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Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese - M. Fusaschi, Sintesi del corso di Antropologia

Riassunto del libro di M. Fusaschi, "Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese".

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023
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Scarica Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese - M. Fusaschi e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia solo su Docsity! Hutu-Tutsi Alle radici del genocidio rwandese M. Fusaschi 1. Il Rwanda: sulle tracce di un popolamento antico Il paese delle “mille colline” e dell’“eterna primavera” Al Rwanda si accompagna l’immagine esotica di una terra incognita divenendo tristemente celebre a partire dalla primavera del 1994 con uno dei genocidi più cruenti della storia del XX secolo: evento tanto più terribile considerato il breve arco tempo in cui si svolse (due mesi) e l’alto numero di vittime (un milione). Il Rwanda rappresenta una particolarità su scala continentale. Già dal periodo coloniale ci troviamo di fronte a un’intensa e progressiva deforestazione e la forte densità demografica rivelerebbe un popolamento antico. In Rwanda l’azione dell’uomo è onnipresente e prodotti come le banane, il sorgo, il mais, i legumi, i tuberi, il caffè e il tè insieme all’allevamento e alla vendita occasionale di bovini e capre costituiscono le principali risorse dell’economia domestica. Gli enigmi di una civilizzazione antica La letteratura paleoantropologica e archeologica presenta un panorama limitato di indagini a causa di: - Una tardiva professionalizzazione della ricerca sul terreno che solo a partire dagli anni ’50 assume un carattere sistematico; - Un’instabilità politica che caratterizza la vita di questo paese a partire dagli anni che seguono l’Indipendenza; - Le condizioni del terreno che presenta un grado di acidità tale da non permettere la conservazione dei resti ossei; - La difficoltà interna alla disciplina circa l’applicazione delle consuete classificazioni cronologiche di derivazione europea (età della pietra, neolitico ecc.) che si rivela relativa e provvisoria. Queste difficoltà sono superabili solo attraverso delle nuove metodologie e strategia di ricerca come le tecniche del radiocarbonio e della termoluminescenza e la palinologia. Il Paleolitico dell’area interlacustre viene individuato nell’Acheuleano con riferimento all’omonima industria litica e avrebbe fatto la sua comparsa in Africa a partire da 1,5 milioni di anni fa. Nenquin indica una serie tipologico-cronologica delle industrie litiche: Sangoano-Lupembiano inferiore, Lupembiano superiore e Lupembiano-Tshitoliano, Magosiano e Wilton-Tshitoliano. La distribuzione geografica di alcuni ritrovamenti lungo i corsi d’acqua o sulle rive dei numerosi laghi rwandesi fa ipotizzare che l’uomo preistorico vi avesse trovato un habitat favorevole in quanto ricco di selvaggina e di pesce. In riferimento all’introduzione della metallurgia del ferro nella regione dei Grandi Laghi i ricercatori hanno potuto avanzare solo delle ipotesi il cui elemento comune risulta essere quello di una sua provenienza esogena ma un’altra prospettiva ricollega l’arrivo del ferro alle migrazioni di popolazioni parlanti una lingua protobantu. La ceramica risalente a questo periodo viene classificata in tre tipi: a (la più antica), b e c (le più recenti). Si può delineare un periodo di evoluzione dell’intera economia subsahariana dal modello di sussistenza di caccia e raccolta a uno prevalentemente agricolo. A questa rivoluzione agricola si accompagna: - L’espansione della metallurgia; - La produzione della ceramica; - L’aumento della popolazione che comincia a concentrarsi nei villaggi; - La pratica dell’allevamento. La maggior parte degli autori che trattano la storia del Rwanda hanno voluto associare i gruppi etnici (hutu, tutsi e twa) a stadi storici considerando che i twa come fossero la popolazione autoctona, gli hutu che avrebbero introdotto l’agricoltura e i tutsi che erano principalmente allevatori. Il popolamento e la civilizzazione dell’antico Rwanda si possono riferire al periodo che segue l’introduzione della metallurgia del ferro, periodo che preannuncia la nascita di strutture sociali e politiche dotate di una certa complessità. La complessità della simbologia funeraria permette di avanzare una considerazione generale sulla natura dell’antica società rwandese come di un organismo sociale che presentava una forte strutturazione gerarchica del potere. Hutu-Tutsi-Twa: questioni preliminari di classificazione Il nome etnico nella lingua comune a tutti e tre i gruppi (kinyarwanda) è mu-Hutu, mu-Tutsi e mu-Twa al singolare e ba-Hutu, ba-Tutsi e ba-Twa al plurale. Il kinyarwanda è la lingua dei rwandesi ma in seguito alla colonizzazione sono state introdotte anche l’inglese, il francese e lo swahili. Il kinyarwanda si caratterizza per la presenza di radicali e prefissi che determinano il numero e una classe nominale nella quale si collocano i termini. Per quanto riguarda le origini di questi gruppi si è fatto riferimento alle ipotesi delle migrazioni di popoli protobantu provenienti dal Camerun per gli Hutu mentre per i Tutsi di migrazioni dalle regioni nilotiche. Questo complesso quadro di proveniente migratorie si è tradotto nella convivenza tra gruppi che in origine erano caratterizzati da una diversità a livello fisico. La diversa origine dei gruppi hutu e tutsi ha costituito un dato di partenza sul quale la storia e l’antropologia hanno elaborato le proprie classificazioni etnografiche e ipotesi teoriche ma ha anche rappresentato un elemento di fondo dei processi storici di costruzione della realtà e dell’identità rwandese. I twa sono una percentuale esigua della popolazione e costituiscono uno dei gruppi di pigmei in Africa. Tale definizione può essere ricavate a partire da degli elementi di base: - La relazione specifica e unica con l’ambiente della foresta (caccia e raccolta); - Le caratteristiche fisiche (piccola taglia). Non è possibile parlare di un unico gruppo twa in quanto già a partire dalla colonizzazione vi sono almeno due sottogruppi che si differenziavano per la loro relativa stabilità degli insediamenti. All’interno della società rwandese i twa occupavano una posizione di marginalità perché rappresentati come prossimi al mondo animale. Infatti, si aggiungeva anche un certo disprezzo nei loro confronti per il non rispetto delle interdizioni rituali. Con questa condizione contrastavano invece una serie di elementi di integrazione nella società concordano. I tutsi sarebbero arrivati proprio in questa regione intorno al XIII e XIV secolo pertanto verrebbero da fuori. Dunque, nel mito, Kigwa, l’eroe civilizzatore, è un tutsi. È possibile che coloro che popolavano il Mubari all’arrivo del clan dinastico degli Abanyiginya, fossero anch’essi tutsi? Per rispondere bisogna prendere in considerazione diversi clan raggruppabili in tre gruppi distinti in relazione alla specializzazione funzionale: - Il clan dinastico degli Abanyiginya; - I clan matridinastici di cui il principale è quello Bega: in Rwanda, il re (mwami) regnava congiuntamente con sua madre che aveva una corte tutta sua. Il re poteva sposare molte donne, comprese quelle del clan degli Abanyiginya, siccome questo clan è l’unico in cui è permessa l’endogamia; - Il clan degli Abazigaaba: questo gruppo si oppone al primo formando una coppia oppositiva cielo/terra. Il re doveva ricorrere a un membro dei clan autoctoni per piantare simbolicamente il primo picchetto quando si costruiva una nuova casa o per compiere atti rituali. I clan autoctoni possedevano una base territoriale sulla quale regnava il loro patriarca (umuhiinza) la cui funzione era quella di far cadere la pioggia e di far prosperare i raccolti. Per rispondere alla domanda, dunque, P. Smith sostiene che gli hutu sarebbero gli abitanti originari del Rwanda mentre i tutsi sarebbero arrivati e si sarebbero sovrapposti a loro solo in un secondo momento. Se Kigwa-Sabizeze, tutsi, occupa il primo posto nella genealogia dinastica, allora il mito delle origini trasmette l’idea che il potere non è di qui ma viene da fuori (Remotti chiama questo concetto “diversità del potere”). Dunque, se la regalità si manifesta fuori dalla società allora il re è di origine straniera. Perché i caduti dal cielo (tutsi) sarebbero superiori a quelli trovati sulla terra (hutu)? Alla loro partenza, i tre fratelli portarono con se alcuni animali e questi venivano utilizzati dai tutsi nella divinazione regale ovvero quell’attività attraverso la quale si mediano i rapporti fra gli uomini che vivono sulla terra e Imaana che vive in cielo. I tutsi sono coloro che avrebbero portato sulla terra gli animali della divinazione e che consentono di mantenere la comunicazione con Imaana mentre gli hutu sarebbero sprovvisti di questi mezzi e non avranno la possibilità di comunicare con la divinità. Coloro che praticavano la divinazione attraverso l’ispirazione non venivano generalmente consultati ma in compenso indicavano a colui al quale era stata predetta la sventura i mezzi necessari per proteggersi di cui solo i caduti dal cielo erano in possesso. L’origine della disuguaglianza fra hutu, tutsi e twa nella letteratura popolare Il mito di origine della dinastia narra da un lato l’arrivo dell’antenato della dinastia in Rwanda e, dall’altro, le relazioni che intercorrono fra il clan dinastico e gli altri clan. In alcune versione compaiono anche i twa: Kigwa avrebbe portato con se anche una coppia di twa che si unirono incestuosamente dunque tra questi e gli animali non ci sarebbero differenze. I racconti popolari sono stati presi in considerazione da Smith che sostiene che il dominio di questi racconti è costituito da un insieme strutturato di generi e che solo il loro studio comparativo è suscettibile di fondare una nuova “antropologia della letteratura”. I racconti presi in considerazione cadono sotto il genere imigani (proverbi e leggende) nei quali gli antenati dei tre gruppi non sarebbero altro che fratelli, figli di Gihanga, discendente di Kigwa. - Tema dell’ingordigia e della definizione dei ruoli: pag. 47. Attraverso le qualità di Gatutsi il padre determina le condizioni di ciascuno dei tre gruppi: i tutsi saranno allevatori, intelligenti e capi, gli hutu agricoltori e per avere le vacche dovranno svolgere lavori domestici e altri servizi per i tutsi mentre Gatwa verrà confinato ai margini della società e a lui non spetteranno vacche; - Tema del controllo di sé: pag. 47-48. Si evidenzia la funzione regolatrice del tempo e l’autocontrollo che solo Gatutsi dimostra di possedere; - Tema dell’intelligenza: pag. 48. Solo colui che usa l’intelligenza e che riflette merita la consegna delle armi. Nei tre racconti traspare che solo Gatutsi è meritevole e per questo superiore. La funzione regale non viene mai menzionata e, secondo Smith, questa è implicitamente considerata come emanazione dei tutsi. Le ipotesi teoriche: un regno “hamita” I termini “hamiti” e “hamitico” si ritrovano costantemente nelle monografie dell’epoca coloniale nelle quali hamita o camita identifica il gruppo dei tutsi. Per comprendere l’utilizzo di questo termine occorre rifarsi a un dibattito sulle origini delle popolazioni dell’Africa subsahariana: il termine che viene considerato è quello di Cham (ortografato Kham o Ham) e il suo significato è mutato radicalmente nel corso dei secoli e per poter seguire le sue tappe storiche dobbiamo partire dalla Genesi nella quale compare il nome di Ham (pag. 50). Nella Bibbia non compare alcun riferimento a differenze razziali tra gli antenati di Ham, tuttavia un’idea di questo genere emerge nei secoli successivi e riguarda i suoi discendenti: la progenie di Ham viene indicata come degenerata in quanto gli africani subiscono la maledizione del suo antenato Cham di conseguenza sono neri e degenerati dunque si è neri perché si è maledetti e questa immagine persiste per tutto il Medioevo. Con il secolo dei Lumi queste posizioni vengono completamente rimesse in discussione: il significato fino ad allora fornito dalle interpretazioni teologiche non soddisfa più gli scienziati. Si schierano: - I monogenisti: sostengono l’unità della specie. Tentavano di spiegare le caratteristiche fisiche del negro attraverso la natura piuttosto che secondo cause mitiche; - I poligenisti: sostengono la creazione separata degli esseri umani. Il negro era considerato e classificato come un essere subumano. A seguito della spedizione in Egitto di Napoleone Bonaparte (1798) si compie una completa riconversione del mito di Ham: gli imponenti ritrovamenti suscitarono un dibattito scientifico i cui temi centrali riguardavano l’origine, il livello di civiltà raggiunto dagli egiziani e i loro contatti con altre popolazioni del continente. Il conte Volney arrivò a sostenere che gli antichi egizi erano dei veri negri e che il loro sangue aveva progressivamente perso colore grazie ai contatti con i romani e i greci pur avendo conservato il carattere di origine. La versione precedente del mito hamita non era più proponibile: dal punto di vista delle teorie razzialiste, se i negri fossero stati i discendenti di Ham come avrebbero potuto dar vita a una così grande civiltà? La Bibbia viene dunque rivisitata. Nel testo biblico solamente la discendenza di Canaan era stata maledetta e gli egiziani vennero definiti come non negri in quanto imparentati con i bianchi europei. Attraverso il termine hamita da questo momento in poi gli studiosi cercheranno di rappresentare la diversità delle popolazioni africane in base a una gerarchia fondata sulla loro prossimità al ceppo europeo: se non sono completamente neri significa che sono entrati in contatto con civiltà straniere. A metà dell’800 il conte Gobineau diffonde l’idea di una branca primaria della razza bianca: 5000 anni prima della nostra era avrebbe avuto luogo la discesa primordiale della razza superiore e gli hamiti vengono riconosciuti come discendenti di tale primo movimento migratorio europeo-caucasico e solo in un secondo momento si sarebbero mescolati con i neri. Alla fine del XX secolo il colonialismo e il moderno razzismo contribuirono alla diffusione dell’ipotesi hamitica in questo senso e l’ipotesi gobineauiana fu rilanciata a gran voce dagli esploratori che cercavano di spiegare il popolamento. Le società dell’Uganda attuale furono descritte sulla base di infiltrazioni straniere di origine asiatica in quanto l’aristocrazia tutsi guidava uno stato talmente sofisticato che essa non poteva che essere originaria di una regione vicina all’Europa. A partire dal 1870 si diffonde tra gli studiosi l’idea di una razza hamitica nella quale vengono raggruppati anche alcuni gruppi dell’Africa centrale tra cui i tutsi. All’inizio del XX secolo gli hamiti saranno indicati come i sopravvissuti dell’umanità originale dai missionari e dai colonizzatori e i punti su cui fecero leva queste posizioni furono: - Il colore della pelle ovvero la pigmentazione intermedia di certe popolazioni classificate come hamitiche e quindi non completamente nere; - Gli hamiti sarebbero stati i primi ad aver lasciato la culla dell’umanità (Asia occidentale). Nelle monografie dell’epoca coloniale la razza hamitica è quella dei pastori-guerrieri tutsi che sarebbe superiore alla razza nera degli agricoltori hutu. Nella visione dei missionari convive una contraddizione: gli hutu sarebbero i figli maledetti di ham cioè gli hamiti mentre i tutsi sarebbero i quasi bianchi hamiti della versione moderna. Si può affermare che la sintesi hamitica fu il frutto della pratica dei colonizzatori europei che vi videro la giustificazione scientifica delle loro manipolazioni dunque l’ipotesi hamitica avrebbe fornito il quadro classificatorio generale in cui è stata elaborata l’idea di una separazione irriducibile di razza tra hutu e tutsi. Hamita diventa da maledetto a eletto. Il concetto della nuova razza hamitica ha fornito gli elementi di base nella formazione degli intellettuali rwandesi e burundesi. “Razze” e “caste” I primi esploratori che giunsero in Rwanda dopo la metà del XIX secolo dovettero affrontare una contraddizione tra l’omogeneità culturale e linguistica della popolazione e la sua suddivisione in hutu, tutsi e twa. Nella costruzione della visione antropologica degli abitanti della zona dei Grandi Laghi l’impressione estetica svolse un ruolo fondamentale: gli hutu, i tutsi e i twa furono spesso classificati secondo il grado di bellezza, di intelligenza o di organizzazione politica. La soluzione a questa contraddizione fu individuata attraverso lo sviluppo dell’ipotesi hamitica secondo cui hamita diviene il termine d’uso corrente per designare gli africani si identificano con il re. La morte del mwami non avveniva per cause naturali ma veniva decretata dagli abiiru ai primi sintomi di vecchiaia. Il cadavere subiva un trattamento particolare da parte degli abiiru che si occupavano della manipolazione delle spoglie, operazione che poteva durare mesi e ciò permetteva agli abiiru di poter leggere i cambiamenti che si sarebbero potuti verificare durante il periodo di interregno. Con il decesso del sovrano viene meno il simbolo della prosperità dell’intero paese e il corpo del re deve essere sostituito con quello del suo successore più giovane, simbolo di prosperità. Durante questo periodo si assiste a un lutto nazionale in cu tutte le attività sono sospese (periodo di disordine). Gli abiiru, trascorso il tempo del lutto, stabilivano il luogo segreto nel quale il corpo del defunto avrebbe dovuto riposare dunque gli abiiru sono depositari dei segreti dell’intronizzazione del mwami sino alla sua definitiva sepoltura. L’accesso al potere regale possedeva una sequenza rituale che può essere riassunta in una successione di tre vie: - La via della sconvenienza: riguardante i rituali di ossequio; - La via della competizione: le procedure magico-religiose tendenti a prevenire le guerre di competizione; - La via dell’intronizzazione. Su suggerimento degli abiiru, il vecchio mwami decideva quale, tra i suoi figli, dovesse essere il suo successore (di solite quello più giovane) e solamente alla morte del mwami il nome veniva rivelato attraverso tre dei più importanti abiiru. Sovente i figli e le loro rispettive madri non si trovavano d’accordo sulla scelta dunque il periodo di interregno si trasformava in una vera e propria guerra. La regina madre aveva una propria corte, possedeva le due mandrie e godeva dei privilegi garantiti dalla sua posizione regale che sono acquisiti solamente attraverso il rituale di intronizzazione (ab-ami: mwami e regina madre). Quando il re moriva, la regina madre perdeva completamente i suoi privilegi ma, se questa moriva prima, il mwami era costretto a scegliere una madre ufficiale. Al fine di dominare la scena politica del nuovo regno, i lignaggi che erano stati esclusi dalla competizione al trono cercavano di opporre all’erede un altro principe nato da una donna del loro gruppo (via della competizione). L’intronizzazione era l’ultima via e riguardava quei passaggi rituali attraverso cui il re accedeva al potere politico: i passaggi erano molti e il momento più importante dell’investitura consisteva nell’inaugurazione dei quattro tamburi dinastici che simboleggiavano sia il potere politico-militare che la sacralità del re. La loro fabbricazione avveniva seguendo operazioni rigidamente stabilite dagli abiiru. Il tamburo dinastico per eccellenza era il Karinga e possederlo significava essere re. Colui che si fosse stato impossessato del tamburo senza essere stato designato dal vecchio re e senza essere stato proclamato dagli abiiru nuovo mwami non avrebbe potuto sopravvivere al gesto sacrilego. Dunque, il fondatore del Rwanda è colui che fonda e crea tutti i simboli della regalità. L’ubwiiro era la corporazione degli alti dignitari e costituiva un’oligarchia di uomini chiamati abiiru le cui cariche erano ereditarie e le norme prescritte. Gli abiiru preservavano la conoscenza rituale e accompagnavano le cerimonie. Quando Gihanga, eroe fondatore, discendente di Kigwa e origine dell’istituzione degli abiiru, nel mito, fonda l’istituzione lega a sé le tre famiglie più importanti del paese e non è un caso se i tre abiiru più importanti siano colori ai quali il mwami comunica il nome del nuovo re. Il consiglio ubwiiro era composto da una dozzina di notabili ma solo quattro erano a conoscenza del codice dinastico. Un altro fondamentale compito degli abiiru era quello di assicurare e garantire il rispetto della tradizione limitando i poteri del re. L'intronizzazione del mwami passava da un duplice linguaggio relativo alla personalità e alla funzione del sovrano. Durante il periodo del regno il mwami garantiva e armonizzava le attività produttive e la vita sociale del paese evitando le influenze malefiche provenienti dalla natura. Il re veniva scoperto dagli abiiru, è la regalità che cattura il re perché gli abiiru avevano controllo su tutte le azioni del sovrano. Le fonti simboliche del potere: ku ngoma ya Al tamburo è attribuita una grande importanza. In kinyarwanda il tamburo viene identificato con il termine ingoma e ha strette connessioni con la regalità. La presentazione dei quattro tamburi dinastici al futuro mwami si configura come uno dei momenti centrali del rituale di intronizzazione: ogni tamburo possedeva un nome proprio il cui significato doveva corrispondere al grado di dignità che ciascuno di questi aveva nei confronti del Karinga, il più importante: - Karinga; - Cyimumugizi: considerato la compagna del Karinga e il secondo tamburo in ordine di importanza e sarebbe stato introdotto nel paese da Gihanga; - Mpatsibihugu; - Kiragutse. Il Karinga rientra nella categoria dei tamburi classificati come membranofoni ed era al centro di una complessa serie di attività rituali e la sua costruzione avveniva attraverso l’intervento diretto degli abiiru. All’interno della cassa di risonanza venivano collocati alcuni oggetti di particolare valore simbolico (cuori del tamburo) che potevano essere statue o utensili legati alla regalità o lo stesso cranio del mwami predecessore. Il karinga si compone di due elementi: - L’ingoma: il corpo ligneo del tamburo, di origine vegetale; - L’indiba o uruhanga: le pelli fissate alle due estremità, di provenienza animale. Il mondo vegetale e quello animale rappresentavano le sfere di azione e attività distinte a cui corrispondevano le forza sociali che interagivano e dunque l’integrazione fra tutsi allevatori e hutu agricoltori. In tutte le regioni dei Grandi Laghi, attraverso i tamburi, le società tradizionali realizzavano una dimensione di unità e di coesione assicurando così quelle basi di continuità e persistenza delle loro istituzioni fondamentali. Attraverso Karinga gli abiiru costruiscono le basi simboliche della regalità, combinando gli elemento eterogenei del mondo vegetale e animale e dunque le sfere di azione dei tutsi e degli hutu. Si può affermare che Karinga, rinnovando la regalità nella persona del mwami, assicurava la continuità e quindi la prosperità dell’intero Rwanda. Il tamburo Karinga: la “convenzione originaria”? Il tamburo dinastico realizzava l’integrazione della società precoloniale e potrebbe essere interpretato come un “noi” ovvero la personificazione del particolare accordo fra tutti che è alla base della società rwandese dunque quello che Rousseau definì come il patto sociale che si concretizza in quell’associazione di individui che viene definita come il popolo. Esiste quindi un precedente patto che gli individui stipulano fra di loro prima che con il re infatti un popolo è già popolo prima di donarsi a un re. Il mwami è chiamato a difendere Karinga e dunque l’intero popolo rwandese. Gli abiiru sono i veri attori nonché i garanti di una sovranità che si costruisce da una condivisione e questo equilibrio trova la sua espressione in Karinga. Nel 1960, dopo decenni di colonizzazione che aveva esasperato le differenze interne della società, Karinga venne dichiarato fuori legge. L’ubuhake: istituzione della disuguaglianza e dinamiche della dipendenza L’accesso alle terre era considerato come un elemento unificatore. Se quello fondiario era il potere più importante, tuttavia non era dissociabile da quello politico e religioso: il mwami delegava la gestione del potere politico-fondiario ai membri della sua famiglia. Nel Rwanda precoloniale l’accesso alla terra poteva avvenire in modi diversi: - Per concessione diretta del mwami; - Per successione; - Attraverso la stipulazione di contratti. Quest’ultima era senza dubbio la forma maggiormente diffusa e i contratti più importanti erano: - L’ubuhake: il cliente prometteva all’altro contraente di fornire alcune prestazioni in natura e servizi pregandolo di accordargli la disposizione di uno o più capi di bestiame. Lo shebuja consegnava le vacche e si obbligava ad assicurare aiuto e protezione al suo cliente. Lo shebuja concedeva al garagu soltanto l’usufrutto delle vacche restandone l’unico vero proprietario: l’usufrutto consentiva al garagu di consumare il latte ricavato e di utilizzare le vacche per i lavori agricoli, di allevare e tenere con sé i tori che potevano nascere ma le giovenche dovevano essere restituite. Le diverse obbligazioni delle parti contraenti non erano rigidamente regolamentate ma dipendeva dalla relazione personale tra il proprietario e il cliente e dal rispettivo rango sociale. Se una delle parti moriva le relazioni che si erano venute a creare si trasmettevano per via ereditaria. Uno dei due o entrambi i contraenti potevano decidere di rompere il contratto e in questo caso le vacche venivano immediatamente restituite al proprietario. Questo tipo di contratto istituzionalizzava un sistema di relazioni fondato su linee di dipendenza ed è l’elemento determinante di una struttura fortemente gerarchizzata rappresentata come una società a caste divisa in hutu/contadini e tutsi/allevatori ricchi. In origine questo tipo di contratto non si concludeva esclusivamente tra tutsi ricchi e hutu poveri ma fra due lignaggi tutsi di differente livello socioeconomico. Il contratto veniva a costituire una possibilità per i capi di accrescere il loro controllo sui subordinati, che fossero hutu o tutsi. Inoltre poteva rappresentare una strategia di difesa per taluni lignaggi proprietari di bestiame che si sentivano minacciati di usurpazione da un lignaggio tutsi più potente e per talune famiglie poteva divenire una risorsa di sopravvivenza perché, legandosi a un padrone, avrebbero potuto migliorare la loro situazione economica. Il contratto poteva costituire il mezzo più efficace per non pagare la tassa prevista dal regime dei tributi in quanto la posizione di cliente avrebbe permesso l’esenzione dal pagamento dovuto attraverso prestazioni e servizi svolti per il superiore. I primi anni dell’occupazione belga furono segnati dall’eredità della colonizzazione precedente. La Germania aveva applicato un sistema di amministrazione indiretta basato sull’idea non intervenire nell’organizzazione delle istituzioni politiche-territoriali del paese: i tedeschi avevano cercato di difendere le zone di frontiera loro contese dai belgi e dagli inglesi con delle stazioni militari. I missionari avevano svolto il ruolo di veri e propri amministratori grazie alla creazione di un clero indigeno reclutato prevalentemente fra la popolazione più pover, in maggioranza hutu. Le missioni infatti costituivano l’unica possibilità per gli schiavi fuggiti di diventare uomini liberi in quanto i religiosi si erano fatti promotori della lotta contro la schiavitù assicurata da sostegni politico-finanziari europei. L’adesione al cristianesimo isolava gli hutu dal loro ambiente e dai legami sociali tanto che l’ubuhake entrò profondamente in crisi: non si trattava più di usufrutto ma di una vera e propria vendita di vacche e dunque non c’erano più le obbligazioni di un tempo. I missionari vedevano nell’arrivo dei Belgi la possibilità di acquisire vantaggi visto che la relazione con gli amministratori tedeschi si era rivelata basata su rapporti di concorrenza: tutti i nobili, i garagu, i capi dei clan, i tedeschi, i Padri Bianchi rivaleggiavano per il lavoro della massa contadina rwandese. Le missioni, durante il periodo tedesco, avevano attratto coloro che si trovavano sul gradino più basso della scala sociale non riuscendo a coinvolgere l’aristocrazia e i capi, obiettivo che sarà invece raggiunto durante e grazie la colonizzazione belga. L’arrivo dei belgi portò a un cambiamento repentino dei poteri tradizionali e nel 1917 fu ufficialmente creata la Residenza del Rwanda: il paese venne diviso in tre settori e poi in quattro territori. Ciò rappresentò il segnale iniziale del processo di desacralizzazione e di progressiva marginalizzazione dell’istituto della regalità tradizionale a causa della distruzioni della base simbolica del paese e della riorganizzazione territoriale. “Dominare per servire”: la politica indigena della colonizzazione belga Le missioni cattoliche trovarono nella nuova amministrazione un referente ideale: i belgi si facevano interpreti di un’idea di civilizzazione fortemente influenzata dal cattolicesimo tanto che la loro collaborazione con i Padri Bianchi fu totale. L’autorità ecclesiastica svolgerà un ruolo di primaria importanza soprattutto con la figura di padre Classe. Sono comunque presenti delle contraddizioni: sin dai primi anni di occupazione, l’amministrazione belga mise in atto una politica che ebbe come effetto principale quello di creare una classe amministrativa indigena di supporto ai funzionari belgi ma nella realtà sociale questa politica indigena si tradusse nella valorizzazione di un gruppo a scapito della massa contadina producendo una visione razzista della società a cui contribuirono i lavori etnografici dei missionari. Le prime misure civilizzatrici investirono il mwami e la sua autorità: nel 1917 venne imposta al sovrano l’interdizione rispetto al suo diritto di vita o di morte sulle persone del regno. Musinga ignorò tale provvedimento al quale se ne aggiunsero altri negli anni successivi con il risultato che Musinga non avrebbe mai più potuto nominare o destituire i capi del suolo e i capi del bestiame a meno che non vi fosse l’accordo preliminare con gli amministratori. L’amministrazione belga divenne la fonte finale dell’autorità e i capi indigeni non dovevano più rispondere al mwami ma ai colonizzatori. A una prima riorganizzazione corrispose una razionalizzazione del lavoro di interesse pubblico eseguito dagli indigeni i quali venivano reclutati dagli amministratori o dai missionari attraverso il sistema del lavoro forzato. I contratti tradizionali subirono profonde modificazioni: il contratto assunse la forma di una stipulazione fra due individui diventando uno strumento di sfruttamento in mano a una ristretta minoranza che era stata scelta per governare. Anche l’ibikingi (sistema di concessione territoriale da parte del mwami ai notabili) fu abolito privando il sovrano di quello strumento tradizionale che lo tutelava dalle pretese dei proprietari fondiari. Musinga fu costretto a decretare la libertà di religione facendo perdere al mwami le prerogative soprannaturali di cui era tradizionalmente dotato. Le pratiche rituali venivano proibite perché considerate consuetudini proprie di una mentalità primitiva: nel 1925 ci fu la proibizione di tutti i rituali dell’ubwiiru facendo cessare la giustificazione della natura soprannaturale dl potere regale del mwami passando dallo stato di re divino a quello di comune mortale. La regalità sacra perdeva definitivamente il su significato e il suo valore sociale. A partire dagli anni ’30 gli amministratori dovettero decidere in che modo e con chi rimpiazzare l’autorità tradizionale e in risposta venne elaborato il Programma Voisin che impose un cambiamento dell’intera organizzazione territoriale mediante l’estensione dei meccanismi di controllo del regno centrale: si procedette con la sostituzione dei tre capi sul territorio con un unico responsabile per aree geografiche classificate come chefferies o sotto-chefferies. Nelle zone nelle quali la minoranza tutsi era priva di potere e dove i capi erano gli hutu vennero inaspriti i rapporti fra i gruppi venendo a mancare il tradizionale accordo reciproco. L’ “etnismo scientifico” e la formazione della nuova classe dirigente L’aspetto più rilevante che segue l’istaurazione del potere coloniale belga è costituito dall’avvicinamento agli europei di una stretta minoranza della popolazione rwandese (banyanduga-tutsi). Questo avvicinamento vide come primo interlocutore la Chiesa cattolica e le sue missioni. I banyanduga-tutsi erano passati da una prima opposizione all’evangelizzazione a un prudente atteggiamento più conciliante per giungere, infine, dopo gli anni ’20, a un primo movimento di conversione. In questa fase si avvicinarono gli inshingore (convenuti) ovvero quei notabili che si potevano definire modernisti che si erano convinti dei vantaggi che avrebbero potuto avere dalla collaborazione con gli europei ma a questi si opponevano i tradizionalisti (abayoboke), vicini al vecchio mwami. L’etnografia missionaria aveva assegnato ai tutsi-hamiti un primato culturale che si sarebbe tradotto in un accesso privilegiato al potere. L’amministrazione belga aveva compreso la necessità di formare una nuova classe dirigente sicché l’educazione assunse un ruolo centrale nella vicenda della colonizzazione divenendo un mezzo strategico per avere accesso al potere: in un primo momento l’educazione costituì una prerogativa esclusiva dei missionari. I belgi decisero di inaugurare la prima Scuola per i figli dei capi nel 1919 a cui potevano accedere solamente gli intore ovvero i figli di coloro che erano strettamente legati alla corte o quegli individui che, per la loro ricchezza, venivano assimilati ai capi. Il vecchio mwami non aveva però capito che i futuri capi usciti dalla scuola non sarebbero più stati dei notabili tradizionali bensì dei veri e propri funzionari dell’amministrazione coloniale facendo sì che la tradizionale amministrazione fosse rimpiazzata. Il numero di inshingore andò progressivamente aumentando in quanto avevano compreso che il mwami stava perdendo sempre più la sua autorità politica e che l’unico modo per accedere al potere era quello di passare attraverso la scuola e formarsi per andare a ricoprire incarichi per l’amministrazione coloniale. I missionari avevano caratterizzato il loro insegnamento nel senso della riaffermazione dei presupposti culturali di quella gerarchizzazione etnico- razziale. All’inizio degli anni ’30 Classe firmò un contratto scolastico attraverso cui alla Chiesa venne affidata la completa responsabilità dell’intero sistema educativo con la conseguente chiusura delle scuole pubbliche e la scelta dei batutsi in ogni ambito. Il sistema permise ai tutsi di consolidare la loro posizione e fu dunque nelle scuole che i colonizzatori riuscirono a etnicizzare le élites rwandesi contro la quale si sarebbe contrapposta una contro-élite che faceva riferimento alla categoria etnica degli hutu. Musinga cominciò a diventare un vero e proprio ostacolo e ciò motivò la forte crescita delle conversioni da parte dei notabili tutti inshingore tanto che si aprì un dibattito circa l’utilità di mantenere o meno l’istituzione regale. Il governo belga si preparò a sostituire Musinga con un nuovo mwami più moderno la cui deposizione avvenne nel 1931. Il nuovo mwami doveva soddisfare due condizioni: - I belgi cercavano e volevano un buon funzionario formato secondo i crismi della nuova educazione; - La Chiesa auspicava a un buon cristiano. Dunque la scelta ricadde su Rudahigwa, figlio di Musinga, la cui investitura si fondò su una legittimità e una cerimonia tutta europea. L’ascesa al trono di Mutara innescò un ulteriore processo di conversione di massa dei notabili tutsi: convertirsi al cattolicesimo costituiva l’unica possibilità per costoro di assumere la funzione di capo e di procurarsi uno status sociale. La “finzione coloniale” delle etnie L’ascesa al trono di Mutara segnò dunque la stabilizzazione del nuovo ordine coloniale fondato sull’omogeneizzazione dell’amministrazione territoriale e l’istaurazione di un monopolio a favore delle élite tutsi-banyanduga. Sotto tale regno si realizzò il consolidamento di una vera ideologia rwandese che si basava sulla traduzione politica dello schema razziologico bipolare hutu-tutsi. Il mito delle tre razze divenuto ideologia di stato ebbe per effetto l’occultamento delle vere dimensioni dei conflitti di potere che si preparavano già nel periodo coloniale. Il punto critico dei processi innescati con la colonizzazione è individuabile nella sovrapposizione di due elementi: - L’opposizione masse contadine/élite dominante; - Il confronto tra sistemi politici banyanduga/bakiga. Le categorie tutsi e hutu da quel momento assunsero un significato discriminante e che può definirsi costruzione o finzione coloniale: in questo senso le etnie rwandesi hutu, tutsi e twa furono inventate dagli europei attraverso un processo di etnicizzazione tanto che la finzione coloniale dell’etnia nella realtà venne assunta dagli stessi attori sociali. In occasione del censimento della popolazione effettuato dagli amministratori negli anni ’30 fra i dati di riconoscimento di un individuo apparve per la prima volta la menzione dell’identità etnica individuabile nel numero dei capi di bestiame posseduti. 5. Hutu-Tutsi: identità in conflitto L’eredità del periodo coloniale sempre più l’accento sull’aspetto razziale. Infatti, la propaganda del Parmehutu fu incentrata sulle questioni relative all’attribuzione della terra e sul completo discredito della monarchia risultando vincitore delle elezioni e portando alla nomina di nuovi capi che furono chiamati borgomastri. Le proteste dei tutsi rifugiati all’estero e degli appartenenti ai partiti monarchici costrinsero l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a intervenire chiedendo alle autorità amministrative di indire un referendum sulla monarchia, decisione che fu all’origine di un colpo di stato in seguito al quale, nel 1961, fu proclamata la Repubblica e, un anno dopo, il Rwanda fu proclamato indipendente. Il mistero di Karinga Durante il periodo coloniale Karinga aveva perduto gran parte del suo significato simbolico. Con la trasformazione della società il complesso degli elementi simbolici della regalità venne a trovarsi associato esclusivamente all’immagine della casta superiore tutsi e Karinga divenne la manifestazione diretta del potere del mwami tutsi che si traduceva nella sottomissione della massa hutu e per questo motivo Karinga diventò uno dei principali bersagli polemici da parte dei leaders hutu in quanto non poteva più costituire un simbolo di unità nazionale. La questione Karinga assunse una tale rilevanza da essere discussa all’interno della gerarchia ecclesiastica tanto che le furono dedicate una dichiarazione e una lettera pastorale indirizzata ai cattolici del Rwanda in cui si attribuiva a Karinga un significato di emblema nazionale e ciò si tradusse in una piccola vittoria dei preti tutsi. Rudahigwa, preoccupato, decise di sequestrare Karinga e di metterlo al sicuro. La violenza percorre la storia del Rwanda Il 6 aprile 1994 l’aereo che trasportava il presidente rwandese Habyarimana e quello burundese Ntaryamira fu abbattuto. Nelle ore successive le milizie hutu cominciarono a lavorare dando inizio a uno dei massacri più violenti del XX secolo: dal 7 aprile dei gruppi armati si riversarono nelle strade delle città e delle colline all’inseguimento della popolazione tutsi. I massacri furono attentamente preparati secondo un piano concertato e un’ideologia razzista, frutto di odio alimentato negli anni dalle manipolazioni politiche che hanno fatto dell’appartenenza etnica un criterio decisivo dal punto di vista dei massacratori. La Rivoluzione sociale e l’Indipendenza avevano ribaltato la situazione e imposto la forza demografica maggioritaria (quella degli hutu): infatti, la vittoria del Parmehutu aveva abolito la monarchia e posto fine alla supremazia politica tutsi dividendo la società in due popoli. L’élite hutu continuò ad agire come se i tutsi fossero nemici ereditari e un corpo estraneo al paese tanto che vennero messe in atto nei loro confronti una serie di violente repressioni con l’intento di ucciderli o di costringerli ad abbandonare il Rwanda. La conseguenza immediata di questi episodi fu un ulteriore esodo massiccio di rifugiati verso i paesi limitrofi e in questo contesto il presidente divenne l’incarnazione della sovranità hutu, fonte di legittimità nazionale. Il 5 luglio 1973 Habyarimana si impadroniva del potere mediante un colpo di stato ponendo fine a 12 anni di presidenza di Kayibanda. Gli estremisti hutu avevano giudicato i tutsi troppo numerosi e per questo motivo l’epurazione etnica si spinse fino alla caccia degli ibridi nati da matrimoni misti e degli imbroglioni che avevano cambiato categoria razziale. Sulle colline gli agricoltori avevano cominciato a protestare nei confronti dell’autorità e Habyarimana approfittò di questo indebolimento per intervenire a sostegno dei contadini. Il nuovo presidente fu salutato da un sollievo popolare dato che il nuovo regime si impegnava immediatamente a garantire la loro sicurezza. Alla fine del 1990 l’FPR lanciò una vera e propria offensiva in territorio rwandese che si trasformò in una sanguinosa azione di guerra; l’ala più estremista pensava che i tutsi residenti in Rwanda e quelli rifugiati all’estero si sarebbero prima o poi coalizzati dunque crearono un’organizzazione per i massacri dando vita a una stagione sanguinosa dell’odio. La violenza è l’elemento costante della storia rwandese e rappresenta uno dei fattori principali della costruzione di identità in conflitto come quelle degli hutu e dei tutsi, esplode nelle forme più estreme non rispettando più nulla e nessuno. Le logiche del genocidio: la messa in scena della crudeltà e l’annientamento dell’Altro L’attività di deforestazione ha costituito un referente simbolico nella formazione dell’identità hutu: la connessione fra l’abbattimento della foresta, l’introduzione dell’agricoltura e l’istaurazione di un’organizzazione sociale costituisce la legittimazione ideologica degli hutu nel considerarsi come i veri abitanti del Rwanda. La pratica dei massacri avveniva secondo schemi precisi e le testimonianze pongono in evidenza due aspetti: la pratica collettiva della crudeltà estrema e un’estetica della violenza traducibile nella necessità di una dimostrazione della crudeltà stessa (rituali macabri). Perché tanta violenza da parte degli esecutori? L’intenzione dell’esecutore è quello di rendere i tanto temuti nemici inerti, impotenti e di ridurli a uno stato di vegetale immoto. In Rwanda, prima di uccidere l’Altro (tutsi) occorre recidere, tagliare i legami che costui ha con il mondo, impedirgli di lavorare o di camminare su una terra che non è sua. Lo scopo dell’azione violenta è quindi la messa in scena di una crudeltà che non risparmia nessuno e la logica del genocidio e quella di infliggere violenze estreme volutamente esibite. Occorre far riferimento al termine genocidio, apparso per la prima volta nel 1944 per definire la politica razziale del nazismo. Nel caso del Rwanda un genocidio è l’annientamento deliberato di qualunque gruppo, compresi quelli su base politica o sociale. Conclusioni La storia scritta e il discorso politico nella costruzione nella costruzione dell’identità Hutu-Tutsi I 10 comandamenti degli hutu (1990): i temi che venivano evidenziati erano gli stessi che durante tutto il periodo coloniale avevano visto gli hutu eterni subalterni. Vi è una riproposizione dei rapporti hutu-tutsi attraverso un ricorso continuo ed esplicito al passato: con la rivoluzione del 1959 il potere hutu si era fondato e perpetuato attraverso la paura e la minaccia facendo riferimento alla logica della vittima secondo la quale gli hutu sarebbero stati trattati ingiustamente nel passato e ciò avrebbe aperto una linea di credito inesauribile per l’avvenire. Attraverso la storia scritta prima e il discorso politico poi gli hutu erano riusciti a legittimare un “noi” o più precisamente un “noi-hutu” nei termini di popolo- nazione rwandese attraverso il capovolgimento del mito delle origini (gli hutu sono agricoltori e Gahutu è un abbattitore di foresta e ha reso abitabile il paese). Il “noi” si costruisce in relazione agli “altri”, i tutsi, ma soprattutto attraverso la loro negazione o persino attraverso il loro annientamento. I tutsi sono la vera minaccia del popolo-nazione e quindi devono essere prima identificati come “altri” e poi eliminati. I punti cardine del discorso politico hutu sono: - La definizione dell’identità in termini di appartenenza etnica: lo schema che viene proposto è sempre lo stesso abbiamo gli hutu da un parte e i tutsi dall’altra quindi due etnie; - La denigrazione totale dell’Altro (tutsi): si tratta di razzismo etnico infatti la tonalità generale dell’odio che gli avversari si portavano l’un l’altro assume il carattere razzista in cui l’Altro veniva denigrato; - La legittimazione di un conflitto “razziale o “etnico” con la conseguenza di consolidare nelle mani degli hutu un potere totalitario: i discorsi estremisti davano corso a direttive omicide senza pietà; - Il processo di riscatto di un’identità (che si riteneva costantemente minacciata e perseguitata) attraverso la normalizzazione di una cultura della violenza e della crudeltà: l’elemento minaccia è riproposto costantemente in tutti i discorsi degli hutu. Il discorso politico rwandese realizza il consenso intorno a un progetto di ricostruzione dell’identità come riaffermazione del primato culturale hutu, un processo continuo di costruzione di un’ideologia che trova nella massa contadina hutu il suo referente naturale. L’agire comunicativo di Habermas, nel caso del Rwanda, è quando gli attori si impegnano a concordare internamente l’uno con l’altro i loro piani di azione e a perseguire i loro rispettivi scopi soltanto alla condizione di un accordo sulla situazione e sulle conseguenze che se ne attendono. Questo accordo è legato alla realizzazione di un determinato scopo: l’annientamento dell’Altro e dal punto di vista dell’Altro non si tratta di una vera comunicazione ma di un agire strategico o orientato verso il successo. Dunque vi p l’esistenza sia dell’agire comunicativo sia di quello strategico: gli hutu hanno agito comunicativamente con gli hutu e strategicamente con l’Altro. Il discorso politico ha determinato una realtà in cui sono presenti due attori ma una sola logica: gli hutu e i tutsi definiscono la propria appartenenza per mezzo di un progetto di ricostruzione della realtà rwandese che passa attraverso l’inferiorizzazione e poi l’annientamento dell’Altro. Il genocidio del 1994 è venuto assumendo un valore paradigmatico come modello di riferimento per i conflitti identitari dell’epoca attuale: M. Kaldor ha compreso il caso rwandese nella definizione di “nuove guerre” in cui vi è un nuovo tipo di violenza organizzata che ha a che fare con la politica dell’identità ovvero quei movimenti che muovono dall’identità etnica, razziale o religiosa per rivendicare a sé il potere dello stato. Le identità in conflitto rappresentano un dato del presente e un elemento caratterizzante il futuro e si fondano su un uso strategico del passato. L’identità non può essere considerata un dato di partenza naturale e oggettivo ma il risultato della sedimentazione di sistemi, azioni e di significati, nonché di ruoli e di motivazioni, dei diversi attori sociali.
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