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I gruppi sociali dal testo "I gruppi sociali" di Speltini-Palmonari, Appunti di Psicologia Sociale

Riassunto completo, ottimo per superare l'esame con ottima votazione. Comprende: - I gruppi nella prospettiva della psicologia sociale (con definizioni di gruppo) - Entrare e uscire dai gruppi: processi d'iniziazione e di socializzazione - I fenomeni dinamici della vita di gruppo (lo status, i ruoli, le norme e la comunicazione nel gruppo) - La leadership: teorie a confronto

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 18/01/2020

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valentina-dv 🇮🇹

4.6

(31)

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Scarica I gruppi sociali dal testo "I gruppi sociali" di Speltini-Palmonari e più Appunti in PDF di Psicologia Sociale solo su Docsity! I GRUPPI SOCIALI (Speltini – Palmonari) Cap. I – I gruppi nella prospettiva della psicologia sociale 1. L’interesse per i gruppi nella psicologia sociale: rapida cronistoria critica La psicologia sociale si trova tra due discipline, la psicologia (studia il soggetto individuale) e la sociologia (studia il soggetto collettivo), la specificità della psicologia sociale consiste nel rintracciare nell’individuo le influenze sociali e nel ricercare l’aspetto soggettivo di quanto accade nella realtà sociale. Il funzionamento dei gruppi divenne oggetto d’interesse scientifico negli Stati Uniti intorno agli anni ’30 sotto la spinta di eventi storici, quali la grande crisi economica che ebbe un evento marcante nel crollo della Borsa di New York (1929). Per la psicologia sociale, gli eventi storici che vanno dalla grande depressione di fine anni ’20 alla fine della seconda guerra mondiale provocarono, secondo McGuire uno spostamento dall’interesse per la misurazione degli atteggiamenti allo studio dei processi di gruppo. Gli psicologi sociali si sentirono chiamati a scoprire in che modo l’azione sociale potesse essere controllata e manipolata per cambiare gli atteggiamenti e il comportamento. Oltre agli eventi storici, altre pressioni di natura scientifica avevano cominciato a porre in evidenza l’importanza dello studio dei gruppi ristretti: le ricerche condotte da Mayo misero in evidenza l’incidenza dei “fattori umani” sulla produzione e del gruppo come forte organizzatore del comportamento degli individui. La produttività del gruppo era funzione della soddisfazione lavorativa dei suoi membri, che a sua volta dipendeva dalla struttura sociale che il gruppo si dava in maniera informale. Lewin fondò il “Research Centre for Group Dynamics” che divenne il cuore di ricerche ed elaborazioni teoriche sul gruppo, concepito gestalticamente come una totalità dinamica che evidenzia caratteristiche diverse da quelle risultanti dalla somma delle sue componenti. Si può far risalire proprio a Lewin la fondazione dello statuto psicosociale della nozione di gruppo. I processi di gruppo sono stati fiorenti negli Stati Uniti nel periodo compreso fra la metà degli anni ’30 e la metà degli anni ’50, dopodiché la ricerca sui gruppi si spostò in Europa. Negli anni ’60 col delinearsi di una psicologia sociale europea, le tematiche sulle dinamiche di gruppo nell’ottica lewiniana subirono un declino. Steiner riconosce che l’abbandono dei gruppi da parte della psicologia sociale è dovuto alla tendenza di questa disciplina (almeno negli Stati Uniti) a privilegiare un approccio teorico sempre più individualistico e un utilizzo di metodi di laboratorio, poco consoni allo studio dei gruppi. Oberlé osserva che il metodo sperimentale si sviluppa a detrimento di altri metodi di ricerca (osservazione e studi di campo) che permetterebbero l’avanzamento delle conoscenze sui processi di gruppo. I metodi sperimentali di laboratorio non possono essere il punto di partenza dell’indagine sui fenomeni della vita sociale; i fenomeni di gruppo, per essere studiati in laboratorio devono essere prima descritti e compresi sul campo nelle loro variabili principali, le quali verranno poi definite operazionalmente per consentire la manipolazione e misurazione sperimentali. Il gruppo può essere sia oggetto di studio sia un mezzo per studiare altri fenomeni. Inoltre, a volte sono trattate come gruppi delle diadi (discutibile). L’interesse per i gruppi riprese negli anni ’90 sotto l’influsso di due nuove tendenze nell’ambito della psicologia sociale: l’ “approccio europeo” (Tajfel, Moscovici, Turner) e la social cognition (il cui approccio epistemologico privilegia l’individuo piuttosto che il collettivo). Vi è il prevalere di un’ottica individualistica allo studio dei gruppi. Da alcuni anni, la ricerca in psicologia sociale è centrata su tecniche sofisticate di sperimentazione e di quantificazione dei dati. Questo fatto induce a conformismi metodologici che hanno una loro parte nell’indurre a scegliere il laboratorio piuttosto del campo, il metodo sperimentale piuttosto che l’osservazione. Gli psicologi sociali si differenziano fra coloro che adottano una prospettiva individualistica e una prospettiva collettivistica. Nella prospettiva individualistica si ritiene che la gente nei gruppi si comporti come farebbe in una diade o da sola e i processi di gruppo non sono niente di sostanzialmente diverso da processi interpersonali fra un certo numero di individui. Nella prospettiva collettivistica (o sociale) si ritiene che il comportamento della gente nei gruppi sia influenzato da processi sociali peculiari e da rappresentazioni cognitive che possono emergere solo in gruppo e solo da questo originarsi. Hogg e Vaughan sostengono che l’espressione “processi di gruppo” assume un’accezione ristretta poiché è riferita a piccoli gruppi di breve durata orientati al compito; più che a processi di gruppi ci si riferisce a processi interpersonali fra più di due persone. 2. Il gruppo in psicologia sociale fra luci e ombre Secondo Tajfel esiste un pregiudizio epistemologico per cui l’uomo considerato singolarmente è un essere che procede nella conoscenza in modo razionale mentre quando si trova in gruppo si comporta in modi prerazionali. Per quanto riguarda la conoscenza del mondo naturale viene utilizzato un modello razionale di uomo, che usa le proprie capacità di comprensione e di ricerca verso il significato allo scopo di adattarsi all’ambiente, mentre per quanto riguarda i fenomeni sociali viene impiegato un modello istintivo-viscerale di uomo, come se nella vita collettiva gli individui perdessero le capacità razionali e fossero guidati da istinti o da tendenze inconsce. Moscovici e Doise si associano a questa visione pessimistica dell’uomo sociale come di un individuo che appena si riunisce ad altri perde le proprie capacità. Secondo gli autori, il presupposto di base di molte ricerche psicosociali sui gruppi consiste nella concezione dell’uomo-massa, che ha una filiazione a partire dalla psicologia delle folle, la folla composta di individui anonimi, suggestionabili, privati di una volontà propria. Questa concezione pessimistica nei riguardi della vita in comune è stata tradotta in termini moderni con quella di cognitive miser, cioè di economizzazione di energie cognitive, come viene descritto l’uomo collettivo. Questo presupposto si riverbera soprattutto nelle ricerche sui gruppi, al punto che “è diventata una convezione spiegare con l’individuo ciò che funziona e con il gruppo ciò che non funziona”. L’essere umano è per sua naturale sociale, predisposto geneticamente al rapporto con gli altri, senza i quali la sua sopravvivenza sarebbe impossibile. La socialità umana si svolge in parte non trascurabile nei gruppi (famiglia, compagni di gioco, squadre sportive) ma anche nel contesto di più ampie appartenenze (religiose, politiche). I gruppi costituiscono una “ineluttabile esperienza sociale” in una permanente dialettica per cui gli individui influenzano il gruppo e da questo sono influenzati, dialettica non priva di tensioni e conflitti. Moscovici afferma che il rapporto individuo-società è un rapporto conflittuale, per cui si potrebbe sostenere che “la psicologia sociale è la scienza del conflitto fra individuo e società”. Non tutte le ricerche approdano a risultati penalizzanti per i gruppi: gruppo in cui l’identità sociale degli individui diviene saliente e i bersagli d’azione sono scelti in funzione degli obiettivi. I conflitti sociocognitivi nella risoluzione dei problemi possono far avanzare il livello cognitivo del singolo; nel gruppo si costruiscono anche dissenso e innovazione. Moscovici ritiene che i gruppi, ma non gli individui, sono capaci di introdurre nella dinamica sociale elementi di innovazione e di mutamento. • unità sociali strutturate: diviene più forte il carattere di interdipendenza e di relazioni strutturate (società, comunità, famiglia); • unità sociali intenzionalmente progettate: (organizzazione, gruppo di lavoro); • unità sociali meno intenzionalmente progettate (associazione o organizzazione volontaria: vi sono scopi comuni mentre possono esservi o meno relazioni interpersonali dirette; se vi sono somiglia ad un’organizzazione o ad un gruppo di lavoro, se non vi sono ad un pubblico; o gruppi di amici); Un individuo partecipa a più di una di esse. Esse differiscono su due dimensioni: la base su cui si fondano le relazioni fra i membri, il grado di strutturazione di tali relazioni e l’intenzionalità dello sviluppo di tali strutture; la grandezza dell’aggregato (numero di individui coinvolti). Questi due elementi differenziano fra aggregazioni e gruppi; i gruppi sono quelle aggregazioni sociali che implicano reciproca consapevolezza e una potenziale reciproca interazione, e che sono relativamente piccoli, strutturati e organizzati. Tale definizione è restrittiva poiché vi sono gruppi che non hanno interazioni dirette, ma che possono influenzare in varie circostanze il comportamento sociale degli individui. La grandezza e l’interazione diretta sono elementi che distinguono i piccoli gruppi (“ristretti”) e i grandi gruppi (“estesi”). Si deve distinguere fra “piccolo gruppo” e “gruppo faccia a faccia”, per quanto entrambi si caratterizzino per il numero limitato di membri: nei piccoli gruppi i comportamenti si conoscono e si influenzano reciprocamente, per quanto l’interazione diretta e continuativa di tutti i membri non sia una conditi ossine qua non (classe, gruppo amicale); il gruppo faccia a faccia è un gruppo ristretto nel quale tutti i membri interagiscono direttamente, hanno riunioni frequenti anche per lungo periodo, diversi livelli di strutturazione e ufficialità (team di lavoro). Bales con “gruppo” si riferisce a piccoli gruppi ad interazione diretta; infatti la caratteristica di base di un gruppo è costituita dalle relazioni faccia a faccia, mentre la sua ragion d’essere è il perseguimento di un obiettivo comune. I comportamenti diretti allo scopo (strumentali), che vengono messi in atto per il raggiungimento dello scopo comune, determinano nel gruppo tensioni inevitabili che devono essere allentate con comportamenti di tipo socioemozionale (espressivi), cioè comportamenti che esprimono le emozioni degli individui o che riguardano i sentimenti degli altri. La dimensione comportamentale di tipo socioemozionale può essere positiva o negativa, anche se la centralità del raggiungimento dello scopo implicherà una maggiore quantità di comportamenti socioemozionali positivi. Differenziazione tra: ▪ gruppi primari: insiemi di persone che interagiscono direttamente, legati da vincoli affettivi, senso di appartenenza e lealtà nei confronti del gruppo; ▪ gruppi secondari: insiemi di persone che hanno scopi da raggiungere, ruoli differenziati, relazioni impersonali. Questa opposizione non è così radicale, è meglio parlare di primarietà e secondarietà per riferirsi al modo di essere nel gruppo, modalità che possono alternarsi nel gruppo (team di scienziati creato per combattere un’epidemia – secondarietà – che nel corso dei lavori riescono a creare un sentimento di appartenenza di gruppo con relazioni affettive – primari età). Differenziazione: • gruppi formali: si formano sotto un’egida istituzionale, che ne detta gli obiettivi nel quadro di attività specifiche (associazioni sportive, politiche, religiose, culturali); • gruppi informali: aggregazioni spontanee, naturali, il cui scopo consiste nell’intensità delle relazioni fra i membri. Il termine “naturali” viene utilizzato anche negli ambiti di ricerca per distinguere i gruppi reali dai gruppi sperimentali. McGrath sostiene che le tipologie dei gruppi impiegati nella ricerca sono tre: 1) gruppi naturali: esistono indipendentemente dalle attività e dai propositi della ricerca (squadre sportive, gruppi di lavoro); 2) gruppi inventati (concocted): creati come mezzi per la ricerca (giurie simulate, famiglie artificali); 3) quasi-gruppi: creati a scopi di ricerca ma non sono completamente gruppi poiché hanno pattern di attività artificiali e costrittivi, nel senso dei compiti imposti e nel ripo di interazioni permesse. I gruppi di riferimento sono quelli in cui l’individuo si identifica, e ai quali può anche appartenere (in tal caso gruppo di appartenenza e di riferimento si differenziano). I gruppi di riferimento costituiscono una fonte di atteggiamenti e di valori “sia che egli appartenga realmente ad essi o no” (moderne società occidentali, in cui la collocazione sociale degli individui non è fissa e immutabile, come pure il sistema del sé). Si può aspirare ad appartenere ad un gruppo per i significati che in quel momento dell’esistenza individuale esso rappresenta, come pure il proprio gruppo di appartenenza può costituire un punto di riferimento stabile, anche se l’individuo non vi è al momento presente collocato fisicamente (caso di un emigrato che sceglie di non assimilarsi nel paese ospitante ma di riferirsi al proprio paese). 3.2. Il gruppo nelle teorie di Lewin, Sherif e Tajfel Per Lewin il gruppo è una totalità dinamica, le cui proprietà strutturali sono diverse dalle proprietà strutturali delle sottoparti. Ci si può occupare di entrambe a seconda dell’interrogativo che ci si pone. Una totalità dinamica è caratterizzata dalla stretta interdipendenza delle sue parti. Le proprietà strutturali sono caratterizzate da rapporti fra le parti piuttosto che dalle parti o dagli elementi stessi. Per quanto riguarda l’interdipendenza delle parti che compongono il gruppo, Lewin parla di due tipi di questo fenomeno: 1- l’interdipendenza del destino: costituisce un elemento macroscopico di unificazione, nel senso che qualunque aggregato casuale di individui può divenire gruppo, se le circostanze ambientali attivano la sensazione di essere improvvisamente nella stessa barca (insieme casuale di clienti nella stessa banca che vengono presi in ostaggio da rapinatori allo scopo di preparare una via di fuga). 2- l’interdipendenza del compito: fa sì che lo scopo del gruppo determini un legame fra i membri in modo tale che i risultati delle azioni di ciascuno abbiano delle implicazioni sui risultati degli altri. la natura di queste implicazioni può essere positiva o negativa; l’interdipendenza positiva (collaborazione) si ha nel caso in cui il risultato positivo di ognuno implica il successo del gruppo (squadre sportive), l’interdipendenza negativa (competizione) quando il successo di un membro costituisce l’insuccesso di un altro o degli altri (gruppo di lavoro in cui vengono attribuite ad personam promozioni). Sherif considera il gruppo come una struttura in cui i membri sono legati da rapporti di status e ruoli e in cui si delineano norme e valori comuni. La condizione essenziale per la formazione di un gruppo è l’interazione nel corso del tempo di individui che hanno motivazioni, interessi, problemi comuni. Tuttavia, la ripetuta interazione in nome di un interesse comune non significa che i vari membri svolgono nelle varie attività le stesse funzioni, anzi esse si differenziano e specializzano dando luogo alla differenziazione di ruoli che, a loro volta, sono contrassegnati da uno status diverso. Le proprietà essenziali di un gruppo sono: 1) una struttura e organizzazione dei ruoli dei membri, differenziata per funzioni e per potere o posizione sociale; 2) una serie di norme o valori che regolano il comportamento dei membri nei settori di attività in cui il gruppo è impegnato. Dato che i piccoli gruppi si situano in un contesto “ecologico” con i suoi valori e norme precipui, ciò che avviene nelle relazioni infragruppo non può essere analizzato indipendentemente dalle relazioni intergruppi. È importante prendere quale oggetto di studio gruppi che si siano formati durante un certo periodo di tempo. È necessario utilizzare varie metodologie di ricerca, da quelle osservative e di inchiesta a quelle sperimentali. Sherif ha sottolineato l’esigenza di un approccio interdisciplinare, in particolare fra psicologia e sociologia per comprendere fenomeni che si situano a vari livelli della vita di gruppo; se per i sociologi l’unità di analisi è l’organizzazione sociale umana, per lo psicologo sociale l’unità di analisi è “il modo di funzionare dell’individuo in relazione alle situazioni sociali”, che comprendono i sati socio ambientali più ampi e non solo gli “stimoli sociali” più prossimi. Tajfel (teoria dell’identità sociale e delle relazioni intergruppi) sostiene che ciò che costituisce un gruppo è il fatto che l’individuo si sente parte di esso; questa definizione, basata sull’appartenenza, include tre componenti: 1. cognitiva (conoscere di appartenere ad un gruppo); 2. valutativa (il gruppo e/o l’appartenenza ad esso può essere positiva o negativa); 3. emozionale (gli aspetti cognitivi e valutativi sono accompagnati da sentimenti ed emozioni come amore e odio, piacere e dispiacere, vergogna o orgoglio). Il paradigma dei gruppi minimali mostra che è sufficiente imporre ad individui una categorizzazione sociale (preferenze pittoriche) che distingue un ipotetico ingroup da un outgroup per condurre a comportamenti discriminatori nei confronti dell’outgroup e a coesione nei confronti dell’ingroup. La categorizzazione sociale è un processo cognitivo che divide il mondo sociale in categorie cui si appartiene e non si appartiene. Il paradigma sperimentale che si basa sulla categorizzazione sociale dimostra che l’attrazione e l’interdipendenza fra individui non sono condizioni necessarie per la formazione psicologica di un gruppo, in quanto è sufficiente imporre a soggetti sperimentali un’appartenenza condivisa di gruppo per produrre una certa identificazione fra i membri pur in assenza di contatto interpersonale e di interdipendenza sociale. Per Tajfel, la categorizzazione sociale gioca un ruolo cruciale nel processo di definizione di un gruppo. La definizione di gruppo basata sull’autocategorizzazione solleva una possibile critica di “soggettivismo”. Tajfel riconosce che ai criteri soggettivi di appartenenza devono corrispondere dei criteri oggettivi, da un osservatore esterno. In condizioni naturali, ciò avviene per una serie di contingenze storico-sociali che determinano dei criteri, per i quali la categorizzazione dall’interno e dall’esterno del gruppo porta a definire consensualmente i confini dell’appartenenza e della non appartenenza. Se questi criteri non coincidono, l’individuo sarà costretto a modificare i propri criteri di categorizzazione sociale (individuo che si sposta da un paese in cui vige come valore centrale il criterio di categorizzazione in base al colore della pelle, ad un altro in cui tale criterio è irrilevante da rinascita. I riti puberali nelle società tradizionali erano obbligatori, poiché avevo lo scopo di completare la socializzazione dell’individuo, inserendolo nella cultura del suo gruppo. Inoltre, essi avvengono nella fase delle trasformazioni fisiche della pubertà, tanto che Turner parla di rituale di life-crisis, cioè fissato in un momento cruciale dell’esistenza. 2- Riti d’ingresso nelle società segrete, nelle confraternite religiose e militari. L’iniziazione trasmette ai neofiti una conoscenza segreta in vista della salvezza. Il candidato deve sottoporsi a una serie di prove. Questo tipo di iniziazione si distingue dalla precedente in quanto è liberamente scelta, aperta a tutte le età e si presenta spesso come una “vocazione”. 3- Riti che segnano l’ingresso ad un tipo di chiamata mistica particolare che si sostanzia in due figure delle società antiche: sciamano e “medicine-man”. Le società moderne hanno in gran parte dimenticato l’importanza collettiva dei riti d’iniziazione, per quanto essi siano rinvenibili ancora nelle religioni monoteiste. Nel cristianesimo il battesimo. Per quanto riguarda l’Islam si è discusso a lungo se la circoncisione è un rito d’iniziazione religiosa o un rito d’integrazione sociale. Diversi studiosi propendono per la seconda ipotesi poiché la circoncisione è per il musulmano “la prova della sua appartenenza all’Islam”. 1.2.Transizioni sociali e iniziazioni severe Molti rituali definiscono o riaffermano delle relazioni sociali, come quelle che stabiliscono sistemi geografici e politici, relazioni di status e gerarchie di dominanza, o come quelle che riflettono il sistema socioeconomico; i rituali e le cerimonie ad essi associate contribuiscono a radicare l’individuo nel suo ambiente e convogliano un senso di identità. Essi sono dei meccanismi cerimoniali che contribuiscono all’interazione dialettica fra individuo e comunità, interazione non priva di conflitti, poiché talora è dominante l’identità individuale e talora lo è quella di gruppo. I rituali da un lato soffocano la manifestazione dell’individualità, dall’altro ne permettono l’espressione attraverso cerimonie e feste. Ruble e Seidman sottolineano la centralità dei processi socio psicologici nel fenomeno delle transizioni che accompagnano il ciclo di vita degli individui e che le rende delle transizioni sociali, poiché esse costituiscono dei processi sociali di base, quali il cambiamento di ruolo e di identità e la costruzione sociale della realtà. Fra le principali transizioni annoverano pubertà, matrimonio, divenire genitori, divorzio, inizio di un nuovo lavoro, pensionamento e morte di una persona amata. Poiché tali eventi sono esperienze soggettive che toccano l’assetto sociale, è compito della società garantire l’adeguatezza di queste trasformazioni con cerimonie collettive più o meno elaborate a seconda del tipo di cultura e della natura della transizione stessa. Le transizioni sono periodi di sconvolgimento nella definizione di sé, nelle relazioni interpersonali, che hanno implicazioni a lungo termine sulla salute mentale e sul funzionamento sociale degli individui. se si parte dalla prospettiva della reciproca influenza tra fattori psicologici e sociali, le transizioni costituiscono dei “disturbi” in uno o più aspetti della costanza di relazioni e di negoziazioni fra un individuo e una o più dimensioni del contesto. Alcuni cambiamenti nell’appartenenza ai gruppi possono essere annoverati fra le transizioni sociali (passaggio ad un nuovo ordine di scuola, entrata al lavoro, immissione in un gruppo politico o religioso). Non sempre queste entrate sono contrassegnate da rituali formalizzati, anche se sovente sono segnate da rituali informali (scherzi). I riti di passaggio e i processi di iniziazione sono talora presenti anche nelle nostre società, seppure in ambiti che variano da cultura a cultura. Sequenzialità dei riti di passaggio: le pratiche di “rinuncia” costituiscono i riti preliminari o di separazione che marcano l’allontanamento dall’ambiente precedente (chiusura delle relazioni con le persone fuori dalla comunità), e i riti liminari o di margine, eseguiti nella frontiera della nuova appartenenza (cambiare aspetto e costumanze), le pratiche di “comunione” costituiscono i riti postliminari o riti di aggregazione, in cui si compie l’entrata nel nuovo ambiente (relazioni con i membri della comunità, lavoro e proprietà comuni). I rituali che accompagnano l’inserimento in un gruppo possono essere spiegati in modo diversi: - funzione simbolica per l’individuo e per il gruppo in termini di identità; - funzione di suscitare la fedeltà e la lealtà del nuovo membro, di attivarne i processi d’identificazione con il gruppo; - fasi di apprendistato per l’individuo che deve essere socializzato alla vita di quel determinato gruppo. L’entrata si realizza talora senza difficoltà o con calde espressioni di benvenuto, talora è caratterizzata da una serie di prove da superare. Nel rito collettivo viene simbolicamente agito il costo delle entrate nei gruppi, un costo per l’individuo che entra e che deve essere iniziato alle regole del gruppo cui si accede, un costo per il gruppo che deve essere garantito sulla lealtà del nuovo membro poiché ogni nuova immissione può metterne a repentaglio la stabilità. Anche per la nostra società si ritrovano i segni di rituali di iniziazione caratterizzati da difficoltà che il newcomer deve affrontare e dalla resistenza che gli oppone il gruppo per una piena accettazione, resistenza che può essere esemplificata dagli scherzi che ridicolizzano il novizio e lo provocano a cercare adattamenti e a mettere in atto rapidi apprendimenti sulla cultura e gerarchia del gruppo. Aronson e Mills partirono da considerazioni che si riferiscono alla teoria della dissonanza cognitiva: le persone che vengono sottoposte ad un’iniziazione negativa per diventare membri di un gruppo e poi scoprono che il gruppo ha aspetti non piacevoli, hanno due possibilità per ridurre tale dissonanza: si auto convincono che l’iniziazione non è stata troppo spiacevole o tendono ad esagerare gli aspetti positivi del gruppo e a minimizzarne i negativi. Da qui l’ipotesi del loro esperimento secondo cui gli individui che sono sottoposti ad un’iniziazione severa sviluppano una preferenza per quel gruppo, cioè tendono a ritenerlo più attraente di coloro che ne diventano membri senza iniziazione severa. I risultati hanno confermato l’ipotesi. Le iniziazioni severe hanno diverse funzioni psicologiche: suscitare nel nuovo membro un impegno maggiore nei confronti del gruppo, disponendolo ad accettare tutte le successive pratiche di socializzazione per divenirne membro effettivo. Scoraggiare gli aspiranti poco motivati. Rendere dipendente dai membri del gruppo il nuovo arrivato. Alcuni gruppi hanno bisogno di assicurarsi la fedeltà totale del neofita, si tratta di gruppi che esigono un certo livello di segretezza poiché svolgono attività delicate (sevizio segreto, sette) o perché il gruppo è delinquenziale. 1.3. L’entrata nei gruppi: i contesti scolastici Zazzo ha sostenuto che i passaggi di scolarità sono una prova per ciascun allievo, in quanto ciascun ordine di scuola prevede una serie di norme, ordinamenti strutturali, attese che mettono a dura prova la capacità di adattamento dell’individuo e che impongono costi psicologici. Ruble e Seidman considerano tutti i passaggi di scolarità come transizioni sociali. Una delle ragioni che rendono rischiosi per l’adattamento i passaggi di scolarità è la rottura delle relazioni sociali in riferimento al gruppo dei pari e al gruppo degli adulti. Il cambiamento del gruppo di compagni comporta dei costi nell’adattamento dell’individuo, anche se tale cambiamento può introdurre elementi di novità e di incremento delle risorse individuali. Anche entrare nella scuola materna costituisce una forte esperienza sociale e implica dei costi e degli adattamenti. Si costituiscono le prime esperienze di socializzazione secondaria, cioè dell’introduzione in settori sociali diversi da quelli della famiglia (ambito di socializzazione primaria). Nei primi tempi di entrata nella scuola materna, vari autori hanno rilevato un periodo di osservazione a distanza dei bambini fra di loro, come se studiassero i comportamenti e le reazioni degli altri prima di sperimentare costi e benefici dell’interazione diretta. D’altra parte il comportamento di attesa dei nuovi arrivati non è da attribuirsi solo alle loro difficoltà personali di capire la nuova situazione , anche il gruppo richiede un’immissione cauta del nuovo venuto e gli oppone resistenze, in cui vengono descritte complesse strategie di accesso ai giochi già iniziati dal gruppo di pari messe in atto dal newcomer. Accedere ai giochi già cominciati costituisce un’abilità sociale, uno dei numerosi apprendimenti che permettono di far parte della cultura dei coetanei, un insieme stabile di attività, routine, prodotti, valori, interessi e obiettivi comuni che i bambini producono e condividono durante le interazioni con i coetanei. La cultura dei pari svolge una funzione cruciale per la socializzazione di bambini e adolescenti, che si realizza parallelamente e conflittualmente ai processi di socializzazione avviati dagli adulti. L’utilizzazione di comportamenti di osservazione e di attesa da parte del nuovo arrivato, come periodo probatorio, è funzionale all’entrata nel gruppo in due modi. Da un lato, tale periodo permette all’individuo di effettuare alcuni apprendimenti sociali per essere accettato dal gruppo (capire le regole, la gerarchia degli individui); dall’altro, costituisce una tattica di immissione nel gruppo, che si mostrerà più accettante nei confronti di un nuovo membro cauto rispetto ad uno dominante. Anche la conquista di una funzione di leadership in un nuovo gruppo di appartenenza mostra l’importanza delle strategie di accesso. Il conformismo iniziale alle norme del gruppo risulta vincente. Processo di assimilazione dei nuovi venuti. All’inizio i newcomers tendono a scegliere i compagni meno popolari a differenza di quanto fanno gli old-timers. Le femmine e i più giovani vengono integrati più rapidamente dei maschi e di coloro che hanno età più elevata, forse perché sembrano meno minacciosi. Per quanto riguarda il sesso dei newcomers, i dati sono controversi e mostrano talora una più facile integrazione al gruppo delle femmine e talora più dei maschi. Forse le femmine sono più inclini ad adattarsi al gruppo mentre i maschi richiedono una maggiore disponibilità a modificarsi, per cui nei gruppi in cui si richiede un rapido adattamento sono più facilmente integrate le femmine mentre nei gruppi più flessibili alle richieste dei nuovi arrivati sono integrati più facilmente i maschi. La socializzazione in un gruppo è più difficile se i newcomers fanno parte della minoranza sessuale all’interno del gruppo. 1.4. L’entrata nei gruppi e le strategie del nuovo arrivato Secondo Moreland e Levine, l’appartenenza ad un gruppo (group membership), che può essere descritta come una serie di fasi separate da transizioni di ruolo, inizia con la fase di esplorazione (investigation), quando l’individuo è un membro aspirante. Durante questa fase il gruppo cerca delle persone che sembrano adatte ad offrire contributi al raggiungimento degli obiettivi di gruppo (reclutamento di gruppo), l’individuo cerca gruppi che sembrano adatti alla soddisfazione dei suoi bisogni (ricognizione individuale). Se l’individuo e il gruppo soddisfano i rispettivi criteri 4) collaborare con gli altri newcomers, tattica possibile solo se il gruppo comprende più di un nuovo arrivato. Essi si aiutano reciprocamente per assimilarsi al gruppo, nel caso in cui siano insoddisfatti lavorano insieme per richiedere al gruppo l’accomodamento per accoglierli. Anche per i gruppi che nascono è prevista una fase di circospezione e incertezza da parte dei membri. Nella teoria sugli stadi di sviluppo dei piccoli gruppi di Tuckman, il primo stadio di forming è caratterizzato dal punto di vista socioemozionale dalla dipendenza e dal punto di vista delle attività centrate sul compito da una fase di orientamento. I partecipanti sono incerti e ansiosi, si studiano a vicenda, cercano un possibile leader, si interrogano sulla natura del compito svolgere, si comportano in modo prudente e cauto. Durante la fase di esplorazione i membri aspiranti possono produrre innovazioni, prima ancora di appartenere al gruppo. Tali innovazioni possono essere non intenzionali o intenzionali, come nel caso dell’accomodamento anticipatorio, in cui i membri aspiranti domandano cambiamenti da parte del gruppo quali incentivi per appartenervi. L’accomodamento anticipatorio può avere conseguenze nella vita di gruppo, può indebolire il potere del gruppo nel trattenere i nuovi membri nel caso in cui le promesse di trasformazioni non vengano mantenute, o di contrariare gli old-timers con eccesso di ricompense ai newcomers. Considerando che i processi d’influenza sociale sono reciproci, l’entrata di un nuovo membro o di più membri comporta dei cambiamenti per il gruppo che li riceve, sia in termini di struttura e dinamica, sia in termini di nuovi apporti di idee e opinioni che possono contribuire a cambiare la cultura di quel gruppo. 2. Processi di socializzazione di gruppo Entrare in un gruppo nei contesti lavorativi prevede la trasmissione di specifiche conoscenze per svolgere quel determinato compito, ma esistono dei meccanismi informali, denominati con il termine socializzazione, che trasmettono comportamenti, abilità e conoscenze più generali ma indispensabili per far parte di quel gruppo in pieno. Il percorso di socializzazione è un processo attraverso il quale gli individui acquisiscono le conoscenze, le abilità e le disposizioni che li rendono in grado di partecipare come membri più o meno effettivi dei gruppi e della società. La socializzazione è un processo interattivo in quanto l’individuo da socializzare è un processo attivo che può a sua volta influenzare l’ambiente e il gruppo. Ciò che avviene nei processi di socializzazione è una negoziazione. Quando un individuo entra in un gruppo deve immergersi nella “cultura” di quel gruppo, che include modi condivisi di vedere la realtà (in cui sono comprese le conoscenze sul gruppo e i suoi membri, rappresentazioni sociali e atteggiamenti) e costumi comuni, che sono l’espressione comportamentale di una cultura e includono routine (procedure quotidiane del gruppo), resoconti (storie di questioni concernenti i membri del gruppo), gergo (parole e gesti comprensibili solo ai membri del gruppo), rituali (cerimonie che segnano importanti eventi di gruppo) e simboli (oggetti che hanno un significato speciali per i membri del gruppo). Costumi comuni per i gruppi “storici” sono l’uso di divise, di motti, canti, specifici segnali di saluto, cerimonie in precisi momenti dell’anno, azioni aventi il significato di routine essenziali per l’appartenenza al gruppo. I gruppi che hanno una storia addensano nel loro repertorio atti e simboli condividi, che danno identità ai partecipanti e segnano i confini del gruppo per i partecipanti e i non partecipanti. Essere o non essere parte del gruppo è segnalato da questa cultura condivisa. Ogni socializzazione secondaria comprende l’interiorizzazione di “sottomondi” istituzionali o fondati su istituzioni, e include “conoscenze speciali” (vocabolari specifici fatti anche di “tacite intese”), per cui si può comunicare fra membri dello stesso gruppo con allusioni ricche di significato, incomprensibili per chi non è membro del gruppo. Questi aspetti della socializzazione secondaria valgono anche per i gruppi non formali, che si formano spontaneamente senza uno scopo istituzionalmente determinato e di cui i gruppi informali di adolescenti costituiscono l’esempio più paradigmatico. Comportano l’esistenza di una struttura gerarchica, di norme condivise, di attività prevalenti, di una “cultura” comune, fatta di gergo specifico, soprannomi, di modalità di abbigliamento, cui nell’epoca attuale sono da aggiungere le tecniche di camouflage corporeo, che distinguono le diverse appartenenze di gruppo attraverso pettinature, trucco, perforazione di varie parti del corpo con orecchini e oggetti metallici, colori impiegati. L’appartenenza ad un gruppo comporta non solo gli apprendimenti di attività, linguaggi, conoscenze specifiche, ma anche una ridefinizione della propria identità, che può essere più o meno ampia a seconda della salienza psicologica che il gruppo riveste per l’individuo che vi accede (in certi ordini religiosi, il nome dell’individuo viene cambiato). Moreland e Levine hanno sviluppato la teoria della socializzazione di gruppo che considera sia l’individuo sia il gruppo come agenti attivi di influenza reciproca e che presuppone che la loro relazione cambi nel tempo. La teoria si basa su tre processi psicologici: 1- valutazione: sforzi compiuti dal gruppo e dall’individuo per stimare e massimizzare la remuneratività (rewardingness) l’uno dell’altro. Ogni gruppo ha degli scopi da raggiungere e valuta gli individui nei termini di quanto potranno contribuire a questo raggiungimento. Ogni individuo ha dei bisogni personali da soddisfare e valuta il gruppo nei termini di quanto esso potrà contribuire al soddisfacimento dei suoi bisogni. La remuneratività della relazione per entrambe le parti è basata sul grado in cui ciascuno viene incontro alle aspettative normative dell’altro. Entrambe le parti possono valutare la remuneratività passata, presente e futura delle loro possibili relazioni alternative. 2- impegno: dipende dal processo di valutazione: come aumenta la percezione di remuneratività delle loro passate, presenti e future relazioni, più il gruppo e l’individuo si sentiranno impegnati reciprocamente; come aumenta la percezione di remuneratività delle loro passate, presenti, future relazioni alternative, meno il gruppo e l’individuo si sentiranno impegnati l’uno con l’altro. L’impegno ha importanti risvolti sul comportamento del gruppo e dell’individuo, in quanto produce accettazione dei reciproci scopi, bisogni e valori, attiva sentimenti positivi, stimola a lavorare intensamente, a rinsaldare i legami di gruppo. 3- transizione di ruolo: quando l’impegno reciproco si alza o si abbassa nei confronti dei rispettivi criteri decisionali precedentemente stabiliti, le sue relazioni con il gruppo cambieranno, come pure le aspettative reciproche. Le transizioni di ruolo spesso comportano cerimonie e rituali. Dopo una transizione di ruolo, continua la valutazione, che produce ulteriori cambiamenti nell’impegno e susseguenti transizioni di ruolo. L’individuo può passare attraverso le cinque fasi della socializzazione di gruppo: esplorazione, socializzazione, mantenimento, risocializzazione e ricordo . Tali fasi sono separate da quattro transizioni di ruolo: entrata, accettazione, divergenza e uscita. • Esplorazione: implica per l’individuo un processo di ricognizione sul gruppo e per il gruppo un processo di reclutamento di nuovi membri. Se i livelli di impegno di entrambi le parti raggiungono i rispettivi criteri d’entrata, si compie la transizione di ruolo dell’entrata e l’individuo diventa un nuovo membro. • Socializzazione: il gruppo cerca di cambiare l’individuo in modo che contribuisca al raggiungimento degli scopi di gruppo. Se ciò avviene, l’individuo viene “assimilato” dal gruppo. L’individuo cerca di produrre cambiamenti nel gruppo in modo che esso possa contribuire alla soddisfazione dei suoi bisogni; se ciò si realizza il gruppo attraversa l’ “accomodamento”. Se i livelli di impegno di ambo le parti raggiungono i rispettivi criteri d’accettazione, avviene la transizione di ruolo dell’accettazione e l’individuo diventa membro a pieno titolo del gruppo. • Mantenimento: il gruppo e l’individuo si cimentano in negoziazioni di ruolo, nelle quali il gruppo cerca di trovare per l’individuo un ruolo specializzato che massimizzi i suoi contributi per il raggiungimento degli scopi; l’individuo cerca un ruolo specializzato che gli consenta la soddisfazione dei propri bisogni. Se queste transizioni hanno successo l’impegno reciproco permane ad alti livelli, ma se la negoziazione di ruolo fallisce e i livelli di impegno si abbassano rispetto ai criteri di divergenza avviene la transizione di ruolo della divergenza e l’individuo diventa un membro marginale. • Risocializzazione: il gruppo e l’individuo cercano di ripristinare i contributi che ciascuno dei due può fornire rispettivamente per il raggiungimento degli scopi di gruppo e per la soddisfazione dei bisogni personali. Se l’operazione ha successo e se i livelli di impegno superano i rispettivi criteri di divergenza, l’individuo torna membro a tutti gli effetti e si realizzano assimilazione e accomodamento. Questa transizioni di ruolo (rara) può essere definita convergenza. Se i livelli di impegno di ambo le parti scendono sotto i rispettivi criteri di uscita, si compie la transizione di ruolo dell’uscita e l’individuo diventa ex membro (comune). • Ricordo: il gruppo rammenta quanto l’individuo a fatto per il raggiungimento degli scopi gruppali; l’individuo si impegna nell’elaborazione di ricordi su quanto il gruppo gli ha offerto per la soddisfazione dei propri bisogni e su quanto non ha riconosciuto del contributo da lui offerto. Questo modello suggerisce un andamento graduale di ciò che avviene nella socializzazione di gruppo, mentre la realtà può essere più complessa e può prevedere bruschi cambiamenti nei livelli di impegno reciproco e nei criteri decisionali di gruppo e dell’individuo, il che avrebbe conseguenze sulla lunghezza o brevità di ciascuna fase e sul numero e l’ordine delle transizioni di ruolo che l’individuo sperimenta. I fattori che possono influenzare l’abilità del gruppo nell’assimilare nuovi membri sono: apertura e chiusura del gruppo: i gruppi aperti assimilano i newcomers più facilmente dei gruppi chiusi. Un gruppo aperto è caratterizzato da una relativa instabilità di appartenenza, in esso frequentemente entrano ed escono i membri, mentre i gruppi chiusi sono caratterizzati da una relativa stabilità di appartenenza. Altro fattore che promuove l’assimilazione di nuovi membri è che vengono immessi pochi newcomers alla volta e che essi non abbiano scarsa o nessuna esperienza con gruppi simili, probabilmente perché li dispone a maggiore dipendenza e accettazione delle regole di gruppo. Altre ricerche mostrano che un buon reclutamento dei nuovi membri e la loro somiglianza ai membri esistenti assicurano con più probabilità la loro assimilazione. I fattori che riguardano l’abilità dei nuovi membri a produrre accomodamento nel gruppo sono: introduzione di un numero consistente di newcomers, che siano diversi dai membri esistenti, che 5- Stadio di adjourning (di prestazione): ciascuno comincia gradualmente a ritirarsi sia dalle attività socioemozionali sia da quelle centrate sul compito. Vi è il disimpegno progressivo, per cui i membri cercano di fronteggiaare l’approssimarsi della fine del gruppo. Moreland e Levine osservano che il misconoscimento reciproco dei ricercatori delle due aree di studio produce un impoverimento conoscitivo, dato che la socializzazione è influenzata dallo stadio di sviluppo in cui si trova il gruppo, come pure lo sviluppo di gruppo risente dei diversi livelli di appartenenza di gruppo in cui si trovano i vari membri. Gli autori fanno l’esempio delle attività di socializzazione e risocializzazione nello stadio di adjourning, distinguendo fra adjourning ottimistico e pessimistico: • adjourning ottimistico: si ha quando i membri pensano che il loro gruppo possa dissolversi nel futuro ma sono convinti che con il loro sforzo congiunto possono ritardare o prevenire tale evento. In tal caso i membri si impegnano in attività, le attività di socializzazione dei nuovi membri e di risocializzazione dei membri marginali sono attive e simili a quelle dello stadio di performing. • adjourning pessimistico: se queste attività non hanno successo si assiste al declino delle attività, ad un’incapacità di svolgere compiti abituali, a sentimenti negativi, al rigetto per il gruppo e alla ricerca di alternative esterne. Secondo Moreland e Levine, negli stadi di forming, storming e adjourning è probabile che tutti i membri siano nella stessa fase della socializzazione mentre ciò è meno plausibile negli stadi di norming e performing. Nello stadio di norming, i membri giungono alla risoluzione dei conflitti nati nello stadio di storming, si formano una maggioranza e una minoranza in base al fatto che la prima ha vinto nella conflittualità dello storming mentre la seconda ha perso. Alla fine dello stadio di norming e all’inizio del successivo di performing, i membri della maggioranza sono percepiti come membri a pieno titolo e sono nella fase di risocializzazione di gruppo del mantenimento, mentre i membri della minoranza sono percepiti come membri marginali e sono nella fase di risocializzazione. Durante lo stadio di performing, è possibile che nuovi membri entrino ed inizino la socializzazione, che i membri marginali siano in fase di risocializzazione, che i membri marginali sui quali è fallita la risocializzazione siano in fase di uscita e di ricordo. Secondo Moreland e Levine, nella fase di socializzazione e in quella di risocializzazione vengono messe in atto attività simili: il gruppo cerca di giungere all’assimilazione insegnando ai nuovi e reinsegnando ai membri marginali. Nello stesso tempo, l’individuo cerca di produrre accomodamento nel gruppo per rendere questo il più adatto possibile alla soddisfazione dei propri bisogni. L’impatto dei cambiamenti d’appartenenza al gruppo sullo sviluppo del medesimo dipende da come sono svolte le attività di assimilazione e accomodamento, in quanto esse possono produrre effetti sia positivi che negativi sullo sviluppo di gruppo. Per esempio, l’assimilazione dei nuovi venuti e dei membri marginali richiede risorse al gruppo, se tali risorse esistono producono successo mentre succede il contrario se esiste la loro carenza. Per quanto riguarda l’accomodamento, è inevitabile che gli sforzi prodotti dai newcomers o dai membri marginali per modificare il gruppo ne influenzeranno lo sviluppo in modo positivo o negativo. 3) Modello di Worchel et al., hanno svolto un lavoro di archivio su gruppi di natura diversa: 1. Periodo di malcontento: condizione preliminare per il formarsi di un nuovo gruppo, sulla base di uno precedentemente esistente, nel quale alcuni membri cominciano ad essere delusi e apatici, come se il gruppo avesse esaurito la sua capacità di essere propositivo. Accade spesso nei gruppi che hanno raggiunto gli obiettivi prefissati. 2. Evento precipitante: è un evento per cui gli individui che formeranno un nuovo gruppo si riconoscono in un terreno d’incontro e si differenziano dai membri “centrali” del gruppo precedente (evento pubblico, espulsione di alcuni membri, adozione del gruppo do un nuovo statuto). 3. Identificazione di gruppo (omogeneità): il nuovo gruppo ricerca la propria identità, forma una struttura interna. I membri sono molto coinvolti e in questa fase il gruppo è piuttosto chiuso, richiede conformismo e rifiuta il dissenso. 4. Produttività di gruppo: il gruppo si volge alla definizione di obiettivi da raggiungere; valuta i membri in base alle competenze e la leadership viene assegnata in base alle abilità mostrate. Si volge l’attenzione anche ad altri gruppi e si accettano nuovi membri. 5. Individuazione (eterogeneità): l’interesse si sposta sugli individui poiché i vari membri cominciano a chiedersi quanto il gruppo sia per essi soddisfacente. Vi è una diminuzione dello sforzo individuale nella produttività di gruppo e una buona accoglienza dei nuovi membri. I membri cominciano a percepirsi come eterogenei ed esplorano la possibilità di ritirarsi dal gruppo ed accedere ad altri. 6. Declino: il valore del gruppo è messo in questione, si accendono competizioni, si sottolineano i fallimenti del gruppo e si diffonde l’inerzia sociale (la demotivazione a lavorare attivamente per il gruppo). Vengono create le condizioni per la fase dello scontento nella quale gli individui non hanno più motivazione per stare nel gruppo e possono lasciarsi andare a comportamenti violenti. Si tratta della fase 1 in cui gli individui si allontanano dal gruppo e possono essere poste le basi per uno nuovo. Worchel et al. sostengono che il loro modello si attaglia meglio alle condizioni dei gruppi reali e può spiegarne le dinamiche interne, che si differenziano a seconda dello stadio; il modello di Tuckman ha una generalizzazione dubbia poiché è costruito su gruppi particolari; il modello di Moreland e Levine si centra molto sul singolo ed è meno in grado di fare previsioni sulle dinamiche di gruppo. 4. Uscire da gruppi Il processo di uscita dal gruppo può essere affrontato secondo ottiche diverse, che dipendono dal tipo di gruppo e dalla posizione dell’individuo che esce. Per quanto riguarda la tipologia di gruppo, esiste una differenza tra piccolo gruppo naturale e gruppo di laboratorio, fra gruppo “obbligato” e gruppo volontario ed autonomo, fra gruppo con scadenze temporali predefinite per cui l’uscita si realizza per tutti contemporaneamente e coincide con la fine del gruppo e gruppo che continua al di là che alcuni membri escano ed altri entrino. Inoltre, esiste la realtà dei grandi gruppi (appartenenza religiosa, politica, etnica), l’appartenenza ai quali costituisce per l’individuo il nucleo dell’identità sociale. Per quanto riguarda la posizione dell’individuo che esce dal gruppo ci sono differenze fra chi esce per decisione autonoma e fra chi esce insieme a tutti gli altri perché il compito del gruppo si è esaurito, e chi deve uscire da solo perché si è esaurita la condizione che lo rendeva membro perché si è concluso un iter di appartenenza, perché l’individuo non si riconosce più nel gruppo o perché il suo livello di impegno non raggiunge quello necessario per appartenervi. Per alcuni tipi di uscita dal gruppo vi sono riti cerimoniali (servizio militare, addio al nubilato/celibato). Nella fase di uscita gli elementi da considerare sono diversi e si intrecciano in una complessa dinamica tra fattori collettivi, di gruppo e personali. Da certi gruppi è difficile uscire (gruppi politici e religiosi) in cui sono in gioco credenze e valori importanti per l’individuo; l’uscita da essi implica una ristrutturazione dei quadri di riferimento. Il prototipo di ristrutturazione (cioè di trasformazioni importanti della realtà soggettiva) è la conversione religiosa, in cui il passaggio da un insieme di credenze ad un altro deve essere sostenuto da strutture di plausibilità alternative, offerte da un nuovo gruppo cui l’individuo si affilia. Le ristrutturazioni sono sempre possibili in quanto nessun processo di socializzazione è mai perfettamente riuscito e l’individuo viene a contatto con una molteplicità di “universi simbolici” non sempre compatibili tra di loro ma il cui livello di attrazione può determinare delle transizioni nelle appartenenze di gruppo. La conversione costituisce un’esperienza di mutamento nell’appartenenza. Interviene la nuova comunità di appartenenza che fornisce l’indispensabile struttura di plausibilità per la nuova realtà. Questa relazione fra conversione e comunità è un fenomeno religioso, politico e ideologico. Le ristrutturazioni sono sempre possibili e costituiscono una parte delle ragioni per uscire da un gruppo di appartenenza. Esse costituiscono una prova ardua per l’individuo e per la sua stabilità psicologica, in quanto da un lato rimettono in gioco le appartenenze sociali, e quindi l’identità sociale dell’individuo, oltre a comportare delle sanzioni che il gruppo può attuare nei confronti dell’individuo che lo lascia; dalla’altro lato comportano un rimaneggiamento dell’identità personale, cioè di ciò che l’individuo pensa di essere globalmente come persona, con i suoi tratti idiosincratici. Berger e Luckmann affermano che nelle ristrutturazioni è coinvolto il problema del “tradimento” non solo nei confronti dell’ex gruppo ma anche nell’identità personale, costruita nel corso dei processi di socializzazione. In questa ottica del rimaneggiamento dell’identità personale e sociale, entrata ed uscita si equivalgono poiché richiedono un cambiamento nel modo in cui vediamo noi stessi e hanno implicazioni sull’autostima. Esistono appartenenze di gruppo molto salienti e poco salienti per l’individuo. Le appartenenze salienti si distinguono per il livello di partecipazione attiva dei membri, ai quali sia garantita libertà di azione e di parola, di libero scambio con gli altri membri. Un altro elemento che rende saliente un’appartenenza di gruppo è il riconoscimento di valori condivisi, come avviene in gruppi politici, religiosi e in gruppi che si riconoscono in un ideale comune. Un ulteriore elemento di “salienza” è il perseguimento di un obiettivo comune. Un altro elemento che rende più o meno saliente l’appartenenza di gruppo è la sua tonalità affettiva. Questo aspetto costruisce particolari tipi di “climi di gruppo” che hanno effetto sulla produttività e soddisfazione dei membri. Vi possono essere tonalità affettive di tipo positivo o negativo in ogni gruppo. Non in tutti i gruppi esiste il “group affective tone” che è determinato da vari fattori antecedenti (tratti disposizionali dei membri, affettività del leader, ricompense e punizioni). Quanto più l’appartenenza sarà stata contrassegnata da partecipazione attiva, adesione valoriale, riconoscimento in un obiettivo comune, tonalità affettiva, tanto più l’uscita sarà vissuta come una perdita importante, tale da richiedere all’individuo una rielaborazione dell’identità personale e sociale. Anche un piccolo gruppo che ha una temporalità limitata può determinare un’esperienza coinvolgente e la fine può essere vissuta come una perdita. Il senso di un’appartenenza di gruppo, e i suoi esiti nell’uscita, non sono sempre misurabili in termini di tempo, come non lo sono nei termini di dimensione del gruppo (grande o piccolo), né nei termini della dicotomia gruppo volontario-obbligato. 1) la tendenza a promuovere iniziative: attività e idee che vengono continuate dal resto del gruppo; chi ha uno status più elevato ha questo potere d’iniziativa molto più di chi ha uno status meno elevato. La quantità di potere d’iniziativa è direttamente proporzionale allo status dei membri di un gruppo: chi ha più potere di avviare azioni e di prendere iniziative ha lo status più elevato, chi ne ha meno sono i membri a basso status; questi ultimi per essere propositivi nel gruppo devono seguire un iter, per cui la loro proposta dovrà passare attraverso membri di status più elevato fino a giungere al leader, che deciderà il da farsi. 2) una valutazione consensuale del prestigio connesso a un certo status: nel gruppo c’è maggiore consensualità, nel senso di accordo di giudizio, soprattutto per quanto riguarda le posizioni estreme, cioè quando si considerano le posizioni più elevate e quelle più basse. Gli studi mostrano che quando intervengono eventi che incidono sulla vita del gruppo si possono osservare cambiamenti nella gerarchia di status, nel senso che i membri situati nei ranghi intermedi possono avere spostamenti verso l’alto o verso il basso. I cambiamenti di status seguono una logica posizionale, per cui se un membro di status elevato viene estromesso sarà un membro di status intermedio, un luogotenente, ad assumere una posizione più elevata e non i membri di basso status. È evidente come il prestigio connesso alle varie posizioni è un fenomeno consensuale, nel senso che tutti i membri condividono l’ordine gerarchico del gruppo, e questa condivisione permette azioni orientate alla meta. Lo status in un gruppo si produce nel tempo, attraverso alcuni comportamenti, quali l’aiutare il gruppo ad attingere i propri obiettivi, conformarsi alle regole, sacrificarsi per il gruppo, comportamenti che vengono ricompensati dal gruppo e costituiscono delle fonti di status. Il sistema di status si sviluppa rapidamente nelle prime fasi di costruzione del gruppo. I teorici della corrente “etologica” sostengono che fin dalle prime interazioni i membri di un gruppo si misurano fra loro a partire dai dati percettivi (come apparenza e contegno) che includono elementi evidenti come espressione facciale, muscolatura, statura, ma anche aspetti più sfumati come la capacità di fissare una persona finché questa non distoglie lo sguardo. Lo status può basarsi anche su caratteristiche percettive idealizzate e ammirate: gli individui attraenti fisicamente ottengono spesso un alto status; l’identità razziale minoritaria è un handicap per il raggiungimento di un alto status. I teorici degli stati d’aspettativa sostengono che i membri di un gruppo formano fin dai primi incontri un insieme di aspettative relative ai contributi che ciascuno può offrire per il raggiungimento degli obiettivi del gruppo. Sono valutate quelle caratteristiche che i membri vogliono esibire (attitudini atletico-sportive, intelligenza, esperienza) e quelle immediatamente percepibili (sesso, età, gradevolezza fisica). Le caratteristiche personali che sono più pertinenti al raggiungimento degli obiettivi avranno maggiore forza d’impatto sulle aspettative, anche le caratteristiche meno rilevanti sono prese in esame; le persone che possiedono i tratti più congruenti con gli scopi del gruppo suscitano maggiori aspettative e vengono assegnate a posizioni più elevate di status. Tali assegnazioni di status sono provvisorie in quanto richiedono le conferme operative delle aspettative formatesi. Non sempre i gruppi sono in grado di modificare rapidamente il loro sistema di aspettative e le assegnazioni di status, con la conseguenza di non pervenire al raggiungimento dell’obiettivo nei tempi prefissati. Le due correnti esplicative sulla rapida formazione di un sistema di status nel gruppo, etologica e sugli stati d’aspettativa, non sono reciprocamente esclusive. I due canali di informazioni, basati sugli aspetti percettivi e sulle aspettative, hanno entrambi un impatto sul rapido strutturarsi di posizioni differenziate nel gruppo. Nei gruppi che hanno una storia, il sistema di status si sviluppa e modifica alla prova dei fatti e nell’impatto con eventi che richiedono al gruppo l’utilizzazione di risorse diverse. Per quanto lo status venga considerato un aspetto strutturale, le osservazioni hanno mostrato che le posizioni dei vari membri possono modificarsi. Contesti non solo attinenti all’interno del gruppo ma anche sensibili al confronto con altri gruppi. La differenziazione di status ha delle funzioni: crea ordine e prevedibilità nel gruppo, coordina le varie forze in vista del raggiungimento di obiettivi, è funzionale all’autovalutazione di ogni membro che, nel confronto della propria posizione con quella degli altri, matura una valutazione di sé e aspettative concernenti le proprie capacità e valore. Le ricerche confermano l’osservazione naïve: chi ha uno status più elevato ha più autostima di chi ha un basso status, a parità di prestazioni chi ha uno status alto viene giudicato più positivamente di chi lo ha basso. Talora in queste autovalutazioni si può assistere al fenomeno di adeguamento dei propri comportamenti alle attese del gruppo, anche a rischio di svolgere prestazioni ad un livello più basso di quanto si potrebbe fare. Può accadere anche che un membro, alla ricerca di un miglioramento della propria posizione e autostima, si impegni per essere valutato più positivamente dagli altri membri e se i suoi sforzi non sortiscono alcun effetto esce dal gruppo per mantenere un buon livello di autostima. Il sistema di status, pur essendo un aspetto strutturale, relativamente stabile, non è inamovibile, poiché la vita di un gruppo è sottoposta al cambiamento, alla trasformazione. Può essere un evento esterno, come il conflitto con un altro gruppo, che modifica la gerarchia interna. 2. I ruoli nel gruppo Il ruolo riguarda i comportamenti esibiti ed attesi dei vari componenti. Il ruolo viene definito come un insieme di aspettative condivise circa il modo in cui dovrebbe comportarsi una persona che occupa una certa posizione nel gruppo. Si tratta di comportamenti attesi socialmente. Il concetto di ruolo non implica solo aspettative su come deve agire una persona in una data posizione sociale nei confronti degli altri, ma anche quelle relative a come gli altri devono agire nei confronti della persona in questione. Con l’espressione partner di ruolo ci si riferisce al “ruolo complementare”, cioè al ruolo che si relaziona in modo particolare ad un altro (il paziente è partner di ruolo del medico, il figlio del genitore). Quindi il ruolo deve essere definito come “l’insieme di attività e relazioni che ci si aspetta da parte di una persona che occupa una particolare posizione all’interno della società, e da parte di altri nei confronti della persona in questione”. L’aspetto di reciprocità che riguarda i ruoli e che definisce le aspettative sociali condivise nei loro confronti ha la propria base nella cultura o nella subcultura in cui essi vengono svolti. Un esempio è l’esperimento di Zimbardo et al. sulla Stanford Prison. Questo esperimento mostra come i comportamenti relativi ad un ruolo siano influenzati dai modelli della cultura di appartenenza, che generano aspettative condivise. Il ruolo definisce un insieme di aspettative comportamentali condivise; in tal modo la vita di un gruppo può avere ordine e prevedibilità, assegnando ad ognuno compiti specifici nell’ottica di una divisione del lavoro, funzionale al raggiungimento degli obiettivi. Nei ruoli formali vi sono aspetti definiti, per quanto i vari individui possono introdurre elementi più personali (nei racconti di sopravvissuti ai lager compare talora il ricordo carcerieri dal volto umano). I ruoli non sono svolti da tutti gli attori con le stesse modalità. Per esempio, nel ruolo dell’insegnante non si può prevedere come ciascuno eserciterà il suo ruolo. Per quanto tutti gli insegnanti abbiano due subruoli fondamentali di istruttore e di disciplinatore, vi sono vari stili di ruolo fra gli insegnanti, cioè ciascuno svolge il proprio ruolo in modo unico comportandosi con un certo grado di coerenza nelle varie occasioni (tipologie di stili di ruolo: patriarca, sostituto parentale, tiranno, facile bersaglio, “adulto gentile”); lo stile di ruolo rientra negli aspetti soggettivi di interpretazione del ruolo e ha a che fare con le caratteristiche personali, i valori, i modelli di colui che lo svolge. Nei piccoli gruppi informali esistono dei ruoli informali in quanto non sono soggetti ad un copione stabilito istituzionalmente. In quasi tutti i gruppi possono essere rinvenuti alcuni ruoli: leader, nuovo arrivato e capro espiatorio. Il capro espiatorio permette agli altri membri di risolvere i propri conflitti interiori riguardo all’integrazione delle parti negative nell’immagine di sé, proiettandole sul capro espiatorio (funzione protettiva per il gruppo stesso). Una differenziazione di ruoli nel gruppo può essere svolta sull’asse strumentale-espressivo; alcuni membri giocano ruoli di tipo espressivo, in cui è evidente la componente socio emozionale. Bales sostiene che nel gruppo le attività orientate al compito possono produrre frizioni e malumori. In questi momenti è importante che qualcuno allenti la tensione con battute ed ironia, che servono a sdrammatizzare. Fra i ruoli informali di un piccolo gruppo c’è quello del clown, del burlone, un ruolo socioemozionale che serve a mitigare le tensioni pur avanzando critiche con l’ironia. È probabile che nel gruppo che perdura nel tempo i membri si scavino una nicchia ecologica, si trovino un ruolo che tende a stabilizzarsi anche per il consenso degli altri. Alcuni individui ricoprono un ruolo in un gruppo e un altro diverso in un altro gruppo. A volte si trovano partecipanti che non sono centrati né sul compito né sulle relazioni, non danno contributi rilevanti su nessuno dei due estremi. Nella dinamica di un gruppo sono funzionali anche i partecipanti meno definibili in termini di ruolo consensualmente stabilito, individui che tendono a passare inosservati. Talora essi sotto la spinta di eventi possono mettere in atto comportamenti che li valorizzano o de valorizzano agli occhi degli altri, assegnando loro un nuovo ruolo nel gruppo. Esiste talora un ruolo che può essere definito di leader d’opposizione, cioè qualcuno che nelle interazioni presenta spesso un punto di vista oppositivo e divergente, che senza avere la forza di divenire una definizione alternativa per l’agire di gruppo, procura attriti. Si tratta di individui che non sono leader ma aspirano ad esserlo pur non possedendo le capacità richieste in quella situazione, che non sono tuttavia sprovvisti totalmente di potere nel gruppo. Talora il leader d’opposizione raccoglie qualche seguace come elemento che aggrega dissenso. I ruoli suscitano conflitti nei gruppi, i conflitti possono nascere nella fase di assegnazione dei ruoli o può esservi disaccordo fra i membri sulle modalità con cui dovrebbe essere svolto un ruolo o di chi dovrebbe giocarlo. Vi sono conflitti anche a livello individuale, quando una persona comincia a svolgere un ruolo e perde motivazione e abilità in itinere o prende coscienza che esso è contraddittorio con i ruoli che essa già svolge. I conflitti di ruolo nei gruppi di lavoro producono un aumento delle tensioni e un decremento della produttività. I ruoli hanno tre funzioni: 1) facilitare il raggiungimento dello scopo di gruppo, poiché i ruoli dividono la mole di lavoro fra i vari membri. 2) portare ordine e prevedibilità nel gruppo, in quanto i ruoli si basano su aspettative condivise e in questo modo tutti sanno cosa aspettarsi e da chi. una lunga storia reagiscono uniformemente mentre i gruppi appena formati non presentano questa omogeneità. 4) la definizione delle relazioni con l’ambiente sociale: la realtà sociale costruita nel gruppo permette di giungere ad un consenso riguardo alle relazioni con gli altri gruppi, che porta a decidere quali gruppi possono essere considerati amici o nemici, quali gruppi sono scelti per il confronto sociale e quale è il risultato di tali confronti, quanto l’appartenenza al gruppo fornisce elementi autovalutativi ai singoli partecipanti. In organizzazioni ampie (industrie, scuola) nascono dei gruppi, delle “cricche”, che esprimono norme divergenti rispetto all’organizzazione più vasta di appartenenza. Cartwright e Zander sostengono che si tratta di gruppi di mutua difesa, composti da individui che fronteggiano il senso di frustrazione e insuccesso costruendo norme divergenti a quelle del gruppo più ampio di appartenenza. Le norme hanno un carattere specifico nel gruppo poiché da un lato sono costruite e ricostruite nel corso di negoziazioni dirette e indirette. Dall’altro “preesistono” all’individuo e costituiscono un parametro di riferimento, con cui i nuovi membri del gruppo devono confrontarsi e scegliere se adeguarvisi, tentare di cambiarle, rifiutarle con varie strategie (ribellione, formazione di sottogruppi con norme divergenti, resistenza passiva). Le norme mostrano una resistenza al cambiamento. Nonostante ciò possono anche cambiare sotto la spinta di eventi particolari, ma anche in funzione delle caratteristiche del gruppo (come se il gruppo sia aperto o chiuso). Nei gruppi chiusi un nuovo arrivato è ignorato, mentre nei gruppi aperti è fatto oggetto di attenzioni e di ascolto. Nel primo caso è difficile che le norme subiscano trasformazioni, nel secondo è possibile che le risorse del nuovo venuto portino un cambiamento, che può trasformare le norme del gruppo. Fu Lewin a mostrare l’importanza dell’impegno e della partecipazione dei membri nel mutare gli standard di gruppo. Il mutamento di comportamenti governati da norme di gruppo passa attraverso tre fasi: “disgelamento” del campo di forze esistente, movimento verso un nuovo livello di equilibrio, “congelamento” degli standard di gruppo sul nuovo livello. Una variabile determinante per cambiare abitudini alimentari, per incrementare la produttività, per promuovere pratiche preventive di salute…è la partecipazione a discussioni di gruppo che si concludono con una decisione e un impegno di tutto il gruppo; è molto più probabile cambiare comportamenti e norme quando si realizza questo impegno collettivo. Dunque le norme sono un prodotto collettivo, come pure la resistenza e la possibilità di cambiarle. 4. Comunicare in gruppo: strutture e reti di comunicazione La comunicazione, come scambio di significati, è un elemento costitutivo del gruppo. Questi scambi di significato sono responsabili della sua unità e della sua stessa vita. Le comunicazioni sono la trama, la causa e il riflesso della struttura interna del gruppo, collegando e determinando le relazioni interpersonali. Processi di gruppo fondamentali non potrebbero realizzarsi se mancasse la comunicazione. Moscovici e Doise sostengono il significato della partecipazione sociale come motore di innovazione e cambiamento e il suo strumento è la discussione, considerata come “un rito di comunicazione che riunisce i membri di un gruppo”. La discussione dà ad ognuno la possibilità di prendere parte alle vicende del gruppo e su di essa si fonda il consenso. Berger e Luckmann vedono la conversazione come il veicolo più importante della preservazione della realtà soggettiva e intersoggettiva. Per essere efficace, nel senso di preservazione della realtà, l’apparato della conversazione deve essere continuo e coerente. Festinger parla di costruzione della realtà sociale nel gruppo riferendosi alla molteplicità degli scambi di idee, opinioni, la cui convergenza porta i membri a condividere una realtà comune. Conversazioni e discussioni sono la base per la costruzione sociale della realtà e per rendere partecipi gli individui. Senza comunicazione non esiste il gruppo. Flament distingue fra due concetti: • rete di comunicazione (possibilità di comunicazione): insieme di canali di comunicazione presenti nel gruppo, i “canali” sono l’insieme delle condizioni materiali che rendono possibile il passaggio di informazioni. Una rete di comunicazione è un insieme di possibilità materiali di comunicazione. • struttura di comunicazione (realtà di comunicazione): insieme di comunicazioni che si sono effettivamente scambiate nel gruppo. Per osservare una struttura di comunicazioni è necessario registrare la frequenza degli scambi, il contenuto, il luogo e il momento degli scambi. Non è detto che la presenza di una rete di comunicazione è sufficiente perché si passi ad una struttura di comunicazione. Moscovici e Doise hanno osservato l’influenza che lo spazio esercita sugli scambi comunicativi di gruppo: la grandezza della stanza, arredi, aspetto familiare o solenne o asettico hanno un impatto sul gruppo, rendendola calda o fredda. Mettere le persone intorno ad un tavolo rotondo, quadrato o rettangolare determina un effetto diverso: i primi due sopprimono la gerarchia, il terzo suggerisce ordine da rispettare e costruisce le distanze. Un esperimento di Moscovici e Lécuyer ha esplorato quale influenza ha sul processo decisionale di gruppo uno spazio caldo ed uno freddo. Nel primo, gli individui sono seduti uno di fronte all’altro (condizione a quadrato), nel secondo sono seduti uno di fianco all’altro (condizione allineamento). L’ipotesi era che l’interazione e l’implicazione sarebbero state più forti nella condizione a quadrato. I risultati hanno mostrato che la polarizzazione dei soggetti è più forte quando sono disposti a quadrato, faccia a faccia, che non quando sono allineati, poiché la prima disposizione spaziale favorisce gli scambi, l’implicazione personale e l’oggetto da discutere appare più concreto, mentre nella seconda la comunicazione è meno attiva. Esistono altri fattori che incidono sulla qualità e l’intensità degli scambi comunicativi, come le modalità con cui è condotta la discussione. La discussione può essere spontanea, centrata prevalentemente sui contenuti scambiati, senza costrizione di limiti di tempo o più centrata sulle procedure con cui si arriva alla decisione e meno sui contenuti e vincolata da limiti di tempo. C’è modo e modo di comunicare, esistono scambi caldi e freddi, spontanei o regolamentati da vincoli procedurali e temporali; a seconda di tali elementi gli individui giungono a prodotti diversi, consensuali o compromissori per quanto riguarda le decisioni collettive, poiché il clima che si crea nel gruppo dipende dal livello di partecipazione sollecitato. Moscovici e Doise distinguono due tipi: ▪ partecipazione consensuale: situazione in cui tutti i membri del gruppo possono esprimere le proprie posizioni senza preoccupazioni procedurali, senza che la maggioranza parta avvantaggiate e la minoranza svantaggiata, senza limiti esterni; ▪ partecipazione normalizzata: le possibilità di accedere alla discussione sono regolamentate dalla gerarchia nel gruppo a seconda dello status e a seconda delle competenze assegnate a priori. Con la prima gli scambi sono accesi, i membri si sentono personalmente implicati nella discussione, non hanno timore di esplicitare punti di vista divergenti, anche se crea spesso confusione e disordine. In questi scambi accesi si delinea l’innovazione e si esplicita l’energia di gruppo. La seconda produce scambi ordinati, i punti di vista conflittuali non emergono, coloro che hanno basso status non si oppongono ai membri di alto status. Produce reticenze e scarso coinvolgimento degli individui; le decisioni sono spesso scontate, determinate dalla leadership e avvallate dal gruppo. Scegliere tra una forma di partecipazione e l’altra è una questione di circostanze. Flament, partendo dalla distinzione fra reti e strutture di comunicazione, distingue alcuni contributi storici allo studio delle comunicazioni di gruppo: ♦ Bales et al. studiarono le strutture di comunicazione nei piccoli gruppi di discussione libera; con il suo strumento di osservazione e di analisi dei processi d’interazionem l’IPA (Inetraction Process Analysis), Bales suddivide l’interazione di un gruppo in atti microscopici, cioè in segmenti di comportamento significativi e percepibili ad un osservatore, quali espressioni verbali e comportamenti non verbali. Questi atti vengono codificati in 12 categorie: • area socioemozionale positiva comprende: dimostrare solidarietà, allentare le tensioni e mostrarsi d’accordo. • area del compito comprende: dare suggerimenti, esprimere opinioni, fornire degli orientamenti, chiedere degli orientamenti, chiedere delle opinioni, chiedere dei suggerimenti. • area sociemozionale negativa comprende: disapprovare, esprimere tensione, mostrare antagonismo. Con questo strumento si conta il numero di comunicazioni che ogni membro rivolge a ciascun altro membro del gruppo nel corso di una discussione. Alla fine permette di conoscere quante comunicazioni sono state emesse da ciascun membro e quante ne ha ricevute, con quali membri il flusso comunicativo è stato più forte. Ad esempio si può affermare che un individuo che ha svolto più atti comunicativi di tutti e più di tutti ne ha ricevuti è il leader. ♦ Festinger e Schachter si sono occupati di alcuni processi di comunicazione, mettendoli in relazione con altri fenomeni di gruppi (coesione e rigetto delle posizioni devianti per mantenere la compattezza). Secondo le ipotesi nel gruppo le correnti di maggioranza avrebbero rivolto più comunicazioni nei confronti della minoranza deviante per persuaderla e salvare la coesione del gruppo. Se la minoranza dissidente non fosse tornata nei ranghi, il gruppo avrebbe messo in atto nei suoi confronti meccanismi di espulsione simbolica e concreta. Attraverso questi lavori la comunicazione viene utilizzata come cartina di tornasole per evidenziare altri fenomeni di gruppo (trattamento riservato ai devianti e sforzo di mantenere la coesione). ♦ Bavelas e Leavitt hanno studiato le reti di comunicazione. Secondo gli autori i gruppi non agiscono allo stesso modo nelle diverse reti di comunicazione. La situazione sperimentale è composta da un gruppo di cinque persone sedute ad un tavolo pentagonale e separate da un dispositivo, costituito da cinque pannelli verticali disposti a raggiera, che impedisce loro di vedersi. Nei pannelli vi sono finestrelle attraverso le quali i soggetti possono inviarsi dei 1. Le teorie del “grande uomo” ovvero l’approccio dei tratti L’idea sottostante a questo approccio è che esistono negli individui delle propensioni “naturali” all’esercizio del comando che alcuni hanno e altri no. L’approccio dei tratti consiste nel sottolineare le qualità personali del leader. Stogdill ha identificato i tratti correlati positivamente con la leadership: intelligenza, vigilanza, intuizione, responsabilità, iniziativa, pertinacia, fiducia in sé, socievolezza, forza e tenacia nel perseguimento degli obiettivi, temerarietà e originalità nel problem solving, sentimento di identità personale, disponibilità ad accettare le conseguenze di decisioni ed azioni, prontezza nell’assorbire lo stress, capacità di tollerare frustrazioni e ritardi, abilità nell’influenzare il comportamento altrui, capacità di strutturare il sistema d’interazioni sociali in vista del risultato. Altri autori hanno messo in luce altre caratteristiche come: mascolinità, dominanza, grinta, desiderio di comandare, onestà e integrità, abilità cognitiva. Secondo Bodiou, la leadership è una strategia identitaria, che permette all’individuo di soddisfare certi suoi bisogni (rinforzo dell’immagine di sé, valorizzazione di sé, desiderio di contare agli occhi degli altri. Nella costruzione dell’identità personale, gli individui devono necessariamente ricorrere agli altri, che confermano o non confermano ciò che l’individuo pensa di sé. Ciò comporta una certa “visibilità sociale” che secondo Moscovici costituisce la preoccupazione principale di ogni individuo, il bisogno di sentire di contare agli occhi degli altri. nel gruppo la visibilità sociale si conquista con la parola, il leader parla più degli altri. Lo status di leader risponde anche ai bisogni del gruppo, che necessita di alcune funzioni che il leader esercita, come perseguire gli obiettivi stabiliti, coordinare le risorse, che danno al gruppo stabilità e sicurezza. Si diventerebbe leader per una specie di contratto interattivo che Oberlé definisce come “transazione implicita”, fra il leader e il suo gruppo. Bodiou vede nella leadership un processo dinamico ed evolutivo, che è il risultato di strategie individuali, interpersonali e di gruppo. Questa concezione del processo di leadership come strategia identitaria può attagliarsi a situazioni di piccoli gruppi informali o di gruppi di formazione temporanei. L’approccio dei tratti ha debolezza concettuali e metodologiche. La prima è che prende in considerazione solo il leader, tralasciando gli altri elementi del processo, cioè i componenti del gruppo (i seguaci) e le situazioni, i contesti in cui si afferma un certo leader. Le persone che possiedono certe qualità possono diventare leader in certe situazioni ma non in altre; o alcune persone possono avere dei tratti che li rendono leader ma non avere alcune caratteristiche che permettono loro di conservare nel tempo la leadership. Un ulteriore aspetto critico è che l’approccio dei tratti si limita ad elenchi descrittivi delle qualità del leader ma non si occupa di come queste influenzano i membri del gruppo, la loro produttività e il livello di soddisfazione. Per cui non possiamo sapere se quel leader potrà portare al successo il suo gruppo. Poiché i tratti sono considerati delle strutture psicologiche relativamente stabili, non c’è grande spazio per l’apprendimento e lo sviluppo delle caratteristiche utili per essere dei buoni leader. È difficile pensare a tecniche che mirino allo sviluppo di tali tratti. Secondo Avallone, se ci si limita ad una visione dei tratti non si capisce come possano avere gli stessi tratti personali dei leader che falliscono, dei leader che hanno successo e degli individui che non diventano mai leader. La prospettiva teorica dei tratti ha una difficoltà concettuale di fondo: il significato attribuito al “tratto” diverge da ricerca a ricerca; esiste una scarsa consensualità sulla definizione e sulla operazionalizzazione e misurazione delle nozioni dei tratti. Un’ulteriore difficoltà è che i tratti non sono degli elementi statici ma dinamici in quanto si esprimono in un contesto interpersonale che può elicitarne o meno l’espressione e che può giudicarli più o meno adeguati al momento. Staccare il leader dai fattori situazionali è irrealistico, perché trascura un dato essenziale cioè ce la leadership è un processo interattivo. L’insoddisfazione per l’approccio dei tratti condusse a due filoni di studio sulla leadership interrelati: le ricerche sul comportamento del leader e l’approccio situazionista. 2. I comportamenti del leader Una ricerca è quella di Lewin, Lippitt e White su tre stili di leadership: autocratica, democratica e permissiva. La situazione sperimentale era un doposcuola per preadolescenti, in cui i collaboratori di Lewin si alternavano alla guida di un gruppo, conservando per sette settimane uno stile coerente di leadership. Ogni collaboratore cambiando gruppo cambiava stile di leadership. Il leader autocratico organizza e dirige ogni attività, resta distaccato dai ragazzi, tende ad inibire le comunicazioni fra coetanei, non rende gli allievi partecipi del progetto operativo. Il leader democratico discute con il gruppo ogni decisione ed attività, è amichevole e disponibile, non inibisce i contatti fra pari, rende partecipativi i membri del gruppo. Il leader permissivo interviene pochissimo nelle attività di gruppo, lasciando questo libero di agire. I risultati sono osservati a proposito di due variabili: produttività di gruppo e clima sociale. I gruppi a leadership autocratica presentarono un buon livello di produttività ma il clima era contrassegnato da aggressività fra pari, marcata dipendenza per il conduttore, che si manifestava nella sospensione di ogni attività quando questi si assentava. I gruppi a leadership democratica avevano un discreto livello produttivo, mostrarono capacità di autogestione in assenza del leader e il clima era sereno. I gruppi a conduzione permissiva ebbero bassi livelli produttivi e il clima poteva essere a tratti caotico con qualche esplosione di aggressività. Il leader permissivo è meno preferito di quello democratico; la leadership democratica oltre a produrre la più alta motivazione al lavoro, esprime prodotti più originali e creativi della leadership autocratica. Il clima sociale dei gruppi a conduzione autocratica appare il più negativo; il clima sociale dei gruppi a conduzione democratica è il più positivo. Stodgill, Fleishman e Hemphill attraverso il LBDQ (Leader Behavior Description Questionnaire) chiedevano ai “subordinate” di descrivere i loro capi sulla base della frequenza con cui esbivano ciascuno dei novi comportamenti elencati nel questionario; le analisi evidenziarono quattro fattori: 1) considerazione: include i comportamenti come aiutare i sottoposti, porre attenzione alla loro sicurezza sociale, fare loro dei favori, spiegare le cose, essere amichevoli e disponibili. 2) dare origine a una struttura: include i comportamenti come portare i sottoposti a seguire le regole e procedere, mantenere gli standard produttivi, rendere espliciti i ruoli. 3) enfasi sulla produzione 4) sensibilità La considerazione può essere ritenuta come relativa alle “relazioni umane”, e il dare origine ad una struttura come un “centraggio sul compito”, questi due fattori appaiono indipendenti. Le indagini successive misero in dubbio tale prospettiva, mostrando che le dimensioni del centraggio sulle relazioni e sul compito risultano separate e quindi un leader può avere alti punteggi sia su una che su entrambe. Stodgill nell’esaminare le correlazioni fra queste due dimensioni e la produttività, la soddisfazione e la coesione di gruppo trovò correlazioni positive, al punto che concluse che i leader più efficienti tendono ad essere descritti come alti in entrambe le scale. Blake e Mouton idearono la Leadership Grid (Griglia Manageriale) per valutare lo stile di comando dei dirigenti, che include come fattori indipendenti l’ “interesse per le persone” e l’ “interesse per la produzione”. Ciascuna di queste dimensioni è misurata in una scala a 9 punti e rappresentata lungo due assi. Da questa griglia appaiono cinque stili di ledersi: 1. povero: è basso sia l’interesse per le persone sia quello per la produzione. I leader cercano di fare il minimo sforzo per far eseguire il lavoro, cercano di evitare i problemi e passare inosservati; 2. circolo ricreativo: è alto l’orientamento alle persone e basso quello per la produzione. I leader sono amichevoli, cercano di creare un’atmosfera confortevole e il ritmo di lavoro è rilassato; 3. orientato al compito: è alto l’interesse per la produzione e basso quello per le persone. I leader organizzano il lavoro in modo da raggiungere nel minor tempo gli scopi prefissati; 4. metà strada: il leader mostra un interesse medio per il compito e per la relazione, non trascura né gli obiettivi aziendali né le relazioni con i dipendenti; 5. team o squadra: è alto sia l’orientamento alla produzione sia quello alle persone. I leader possono ottenere buoni risultati in un clima di soddisfazione e fiducia. Emerse che lo stile di leadership più efficace è quello che ottiene valutazioni più elevate nella considerazione verso gli altri e nel centraggio sul compito. Ricerche successive non confermarono questo assunto poiché altri fattori di tipo organizzativo, relativi alle situazioni in cui si esercita una funzione di comando, possono intervenire nel determinare l’efficienza di uno stile di leadership. Inoltre, la descrizione del comportamento del leader è relativa alle percezioni o atteggiamenti dei seguaci più che a una misura diretta del comportamento. Lo stesso comportamento non può essere efficace in tutte le situazioni. L’approccio allo studio della leadership mette in ombra che le situazioni concrete costituiscono una variabile importante, tale da decretare il successo o il fallimento di uno stile di leadership. 3. L’approccio situazionista L’approccio situazionista cerca di definire cosa sia richiesto ad un leader nella situazioni in cui si trova, quali siano i tratti o le caratteristiche che la situazione richiede. Il leader ha bisogno di ricoprire funzioni diverse in situazioni che contemplano compiti diversi. Il focus attentivo si sposta sulle circostanze ambientali, sulle situazioni in cui si svolge il processo di leadership. Hemphill afferma che non esistono leader in assoluto, poiché una leadership di successo richiede di far fronte alle esigenze avanzate dal tipo di gruppo da condurre. Il leader deve avere un livello di competenza accettabile nel compito che il gruppo deve svolgere. La natura del compito è uno dei fattori situazionali più importanti, vi sono anche altri fattori rilevanti che riguardano la storia passata del gruppo e il suo feeling tone, cioè il suo clima affettivo. Altri fattori situazionali sono il tipo di relazioni interne al gruppo (competitive o cooperative) che porteranno ad effetti diversi e l’ampiezza del gruppo. Inoltre, la leadership può subire l’effetto dello stadio di sviluppo in cui il gruppo si trova. Esistono gli aspetti di contesto complessivo, esterno, che costituiscono elementi che concorrono nel definire differentemente la situazione, come un periodo di crescita o di depressione economica, o un ambiente sociale stabile o instabile. impegno e spinta al cambiamento a secondo che tale partecipazione sia consensuale o normalizzata. I fattori situazionali che il leader deve considerare per un processo di presa di decisione appropriato sono otto: - importanza della qualità decisionale - quantità di informazione che il leader possiede per giungere da solo ad una decisione di alta qualità - quantità di informazioni che i subordinati possiedono per giungere ad una decisione di alta qualità - chiarezza con cui è strutturato il problema - grado di accettazione dei subordinati per implementare la decisione - probabilità che una decisione presa dal solo leader venga poi accettata dai subordinati - livello di motivazione dei subordinati rispetto alla soluzione del problema - livello di disaccordo fra i subordinati riguardo alle soluzioni preferite. A seconda di come valuta la situazione, sulla base dei fattori appena esaminati, il leader adotta uno stile piuttosto che un altro. Rispetto al modello di Fiedler, quello di Vroom e Yetton accorda un interesse maggiore al livello di partecipazione dei subordinati, rispetto ai quali vengono considerati sia elementi antecedenti la decisione sia elementi successivi alla decisione. Vroom e Yetton, sulla base del loro modello hanno sviluppato un programma di formazione allo scopo di avere manager preparati a differenziare le varie situazioni e ad adottare stili decisionali diversi. Questo programma ha portato al sorprendente risultato che l’uso delle regole decisionali del modello portava ad adottare più degli stili di leadership autocratica che partecipativa. Anche tale modello è stato sottoposto a critiche sul piano metodologico e teorico. Ad esempio non è facile stabilire la qualità di una decisione. Il modello si presenta più come una tecnica per far discutere i manager sui loro modi di prendere decisioni, che come un modello per prendere le decisioni in una certa situazione. Il merito di Vroom e Yetton è stato di aver mostrato che vi possono essere vari stili di leadership, nessuno valido in assoluto ma efficaci a seconda della situazione. 3) Path-goal theory Evans aveva osservato che i leader possono influenzare la prestazione e la soddisfazione dei subordinati incentivando la loro motivazione. I leader influenzano la percezione dei subordinati rispetto al “sentiero verso l’obiettivo” (path-goal), aiutandoli ad identificare un percorso per raggiungere gli obiettivi. House e Mitchell hanno ampliato questa prospettiva analizzando i comportamenti del leader per incrementare la motivazione dei subordinati, includendo i seguenti fattori contingenti: • caratteristiche dei subordinati nei termini di disponibilità ad essere guidati, abilità in certe aree del compito, fiducia in sé, bisogni individuali, stile attribuzionale personale, per cui il locus of control è interno o esterno; • fattori del contesto, in cui sono compresi il tipo di compito e di gruppo. Altri fattori di contesto sono le caratteristiche del principale gruppo di lavoro, il sistema d’autorità formale dell’organizzazione. Nella path-goal theory due sono gli assunti di base: primo, il comportamento del leader sarà accettabile per i sottoposti se essi lo considerano idoneo a soddisfare i loro bisogni; secondo, il comportamento del leader risulta motivante per i subordinati quando è in grado di far loro comprendere che la soddisfazione dei loro bisogni va di pari passo con il raggiungimento dell’efficacia produttiva. Il leader offre guida e supporto e utilizza le ricompense come mezzi per rendere più facile il cammino, rimuove i blocchi che lo ostacolano, aumenta le soddisfazioni dei subordinati. Per assumere una funzione motivante e di guida, i leader possono adottare quattro forme di leadership in rapporto alle caratteristiche situazionali: ▪ leadership strumentale: con questo stile orientato al compito, il leader pianifica il lavoro, fornisce spiegazioni, controlla. Uno stile simile funziona quando il compito è poco strutturato o molto complesso, i subordinati hanno punteggi elevati nelle scale di autoritarismo o hanno aspettative basse o sperimentano un’alta ambiguità di ruolo. ▪ leadership supportiva: è orientata a creare un clima di lavoro sereno e a considerare i bisogni dei subordinati. Questo stile è utile quando il compito è strutturato o noioso o i collaboratori hanno elevato bisogno di riconoscimento sociale. ▪ leadership orientata ai risultati: il leader ha elevate aspettative nei confronti dei subordinati e cerca di incentivarli di continuo. Questo stile funziona con subordinati molto orientati alla realizzazione personale, ma può motivare anche coloro che hanno poca fiducia in sé e poco orientamento al successo. ▪ leadership partecipativa: come quella supportiva è orientata alle relazioni. Il leader mette in comune con i collaboratori le informazioni, li interpella, ascolta i loro pareri. Questo stile funziona con i collaboratori dal locus of control interno e che hanno fiducia nei processi di partecipazione. Questi quattro stili di leadership possono essere assunti volta per volta dallo stesso leader, in base alla situazione. Nella path-goal theory viene accordato più ampio spazio alle caratteristiche dei collaboratori che insieme a quelle del contesto determinano la scleta dello stile di una ledersi efficace. 4) Modello di Hersey e Blanchard La Situational Leadership Theory si focalizza sulla corrispondenza fra stile della leadership e caratteristiche dei membri. Per essere efficace, il leader deve adattare il suo stile al livello di maturità dei membri del gruppo, che viene definita come capacità di porsi mete alte ma raggiungibili, di prendersi responsabilità, di mettere a frutto esperienze. Gli stili di leadership sono quattro e nascono dalla combinazione di due comportamenti: di sostegno (centrato sulle relazioni) e direttivo, di guida (centrato sul compito). • telling: stile prescrittivo, contrassegnato da molta guida e poco sostegno, per cui il capo dà ordini, usa comunicazioni ad una via, fissa gli obiettivi, controlla i risultati, non delega. È adatto a gruppi con bassa maturità, formati da collaboratori poco capaci, poco sicuri di sé, riluttanti ad assumersi responsabilità. • selling: stile contrassegnato da molta guida e molto sostegno, per cui il leadership definisce il lavoro in modo preciso ma tiene anche in considerazione i sottoposti, usa comunicazioni a due vie, incoraggia, aiuta, fornisce supporto. È adatto a gruppi con maturità medio-bassa, formate da persone di buona volontà, disposte ad assumersi responsabilità, fiduciose in sé, ma poco esperte nel compito, per cui il capo deve essere molto direttivo per quanto concerne l’organizzazione del lavoro, ma anche supportivo. • participating: stile partecipativo caratterizzato da poca guida e molto sostegno; c’è centraggio forte sulle relazioni interpersonali, ai collaboratori vengono offerti incoraggiamento, aiuto, sostegno, in modo tale che essi possano da soli organizzare il lavoro. si adatta a gruppi con maturità medio-alta. Si tratta di individui ad elevata maturità professionale ma con minore maturità psicologica, per cui il leader deve essere in grado di motivare e coinvolgere. • delegating: stile caratterizzato da poca guida e poco sostegno, in cui il leader lascia che i collaboratori organizzino il proprio lavoro e non fornisce loro supporti o incoraggiamenti. Si attaglia ai gruppi con maturità alta sia riguardo il compito sia gli aspetti psicologici. I collaboratori hanno grande autonomia professionale e senza dipendenze emozionali. Le critiche che si possono muovere a tutti i modelli della contingenza sono relative al fatto che i fattori situazionali considerati sono solo una selezione di tutti i possibili fattori. Anche lo stile di leadership è un problema. Si parte dall’assunto che il leader possa essere flessibile al punto da giostrarsi fra comportamenti direttivi e partecipativi, a seconda delle sue abilità nel decodificare la situazione. I modelli della contingenza restano approcci orientati sul leader. 5. Le teorie transazionali e le teorie dello scambio Le teorie transazionali e dello scambio si basano sull’idea che le relazioni fra leader e membri si sviluppano e si mantengono attraverso un reciproco scambio di risorse significative. Viene dato spazio ai followers, che contribuiscono al processo di leadership. Le teorie transazionali sottolineano l’interazione reciproca fra leader e subordinati. Il termine transazione si riferisce allo scambio sociale che avviene fra leader e seguaci e sottolinea un ruolo più attivo di questi ultimi in tale relazione. 1- Teoria di Hollander Il modello del credito idiosincratico appunta l’attenzione sulle fonti di status, status che viene guadagnato fra i seguaci, e sulla base del quale il leader può apportare innovazioni al gruppo. Il credito idiosincratico, è la credibilità personale che il leader conquista presso i followers e riguarda quattro punti: ▪ conformismo iniziale: il leader, o l’aspirante tale, deve inizialmente conformarsi alle norme del gruppo per acquistare l’influenza necessaria per poi eventualmente cambiarle. Il guadagnare o meno una posizione di leadership dipenderà dalla capacità che l’individuo dimostra nel condurre ad azioni di successo; saranno giudicati ben diversamente dal gruppo atti di non conformità produttivi ed efficaci per il gruppo rispetto ad atti di non conformità che conducono al fallimento delle iniziative; ▪ competenza: il leader deve dare prova di contribuire al principale compito del gruppo con le competenze di cui dispone. Conformità e competenza si intrecciano: se l’individuo non conformista ha abilità sufficienti per condurre il gruppo al raggiungimento degli obiettivi, egli può guadagnare influenza. A meno che non arrivi 6. Leadership trasformazionale e leadership carismatica L’approccio trasformazionale è iniziato con il lavoro del sociologo Burns che considera i leader come individui che stimolano le motivazioni dei seguaci allo scopo di raggiungere sia i propri scopi sia quelli dei seguaci. La leadership si distingue dal potere in quanto essa è inestricabilmente legata ai bisogni dei seguaci. Si distingue fra ledersi transazionale e leadership trasformazionale. La prima è centrata sugli scambi, le negoziazioni, per cui il leader acquista un vantaggio concedendo qualcosa ai seguaci (manager che dà promozioni agli impiegati che raggiungono obiettivi elevati). La seconda si riferisce ad un processo per cui il leader si impegna attivamente con i suoi seguaci. Si tratta di un leader attento ai bisogni, alle motivazioni e alle potenzialità delle persone subordinate (Gandhi). Con la nozione di leader trasformazionale ci si riferisce ad un processo che trasforma gli individui sia il leader sia i suoi seguaci. Sono presenti valori, prospettive etiche, scopi a lungo termine. La teoria della leadership carismatica di House sostiene che il leader carismatico ha speciali caratteristiche: dominanza, desiderio di influenzare gli altri, fiducia in sé, consapevolezza dei propri valori morali. Questo set di tratti si concretizza nei seguenti comportamenti dei leader carismatici: - forniscono forti modelli di ruolo ai seguaci allo scopo di permettere loro l’adozione di particolari credenze e valori (Francesco d’Assisi – Gandhi); - mostrano livelli di competenza elevati ai seguaci (Napoleone); - esprimono scopi ideologici che hanno implicazioni morali (Martin Luther King); - hanno capacità di comunicare ai seguaci un elevato grado di aspettative nei loro confronti e hanno fiducia nelle loro capacità di rispondere a tali attese; questo ha impatto sui seguaci che incrementano competenza ed efficacia personale; - sono in grado di attivare le motivazioni rilevanti per l’esecuzione del compito nei seguaci, che possono includere sentimenti di affiliazione e appartenenza, desiderio di potere e di autostima. Gli effetti della leadership carismatica sui seguaci sono potenti. Dal lato dell’appartenenza al gruppo nei termini di ideali condivisi e di scopo da raggiungere, vi è fiducia nell’ideologia del leader, similarità nelle credenze dei seguaci a quelle del leader; dal lato dei comportamenti e dei sentimenti verso il elader i seguaci mostrano incondizionata accettazione della sua leadership, che giunge all’obbedienza e all’identificazione, e inoltre essi sono coinvolti emozionalmente e nutrono un affetto che può giungere alla devozione. Bass ritiene che leadership transazionale e trasformazionale non siano indipendenti ma elementi di un continuum, per quanto concordi sul fatto che la leadership trasformazionale supera la logica dello scambio insista nella leadership transazionale. Il carisma è una condizione necessaria ma non sufficiente per una leadership trasformazionale. Nel continuum della leadership, che va dalla leadership trasformazionale a quella transazionale alla non-leadership, questi autori individuano sette fattori: a) fattori di ledership trasformazionale comprendono quattro fattori conosciuti come le “quattro I”: Idealized influence, Inspirational motivation, Intellectual stimulation, Individualized consideration. • Influenza idealizzata: i leader mettono in atto comportamenti tali da renderli modelli di ruolo per i collaboratori. Sono molto rispettati, hanno standard elevati di condotta morale ed etica, antepongono i bisogni egli altri ai propri, forniscono ai seguaci una “visione” e un senso della “missione” (Nelson Mandela). • Motivazione ispirazionale: i leader motivano i collaboratori, rendono il lavoro significativo, comunicano chiaramente le loro aspettative. Tutto ciò genera spirito di gruppo ed entusiasmo. • Stimolazione intellettuale: i leader stimolano i seguaci ad essere creativi, innovativi. Non sono espresse critiche pubbliche a chi sbaglia. • Considerazione individualizzata: i leader sono attenti ai bisogni di crescita e di successo di ognuno dei seguaci. Promuovono opportunità di apprendimento diversificato e calibrano il loro comportamento a seconda delle differenze dei seguaci. Si incoraggia la comunicazione a due vie, si pratica l’ascolto attivo, ci si muove di continuo nei luoghi di lavoro per assicurare la propria presenza, si pratica la delega. b. fattori di leadership transazionale: questa leadership si realizza quando il leader premia e punisce i collaboratori a seconda dell’adeguatezza della loro prestazione, comprende due fattori: ▪ ricompensa contingente: il leader ricompensa gli sforzi dei seguaci, cerca di ottenere l’accordo dei seguaci rispetto a ciò che deve essere fatato e in rapporto al quale egli accorderà loro dei vantaggi. ▪ direzione per eccezione (management-by-exception): assume due forme, attiva e passiva. La leadership comprende la critica tendente a correggere, feedback negativo e rinforzo negativo. La forma attiva implica un’osservazione da vicino di quanto fanno i sottoposti per rilevare errori e violazioni di regole per apportare correzioni. La forma passiva implica l’intervento non immediato ma che avvenga quando non sono stati raggiunti gli standard previsti e siano sopraggiunti dei problemi. La differenza fra la ricompensa contingente e la direzione per eccezione è che la prima usa modelli di rinforzo positivo, la seconda modelli di rinforzo negativo. c. fattore di non-leadership: c’è assenza o evitamento di leadership. Si tratta di uno stile non transazionale e fra i meno efficaci, comprende un unico fattore: • laissez faire: il leader abdica alle proprie responsabilità, rinvia le decisioni, non fornisce feedback, non ha scambi con i sottoposti, non si sforza di andare incontro ai loro bisogni e di occuparsi della loro crescita. Applicando gli strumenti derivati da questo modello, come l’MLQ (Multifactor Leadership Questionnaire) sono state compiute ricerche dalle quali emerge che i leader più efficaci usano lo stile trasformazionale seppure talora impieghino lo stile transazionale. Quanto ai risultati si evidenzia che nei gruppi di lavoro diretti da un leader trasformazionale la soddisfazione dei collaboratori è più elevata, vi sono migliori relazioni interpersonali e l’impegno nei confronti dell’organizzazione è più forte. Le dimensioni centrali della leadership trasformazionale sono correlate positivamente con la prestazione a lungo termine, poiché incidono sulla cultura e le strategie organizzative, che richiedono tempi lunghi per affermarsi. La considerazione individualizzata, che si riferisce all’impatto immediato del leader su ciò che deve essere fatto e come deve essere fatto, è correlata positivamente con prestazioni a breve termine, ma negativamente con quelle a lungo termine. La leadership transazionale risulta non correlata con le prestazioni a lungo termine e inefficace per la prestazione a breve termine. I punti di forza della teoria trasformazionale e carismatica sono su un corpus di valori che spingono al superamento degli interessi soggettivi in vista di un bene comune che può essere quello del gruppo. Si tratta del significato accordato ad un punto di vista etico e valoriale, in grado di motivare ed attivare gli individui implicati. Inoltre, questo tipo di leadership può realizzarsi solo in un processo interattivo che coinvolge tanto i bisogni e i valori del leader quanto quelli dei seguaci. Infine, con questa concezione di leadership in cui il capo fornisce una “visione” nei confronti del futuro, dà senso agli sforzi individuali, addita la possibilità di cambiamento. I punti critici sono un’enfasi sulla forza trascinante del leader. Lo stesso costrutto di leader trasformazionale non appare chiarissimo in quanto si sovrappone con quello di leader carismatico. Altra critica è che i dati sulla leadership trasformazionale sono stati desunti da ricerche qualitative su leader ad alto livello ed è quindi lecito chiedersi quanto essi siano esportabili a posizioni basse o intermedie di ledersi. Infine, nell’enfasi posta sul valore della leadership trasformazionale si mette in secondo piano un rischio ad essa inerente, il possibile abuso di questo stile di leadership per scopi distruttivi. 7. Donne e leadership: un binomio possibile? Le donne descrivono il loro stile di leadership come più interattivo o trasformazionale di quello degli uomini. Griggs evidenzia le seguenti caratteristiche di un modello di leadership femminista: ▪ tendenze a mettere in essere strutture partecipative piuttosto che autoritarie, la leadership maschile è di tipo gerarchico (verticale) mentre quella femminile è “a rete”, in cui le persone sono interrelate fra loro, il leader fa parte del cerchio e dispone di maggiori informazioni; le decisioni vengono prese in modo consensuale. Le informazioni e le competenze vengono condivise, perché ciò crea maggiori livelli di attività, impegno e coinvolgimento nei membri del team; ▪ la concezione del potere distingue uomini e donne: per i primi il potere è concepito come dominazione e controllo degli altri, per le seconde il potere è energia e forza che possono essere condivise. Il potere è concepito in termini relazionali e cooperativi; ▪ la gestione del conflitto nella prospettiva femminista di ledersi è importante per giungere a soluzioni produttive e soddisfacenti. Nella concezione maschile il conflitto viene visto come una minaccia e qualcosa di negativo, mentre nella prospettiva femminista costituisce un momento di forte interazione che coinvolge i partecipanti nella ricerca di una soluzione consensuale; ▪ la creazione di un ambiente di lavoro di tipo supportivo costituisce una forza particolare della leadership femminista. Per “supportivo” si intende un ambiente lavorativo caratterizzato da calore, comprensione, incoraggiamento, supporto, fiducia reciproca ed empatia. ▪ la valorizzazione della differenza, le donne considerano tutte le differenze (razziali, etniche, sessuali…) come fonti possibili di arricchimento e innovazione. Quando hanno raggiunto i ruoli di leadership, le donne hanno saputo apportare importanti cambiamenti nei posti di lavoro, introducendovi flessibilità, strategie diversificate per conciliare famiglia e lavoro, provvedimenti legislativi importanti. Maier distingue quattro periodizzazioni nelle concezioni sulla somiglianza o la differenza fra uomini e donne:
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