicamente ellenico, con agoni ippici e atletici, anche se cerimonie inaugurali del genere non annullarono le difficoltà legate alla sopravvivenza di talune di queste città. Gesti come questo, però, servono a mostrare come il quadro teso minimizzare gli intenti di Alessandro nelle fondazioni non dia conto della documentazione e non vale per Alessandria d’Egitto, dalla quale il re si aspettava che la città avesse successo dal punto di vista della vita civica e dell’attività commerciale. Si devono operare delle distinzioni tra i diversi tipi di fondazioni: 1. Poleis, ovvero comunità civiche dotate di magistrature, assemblea e forse un consiglio. Per Plutarco tutte le fondazioni di Alessandro sono di questo tipo 2. Katoikiai, insediamenti militari, tipici poi del mondo ellenistico seleucida, come Dura Europos sull’Eufrate 3. Phrouria, presidi non stabili. Gli studiosi minimalisti tendono a considerare le fondazioni alessandrine tutte del secondo o terzo tipo Alessandria d’Egitto venne fondata subito dopo l’arrivo del Macedone nella regione. La motivazione commerciale che ne era alla base non era l’unica, perché la storia ellenistica romana mostra come il controllo della città ebbe un notevole valore sul piano anche militare. Il più antico insediamento fu più che un semplice quartiere militare: la città assomigliava alle altre fondazioni omonime e il suo sito non era completamente vergine. Dopo la fondazione, Alessandro attraversò il deserto per visitare l’oracolo Ammone di Siwah, il cui culto di Zeus Ammone era ben consolidato nel mondo greco del IV secolo. La visita è la prova più grande della convinzione di Alessandro della sua discendenza divina, anche se non è il primo episodio in questa direzione: si pensi al mare che si ritrae in Panifilia, episodio forse ispirato all’Anabasi, in cui l’Eufrate cede il passo a Ciro il Giovane, e ancora più indietro ripreso dall’Iliade. Al di là della paternità divina, ogni discorso deve prendere le mosse dal vero padre di Alessandro, ovvero Filippo. I re persiani non si consideravano, ad esempio, delle divinità, ma credevano di agire sotto la loro 40 protezione: ciò che però fece pensare ai Greci che essi si pensassero dei è la cerimonia della proskynesis al loro cospetto, gesto che i Greci riservavano solo agli dei, non agli uomini. In Grecia il culto eroico dei fondatori delle città e dei capi delle spedizioni coloniali non era cosa nuova: questi sono aspetti propri dell’attività di Alessandro, come di quella di Filippo. Il precedente più importante è proprio il padre del giovane macedone: la convinzione della discendenza divina di Alessandro implicherebbe da questo punto di vista nientemeno che la negazione della sua vera discendenza paterna. Però, poco prima della sua morte, Filippo era stato rappresentato nel teatro di Ege come “il tredicesimo degli dei dell’Olimpo”. Questo, oltre, ad esempio, alla presenza di altari come quello presente a Ereso di Zeus Philippios (probabilmente “Zeus protettore di Filippo” piuttosto che “Filippo che è Zeus”) deve essere stato sufficiente a spingere Alessandro nella medesima direzione, anche se nel mondo greco-macedone erano i meriti personali a garantire onori divini ed eroici. La documentazione circa la visita di Alessandro a Zeus Ammone è fornita da Arriano, con integrazioni di Callistene. Si dice che egli visitò l’oracolo perché spinto dall’amore della gloria, ma anche perché voleva imitare i due eroi Perseo ed Eracle. Ciò che Alessandro desiderava era un oracolo infallibile che gli assicurasse una sicura conoscenza. E infatti, appena consultato, ebbe la risposta che gli stava a cuore. È tutto. Vengono aggiunti alcuni dettagli dai due storici, ma ciò che emerge è la conferma della filiazione divina di Alessandro, il quale, da parte sua, non aveva dubbi sul fatto. La vulgata è diversa, più dettagliata e drammatica: si dice che “figlio di Zeus” fu il saluto che ricevette pubblicamente dal sacerdote e non un responso privato o semi-privato. Inoltre, alla sua domanda all’oracolo gli venne risposto che egli aveva punito tutti gli assassini di suo padre (cioè Filippo) e che sarebbe stato invincibile e avrebbe regnato su tutta la terra. Nella primavera del 331 lasciò l’Egitto, attraversando la Fenicia e la Mesopotamia per l’estate. Il primo di ottobre venne combattuta la battaglia finale con Dario, a Gaugamela. L’andamento della battaglia è meno chiaro di quello della maggior parte delle battaglie dell’antichità, a causa della tendenza delle fonti a screditare Parmenione in favore di Alessandro. Come ad Isso, comunque, la tattica fu quella di operare una conversione e caricare verso sinistra nel momento critico, puntando verso Dario. Dalla sinistra macedone, però, Parmenione avrebbe inviato ad Alessandro un messaggio, una richiesta d’aiuto. Questa storia viene trattata con molto riserbo (come avrebbe fatto un messaggero a localizzare nella battaglia i cavalieri lanciati al galoppo?), tanto che gli storici o la razionalizzano vedendo nel messaggio un accordo preventivo o distorcono il testo di Arriano, traducendo la frase “Alessandro evitò di prolungare ulteriormente l’inseguimento” con “Alessandro era sul punto di darsi all’inseguimento”. Alla fine, comunque, Alessandro non si lanciò all’inseguimento di Dario, il quale, ancora una volta, riuscì a fuggire verso la Media. Il Macedone si volse a sud, alla volta di Babilonia e poi di Susa, ottenendo il possesso del tesoro persiano. Le ultime settimane del 331 furono un punto di svolta sul piani politico, oltre che su quello militare e finanziario, perché nominò satrapo Mazeo, un Persiano, affiancandogli con la carica di comandante di guarnigione Apollodoro di Anfipoli e Asclepiodoro, con il compito di riscuotere le tasse. Con questa sistemazione si vede il ripercorrere di una prassi tipica persiana, ovvero il non lasciare la gestione delle finanze nelle mani di un nativo del luogo. Mazeo era stato satrapo di Siria sotto Dario e aveva comandato l’ala destra persiana a Gaugamela. Il fatto che abbia assegnato satrapie a Persiani rappresenta una grande svolta: in questo modo sperava di indebolire la resistenza annunciando con questo genere di decisioni ai quadri dell’amministrazione persiana che se fossero passati dalla sua parte avrebbero potuto riacquistare le vecchie cariche. Recentemente però si è arrivati a negare che Alessandro avesse in mente una politica di fusione con i Persiani opposta alla pura repressione. In seguito Alessandro, dopo essere disceso dai monti del Hindu Kush, tornò a nominare dei Macedoni: Nicanore ebbe “la terra da questa parte dell’Indo”, Filippo figlio di Macata la terra a oriente dell’Indo e Pitone figlio di Agenore la regione posta tra il basso corso del fiume ed il mare. Questi, però, non erano territori iranici e ciò mostra quanto egli si considerasse l’erede degli Achemenidi, dando sepoltura a Dario III e coltivando il ricordo di Ciro il Grande, il fondatore dell’impero. Che Alessandro, dopo il suo ritorno dall’India, abbia punito gli iranici non mostra che i suoi atteggiamenti fossero mutati: secondo Arriano, prima della sua morte, tributò onori a Peucesta, satrapo macedone della 41 Perside, per aver adottato i costumi persiani e progettò anche alcune misure per favorire l’integrazione, come incorporando Macedoni e Persiani nelle stesse unità di fanteria, anche se forse era un espediente per favorire l’addestramento. Considerazioni di ordine militare sono bastevoli a spiegare come mai dopo Gaugamela vennero introdotte nell’esercito unità di lanciatori di giavellotto a cavallo iranici, misura che ebbe, insieme ad altre, la conseguenza politica di rendere impopolare Alessandro presso i Macedoni. Dario, al momento, era ancora vivo ed Alessandro, benché potesse nominare satrapi dei Persiani, non era nella posizione di essere Gran Re di Persia finché il suo avversario era in vita. Il re, comunque, fu ucciso nell’agosto del 330 dai nobili persiani del suo seguito, contribuendo a spiegare il comportamento di Alessandro una volta che fu passato da Susa a Persepoli, quando bruciò il palazzo reale, una vendetta deliberata e forse frutto dell’ebbrezza. Invece, dopo la morte di Dario, il Macedone ebbe il diritto di fregiarsi del simbolo della regalità persiana, la “tiara dritta”, indossata anche da Besso, l’assassino del re persiano “sistemato” poco dopo da Alessandro. Egli iniziò a mutare l’immagine della sua persona, adottando abiti che mescolavano elementi diversi, i quali offesero i Macedoni profondamente. Man mano che la carriera di Alessandro proseguiva, la sua preferenza per questo atteggiamento “orientalizzante” aumentò. Alcuni, come Efestione, approvavano, altri no. Il re aveva grandi riserve di lealtà macedone, però, come Antiparto, nonostante la Suda suggerisce che abbia disapprovato la deificazione di Alessandro. Tuttavia l’oracolo di Ammone e questo nuovo stile misero a dura prova questa lealtà. Al primo grande scontro si arrivò nell’autunno del 330, con la congiura di Filota, dopo che Alessandro era avanzato verso est attraverso l’Iran per entrare nell’odierno Afghanistan. In quella che oggi è Farah, Filota fu chiamato a giudizio con l’accusa di “cospirazione”, anche se le prove erano evanescenti: aveva mancato di riferire della vera congiura di un certo Dimno. La vera questione era però il rapporto tra i settori più intransigenti della nobiltà macedone ed Alessandro. Subito dopo l’esecuzione di Filota fece seguito quella del padre Parmenione, in Media, della quale non si hanno informazioni dato che Arriano forse omette qualche sviluppo improvviso della vicenda. Comunque sia, era troppo rischioso che Parmenione rimanesse in vita dopo l’esecuzione del figlio, dato il controllo che la sua famiglia aveva un grande controllo sulle cariche più alte dello stato: egli comandava l’ala sinistra macedone e la cavalleria tessala, mentre Filota la cavalleria degli eteri e Nicanore, l’altro figlio, gli ipaspisti. All’inizio del 329 Alessandro entrò nella satrapia dell’Aracosia, dove fondò un’Alessandria sul sito dell’odierna Kandahar. Si diresse poi in Battriana, dove condusse nei due anni seguenti le più impegnative campagne di guerra contro Besso (giustiziato nel 329) e Spitamene, colui che successe al traditore e fu a capo della resistenza. A Begram, non lontano da Kabul, venne fondata Alessandria del Caucaso, in un importante punto di intersezione tra le vie di passaggio dall’Asia interna, a est, verso l’ovest ed il nord. Altra città fondata a scopo di ostentazione fu Alessandra Eschate (sul Tanai/Iassarte). Tra le motivazioni di queste fondazioni c’è sicuramente l’emulazione di Ciro, la cui Ciropoli era la più lontana delle postazioni avanzate achemenidi in quest’area. Arriano dice che Alessandro stava progettando la fondazione di una città sullo Iassarte e di darle il suo nome: il sito era destinato a diventare qualcosa di grande per la sua posizione, offrendo protezione contro le incursioni dei barbari che vivevano al di là del fiume. Vi sono dunque tre motivazioni: prosperità, attacco e sicurezza. Qui furono insediati mercenari greci, Macedoni congedati e nativi del luogo, probabilmente non volontari. Le altre fondazioni di questa zona facevano parte di una politica militare di puro contenimento ed i Greci qui insediati, dopo la morte di Alessandro, cercarono di rientrare in patria per la nostalgia dello stile di vita ellenico. I coloni erano qui governati da strategoi o episkopoi, due cariche militari, come nel caso degli ecisti delle colonie greche arcaiche. Se tra i desideri di Alessandro vi era anche quello di mutare i costumi nomadici con quelli tipici degli agricoltori, fallì, perlomeno in Asia centrale, dato che ancora oggi le popolazioni di quest’area si spostano in continuazione. I primi anni Venti furono contrassegnati da dure campagne militari di tipo nuovo contro gli uccisori di Dario III. I successi alla fine furono ottenuti grazie al sistema della phrouria, con il quale mise alle corde un nemico sfuggente controllandone il territorio. 42
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