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I diritti fondamentali: differenze culturali, disuguaglianze sociali, differenza sessuale, Appunti di Filosofia del Diritto

I  DIRITTI FONDAMENTALI: DIFFERENZE CULTURALI, DISUGUAGLIANZE SOCIALI, DIFFERENZA SESSUALE.Una lettura critica dei diritti fondamentali.In Europa, è in corso l’approvazione della nuova Costituzione, di cui i diritti sono parte fondamentale.Il nostro tempo è il tempo della globalità e della globalizzazione.I diritti hanno a che fare anche con le disuguaglianze. La seconda metà del XX secolo è stata l’età dello stato sociale e delle costituzioni in cui sono prescritti diritti sociali conquistati c

Tipologia: Appunti

2011/2012

Caricato il 29/05/2012

gibuti
gibuti 🇮🇹

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Scarica I diritti fondamentali: differenze culturali, disuguaglianze sociali, differenza sessuale e più Appunti in PDF di Filosofia del Diritto solo su Docsity! I DIRITTI FONDAMENTALI: DIFFERENZE CULTURALI, DISUGUAGLIANZE SOCIALI, DIFFERENZA SESSUALE. Una lettura critica dei diritti fondamentali. In Europa, è in corso l’approvazione della nuova Costituzione, di cui i diritti sono parte fondamentale. Il nostro tempo è il tempo della globalità e della globalizzazione. I diritti hanno a che fare anche con le disuguaglianze. La seconda metà del XX secolo è stata l’età dello stato sociale e delle costituzioni in cui sono prescritti diritti sociali conquistati con lotte e conflitti. Questi diritti obbligano gli stati ad agire per diminuire le disuguaglianze economiche e sociali, a puntare non solo all’eguaglianza formale, ma anche a quella sostanziale. La crisi attuale dello stato sociale, che è collegata alla crisi dello stato-nazione, tocca per primi questi diritti. Non vi è un solo femminismo, e che il femminismo non è una teoria, ma semmai un orizzonte di pensiero cui fanno riferimento esplicito correnti diverse. I diritti fondamentali dal punto di vista della teoria del diritto è analitica, la filosofia della giustizia è normativa, quella storico-sociale è descrittiva. Dal punto di vista della teoria del diritto “sono diritti fondamentali tutti quei diritti soggettivi che spettano universalmente a tutti gli esseri umani in quanto dotati dello status di persone o di cittadini o di persone capaci d’agire; inteso per diritto soggettivo qualunque aspettativa positiva o negativa ascritta ad un soggetto da una norma giuridica positiva quale presupposto della sua idoneità ad essere titolare di situazioni giuridiche o autore degli atti che ne sono esercizio”. La questione dei fondamenti o delle giustificazioni dei diritti fondamentali è tipicamente un problema di filosofia della giustizia o di filosofia del diritto e ha a che fare con la vecchia contesa tra giusnaturalismi e giuspositivisti. Possiamo considerare le ipotesi giusnaturalistiche come quelle che individuano il diritto come “naturale”, piuttosto che posto da una autorità. Potremmo individuare 3 posizioni diverse del giusnaturalismo: 1) il diritto naturale come insieme di principi etici generali, cui il legislatore positivo si deve ispirare per formulare norme; 2) il diritto naturale come “insieme dei precetti della retta ragione”, che il legislatore deve tradurre in norme dotate di sanzione; 3) il diritto naturale come fondamento di legittimità dell’ordinamento giuridico positivo. Tutte queste versioni sono state contestate dai giuspositivisti. L’avvento del costituzionalismo sembra provvedere questo luogo, senza dover andare alla ricerca di un diritto naturale. Le costituzioni moderne sono un insieme di principi e norme sovraordinate all’ordinamento giuridico. Ma, non tutti i paesi, neanche quelli democratici (vedi il Regno Unito) hanno costituzioni. La concezione moderna dei diritti non deriva dalla ragione, né dai voleri di una divinità, né dalla corrispondenza con una supposta natura dell’Uomo: i diritti moderni nascono e si affermano all’interno di conflitti spesso assai aspri, vengono rivendicati e ottenuti attraverso lotte. È facile rilevare come i diritti si affermino dentro le filosofie contrattualistiche dei secoli XVII e XVIII, e trovino la loro positivizzazione con le dichiarazioni dei diritti delle rivoluzioni americana e francese. Sono questioni sociologiche anche l’effettività, o l’efficacia dei diritti, i problemi relativi alla loro implementazione, alla possibilità della loro estensione e specificazione. Bobbio ha sostenuto che non è più tanto il caso di andar alla ricerca dei fondamenti dei diritti, quanto invece di preoccuparsi della loro garanzia o implementazione. Ma la questione dei fondamenti torna nel momento in cui i diritti vengono sfidati da altre concezioni filosofiche, politiche morali che propongono visioni diverse, progetti alternativi di produzione di beni considerati necessari all’umanità, in ordine alla convivenza ordinata e pacifica e agli interessi e bisogni degli umani. PAGE 64 Con la globalizzazione e l’internazionalizzazione dei diritti, con la promulgazione nel 1948 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e con i successivi Patti sui diritti civili e politici e su quelli economici e sociali del 1966, la questione dei fondamenti si fa più pressante. In occidente, negli ultimi decenni, due critiche sono state formulate nei confronti di logica, linguaggio, contenuti dei diritti. Esse vengono dalle filosofie della giustizia di impronta comunitarista e dal pensiero femminista. La prima è rivolta alla tradizione liberale e al neocontrattualismo, la seconda nasce dall’esperienza politica dell’emancipazione, ossia dell’ottenimento, da parte delle donne, della titolarità di tutti i diritti di cui sono titolari gli uomini. La dicotomia società/comunità risale all’800, dove con società s’intendeva l’aggregato sociale risultante da legami contrattuali, dunque volontari, tra individui, mentre con comunità si indicava la rete dei rapporti legati all’appartenenza, agli status ascritti. La società è la modernità, dove ciò che conta è l’individuo libero dai vincoli di status. Nella società prevalgono la razionalità e il calcolo, nella comunità, l’affettività. Nella comunità, l’ordine sociale è assicurato dall’adesione di ciascuno ad una moralità comune profondamente interiorizzata: nella società, il nucleo di valori comuni si restringe e tende comunque ad essere ben diverso, giacchè al suo centro c’è l’individuo. L’individuo è dunque protagonista della società (della modernità), libero dai vincoli preesistenti e dai doveri di status. Già del resto la svolta anti illuministica, romantica, di inizio 800 aveva teorizzato il primato della tradizione condivisa, del “sangue”, del “popolo” e della “nazione” per l’appunto contro ciò che veniva considerato il disordine prodotto dalle grandi rivoluzioni, di cui sono invece figlie le costituzioni moderne e i diritti dell’uomo. Dalle posizioni comunitariste vengono quelle critiche ai diritti che non solo denunciano dei diritti l’origine occidentale, da non poter essere mai universalizzabile, pena l’imperialismo e il colonialismo, ma il loro essere connessi ad una visione del mondo che prescrive il primato dell’individuo sulla società, la garanzia della sua libertà, la scelta della ragione procedurale rispetto ad una qualche concezione concreta del bene. Per il femminismo la politica della differenza si contrappone alla politica delle identità. La comunità è sempre stato uno dei luoghi principali di oppressione delle donne, e di silenzia mento della loro autonoma soggettività. Per il femminismo, la singolarità è però un valore irrinunciabile. La questione dell’universalità e dell’universalismo dei diritti è connessa a quella circa le giustificazioni e i fondamenti. È una questione che interessa la filosofia e le scienze sociali, giacchè dal punto di vista della teoria del diritto, si dicono universali tutti quei diritti che spettano a tutti gli individui compresi in una certa classe. I diritti sociali riguardano sia il trattamento delle disuguaglianze che quello delle “differenze”. Si caratterizzano per il fatto che impongono obblighi, invece che divieti, ai poteri pubblici. Obblighi di intervento per assicurare risorse considerati indispensabili agli individui: il diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro sono tipici diritti sociali. Essi sono previsti nelle Costituzioni, nei Patti, nella Carta dei diritti europea. Sono il risultato delle lotte e dei conflitti che hanno portato, in Europa, alla costruzione dello Stato di welfare dopo la seconda guerra mondiale. L’attuale indebolimento dello stato nazionale, l’internazionalizzazione dei mercati e la tra snazionalizzazione delle grandi imprese monopolistiche ha condotto a un forte indebolimento del welfare e, nei paesi del sud del mondo, a tagli drastici, in conformità alle richieste del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, agli investimenti nell’istruzione e nella sanità. Ciò da luogo alla crescita del divario tra ricchi e poveri, all’aumento delle disuguaglianze, e alla crisi dei diritti sociali. I diritti sociali sono diritti “difficili”, non solo perché costano, ma perché richiedono politiche complesse, e tali da tener conto della possibile tensione tra diritti civili e diritti sociali. PAGE 64 Il dopoguerra si apre con le grandi dichiarazioni e carte internazionali dei diritti dell’uomo: in cui si rileva il paradosso irriducibile e ineliminabile della cultura dei diritti, che per esempio un grande etnologo (studioso delle razze umane) italiano, De Martino rivendica con il nome di etnocentrismo critico.(solidarietà con il gruppo di appartenenza e disprezzo verso gli altri gruppi). I differenzia listi rifiutano di essere definiti “razzisti”. Essi non sostengono la superiorità della loro cultura rispetto alle altre, quanto al contrario la pari dignità di ogni cultura, e dunque la necessità che ogni cultura si sviluppi secondo i suoi codici e i suoi valori, senza interferenze e senza contaminazioni. Ognuno resti dunque a casa propria. Il fatto che ormai siamo tutti e tutte economicamente e politicamente interdipendenti, e che non è nemmeno possibile, disinteressarsi di ciò che succede altrove, e che non è possibile, impedire ad altri di venire a vivere e lavorare in casa nostra, la pacifica convivenza dipende da uno scambio comunicativo dove il rispetto per ogni singola cultura ed etnia non avvenga a scapito del rispetto per ogni singolo individuo a qualsiasi etnia appartenga. Perché si possano attribuire eguali diritti a tutti i soggetti, questi devono essere concepiti astratti dal loro contesto, separati gli uni dagli altri, privi di qualsiasi caratteristica che non sia la capacità di ragionare. I diritti appartengono così all’individuo in quanto tale, non in base al suo sesso, alla sua etnia, ecc... L’individuo astratto e indipendente dei diritti si rivelerebbe del tutto inefficace e inadeguato, se non controproducente, come standard sul quale costruire politiche di eguaglianza e di giustizia redistributiva. Alcuni critici dell’individualismo liberale, critici neocomunitari, propongono che si ponga la sordina all’individuo, privilegiando la relazionalità rispetto alla autonomia, la reciprocità all’indipendenza, la solidarietà ai diritti, in una parola la comunità alla società. Il problema dicono altre critiche, soprattutto femminista, è che non è affatto vero che la norma si costruisca su un soggetto astratto e neutro: un corpo ce l’ha, ed è un corpo maschile. Il soggetto delle teorie liberali e contrattualistiche assolutizza, universalizza certe caratteristiche che sono proprie di uomini adulti, bianchi, proprietari. L’antropologia dei diritti umani. I diritti fondamentali, come principi etico-politici e come norme positive e semi-positive sono il prodotto di una storia sociale, culturale, politica e giuridica particolare. Alle origini della modernità sta, quale atto fondativo, un genocidio-etnocidio legittimato dalla religione e dal diritto, basato sulla copertura degli interessi dei conquistatori dietro “valori” proclamati universali. Fino alla Dichiarazione del 1948, l’universalità dei diritti umani è un’universalità parziale e di parte <<viziata dal suo stampo statalistico>>. Benchè, secondo Ferrajoli, la costituzione stessa dell’Onu risenta della concezione statalistica della sovranità, prodotto anch’essa della Conquista e del pensiero giuridico che la legittimava, la Dichiarazione del 1948 e i Patti del 1966 aprono una nuova epoca. I diritti fondamentali diventano “positivi”, fonti non più di legittimazione ma di delegittimazione degli ordinamenti statuali. La moderna antropologia (scienza che studia l’uomo come entità biologica) nasce con la conquista, accompagna la colonizzazione e la decolonizzazione, si interroga a proposito dell’unità di o delle differenze dentro il genere umano, su che cosa significhi civiltà, ragione, morale. Ferrajoli individua nella sovranità degli stati il principale ostacolo odierno all’universalizzazione dei diritti e si richiama alla necessità dell’assunzione assiologica, da parte dei giuristi, di un costituzionalismo mondiale. Oggi da “noi”, l’antropologia implicita nella cultura dei diritti viene messa a dura prova non solo da antropologie e tradizioni esplicite diverse, ma anche dalla sua stessa tendenza alla moltiplicazione e all’estensione. PAGE 64 Posto che i diritti sono il prodotto di una certa tradizione culturale e che recano il marchio di una particolare, implicita, antropologia, al loro universalizzazione incontra due ostacoli, distinti ma intrecciati. Il primo è di natura etico-politica, e si riferisce all’implicita attribuzione di superiorità alla cultura matrice dei diritti; il secondo è di natura pratica o strategica e si riferisce alla possibilità stessa di esportare in modo convincente una antropologia particolare. Che i due ostacoli siano intrecciati è evidente, giacchè la possibilità di accettazione universale della cultura dei diritti sembra implicare non solo il riconoscimento della sua superiorità ma anche l’incorporazione dentro la propria cultura dell’antropologia implicita che in quella è inscritta. I problemi delle società multietniche, il cosiddetto risveglio delle “differenze”, la virulenza dei nuovi fondamentalismi, il contemporaneo declino della sovranità degli stati nazionali e il moltiplicarsi di pretese di riconoscimento nazionale su basi etniche o religiose presentano una sfida simile ai diritti e alla cultura da cui sono portati e di cui sono portatori e ripropongono i due ostacoli alla loro universalizzazione. Relativismo e tolleranza. All’indomani della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’American Anthropological Association stilò un documento a commento (AAA, 1947), da Herskovits per conto del comitato esecutivo dell’associazione. Secondo l’intelligente ricostruzione di Renteln (1988), venivano a scontrarsi due opposte esigenze, sentite nell’ambiente dell’antropologia americana. Da un lato, l’adesione al relativismo culturale nelle versioni di Benedict e dello stesso Herskovits, dall’altro, all’indomani della guerra e dello Shoah, l’adesione altrettanto sentita nei confronti dei principi etico politici ispiratori e della guerra al nazismo e della Dichiarazione stessa. Il relativismo culturale nasce in opposizione all’evoluzionismo come opzione etica: ogni cultura deve non solo venir studiata, ma anche valutata sulla base dei propri modelli culturali, principi di valore. Il relativismo culturale si pone come atteggiamento di uguale rispetto per ogni cultura. Secondo Renteln, il nesso stretto postulato da molti relativisti americani tra relativismo e tolleranza è ciò che anima la controversia tra chi è favorevole ad una presa di posizione dell’associazione sulla Dichiarazione del 1947 e chi invece vi si oppone. Lo stesso documento stilato da Herskovits si rivela contraddittorio ed è oggetto di polemica. In esso convivono dichiarazioni in linea con il relativismo (ogni concezione filosofica che neghi la conoscenza assoluta della realtà), specialmente laddove si sottolinea la necessità di essere sensibili alle diversità culturali, e passaggi etnocentrici (comportamenti sociali basati sulla solidarietà con il gruppo etnico di appartenenza e su ostilità e disprezzo verso gli altri gruppi), soprattutto verso la fine, quando ci si richiama al valore della libertà e lo si lega alla possibilità di partecipazione democratica al governo. C’è un passo del documento che delinea il possibile ruolo dell’antropologia nei confronti di una politica dei diritti umani e l’esigenza di un apporto antropologico a questa teoria e a questa politica: la Dichiarazione non avrà potere di persuasione se viene formulata con i concetti e nel linguaggio di una cultura sola. Nel documento dell’Associazione sono presenti i termini della questione sia etica che epistemologica (filosofia della scienza che studia il valore, la natura della conoscenza scientifica) che coinvolge sia la Dichiarazione sia l’autocoscienza dell’antropologia. Se l’antropologia ai suoi esordi, con il relativismo, dava voce al rimorso dell’occidente, adesso questo rimorso conduce all’agnosticismo (astensione dal prender posizione di fronte ai problemi religiosi e politici), ad un relativismo etico non solo giustificazioni sta, ma non interventista e conduce ad uno scarico di responsabilità. In questi ultimi anni, la tolleranza apparentemente implicata dal paradigma relativista si è mutata nell’elogio in un “differenzialismo” escludente e razzista, che predica la non contaminazione delle culture. PAGE 64 Relativisti e antirelativisti. Il principio di eguaglianza si basa sul riconoscimento delle differenze individuali, così la proposizione normativa di diritti umani universali parte dal riconoscimento delle differenze culturali e dovrebbe ricondurre alla valorizzazione di quelle differenze che non implicano disuguaglianze economiche e sociali. L’anti-anti relativismo di Geertz (1984) si pone per esempio su questo piano, affermando semplicemente che la diversità tra le culture è un fatto. Il riconoscimento delle diversità non si pone solo come riconoscimento di un fatto, ma come un’opzione etica: la tolleranza ne è un presupposto. Il relativismo culturale è dunque sia una teoria descrittiva che una teoria prescrittiva. È principalmente l’antropologia culturale ad elaborarla, essendo quella interessata alla conoscenza non solo e non tanto delle istituzioni sociali delle società altre, ma dei loro universi conoscitivi e morali. In ambiente americano l’obiezione al relativismo è di tipo etico-politico: il relativismo viene accusato di connivenza con lo status quo, di conservatorismo, perché non darebbe credito a quegli standard di umanità e universalità morale che costituirebbero il modello del progresso morale. Si tratta della questione della possibilità di esistenza di universali morali inter-culturali. L’evoluzionismo alla Tylor, presupponendo l’universalità della natura umana, dava per risolto il problema cognitivo e adottava come standard di giudizio quelli propri dell’elite culturale dell’Inghilterra del suo tempo. Le politiche adeguate a questa impostazione del problema sono implicitamente politiche assimilative. Esse non sono “moralmente indifferenti”. Poiché questo standard rimane implicito, esso assume la valenza di ciò che è naturale, nell’ordine delle cose. Il relativismo contestualizza gli universi morali e cognitivi, a partire dal proprio, ma non riesce a sottrarsi allo “scandalo etico”, che si ripropone sotto la forma dell’indifferenza morale, del razzismo differenzialista. Renteln distingue tre “tipi” di relativismo: 1) il primo è solo apparentemente un relativismo etico, si limita a riconoscere la differenza tra gli universi morali, le differenti giustificazioni che società differenti utilizzano per legittimare le proprie credenze; 2) il secondo è una teoria circa le fonti di queste giustificazioni, affermando che non ci possono essere giudizi di valore giustificabili oggettivamente indipendentemente dalle diverse culture: è un relativismo etico che si pone come ipotesi descrittiva. 3) Il terzo si traduce invece in relativismo normativo, laddove insiste che la giustizia di un atto non possa essere giudicata che sulla base dei criteri di valore della società in cui avviene. Se il primo tipo di relativismo si pone come teoria dell’esistenza di sistemi morali differenti, che non pretende di dir niente circa il loro valore morale, il secondo implica l’abbandono di una scala morale assoluta nella valutazione degli altri. Secondo Renteln, vi è una differenza di fondo tra gli ultimi due tipi di relativismo etico: il primo, in quanto ipotesi descrittiva, non è una teoria dei valori, ma una teoria circa i giudizi di valore. Il secondo è invece connesso all’idea di tolleranza. Il primo può <<utilmente disseminare l’idea che la tolleranza sia una buona cosa>>, per il secondo la tolleranza è un presupposto. Il relativismo antropologico dicono Dei e Simonicca, rappresenta la più micidiale arma etnocentrica messa in moto dall’antifondazionalismo ottocentesco. È al relativismo antropologico che sembrano adattarsi le critiche di Lèvi-Strauss in Razza e storia (1967): siamo diversi e le diversità sono un valore e non solo un fatto e tuttavia ciò non ci esime dal valutare e giudicare. Capire, spiegare ha a che fare per Lèvi Strauss con la messa in opera di una metodologia semiotico- strutturale che privilegia le connessioni logico-linguistiche. PAGE 64 Sono, questi nuovi, “diritti difficili”, non solo perché “costano”, ma perché entrano in contraddizione con altri diritti perché una loro tutela efficace implica una maggiore “giustificazione” di sempre nuovi ambiti di vita, perché alcuni sono difficilmente azionabili da chi ne è titolare (i diritti dei bambini, degli animali, dell’ambiente). Ciò che le politiche “multiculturaliste” sembrano fare è rideclinare le minoranze come se fossero individui. L’antropologia implicita nella cultura dei diritti non è così mutata con l’estensione e la moltiplicazione dei diritti stessi da non dar luogo a gravi tensioni e distorsioni anche in occidente. Secondo Panikkar, per esempio, il “dialogo ermeneutico” con altre culture dovrebbe portare ad una reinterpretazione di alcuni presupposti di fondo di questa antropologia: la natura umana non dovrebbe essere più vista separata dalla natura degli altri esseri viventi e la persona umana dovrebbe essere distinta dall’individuo, e vista invece come “tutto ciò che circonda questo atomo” (genitori, figli, antenati). I diritti umani sono collegati alla democrazia. Sono un espediente giuridico per la difesa dei pochi o dell’individuo contro il potere dei più. Un riduzionismo quantitativo: la persona è ridotta all’individuo e l’individuo è la base della società. Se “l’universalismo di percorso” dell’antropologia può contribuire a fornire strumenti per smussare, la cultura dei diritti, è tuttavia, l’etnocentrismo critico a fornire indicazioni per una politica che agevoli, piuttosto che impedire, questo “universalismo di percorso”, e al tempo stesso neutralizzi in parte il veleno dei diritti. Etnocentrismo critico, amore di sé e diritto mite. L’andirivieni che approda all’etnocentrismo critico interpreta l’universalismo di percorso come produttore di un migliore “amore di sé”. Esso conduce all’adesione a quei valori e principi della propria cultura che sembrano promettere rispetto e valorizzazione degli altri. La prima implicazione di questa idea è che si deve tollerare tutto ciò che non contraddice i principi su cui si fonda la tolleranza stessa. È un’implicazione negativa. La seconda implicazione è quella invece che sottende le politiche multiculturaliste. Rispetto e valorizzazione richiedono moltiplicazione di diritti e tutela adeguate. Una terza via è quella implicata dalla concezione di un “diritto mite”, inteso come la stipulazione costituzionale di principi tesi a <<realizzare la condizione di possibilità della vita comune>>. Le parole chiave di questa concezione del diritto sono limite, parzialità, progettualità debole e aperta. I principi costituzionali sono visti come esito di un confronto in cui si rinuncia all’assolutezza e insieme come cornice per progetti diversi, che competono e possono competere in virtù della loro apertura e “debolezza”. L’antistatalismo (normativo) di molti teorici del pluralismo giuridico sembrerebbe potersi ben accordare con una visione che sposta la sovranità dallo Stato alla Costituzione. LA LETTURA FEMMINISTA. Diritti e diritto. In molto femminismo, come prassi e come pensiero, diritto e giustizia, diritto e morale sono non solo non facilmente separabili ma al contrario gelosamente tenuti insieme. Il femminismo ragiona delle e sulle norme in vista della produzione di norme “giuste”. Nell’area culturale nordamericana, i diritti precedono la legge e la legge ha per fine la difesa dei diritti stessi. Nell’Europa continentale contemporanea legge e diritti hanno la stessa dignità, e la legge conserva una sua autonomia, e una sua funzione politica indipendente dai diritti. Negli USA, la giurisdizione fa premio sulla legislazione, e questa va letta come diretta alla garanzia di diritti individuali (i diritti di libertà in primo luogo), e dove allora giustizia sociale e bene comune sembra che possano essere rinvenuti solo facendo riferimento a filosofie della giustizia neocomunitarie. PAGE 64 In Europa, diritti individuali e giustizia sociale sono ambedue inscritti nelle e garantiti dalle Costituzioni, e la legge, può proporsi fini diversi da quelli delle garanzie dei diritti individuali di libertà. Certe leggi non si sono ottenute, quelle ottenute non hanno dato i risultati sperati e questo può essere analizzato su vari piani: rispetto alla “natura” del diritto e dei diritti; rispetto alle vie scelte per mutare leggi, diritto, diritti; rispetto ciò che più importa e tuttavia spesso rimane implicito, a ciò cui si pensa il diritto possa o debba servire. Se il diritto sia “utile” o meno, e a che cosa possa servire, sono domande le cui risposte dipendono sia dalla visione del diritto che si adotta, sia da ciò che ciascuna intende per femminismo, ciò che ciascuna ritiene sia necessario e utile per le “donne”. Verso l’androgino. Secondo Olsen (1990), il pensiero liberale classico si struttura attorno ad una complessa serie di dualismi che si articolano in maniera dicotomica (razionale/irrazionale, attivo/passivo, oggettivo/ soggettivo, pensiero/emotività, cultura/natura, ecc...). Questi dualismi sono sessualizzati e gerarchizzati. I primi termini delle coppie oppositive sono associati al maschile e sovraordinati ai secondi termini, associati al femminile. Il diritto è identificato con i termini maschili, sovraordinati. Secondo Olsen, le strategie femministe di attacco al sistema di pensiero dominante ricadono in tre categorie. Nella prima categoria sono comprese quelle strategie che rifiutano la sessualizzazione dei dualismi. Esse accettano la gerarchizzazione, ovvero che i primi siano sovraordinati ai secondi, ma rifiutano l’associazione dei primi termini al maschile. Per chi sostiene queste strategie non c’è differenza tra donne e uomini. Le donne possono agire altrettanto razionalmente degli uomini e quindi devono essere tattate allo stesso modo. Così dovrebbe essere, ma così non è, laddove il diritto nega diritti alle donne o le discrimina. Queste sono le posizioni, secondo Olsen, dominanti negli Stati Uniti, e quelle che sono alla base del Women’s Rights Movement. Ne sono parte le critiche al diritto perché nega l’eguaglianza formale, ma ne fanno parte anche le critiche al diritto in quanto nega l’eguaglianza sostanziale. Le femministe che chiedono trattamenti speciali criticano certe norme per l’eguaglianza formale precisamente perché falsamente neutrali. Un diritto razionale, oggettivo, orientato a principi dovrebbe operare attraverso norme anti- discriminatorie tali da non richiedere che le donne, per usufruirne, diventino come gli uomini. Nella seconda categoria, Olsen include quelle posizioni femministe che accettano la sessualizzazione dei dualismi, ma ne rifiutano la gerarchizzazione. Olsen cita tra le femministe contemporanee che secondo lei appartengono a questo gruppo Adrienne Rich e Carole Gilligan. Il diritto è visto come razionale, oggettivo, ma , in quanto tale, come interamente maschile e patriarcale, struttura fondamentale del dominio maschile sulle donne. La terza categoria, in cui Olsen si colloca, è fatta di quelle strategie che rifiutano sia la sessualizzazione che la gerarchizzazione dei dualismi, anzi rifiutano i dualismi stessi in nome dell’androginia (donna dall’aspetto mascolino). Queste posizioni si pongono l’obiettivo di una critica dell’ideologia giuridica dominante, tale da mettere in luce gli aspetti non razionali, soggettivi, non orientati a principi del diritto e dissolvere l’illusione di un nucleo giuridico “duro” così strutturato e di una “periferia” invece più elastica, debole, “femminilizzata”. Il diritto, dice Olsen, non può essere separato dalla politica, dalla morale e dal resto delle attività umane, esso è invece parte integrante della vita sociale. In Olsen il diritto è cosa diversa da ciò che i giuristi dicono che è. È una critica dell’ideologia giuridica che molto deve alla tradizione socialista, laddove punta allo “smascheramento” degli PAGE 64 “interessi reali” che il diritto serve, sotto la maschera della razionalità, dell’imparzialità, dell’astrattezza. La donna del discorso giuridico. Carol Smart insegna al Dipartimento di sociologia dell’Università di Warwick in Inghilterra. Smart (1992) individua tre fasi delle posizioni femministe circa il diritto, emblematizzate in tre slogan: il diritto è sessista, il diritto è maschile, il diritto è sessuato. L’accusa al diritto di essere sessista argomenta che il diritto discrimina le donne distribuendo loro minori risorse, negandogli pari opportunità, rifiutandosi di riconoscere le offese contro di loro. Tuttavia questa argomentazione si basa sull’idea che differenziazione e discriminazione siano la stessa cosa. Se per combattere la discriminazione dobbiamo combattere la differenziazione, dovremmo essere in grado di pensare ad una cultura senza generi. Qualsiasi sistema fondato su valori apparentemente universali e su criteri decisionali improntati all’imparzialità serve gli interessi degli uomini intesi come categoria unitaria. Ciò che anche Smart critica è la costruzione di maschile e femminile come coppie binarie, perché esse sono monolitiche e impediscono il rilevarsi di differenziazioni interne. Vedere il diritto come sessuato permette invece di metterne a fuoco i processi secondo i significati diversi che uomini e donne gli conferiscono. L’idea che il diritto sia sessuato, secondo Smart, permette l’uso del concetto di posizionamento sessuato. Smart propone di vedere il diritto, oltre che come sessuato, come strategia di sessualizzazione. Il diritto diventa così una delle tecnologie del genere, attraverso cui si produce la Donna, al tempo stesso “in generale”, ossia in opposizione all’Uomo, e in particolare, per esempio la Prostituta, la Criminale, la Cattiva Madre, e così via. Il desiderio di incidere politicamente, secondo Smart, è stato confuso con il desiderio di essere pratiche ed efficaci. Il diritto può essere, se non uno strumento, un terreno di conflitto, laddove sia visto non solo come istanza che vieta e censura, ma come discorso produttivo di posizionamenti sessuati. Il depotenziamento del diritto come strategia utile alle donne può essere letto in linea con le posizioni post-moderne, ma ha assonanze significative anche con il paradigma autopoietico (che si auto crea) laddove questo depotenziamento si motiva con l’essere il diritto codice autonomo e autoreferenziale, non solo impervio all’influenza di discorsi e codici esterni, ma anzi egemonico e colonizzatore nei loro confronti. A che cosa ci serve il “diritto”? La ricostruzione effettuata da Olsen e Smart offre una scena semplice. Essi assegnano la giurista e avvocata Catherine McKinnon alla categoria del “diritto maschile”, con ciò attribuendogli una posizione di scetticismo verso l’uso del diritto per mutare la situazione delle “donne”. mcKinnon ha inventato le molestie sessuali sul luogo di lavoro, prodotte come questione giuridicamente definita e tale da permettere azioni in giudizio in quanto istanze di discriminazione sessuale. Insieme a Andrea Dworkin è stata anche promotrice di una controversa campagna contro la pornografia. (La pornografia come qualcosa che non semplicemente può irritare o offendere le donne, ma come qualcosa che contribuisce attivamente a perpetuare la loro subordinazione agli uomini). Le molestie sessuali in particolare si sono rivelate un grande successo, perché hanno dato luogo ad una lunga serie di cause e all’introduzione di regole specifiche in molti luoghi di lavoro e nel 1986, sono state riconosciute dalla Corte suprema degli Stati Uniti come istanze di illegittima discriminazione sessuale; sul piano simbolico perché hanno dato nome e significato a disagi, ricatti, problemi sui luoghi di lavoro. McKinnon non associa al femminile caratteristiche precise, né assegna particolari caratteristiche al maschile. Piuttosto, tematizza un pervasivo e violento dominio degli Uomini sulle Donne. PAGE 64 Per chi non corrisponde a quella immagine, l’applicazione di questa analisi può essere non solo inefficace ma anche punitiva>>. Minow analizza genesi storica e valenza euristica (scienza che si propone la ricerca del vero attraverso una rigorosa documentazione dei fatti) delle teorie del contratto sociale come matrici della teoria dei diritti. I contraenti nel momento in cui proclamavano la piena partecipazione a l’eguaglianza come ispiratori del contratto in realtà escludevano i non proprietari, le donne, i neri. Minow mette alla prova ciò che lei chiama il social relation approach,(approccio di relazione sociale) ovvero un approccio che propone una analisi e una prassi giurisprudenziale e legislativa attenta al proprio essere situata e dei punti di vista in conflitto e il cui soggetto non è né astratto, né autonomo, né competente, ma invece capace di autonomia e indipendenza a partire dai propri vincoli. Il terreno di analisi di Minow è l’attività giurisprudenziale più che la produzione legislativa. Minow non affronta esplicitamente il problema di che cosa sia diritto, né se il diritto sia “utile” alle “donne”. Implicitamente, tuttavia, si riconoscono al “diritto” sia funzioni simboliche e culturali che pratiche. I diritti possono servire ad allocare risorse, simboliche, economiche, culturali in modo tale da ridurre le disuguaglianze senza disconoscere o discriminare le differenze. La riflessione di Elizabeth Wolgast ripercorre temi in gran parte simili a quelli di Minow, ma dal versante di una filosofia della giustizia e della morale, piuttosto che da quello del diritto. Secondo Wolgast, argomentare una teoria della giustizia e della morale sulla base di un soggetto astratto, perfettamente autonomo, senza corpo, senza storia conduce a risultati paradossali. I paradossi dell’atomismo (dottrina filosofica che considera il mondo costruito dalla combinazione di particelle indivisibili in perpetuo movimento), cui corrisponde la cultura dei diritti, come proprietà di un soggetto astratto e perfettamente autonomo, sono rinvenibili in situazioni dove la dipendenza, i rapporti di affetto e di autorità, la percezione differenziata di torti e offese sono leggibili solo assumendo la parzialità e concretezza del punto di vista. Attribuire “diritti” ai pazienti o ai bambini, secondo Wolgast, è inutile, ridondante, talvolta distruttivo, se conduce ad interventi che non tengono conto dell’ambivalenza dei rapporti, della loro complessità. Che senso ha , si domanda Wolgast, affrontare il problema della legalità del congedo di maternità dal punto di vista della sua coerenza con il principio dell’eguaglianza del trattamento? Non può che condurci a chiederci se anche gli uomini, nel caso rimanessero incinti, avrebbero lo stesso diritto. Non si tratta qui di attribuire diritti ad individui, quanto di prendere in considerazione il differente statuto di un insieme, quello madre-bambino, che non è affatto scomponibile nei suoi elementi né paragonabile alla situazione dell’uomo/padre. Quanto all’aborto, il linguaggio dei diritti conduce al dibattere seriamente lo statuto del feto, ossia se il feto abbia o no dei diritti da rivendicare nei confronti della futura madre. Wolgast affronta la questione della pornografia e mostra l’ingiustizia insita nel rifiutare di porta sotto controllo, in nome della libertà di espressione e del suo non recar danno ad alcuno. Egli dimostra che un qualche controllo della pornografia non contrasta con la libertà di espressione, poiché questa incontra comunque il limite del rispetto dovuto alla dignità di ciascuno. Quando si tratta di pornografia che sistematicamente mette in scena situazioni in cui le donne sono degradate, umiliate, picchiate, magari uccise per il piacere sessuale maschile, essa reca danno e offesa sia alle modelle che alle donne in generale. Wolgast mette in luce l’ingiustizia, oltre che l’assurdità del procedimento comune in base al quale l’offensività di certi materiali viene lasciata al giudizio dell’”uomo medio” (il buon padre di famiglia). Wolgast sostiene la legittimità e inevitabilità dello sguardo di parte, situato, sessuato e la necessità di prenderlo sul serio. La riflessione di Pateman è un’ulteriore variante delle teorie critiche del contrattualismo. Rispetto alle due già citate, se ne distingue sia perché diretta al cuore di queste teorie, sia perché di esse le interessa piuttosto la valenza politologica che non quella in termini di filosofia della PAGE 64 giustizia, sia infine perché, laddove Minow e Wolgast attaccano del soggetto del contratto soprattutto neutralità e indipendenza, Pateman ne attacca la natura “proprietaria”. Individue. Il contratto dice pateman, è la forma attraverso la quale non solo si legittima la subordinazione dei contraenti, supposti liberi ed eguali, ad un’autorità, ma attraverso cui si costituisce la moderna subordinazione delle donne ad un diritto non più paterno, ossia fondato sull’autorità del padre, ma pur sempre maschile, in quanto “fraterno”. La questione si sposta dal problema della disuguaglianza a quello della subordinazione. Relegato alla sfera privata, questo contratto sancisce e regola l’accesso degli uomini alle donne, sotto forma di “contratto” matrimoniale, di contratto di prostituzione, ecc... essi sono contratti sui generis, poiché uno solo dei contraenti si costituisce come libero e eguale, alle donne non venendo riconosciute le capacità “naturali” per l’accesso al patto originario. La differenza tra uomini e donne viene costruita, nella maggior parte dei testi classici, come differenza tra libertà naturale e soggezione naturale. L’individuo è costruito come completo in se stesso, ciò che più importa è il suo rapporto con le sue stesse capacità e attributi. Egli le possiede allo stesso modo in cui possiede proprietà materiali. Il suo primo compito è allora quello di assicurarsi che il suo diritto di proprietà non sia leso. L’autoprotezione individuale è il problema da risolvere nello stato di natura e la soluzione è il contratto. Creare una relazione serve a proteggere la propria proprietà. La condizione per questo è che ciascuno riconosca gli altri come proprietari. Questo mutuo riconoscimento è assicurato con il contratto, che è la forma paradigmatica della relazione tra individui siffatti. Il rapporto di scambio è essenziale al contratto. Secondo Pateman, le critiche socialiste e femministe che si fermano alla denuncia del contratto come coercitivo, piuttosto che “libero”, non colgono che è nella natura stessa del contratto la possibilità di scambiare obbedienza per protezione e che dunque esso implica non solo coercizione e disuguaglianza, ma anche soggezione e subordinazione. I diritti secondo l’interpretazione che l’individuo è proprietario delle proprie capacità e attributi, come proprietario della propria persona, seguono quindi lo schema del diritto di proprietà. Per Pateman la differenza sessuale è, nello stato che deriva dal contratto soggezione femminile e dominio maschile, e non vi è possibilità di eguaglianza civile per le donne. L’individuo proprietario è in realtà costruito a partire da un corpo maschile. Non ci sarà libertà femminile, dice Pateman, se le donne non verranno riconosciute come individue in quanto donne, ovvero fino a quando, per usare un linguaggio ormai comune nel femminismo italiano, non si passi dal regime dell’uno al regime del due. Dentro la logica dell”eguaglianza civile”, dice Pateman, sessualità e dominio sono separati e separabili, e ciò che concerne la sessualità viene frammentato in tante questioni diverse, lette diversamente. Così, lo stupro secondo molte non avrebbe a che fare con la sessualità, ma non con la violenza. Vi sarebbe sessualità quando c’è consenso, violenza quando il consenso non c’è. Così la prostituzione può essere letta come problema di libero accesso ad un impiego e la pornografia come questione di libertà di espressione. L’individuo del contratto è per Pateman incarnato in un corpo maschile, privo di vincoli, autonomo. Diversamente da Minow, la differenza sessuale non solo è caratteristica che appartiene ai soggetti, essa deve stare a fondamento della costruzione, che deve trovare espressione politica e giuridica dell’individua/o. Questo aspetto differenzia Pateman anche da Wolgast, poiché in quest’ultimo sono presenti rischi di slittamento dentro un prospettiva di tipo neocomunitario, laddove affiora l’ipotesi di due mondi l’uno governato dai diritti, l’altro dalle relazioni. Al soggetto astratto della tradizione liberale viene contrapposto un soggetto concreto. Quando, in questi modelli, si parla di “comunità” si intendono due cose. PAGE 64 Comunità è, sul piano descrittivo, il reticolo di rapporti e vincoli che definisce il soggetto: il suo sesso, la sua lingua, l’etnia, la famiglia in cui è nata e vive. Sul piano normativo è l’orientamento a ricostruire il sociale (l’economia, la cultura, la politica, il diritto). Alle politiche dei diritti e al soggetto astratto che queste presuppongono, andrebbero così sostituite politiche che rafforzino l’interdipendenza reciproca. La differenze rispetto a cui sono intolleranti le femministe sono le differenze individuali, ovvero ciò che fa di ciascuna non solo ciò che è, ma anche ciò che sceglie di essere. Nella tradizione liberale, i vincoli sottraggono libertà; nei modelli neocomunitari ciò che conta sono i vincoli in cui ci si trova, e non è il caso di parlare di libertà individuale. Non è possibile concepire il corpo delle donne chiuso e isolato, né come proprietà del soggetto che lo “abita”. Una valorizzazione che non ci individua, al contrario ci consegna al regime dell’indifferenziato, i cui effetti oppressivi sono del tutto evidenti in parecchie delle “comunità” esistenti. Diritti e status. La storia dell’attribuzione e dell’uso dei diritti nel mondo anglosassone metterebbe in luce la priorità cronologica e logica di diritti non attribuiti su presupposti universalistici, ma viceversa connessi a certi status: per le donne, la posizione familiare. L’essere vedove, madri implica diritti sul patrimonio, sui figli, rispetto all’assistenza dello Stato. Bobbio a proposito di diritti parla di un processo di estensione e di un processo di moltiplicazione e concretizzazione. Estensione, nel senso che diritti della stessa generazione vengono attribuiti a tutti i cittadini in quanto cittadini. Moltiplicazione e concretizzazione, nel senso che emergono continuamente nuovi diritti in nuovi ambiti dell’esistenza, che fanno capo non più e non tanto ai cittadini in quanto tali, ma in quanto malati, bambini, donne, lavoratori, ecc... Oggi, nello stato del welfare, non è il diritto del contratto a dominare bensì un diritto che considera gli individui in relazione al contesto sociale, che distingue sulla base della loro posizione sociale (come lavoratori, disoccupati, imprenditori, ecc...). Gli status non sono scomparsi, al contrario, si moltiplicano, come modalità d’imposizione di regole a protezione delle situazioni di debolezza. Sono le contraddizioni e gli effetti perversi dell’intreccio tra diritti e status che la critica femminista dei diritti mette in luce quando si tratta di donne. Ciò che per esempio Minow mette in luce è che la logica dei diritti, sia che operi attraverso la negazione dello status discriminato, sia che operi attraverso la posizione dello status stesso come pretesa di diritti, produce perversamente status discriminati. Potremmo leggere l’analisi di Minow come il tentativo di fare i conti con le differenze che costituiscono status negativi mediante la dissoluzione degli status in quanto tali. Viceversa chi come Pateman, invoca un regime del due a partire dalla differenza di sesso, sembra aver l’onere di dimostrare se e come questa differenza si distingua sia dagli status moderni che dagli status tradizionali. Se per un verso questo si argomenta per le donne, assimilandole ad altri status o ad altre differenze per un altro verso proprio questo viene imputato a chi ragiona in termini di differenza sessuale, di considerare quest’ultima come appartenenza al “gruppo donne” e di considerare questo status prevalente e determinante rispetto a qualsiasi altra appartenenza. Nel primo caso, valgono per le donne le critiche volte verso le politiche che riproducono il dilemma della differenza. Nel secondo caso, si argomenta che la differenza sessuale non segnala appartenenza ad un gruppo sociale e che donne e uomini possono essere bianchi e nere, bambine, malati, e così via, senza per questo smettere di essere donne e uomini. In Italia. PAGE 64 Politiche. Non è tanto di un deficit di cittadinanza che soffrono le donne , quanto di un deficit di sovranità. Politiche di sovranità non adottano strategie predefinite perché sono orientate a principi e producono proprie norme. Esse sono politiche del qui e ora, da noi e per noi, in cui non si scindono i mezzi dai fini, chi agisce da chi guadagna dall’azione. Politiche produttive di sovranità possono usare a proprio vantaggio leggi e diritti. Si può dire che politiche di sovranità siano “sopra la legge” senza che ciò implichi strategie di azione verso il “diritto”. Differenze e disuguaglianze nella differenza. Universalismo, universalità, differenza, differenze. Universalismo e particolarismo, eguaglianza e differenze: queste due coppie antinomiche sembrano implicarsi a vicenda. L’universalismo parla dell’eguaglianza. Il particolarismo parla delle differenze. Ci sono poi altre coppie simili, globale e locale, dove la prima rimanda sia al mondo del mercato che a quello di una cultura cosmopolita, e la seconda alla costruzione di culture specifiche, fondate sulle etnie e le <<tradizioni>>. Ci sono almeno 3 concetti che generalmente rimangono esclusi dai dibattiti sulle diverse coppie e sono: il potere, le disuguaglianze, la politica. La vera opposizione non è tra particolarismo e universalismo, ma tra un universalismo identitario e un universalismo della molteplicità. Ancora oggi lo standard dei diritti si costruisce su un soggetto apparentemente neutro astratto e universale, che tuttavia nasconde l’assunzione del maschile a norma. Diritti particolari sono diritti che spettano ad un individuo o ad un gruppo in virtù di qualche caratteristica che si suppone meriti riconoscimento o tutela specifici. Particolarismo indica invece lo statuto dei diritti sulla base della loro vocazione a interpretare ciò che si discosta dallo standard del soggetto cui si ispirano come deficitario e mancante di qualcosa. Mentre la particolarità è esplicita e rivendicata, il particolarismo è implicito e perlopiù negato. La particolarità non esiste, se universalità vuole solo indicare che i diritti spettano a tutti gli individui compresi in una certa classe o categoria. I diritti fondamentali però, dopo la Dichiarazione del 1948, non potrebbero in questo senso più dirsi particolari, giacchè ne sono stati dichiarati titolari tutti gli esseri umani. Questi diritti possono solo essere particolaristici. Differenze e disuguaglianze si implicano in maniera inestricabile. L’esperienza politica femminile italiana è in gran parte da questo punto di vista eterodossa. Oggi, la questione della differenza sessuale si incontra con la questione delle differenze tra donne. Laddove l’approccio delle capacità fondamentali offre una prospettiva promettente e utile per fondare i diritti in modo tale da dar luogo ad un universalismo della molteplicità, la libertà femminile ha soprattutto a che vedere con l’agire politico. Quanto alla particolarità e al particolarismo dei diritti, per quanto riguarda le donne nessun diritto che spetti solo a loro può essere considerato particolare, se non considerando alla stessa stregua i diritti posti <<in generale>>, perché le donne sono la metà della popolazione umana. Senza riconoscimento dei diritti delle donne, non c’è universalismo possibile. Due universalismi. I diritti fondamentali sono universali, per definizione. PAGE 64 Si dicono fondamentali quei diritti che spettano a tutti gli individui di una certa classe e che non sono alienabili o negoziabili; essi sono universali nel senso che ne sono titolari tutti gli individui compresi in quella classe. Dal punto di vista storico e sociologico-giuridico sono diritti universali i diritti contenuti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 e gli altri diritti successivamente sanciti da altre Carte. L’universalità dei diritti sta nel fatto, storico e sociale, che ne sono stati dichiarati titolari tutti gli esseri umani. La quetsione dell’universalismo si pone invece su un altro piano: quello dei contenuti dei diritti, della loro interpretazione e della loro implementazione, della loro efficacia, o di un <<consenso non forzato>> a riconoscerli come norme di comportamento per tutti e tutte. Universalità e universalismo non possono non intrecciarsi. Tra le prime voci che parlano di un particolarismo dei diritti c’è il neofemminismo occidentale. La critica femminista occidentale dei diritti nasce dalla constatazione del fallimento delle politiche dei diritti ad assicurare eguaglianza e non discriminazione. Emerge un’emancipazione che ha seguito un tragitto che ha trattato la differenza sessuale come una questione sociale, ossia come ciò che impediva alle donne di raggiungere la piena uguaglianza. Si è trattato di negarsi come donne per conquistare lo statuto di individuo-cittadino. Storicamente le politiche di inclusione delle donne nella cittadinanza hanno seguito due strade: una politica di parità come <<assimilazione>> o una politica dell’identità, tesa al riconoscimento pubblico di qualità e capacità specificamente femminili come essenziali virtù civiche. Ambedue queste strade negano rilevanza politica alla differenza sessuale in quanto tale, ovvero come costitutiva del patto che lega gli individui-cittadini tra loro nella polis, e riconoscono statuto di piena soggettività alle donne solo se mettono tra parentesi il loro sesso. Il che vuol dire di fatto negare piena soggettività morale, civile e politica alle donne in quanto tali. Ci sono evidenti somiglianze tra questa situazione e quella dei popoli postcoloniali, con una differenza capitale: che metà della popolazione postcoloniale è femminile. La letteratura postmoderna mentre confina la differenza sessuale nell’identità, ne predica la decostruzione, e promuove libera scelta di identità da parte di ciascuna/o che coincide con il primato dell’individuo neutro-universale del liberalismo classico. La questione diritti universali-diritti particolari, per ciò che concerne le donne non è risolvibile senza affrontare la natura e lo statuto del soggetto dei diritti. Le donne non sono una <<specificazione>> dell’Uomo, né un gruppo sociale o una cultura. Non solo non esiste una identità femminile, ma fondarla sulla maternità e qualità annesse la confina entro limiti stretti, fra sfera privata e sfera pubblica. Per valorizzarne l’identità manca il riconoscimento dello statuto di soggetto pieno alle donne in quanto tali. Le donne sono differenti dagli uomini tanto quanto gli uomini sono differenti dalle donne. Non c’è grande differenza tra l’universalismo dell’individuo neutro e il multiculturalismo delle politiche identitarie. Non c’è un’opposizione tra diritti universali e diritti particolari, ma tra diversi tipi di universalismi e tra universalismi identitari (particolaristici) e universalismi della molteplicità. Eguaglianza, disuguaglianza, differenza. Nella lettura del principio di eguaglianza contenuto all’art. 3 della nostra Costituzione, Ferrajoli distingue tra rispetto delle differenze e diminuzione delle disuguaglianze. In primo luogo la differenza femminile non ha solo dato luogo a esclusione, emarginazione, oppressione, ma a sua volta esclusione. In secondo luogo, questa lettura ripercorre la divisione sfera privata/sfera pubblica, relegando le differenze al privato laddove le disuguaglianze sarebbero un tema pubblico. Tuttora le politiche di rispetto delle differenze, diventate politiche di identità, intrecciano misure di antidiscriminazione e misure di tutela, rivelando sia come diseguaglianza e identità siano difficilmente separabili, sia quanto insufficiente sia ogni politica che considera le donne alla stregua di un gruppo sociale o culturale. PAGE 64 Di fronte alle differenze, l’eguaglianza nei diritti non può voler dire trattare tutti allo stesso modo, giacchè il modo non è affatto neutrale e imparziale, ma prende a riferimento un qualche standard. Le politiche di tutela, che sono politiche di trattamento differenziato delle donne rispetto agli uomini hanno dato esiti infelici; bisogna decostruire lo standard implicito, quell’individuo autonomo e indipendente protagonista delle politiche dei diritti. Si sono inventate le quote, le politiche di pari opportunità, le politiche di affermative action (azioni affermative), che prevedono trattamenti favorevoli per raddrizzare discriminazioni e disuguaglianze storiche. Non solo queste politiche sono oggetto di contestazioni continue e spesso vincenti, si può anche dimostrare che esse vengono utilizzate da coloro per i quali non sono state disegnate. Esse continuano ad avere uno standard implicito, sicchè si presentano e operano come deroghe, da quello standard, fino a quando, i <<diversi>> non avranno raggiunto quello standard, ciò che può essere impossibile o indesiderabile o tutte e due le cose. La differenza si ripresenta sempre come patologia, mancanza, deficit. Differenza è concetto relazionale, significa diversità da qualcuno rispetto a qualcosa, ed è simmetrica. La storica assunzione di un soggetto maschile a standard dei diritti e la sua assunzione a parametro neutro universale della titolarità dei diritti, nega il divergere originario dei due sessi, nasconde la parzialità maschile, ricostruendo continuamente l’appartenenza al sesso femminile come ragione di esclusione delle donne dalla piena soggettività politica e civile. Pateman suggerisce che dietro il contratto sociale ci sia un contratto sessuale, attraverso cui gli uomini si assicurano la soggezione delle donne. Il controllo della sessualità femminile è alla radice della separazione tra sfera privata e sfera pubblica, separazione che a sua volta non solo consegna le donne al privato e gli uomini al pubblico, ma soprattutto tende a disegnare una sfera pubblica soffocante, identificata sempre più con l’operare dello stato e delle sue istituzioni. Per molto tempo i diritti umani sono stati interpretati come diritti dell’uomo in senso letterale, come del resto la Dichiarazione stessa del 1948 sostiene e supporta. Ciò ha comportato non solo l’invisibilità delle donne, ma una distorsione significativa degli interventi e delle politiche, in particolare nel contesto delle politiche di sviluppo nel sud del mondo. Lo stesso privilegia mento dei diritti politici e civili (da notare che Usa e Gran Bretagna non hanno sottoscritto i Patti del 1966) è stato accusato di contribuire all’invisibilità delle donne e anzi al peggioramento della loro situazione sul piano globale. La violenza che le donne subiscono nel privato, violenza fisica, ma anche psicologica economica, non è stata considerata violazione dei diritti umani. L’esclusione dal possesso di beni propri, le pratiche di matrimonio precoce, gli ostacoli all’accesso all’istruzione, fino alla vera e propria soppressione fisica delle donne sono stati efficacemente occultati dall’assunzione a standard dei diritti umani dell’esperienza maschile. Sul piano internazionale e transazionale, le risposte sono state perlopiù quelle di conferire statuto di violazioni di diritti umani ai problemi delle donne: la violenza sessuale, la violenza domestica, l’esclusione dai diritti di proprietà e dall’accesso all’istruzione, il matrimonio precoce, ecc... Che le cose stiano così fu esplicitamente detto dalla delegazione dell’Arabia Saudita, quando si rifiutò di firmare la Dichiarazione del 1948 perché l’art. 18 impone la non coercizione nelle scelte matrimoniali. I diritti disegnano sempre una scena antagonista che mal si adatta a rapporti di interdipendenza che non possono essere sempre sciolti in rapporto tra chi ha potere e chi non ce l’ha. Esempio tipico è quello della donna incinta, che configura una relazione donna-feto difficilmente nominabile attraverso la <<grammatica dei diritti>>: il feto non è né un soggetto autonomo, né un aparte del corpo della madre, e la loro relazione è di inscindibile interdipendenza. Il linguaggio dei diritti non può che separare ciò che invece è inseparabile, o attraverso la soggettivazione del feto, conferendogli dei diritti nei confronti della madre, o mediante la considerazione del feto stesso come <<proprietà>> della madre, parte del suo corpo. PAGE 64 Nonostante i molti progressi avvenuti negli ultimi 50 anni, la disciplina giuridica della riproduzione mantiene le donne in uno stato di cittadinanza incompiuta. La cittadinanza incompleta femminile dipende dal non riconoscimento giuridico alle donne di quella padronanza sul proprio corpo che viene invece riconosciuta agli uomini. Questa padronanza dimezzata è connessa al potenziale riproduttivo femminile, il quale costituisce questione sociale e pubblica Aborto. La L.194, voluta per combattere l’aborto clandestino e le sue conseguenze, è una legge piena di contraddizioni. Per un verso, ribadisce la “tutela della vita dal suo inizio”, ma legalizza l’interruzione di gravidanza solo a certe condizioni: se queste non ci sono, essa rimane illegale. Alle donne è richiesta certificazione da un medico di fiducia o presso un consultorio pubblico, in base alla quale si evidenzino difficoltà psicologiche tali da giustificare l’interruzione stessa. Sul piano culturale e simbolico l’interruzione di gravidanza rimane una concessione che, sulla carta, è garantita solo per gravi e documentati motivi e questo significa che le donne non hanno disponibilità del proprio potenziale riproduttivo. L’applicazione effettiva ha prodotto un senso comune secondo cui abortire è una specie di diritto. È obbligatorio rivolgersi ai consultori piuttosto che al medico di fiducia, consultori rigidi controllori delle ragioni addotte per abortire e dissuadere le donne dal farlo mediante l’offerta di alternative. L’obiezione di coscienza garantita a medici e personale sanitario ha reso difficile trovare una struttura pubblica o autorizzata per interrompere la gravidanza. Le ambiguità e contraddizioni della L.194 sono utilizzate per campagne antiabortiste, le quali ne mettono in luce la precarietà e rendono evidente che le donne non hanno e non devono avere piena signoria sul proprio potenziale riproduttivo. Si può imputare alle conseguenze della legge stessa la trasformazione della questione dell’aborto da problema sociale a problema etico. Oggi non è dell’aborto clandestino che si dibatte ma dell’aborto in quanto tale. Esso si è trasformato in accusa nei confronti delle donne, non solo da parte della Chiesa e dei cattolici. Ma la trasformazione delle donne dai media, da deboli e oppresse in donne dall’aspetto maschile, egoiste e onnipotenti, padrone della vita e della morte, ha prodotto due nuove vittime: i feti e gli uomini La scissione tra donna e cellula fecondata ha avuto come conseguenza la costruzione di questa cellula come “vittima”. Negli Usa le donne incinta possono essere sorvegliate o criminalizzate se non tengono uno stile di vita compatibile con il benessere del feto. Giuliano Amato ha auspicato che si debba tener conto della opinione e volontà degli uomini quando si permette a una donna di abortire. Parità e puerocentrismo convergono in una messa sotto tutela della maternità e in tentativi di limitare la libertà femminile di decidere in ordine al proprio potenziale riproduttivo. I rapporti familiari. Nelle norme e nella giurisprudenza che disciplinano i rapporti tra genitori e figli possiamo rinvenire due tendenze opposte. Nel caso di famiglie regolari e “normali”, l’ingerenza giuridica e giudiziaria è praticamente nulla. Leggi e giurisprudenza tendono a non intervenire negli affari di una coppia di adulti sposati che decida di separarsi consensualmente, anche se ha figli piccoli. Le cose cambiano quando la coppia non è sposata, o si tratta di ragazza madre, povera, straniera. Nei rapporti tra genitori e figli vige la norma secondo cui il giudice agisce “nel miglior interesse” del minore; norma interpretata da ciascun giudice secondo la sua cultura e ciò che viene riferito dai servizi sociali e esperti periti. Se i genitori non sono sposati, i loro accordi rispetto all’affidamento dei figli sono validi anche senza il giudice. Se però c’è un conflitto, allora chi decide è il tribunale per i minorenni. PAGE 64 Di norma i figli vengono affidati alla madre. Due questioni sorgono, la prima sociale ed economica, la seconda culturale e simbolica. La prima: le norme relative al mantenimento economico, grazie all’ideologia delle parità, fanno si che i padri contribuiscono al mantenimento dei figli con una somma misera e nulla per le ex mogli, ricattandole con la minaccia di contender loro l’affidamento dei figli. Sul piano culturale e simbolico si registra l’offensiva delle associazioni dei padri separati, la cui richiesta di affidamento condiviso come standard, sulla base della parità di diritti e doveri dei genitori, nasconde spesso il tentativo di pagar meno e di conservare la casa coniugale. Nelle relazioni che accompagnano i progetti di legge che introducono l’affidamento condiviso si scrive che l’assenza o la scarsa presenza paterna è fonte di guai grossi per i figli e per la società. (figli disadattati = disordine sociale e morale). Anche la madre senza il padre è fonte di disordine e caos sociali e morali. Il genitore presso cui il figlio abita dovrà prendere decisioni maggiori dell’altro genitore e ciò non può non comportare il riconoscimento di maggiori diritti. Le crociate contro le madri single sono per ora prerogativa dei paesi anglosassoni (Usa e Gran Bretagna), esse sono egoiste, prevaricatrici e dannose per figli e società. È la logica che nega l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle singole. Lo “stato di abbandono” è un’altra norma in bianco, di solito il tribunale agisce sui bambini piuttosto che sulla relazione. Ad esempio una donna picchiata, in mancanza di alternative, si rivolge al tribunale, ma corre il rischio di vedersi togliere i figli, sospetta di non aver tutelato i bambini o di essere stata complice. Le madri sono sempre viste con sospetto tanto da venir accusate di mettere in pericolo il benessere dei figli e l’ordine sociale tutto. La procreazione medicalmente assistita. Le leggi e il dibattito sulla disciplina giuridica della procreazione medicalmente assistita si connotano per il tentativo di restaurare l’ordine messo in crisi dalla contraccezione, dalla legalizzazione dell’aborto, dalla crescita di libertà femminile. Molto in secondo piano sono le questioni relative alla tutela della salute di donne, uomini e feti. Ciò su cui la grande maggioranza di queste legislazioni concordano (con l’eccezione di Inghilterra e Spagna) è il divieto di accesso alle tecniche alle singole e il divieto di maternità di sostituzione. Ambedue questi divieti sono motivati con il miglior interesse del futuro bambino. La legge italiana è tra le più proibizioniste e ideologiche. Al primo articolo, si afferma che la legge tutela i diritti di tutte le parti in causa, compreso il “concepito”: primo passo per il riconoscimento di personalità giuridica all’embrione. È il concepito e i suoi diritti che sono al centro di questa legge. Vietata la fecondazione eterologa. Ammessa la produzione di soli tre embrioni. Il diritto alla salute della donna è qui gravemente compromesso, per due ragioni. In primo luogo, la produzione di embrioni richiede stimolazioni ovariche lunghe e complesse, nonché un’operazione per estrarre gli ovuli. Il divieto di congelamento di embrioni significa che le donne dovranno sottoporsi a molti cicli di stimolazione ovarica e a molti interventi di estrazione degli ovuli. In secondo luogo, l’obbligo di impiantare tutti e tre gli embrioni comporta il rischio di gravidanze multiple. È vietata l’analisi degli embrioni per verificarne la salute e le donne una volta ottenuti gli embrioni non possono cambiare idea e rifiutare l’impianto, se lo desiderano possono però successivamente ricorrere all’aborto. Queste leggi dicono che non si può nascere senza padre, ma si può vivere senza madre: il divieto di maternità di sostituzione è tale solo per le donne. Che c’entra la cittadinanza. In questi ultimi 30 anni si possono osservare 2 tendenze di politica del diritto. Da un lato, con la libertà di contraccezione e la legalizzazione dell’aborto, nonché con l’intervento negli accordi consensuali nei casi di separazione di adulti “normali”, vi è un tendenziale PAGE 64 riconoscimento della responsabilità femminile in materia, responsabilità non solo nei confronti di figli e partner, ma anche della società. Il modello su cui si costruiscono le politiche sociali è quello della famiglia. Il non riconoscimento di una piena responsabilità femminile in ordine alla riproduzione tiene le donne in una situazione di minorazione di possibilità e scelte rispetto ai maschi. In questo senso la cittadinanza femminile è incompleta, le donne sono in una condizione di soggetti a metà; il problema non è tanto quello di negoziare la riproduzione tra uomini e donne, quanto quello di affidarne la disciplina e il controllo agli uomini. Corpi, autonomia, libertà. Argomentando per il riconoscimento giuridico dei contratti di maternità sostitutiva, Carmen Shalev (1992) fa alcune osservazioni interessanti. Dice che le nuove tecnologie riproduttive sono una splendida occasione per le donne. La moltiplicazione delle opportunità di scelta riproduttiva è una conseguenza, positiva, di un processo che conduce le donne nella stessa posizione degli uomini, ossia quella di stare nei confronti del proprio corpo in una relazione di proprietà e raggiungere così la piena soggettività giuridica che è propria del soggetto del contratto che è strumento giuridico attraverso cui si riconosce e potenzia l’autonomia individuale che spetta ai soggetti capaci di separarsi dal proprio corpo e dalle emozioni e renderli oggetto di un calcolo razionale costi-benefici. Carle Pateman (1997) sostiene che il soggetto del contratto è il soggetto dei diritti di libertà ritagliato storicamente a misura maschile, è il suo porsi nei confronti del proprio corpo come proprietario. Per Shaliv il contratto libera: è il modo attraverso cui anche le donne si possono liberare dagli ultimi vincoli di status. Per Pateman, al contrario, questa è una pericolosa illusione, giacchè è precisamente il contratto a produrre e legittimare rapporti di dominio e sottomissione. Tuttavia Shalev e Pateman concordano su un punto essenziale: il soggetto del contratto è il soggetto dei diritti di libertà. Per Shalev, la necessità per le donne di cogliere le opportunità offerte per raggiungere la parità con gli uomini. Al contrario, Pateman vede la parità come processo di assimilazione al soggetto standard dei diritti, produttività di paradossi e improduttività invece di libertà. Shalev e Pateman sono esempi di come il pensiero femminista ha affrontato il problema del trattamento giuridico delle differenze: secondo la prima concezione, la significazione delle differenze è produttiva di disuguaglianze, e la via della parità sta dunque nell’insignificanza giuridica delle differenze stesse. Secondo la seconda concezione, è al contrario l’insignificanza delle differenze a riprodurre disuguaglianza. Nel primo schema, l’autonomia è un attributo del soggetto razionale; nel secondo l’autonomia è un processo di allargamento della sfera di autodeterminazione di un individuo concreto, la cui autonomia non è presupposta, non è diminuita dai vincoli che definiscono un soggetto e rispetto cui un soggetto si definisce. Il soggetto dei diritti sociali non è che una specificazione dei diritti di libertà, che implica non arricchimento di questo soggetto, ma al contrario diminuzione, sottrazione delle sue caratteristiche fondamentali. I processi che Bobbio (1991) chiama di specificazione e moltiplicazione dei diritti danno luogo a diritti difficili, giacchè i soggetti cui sono stati attribuiti deviano dalla norma, ne sono in certo senso un’eccezione patologica. Pateman e Nancy Hirschmann (1992) rintracciano nei classici del contrattualismo e del liberalismo il vizio d’origine di un soggetto concepito come astratto e neutro, dotato solo di ragione e volontà, le cui obbligazioni nascono da scelte consapevoli: ne mettono in luce bensì le caratteristiche mascoline, tali da non permettere il godimento pieno dei diritti se non agli uomini. PAGE 64 essere a partire da chi e che cosa si è, in un contesto di relazioni in cui che cosa si è si rende visibile e viene riconnotato continuamente. Questo ha a che fare con la politica: ossia con la mediazione, la contrattazione,ecc... SICUREZZA E LIBERTA’. La notte non è uguale per tutti. Il circolo virtuoso fra sicurezza e libertà. La sicurezza cui Franklin si riferisce è la sicurezza del Leviatano, la delega a qualcuno delle proprie facoltà di scelta in cambio di protezione. Nel 900, è la sicurezza dei totalitarismi dove <<soltanto i pensieri sono liberi>>e in cui questa sicurezza si concretizza in due modi: 1) la sicurezza sociale 2) la tutela armata del <<noi>> contro gli estranei. Il welfare state, viceversa, cerca di coniugare sicurezza con libertà, secondo i principi di eguaglianza sostanziale e l’idea (marxiana) che non c’è libertà se non ci si libera del bisogno. Il welfare è stato attaccato da destra e da sinistra, come produttore do dipendenza, burocratizzazione e amministrativizzazione del sociale. Da destra e da sinistra, si è di nuovo contrapposta libertà a sicurezza, diritti civili a diritti sociali. La crisi dello stato sociale all’insegna del neoliberismo, sta producendo un nuovo tipo di dipendenza e insicurezza. La libertà è declinata come dominio degli interessi privati, ricerca di soluzioni individuali a problemi sistemici. Proprietà del singolo e sua esclusiva responsabilità. Un mito bugiardo. Diceva Anatole Broyard: la legge è uguale per tutti. La sicurezza evocata dal liberale Franklin, la sicurezza del Leviatano, assomiglia a ciò che la nostra classe politica oggi intende. Di fronte all’insicurezza diffusa, alla precarietà di un legame sociale delegato al “libero” meccanismo del mercato, si evoca il capro espiatorio, la criminalità di strada: politiche di messa sotto tutela, più criminalizzazione e più carcere, più poliziotti per la strada, recinzione e sorveglianza di spazi pubblici, cacciata dei diversi. Questo tipo di sicurezza non è solo in contrasto con la libertà, è anche un mito, giacchè c’è un circolo virtuoso tra libertà e sicurezza, un certo tipo di sicurezza (quella sociale) promuove libertà, e questa promuove sicurezza nel senso di diminuzione della paura degli altri. Uno spettro si aggira per l’Europa. Questo spettro si dice sia d’importazione americana, complementare alla retorica e alle politiche neoliberiste: all’insicurezza come esito delle trasformazioni traumatiche del lavoro, lo smantellamento dello stato sociale, la globalizzazione, l’urbanizzazione selvaggia si risponde cercando capri espiatori (i migranti, i poveracci). Il cittadino vero è quello che è capace di far da sé, che non dipende da ciò che si sta nuovamente trasformando in assistenza pubblica. Chi non vuole o non può accettare i nuovi lavori precari e flessibili è un povero immeritevole che deve essere sorvegliato. La rimoralizzazione della cittadinanza mette in mora i diritti sociali che impongono ai pubblici poteri l’obbligo di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della propria personalità. Sicurezza e libertà non sono le uniche in gioco c’è in mezzo anche la dipendenza. L’autonomia è il progetto di ampliamento delle opportunità di scelta in merito a ciò che si vuole essere e diventare, sulla base di ciò che si è, di un soggetto concreto, sessuato, capace non di astrarsi dai propri vincoli, ma di farli propri. La questione non è quella della dipendenza, ma quella dell’interdipendenza (rapporto di reciproca dipendenza). Mentre l’interdipendenza è un fatto, viene vissuta, normata e disciplinata, retroagisce sull’interdipendenza stessa, riducendola a dipendenza o valorizzandola, allargandone o restringendone i confini. L’interdipendenza chiama in causa le opposte concezioni di “società” e “comunità”. PAGE 64 Guardarsi dai conosciuti. Il paradosso della paura: chi ha più paura (donne, anziani) viene meno vittimizzato. Le done vengono scoraggiate fin da piccole ad un uso libero della città, dei luoghi pubblici, sulla base di un costrutto che ne enfatizza i pericoli, di contro alle opportunità che essi offrono invece agli uomini. In città, gli uomini sono predatori e le donne prede. La paura della criminalità funziona come controllore potente delle donne, mantenendole dentro i confini del comportamento considerato a loro adeguato. Le donne stesse diventano i propri carcerieri. Chi non vuole o non può mantenersi entro questi limiti si merita ciò che le capita: prostitute, lavoratrici notturne, autostoppiste non potranno contare sulla comprensione e l’assistenza se vengono vittimizzate. Hanno oltrepassato i limiti del comportamento femminile corretto, non sono dunque vittime innocenti. Lo si è solo se si è fatto di tutto per evitare di venir vittimizzati. Oggigiorno, si è ritenuti responsabili di tutto ciò che ci capita, malattie, infortuni, disgrazie. Questa privatizzazione della sicurezza non ha gli stessi effetti per ambedue i sessi per due ragioni: • perché le donne, essendo vittimizzate di più nei luoghi privati, e da conosciuti piuttosto che da sconosciuti, • possedendo minori risorse economiche e sociali degli uomini, hanno meno possibilità di auto tutelarsi C’è un doppio legame in atto: criminalità, violenza, inciviltà sono azioni degli uomini e tuttavia sono loro eletti protettori delle donne, dei bambini e degli anziani. Li coinvolge implicando una forte dipendenza delle donne dagli uomini e una responsabilità forte degli uomini nei confronti delle donne. Le donne devono guardarsi da chiunque, dagli sconosciuti perché così vuole il luogo comune, dai conosciuti perché così insegna l’esperienza. Guardarsi dai conosciuti è assai difficile perché a questi ci legano spesso affetto e amore, e perché da essi spesso dipendiamo economicamente, oltre che psicologicamente. Interiorizziamo, fin da piccole, un’idea di noi stesse come vulnerabili in ragione del nostro sesso e quindi del nostro corpo, una serie di divieti e censure, un corpo fragile esposto all’abuso, la cui unica difesa è costituita dal rapporto con un protettore. Prostitute, migranti, tossici sono indicati come figure di paura urbana; in primo luogo,la defamiliarizzazione dello spazio urbano, di degrado; seconda osservazione è che l’occupazione di luoghi e piazze, stazioni, parchi e giardini crea fastidio. Non stanno al loro posto, dichiarano pubblicamente la loro presenza collettiva e il loro diritto allo spazio urbano e questo ci inquieta. La terza osservazione riguarda la sessualità, tanto più minacciosa perché “nera” e straniera. La sindrome di Jack lo Squartatore, per esempio, ricorda Walkowitz (1992), è servita non solo per dividere i quartieri della Londra bene dall’East End operaio, ma anche per dividere e tenere a bada le donne per bene da quelle per male. Stranieri e straniere evocano fisicità e sessualità: le donne sono prostitute, gli uomini potenziali stupratori. Gli autoctoni, si sa come gestirli, gli stranieri sono imprevedibili, e il fatto che siano giovani e senza donne li rende portatori di minacce e pericoli. Per un verso, il senso di insicurezza femminile è connesso molto più al rapporto tra i sessi come esso si configura ancora oggi che alla criminalità di strada, come vorrebbero i nostri politici e per un altro verso, che non tutto è riconducibile alle politiche e alle retoriche neoliberiste. La risorsa della fiducia. La fiducia è un ingrediente dell’interdipendenza, del riconoscimento della reciprocità, del legame sociale. Senza fiducia non ci sono imprese collettive, non c’è nemmeno sfera pubblica. PAGE 64 La fiducia è risorsa scarsa nelle società complesse, dominate dalla privatizzazione, dalle retoriche e dalle politiche neoliberaliste, che in più pretendono che i singoli corrano rischi da soli, senza quelle misure di tutela collettiva e universalistica che alludono all’interdipendenza, alla responsabilità di ciascuno nei confronti di tutti gli altri e altre. Il buon cittadino è oggi quello che è si responsabile, ma solo per sé e per i suoi familiari e congiunti. La solidarietà, privata del rimando all’interdipendenza e alla responsabilità reciproca, si muta in intervento volontario e caritatevole, i diritti diventano nuovamente bisogni, la dipendenza viene accentuata e colpevolizzata. La ricetta conservatrice è neocomunitaria delegata a rapporti primari, famiglia, vicinato, che devono essere supportati. Le nuove comunità sono comunità di complici, somiglianti, che escludono gli altri. Le politiche di tolleranza zero americane o inglesi puntano alla produzione di queste comunità che nei fatti si trovano nelle zone ricche, da cui i diversi sono già stati espulsi. Il pluralismo e il multiculturalismo sono oggi miti di una èlite cosmopolita, le città essendo frammentate in zone separate. Per un verso sono proprio la famiglia, il privato, il conosciuto ad essere i luoghi più rischiosi per le donne; per un altro verso, il controllo sociale primario che vi si esercita ribadisce dipendenza e doppio legame, censura autonoma e individuazione. Per converso, la fiducia generalizzata ha bisogno di istituzioni pubbliche eticamente autorevoli, tali da mettere al riparo al prevalere di maggioranze morali e in grado di esigere trasparenza e democrazia nelle organizzazioni private e nelle associazioni civiche. Per fidarsi, per correre il rischio di estendere fiducia, bisogna possedere risorse. La fiducia ha a che fare con l’autonomia, economica, culturale, psicologica e chiama in causa i diritti, quelli sociali in primo luogo, ossia quella rete di sicurezza e interdipendenza necessaria per desiderare e praticare libertà concretamente. Il brulicare di associazioni, centri sociali, aggregazioni varie dimostra che il senso di responsabilità collettiva non sono spariti. Ma manca la verticalizzazione: queste pratiche e aggregazioni (il volontariato) stentano a creare sfera pubblica perché le mediazioni sono orizzontali, la fiducia che vi circola rimane al loro interno per la mancanza di istituzioni pubbliche autorevoli. I diversi significati di cittadino che oggi convivono malamente – abitante della città, titolare di diritti, responsabile di sé – potrebbero venir coniugati insieme, se politica locale e politica nazionale abbandonassero pratiche neoliberiste e puntassero su una governante includente e democratica. Retoriche insensate. L’insicurezza femminile indica un deficit di autonomia, che non significa astrarsi dai propri vincoli; ha bisogno del possesso di risorse, economiche sociali culturali, intese come diritti. Da questo punto di vista, libertà e sicurezza non solo non si escludono, ma si implicano: la sicurezza sociale promuove libertà, mette in condizioni di correre rischi, di estendere fiducia e così facendo combatte l’insicurezza e la paura dell’altro. Prevenzione, controllo sociale e libertà personale. Già Hobbes, nel Leviatano, sacrificava ogni altro diritto perché il Principe (lo Stato moderno) assicurasse ai suoi sudditi il diritto alla vita. Il potere di punire, che dall’età moderna è stato avocato a sé dallo Stato, comporta la lesione di diritti fondamentali, che vengono protetti formalmente, attraverso le garanzie processuali e penali tipiche degli Stati di diritto. Il diritto penale e le istituzioni del sistema di giustizia penale hanno non tanto lo scopo di punire, quanto quello di prevenire futuri delitti, attraverso la minaccia di pene certe. PAGE 64 La fiducia viene delegata al possesso di una gamma di strumenti di identificazione, dalle carte di credito all’indagine genetica, che sono contemporaneamente strumenti di controllo, impersonali, dispersi tra agenzie sia pubbliche che private. Nel nostro mondo nomade, la società di estranei rincorre quella privacy che nei fatti dà luogo alla sorveglianza. La tendenza è verso l’ottenimento di una trasparenza assoluta, vecchio sogno di tutti i totalitarismi. Un ruolo importante è svolto dalle compagnie di assicurazione che influenzano non solo in campo economico, ma anche sociale: prendono decisioni sulla base di informazioni che stabiliscono il grado di rischio rappresentato dai singoli. Luogo privilegiato di esercizio di sorveglianza è la città. Lo scopo, dice Lyon, non è quello di catturare l’evento attuale, ma di anticipare le azioni, di pianificare ogni eventualità. Ciò che interessa non è ciò che facciamo, ma ciò che faremo o diremo. È una sorveglianza che ribadisce le vecchie disuguaglianze e discriminazioni sociali e ne crea di nuove. Ai test antidroga e anti aids, si aggiungono i test genetici, attraverso i quali si cerca di predire l’insorgere di malattie che potrebbero rendere inutilizzabili i lavoratori in futuro. Caratteristica dei profiling ad uso criminologico è la costruzione di modelli di previsione comportamentali di singoli individui basandosi su indizi, tracce lasciate sui corpi dei delitti o attorno ad essi, attraverso i quali ricostruire in laboratorio la personalità di chi ha commesso. quei delitti. Ciò che interessa è la costruzione di un modello di previsione del comportamento futuro, in modo da prevederlo e prevenirlo, non le cause sociali, né le motivazioni profonde del delitto stesso. I corpi diventano documenti di identificazione: gli occhi, le mani, le voci diventano strumenti attraverso i quali viene concesso o negato l’accesso in certe zone o a certi servizi. Sindrome di Minority Report è il titolo di un articolo di Giuseppe D’Avanzo su Repubblica (3 aprile 2004), a commento di una retata di arresti preventivi di 161 islamici residenti in Italia. Persone sospettate di avere contatto con il terrorismo di matrice islamico-fondamentalista. Si ipotizza che rimuovendo i sospettati, si azzera il pericolo. Il capo della polizia, De Gennaro: <<la nostra azione è mirata a contrastare quanti sono sospettati di gravitare nell’area più vicina al fondamentalismo. Un’azione preventiva di cui non si ha la certezza per quanto riguarda tutto ciò che può aver sventato>>. Le leggi approvate negli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 incarnano un progetto di trasformazione autoritaria del sistema americano che va ben oltre la lotta al terrorismo e mette in pericolo le libertà fondamentali. Oggi il discorso morale sulla devianza si è del tutto tradotto in un calcolo delle probabilità moralmente utilitaristico. Molti criminologi parlano di politiche criminali attuariali che abbandonano il paradigma positivista di ricerca delle cause, individuali o sociali, degli atti illegali o devianti, per concentrarsi su modalità di prevenzione del rischio di rimanerne vittime. Le retoriche che legittimano le pratiche e le tecniche di mediazione, si richiamano alle virtù della responsabilizzazione individuale, attraverso l’attivazione di capacità di protagonismo nel risolvere conflitti e problemi. La mediazione penale, non è solo invocata come modo di far fronte ai problemi psicologici e materiali delle vittime di reati, ma come misura tale da impedire la recidiva. Per mediazione penale si intende il confronto tra autore di reato (si fa prima del processo) e vittima; il mediatore, neutrale e imparziale, deve fare in modo che tra i due si svolga un dialogo tale da indurre riconoscimento del danno arrecato da parte dell’autore e complementare rassicurazione della vittima. “Perdono” del reo, a seguito del pentimento e sua disponibilità a riparare il danno. Ci sono molti tipi di mediazione penale, alcuni dei quali non contemplano necessariamente un confronto diretto tra autore e vittima. Tutte però, si richiamano alla necessità di restituire il conflitto (reato) ai suoi protagonisti. PAGE 64 Tutti e tutte collaboriamo sia alla sorveglianza impersonale, con l’uso di carte di credito, passi,ecc., sia all’autosorveglianza. Questa collaborazione spontanea si chiama libertà individuale, è la forma di questa libertà. La critica allo stato sociale non è stata appannaggio solo della destra neoliberista, ma gli effetti di paternalismo, di invasione autoritaria dei “mondi vitali”, sono stati messi in luce anche da sinistra. La ricetta “progressista” di riforma dello stato sociale prevede il protagonismo dei e delle cittadine, collaborazione tra organizzazioni non statali e istituzioni statali. Tuttavia ciò si sta risolvendo in una delega di compiti e doveri che erano propri dello stato ad un privato-sociale che spesso li adempie violando diritti importanti (ad un salario equo, per esempio) messi in mora con la giustificazione di star operando per il bene di chi si assiste. Complementarmente , deperiscono i diritti sociali, trasformati in benefici, provvidenze affidate alla solidarietà volontaria o al mercato privato. L’esclusione come modalità di controllo sociale di “nuove” popolazioni (disgraziati, poveri, i considerati pericolosi), necessarie alla produzione contemporanea, provvisoria o no che sia, sembra la forma attuale di governo di esse. Un governo che, attraverso l’esclusione prodotta dalle tecnologie della sorveglianza, insieme al dimagrimento dello stato sociale e della perdita di forza delle sue istituzioni, si afferma isolando, mantenendo deboli, ghettizzando, queste popolazioni occultando ciò che lega gli “inclusi” agli “esclusi”. Auto sorveglianza ed esclusione sono allora due modalità complementari di controllo. Il declino della prevenzione sociale e l’enfasi sulla prevenzione individuale e privata contribuiscono a questi esiti, che confluiscono ambedue nella frammentazione e nella dispersione del sociale. Ad una individualizzazione che è non solo tendenziale isolamento di ciascuno nel suo proprio, ma una costruzione di individui non individuati, ossia non solo astratti, ma frammenati senza corpo. DIRITTI UMANI, GUERRE, “INTERVENTI UMANITARI”. Guerre, conflitti, diritto, diritti. Secondo Mary Kaldor, le nuove “guerre” hanno le seguenti caratteristiche: a) esse non sono combattute tra stati b) i loro scopi hanno a che vedere con la politica delle identità piuttosto che con le contrapposizioni ideologiche o territoriali del passato c) vengono combattute prevalentemente con metodi di guerriglia ma, a differenza del passato, sono impiegati contro le popolazioni civili locali, a scopo di “pulizia etnica” d) le milizie in campo sono un misto tra unità paramilitari, signori della guerra, bande criminali, mercenari, organizzativamente decentrate e spesso in contrasto tra di loro e) l’economia di guerra è decentralizzata con una bassa partecipazione al conflitto e un’altissima disoccupazione. C’è una privatizzazione della guerra, nel senso che il monopolio della violenza organizzata, viene eroso, sia dall’alto, con la progressiva perdita di autonomia degli stati nazionali e la transnazionalizzazione delle forze militari, istituzionalizzata al tempo della guerra fredda e dei blocchi, sia dal basso, con l’emergere, nel contesto di stati deboli economicamente e politicamente, di gruppi paramilitari e bande criminali organizzate. Kaldor vede le nuove guerre all’interno del processo di globalizzazione e tra le loro cause mette la contrapposizione tra un’elitè mondiale ricca e cosmopolita e masse localizzate, povere sia dal punto di vista economico che sociale , che culturale. Contro il terrorismo transnazionale e i cosiddetti stati canaglia che lo foraggerebbero, è stata lanciata ciò che Giulietto Chiesa chiama guerra infinita; l’Afghanistan e l’Iraq. In un certo senso tutti i nuovi conflitti si configurano come guerre civili. L’esterno può essere inventato, con la pulizia etnica e la separazione forzata tra popolazioni un tempo conviventi. La scomparsa tra esterno e interno significa anche la scomparsa della distinzione tra politica estera e politica interna, tra operazioni di polizia e azioni di guerra. I criminali vanno perseguiti ovunque si trovino, chiunque si oppone a questa politica è un nemico. PAGE 64 La guerra infinita comporta una militarizzazione infinita con ampie restrizioni ai diritti di libertà di tutti e tutte. Una situazione di conflitto armato in cui tutti e tutte siamo personalmente coinvolti e nei cui confronti sia lo jus ad bellum (diritto alla guerra) che lo jus in bello (diritto in guerra) appaiono obsoleti. Gli obiettivi principali sono oggi i civili, piuttosto che i combattenti. Diffondere paura, terrore, morte e distruzione tra i civili è l’obbiettivo di tutte le parti in lotta, comprese Usa, Nato e le diverse alleanze che si sono formate. Nonostante le loro continue assicurazioni di mirare solo alla distruzione di dispositivi militari. Vi sono poi gli strumenti giuridici propriamente deti, il diritto internazionale, la Carta dell’Onu, le diverse Convenzioni, a cominciare da quella di Ginevra del 1948, le quali potremmo configurare in blocco come diritto umanitario, le Dichiarazioni e i diversi patti sui diritti umani. Il dibattito sul rapporto tra diritto e guerra ha visto contrapposti due schieramenti. L’uno vede come le Nazioni Unite, nell’elaborazione di un codice penale universale, nella creazione di una giurisdizione mondiale il cui primo passo è il tribunale penale internazionale contro i crimini di guerra e contro l’umanità l’unica possibile modalità di contrasto alle guerre e di risoluzione dei conflitti. L’altro, cosiddetto realista, oppone a questa visione sia il rischio della creazione di un super Leviatano di fatto costituito dai poteri forti dell’occidente e soprattutto dagli Usa, sia l’inefficacia di strumenti giuridici ispirati ai valori “europei” nel contesto di realtà diverse tra loro per cultura, sviluppo sociale e economico. I realisti sostengono invece la necessità di un diritto mite, flessibile, frutto di una sorta di “regionalizzazione policentrica” del diritto internazionale, privo di una struttura gerarchica. Giocano visioni diverse del significato di diritto. La polemica antiformalista dei realisti considera “diritto” solo ciò che funziona come tale, dando così per scontata in certo senso la questione dell’efficacia. Per altri è diritto ciò che è prodotto conformemente non solo alle regole della produzione giuridica, ma anche alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per i realisti come Zolo, i diritti umani sono un’invenzione occidentale suscettibile di essere esportata altrove solo a patto di sopprimere diversità e conculcare culture differenti. Se sul piano teorico si discute della natura e dei rischi dei diritti umani, sul piano pratico, essi sono diventati strumento di lotta. Tuttavia i diritti umani sono il vocabolario giustificativo degli interventi armati, delle cosiddette guerre asimmetriche. Diverso è se a reclamare la tutela dei diritti sono i singoli o la collettività, individui o gruppi che si richiamano a qualche specifica identità, etnica, culturale o di qualsiasi altro genere. Questa è una contraddizione che sta dentro la Carta dell’Onu, dove si parla di diritti dei singoli, insieme a diritto all’autodeterminazione dei popoli: questa formula rischia di legittimare qualsiasi rivendicazione ad una propria entità autonoma su basi escludenti, ossia l’appartenenza etnica, la comunanza di cultura, lingua, religione. Guerre, conflitti. Si parla di un “ritorno alla guerra”: 1) dal punto di vista fattuale, si fa notare la moltiplicazione dei conflitti armati dopo il 1989; c’è stato un ritorno della guerra in Europa; 2) dal punto di vista simbolico-culturale, sempre nel contesto occidentale, la guerra è diventata di nuovo una faccenda che interviene nella routines della vita quotidiana. Assieme all’insicurezza rispetto al futuro di sé e del mondo, ristruttura l’universo in amici e nemici. Il linguaggio proprio della guerra pervade altri campi; le parole assumono nuovi significati: umanità, umanitarismo, intervento umanitario, danni collaterali, tutti eufemismi per nascondere morte e terrore. Torna il dibattito su guerra giusta e ingiusta, il Bene contro il Male. 3) Dal punto di vista giuridico, ancora in occidente, si infervora la discussione sulla legalità della guerra, ovvero sul suo rappresentare la sconfitta del diritto. PAGE 64 Questi campi, spesso, diventano permanenti, come nel caso dei palestinesi. L’umanitario diventa un alibi per i paesi occidentali restii ad assumersi le responsabilità delle condizioni economiche e sociali dei paesi del sud. Gli aiuti umanitari servono da sedativo per situazioni socioeconomiche esplosive. Ong e agenzie umanitarie si trovano a gestire i disoccupati e ripudiati del mercato globale, come stà succedendo nei paesi del nord del mondo, dove ad occuparsi di questi, con la crisi del welfare, è il cosiddetto terzo settore e il volontariato, secondo la logica e l’ideologia della carità e della risposta a bisogni che a diritti. Umanitario e politica dunque si escludono, l’uno prendendo il posto dell’altra. Non tutte le Ong operanti nelle situazioni di crisi e conflitto sono coinvolte solo negli aiuti umanitari: altre lavorano attivamente con le popolazioni locali o settori di esse a progetti che hanno di mira non solo l’autonomia economica ma anche la partecipazione politica e la tutela dei diritti civili, politici e sociali. Appare necessario un mutamento radicale nelle politiche degli aiuti, puntando sul rafforzamento delle risorse umane, sociali ed economiche locali, delegando il più possibile la gestione degli interventi e dei progetti agli attori locali, mettendo al centro <<la relazione diretta tra persone di differente provenienza e valorizzando le differenze sessuali e culturali>>. Profughi, rifugiati, migranti. Un aspetto fondamentale rispetto a guerre e conflitti è quello che riguarda la gran massa di profughi dalle situazioni di crisi. Non è facile distinguere tra profughi, rifugiati, migranti. Tutte persone in fuga da condizioni molto difficili in cerca di un futuro migliore per sé e i familiari. In un mondo dove le merci circolano anche troppo liberamente, agli esseri umani è invece negato questo elementare diritto. Bauman individua tra le divisioni e le ineguaglianze della nostra epoca quella tra chi si sposta e si muove ovunque liberamente, e la gran massa di popolazione del sud del mondo, cui è vietato spostarsi, e quando lo fa, lo fa a proprio rischio e pericolo. In Europa si fanno sempre più stringenti le condizioni per concedere il diritto d’asilo ai rifugiati. Quanto alle leggi sull’immigrazione, l’Europa sta chiudendo le porte e rendendo sempre più ardua la vita ai migranti nei propri paesi. Il nemico è un criminale, il criminale è un nemico. Lo slittamento lessicale e culturale dal nemico al criminale è dovuto al tentativo di legittimare la guerra come modalità di produzione di un ordine democratico e rispettoso dei diritti umani, rispetto a cui i violatori non sono nemici, ma criminali. Interno ed esterno si saldano, i confini scompaiono, e la guerra diventa guerra contro i criminali. I Taliban rinchiusi in condizioni disumane a Guantanamo non sono né prigionieri di guerra, né detenuti per reati comuni, e per loro sono sospese le garanzie che si devono sia agli uni che agli altri. Con la guerra contro l’Iraq, sembra viceversa tornare la realpolitik: si parla infatti di guerra preventiva, e le ragioni che la sottendono sono esplicite: il controllo delle riserve di petrolio da parte delle compagnie petrolifere grandi elettrici di Bush e l’affermazione senza più remore dell’impero statunitense. Tuttavia, le giustificazioni rimandano alla potenziale criminalità e dunque pericolosità di Saddam. Guerra e giustizia penale prendono il posto non solo del diritto, ma anche e soprattutto della politica e delle politiche. Armi, falli, simboli. La criminalizzazione universale si avvale del potere delle immagini, e dunque della comunicazione visiva, sia per giustificare le guerre asimmetriche che per descriverle e interpretarle. Il disordine mondiale può essere letto come crisi di un maschile normativo e ordinatore, cui allora viene sostituito un altro maschile, simbolicamente più rozzo e tradizionale: quello delle armi. Che si avvale del femminile in 2 modi, uno apparentemente innovativo, che accoglie e distorce le pratiche e le politiche femministe, l’altro antico (la saggezza e il riscatto delle donne oppresse dagli uomini PAGE 64 barbari ad opera degli uomini civili, come in Afghanistan). Parlo di maschile, non di uomini in carne ed ossa. Governo o governante? La forma che dovrebbero prendere le relazioni internazionali è: da un parte i fautori di una democrazia cosmopolitica, attraverso il potenziamento e la trasformazione del consiglio di sicurezza, l’istituzione di una corte internazionale di giustizia, e la costruzione di istituzioni politiche globali; dall’altra i sostenitori di un ordine politico minimo fondato su una “struttura policentrica dell’ordinamento internazionale” e un diritto internazionale informato all’ottica della sussidiarietà. I due fronti si differenziano al loro interno. Il punto di divergenza non è quello della costruzione di un ordine cosmopolitico, nel senso almeno di un Superstato. Propugnano a breve termine la formazione di macroregioni, sul modello europeo. Le differenze più evidenti riguardano l’idea di un costituzionalismo globale, il quale secondo i realisti non solo sarebbe impossibile, ma si porrebbe di fatto come egemonia della cultura occidentale sulle altre. Organi di questa costituzionalizzazione dovrebbero essere la Corte internazionale di giustizia e il Tribunale internazionale contro i crimini contro l’umanità. I suoi propugnatori, viceversa, respingono l’idea dell’impossibilità: l’esistenza di una società civile globale emergente, assieme all’opera di lobbying svolta dalle Ong internazionali è colta come uno dei fattori significativi di questa possibilità. C’è sul piano internazionale come in parte su quello nazionale, un vuoto impressionante di politica. Vanno ripensate le forme della democrazia e la possibilità di istituzioni di mediazione verticale capaci di tradurre le istanze sociali in domande politiche, le richieste particolaristiche in questioni pubbliche, comuni. I compiti dei sociologi del diritto. Le politiche nei confronti di migranti, profughi e rifugiati ritracciano, limitandoli, i confini della cittadinanza, creando classi di cittadini di serie b. La coppia esclusione/inclusione, che costituisce oggi il frame dominante per interpretare i processi relativi a ciò che un tempo era chiamato oppressione o sistema delle disuguaglianze, funziona sia all’interno che all’esterno, disegnando un mondo diviso, dove i molteplici legami tra chi sta dentro e chi sta fuori rimangono invisibili e dunque non trattabili: il mondo dell’esclusione si apre allora solo ad interventi umanitari, dove gli esclusi sono puramente oggetti di politiche caritatevoli, piuttosto che soggetti titolari di diritti. Mentre nel pensiero femminista cura ha il senso di una relazione tra soggetti nella loro concretezza cognitiva ed affettiva, essa assume viceversa il segno di una dazione unilaterale di doni da chi ha a chi non ha. L’occultamento della politica: tra regolazione giuridica e normativa “morale”. Vi sono almeno 3 aree in cui la regolamentazione giuridica scivola oggi nella regolazione morale. Nella prima, la morale tende a determinare la regolazione giuridica in modo esplicito ed evidente; Nella seconda, la regolazione giuridica tende a venir sostituita da un investimento nel richiamo di valori esplicitamente morali nell’orientamento di singoli individui; Nella terza, la regolamentazione giuridica tende ad imporsi o a venir interpretati diffusamente come una nuova morale. La prima area consiste nella regolazione o nel tentativo di regolazione di quelle materie che hanno a che fare con la sessualità, la procreazione, il rapporto tra i sessi, ciò che riguarda le donne e la loro libertà. Il pesante impatto che la morale delle confessioni religiose ha avuto e continua ad avere sulle modalità di regolazione giuridica, oltre che sociale, della vita delle donne. Nei paesi dove non vi è distinzione tra religione e diritto, dove è la normativa religiosa a dettare la regolazione per ciò che riguarda la sfera familiare, la questione è naturalmente più grave. PAGE 64 Per quanto riguarda l’Italia, e i paesi a dominanza cattolica, la disciplina giuridica della PMA, intende con tutta evidenza recuperare almeno parte del terreno considerato perduto attraverso la libertà di contraccezione, l’introduzione del divorzio, la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza. In Italia la materia è disciplinata da una legge “mostruosa” dal punto di vista della libertà femminile. La via di una legislazione ultraproibizionista per ribadire che: l’embrione è un soggetto debole, cittadino, la cui protezione, consiste nella nascita e deve essere assicurata anche contro la volontà della madre biologica, nonché contro il suo diritto alla salute, che l’unica famiglia legittima è quella formata da una coppia coniugata o stabile e solo dentro questa coppia si può nascere. Grazie al riconoscimento dei diritti del concepito, si torna a parlare di modifiche alla 194. la divisione, su questa legge, tra laici e cattolici, e la libertà di coscienza invocata per votarla mettono in mora i principi della laicità dello stato, e della separazione tra diritto e morale. È sul piano culturale e simbolico che questo tipo di regolazione, assieme al altre norme oggi discusse come necessarie (l’affido condiviso come standard nelle separazioni coniugali) ha il suo impatto più forte: essa dice che non si deve né si può nascere senza un padre, e che la libertà procreativa e sessuale femminile è pericolosa per nascituri e ordine sociale. La seconda area è quella della repressione penale. Accanto ad una politica di controllo sociale quasi interamente demoralizzata, legittimata dalla sicurezza, il cui esempio tipico sono le telecamere a circuito chiuso. Di giustizia ripartiva, in alternativa o in congiunzione con la giustizia tradizionale, si parla per indicare pratiche molto diverse tra loro, dai tribunali per la Riconciliazione e la Verità ai cosiddetti “circle and conferences” (cerchio e conferenze ) per dirimere vari tipi di conflitti. La questione della mediazione penale, si sta diffondendo come modalità aggiuntiva di trattare la delinquenza minorile, e in altri paesi viene tentata anche per gli adulti. Benché l’intento della mediazione sia in primo luogo quello di restituire protagonismo alla vittima del reato, il mutamento interno dell’offensore, attraverso il riconoscimento del male causato è un obbiettivo fondamentale della mediazione, attraverso il quale si intende “trasformare” l’offensore in modo da restituirlo riscattato alla comunità stessa. È l’enfasi sul mutamento interno dell’offensore, dei suoi atteggiamenti profondi verso l’altro e la “comunità” piuttosto che sui suoi comportamenti lesivi di diritti o beni altrui, a connotare la mediazione come in linea di principio in contrasto con le garanzie proprie del diritto penale di uno stato di diritto, dove non dovrebbe aver rilievo la personalità dell’autore di reato quanto piuttosto ciò che egli concretamente fa o non fa. La terza area è quella dei diritti umani. Essi vengono proposti come l’unica possibile morale universale per un mondo insieme globalizzato e frammentato. Il loro fondamento nelle carte dei diritti sfuma in secondo piano. Questa perdita di qualità giuridica, nasconde l’assenza di istituzioni di garanzia e di implementazione. C’è un legame con la questione della giustizia ripartiva, laddove è esplicito il rimando ai diritti umani come criteri sulla base dei quali fondare e misurare le pratiche riparative. Il soggetto dei diritti umani non è tanto “tutti noi”, quanto chi “ha bisogno”. I diritti umani, almeno in occidente, non impongono tanto lotte, conflitti, politiche per la loro affermazione e tutela, quanto aiuto e carità. Quando poi non vengano utilizzati per giustificare guerre, chiamate non a caso interventi umanitari. La scena appare allora segnata dalla presenza di 2 popolazioni: gli esclusi e gli altri, dove vi sono legami volontaristici connotati dalla sollecitazione dei secondi verso i primi. Ricorrere alla morale piuttosto che al diritto per regolare comportamenti si configura oggi come una insistita privatizzazione, data la crisi di una morale condivisa. La crisi dell’etica come nucleo di credenze, valori, orientamenti collettivamente elaborati e intesi, la consegna al regime del privato e dell’individuale. L’influenza delle Chiese si è sempre fatta sentire, benché ci siano state interessanti oscillazioni, che hanno permesso per esempio l’introduzione del divorzio e della legalizzazione dell’aborto. In Italia ciò non è stato dovuto tanto all’azione delle forze politiche laiche, quanto alle lotte del movimento delle donne, durante le trasformazioni sociali degli anni 60 e 70. PAGE 64
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