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I gruppi sociali, Psicologia di comunità, Sintesi del corso di Psicologia Generale

Analizza i fenomeni psicosociali alla base della vita dei gruppi, piccoli e grandi, sia dal punto di vista del gruppo e delle sue dinamiche, che da quello dell'individuo che ne fa parte. Si parla infatti sia della gerarchia, dei ruoli, della leadership, delle forze centrifuga e centripeta, sia dei processi di entrata e di uscita dai gruppi, oltre delle modalità di appartenenza. Gli apporti dei principali studiosi della materia vengono corredati dai risultati delle ricerche più attuali.

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017

Caricato il 22/11/2017

Margherita582
Margherita582 🇮🇹

3.8

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Scarica I gruppi sociali, Psicologia di comunità e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Generale solo su Docsity! Capitolo1 Gruppi nella prospettiva della psicologia sociale Par. 1 “L’interesse per i gruppi nella psicologia sociale: rapida cronistoria critica”. Nella psicologia sociale due dimensioni si intersecano notevolmente, quella psichica cioè individuale e quella sociale che indica i rapporti fra individui, individui e gruppi o solo tra gruppi. La psicologia sociale è articolata da due discipline, la psicologia che studia prioritariamente il soggetto individuale e la sociologia che studia il soggetto collettivo. Secondo Arguire, il funzionamento dei gruppi divenne oggetto di studio intorno agli anni ’30 sotto la spinta di eventi storici fino alla fine della seconda guerra mondiale lasciando in disparte gli studi sulla misurazione degli atteggiamenti (svolta in precedenza) in quanto avevano avuto un ruolo negli eventi successi: totalitarismi ecc. Nel 1945 Kurt Lewin fonda presso il Massachusetts Institute of Technology (Mit) il “research centre of group dynamics”: Quindi si fa risalire a lui la fondazione dello statuto psicosociale della nozione di gruppo. Dopo gli anni ’50 la ricerca sui gruppi si spostò in Europa. Negli anni ’60 col delinearsi di una psicologia sociale europea, desiderosa di autonomizzarsi da quella americana, le tematiche sulle dinamiche di gruppo nell’ottica lewiniana subirono un declino. Steiner in un articolo del 1986 afferma che l’abbandono dello studio dei gruppi da parte della psicologia sociale è dovuto alla tendenza di questa disciplina a privilegiare un approccio teorico sempre più individualistico e un ampio utilizzo dei metodi di laboratorio poco consoni allo studio dei gruppi. I metodi sperimentali di laboratorio non possono essere il punto di partenza dell’indagine sociale, ma devono essere prima descritti e compresi sul campo nelle loro variabili principali. Dopo il declino degli anni ’70 ’80, l’interesse per i gruppi riprende negli anni ’90 sotto l’influsso di due nuove tendenze nell’ambito della psicologia sociale: “approccio europeo” e “ social cognition”. Gli psicologi sociali si differenziano per l’utilizzo della prospettiva collettivistica o individualistica: - PROSPETTIVA INDIVIDUALISTICA: si ritiene che la gente nei gruppi si comporti grosso modo come farebbe in una diade o da sola e i processi di gruppo non sono niente di sostanzialmente diverso da processi interpersonali fra un certo numero di individui. - PROSPETTIVA COLLETTIVISTICA: si ritiene che il comportamento della gente sia influenzato da processi sociali peculiari e da rappresentazioni cognitive che possono emergere solo in gruppo e solo da questo originarsi che possono emergere solo in un gruppo e solo da questo originarsi. Par. 2 “ il gruppo in psicologia sociale fra luci e ombre” SECONDO TAJFEL esiste un pregiudizio epistemologico per cui l’uomo considerato singolarmente è un essere che procede nella conoscenza del mondo in modo razionale mentre quando si trova in gruppo perde la propria razionalità. Egli, per quanto riguarda la conoscenza del mondo naturale, afferma che viene utilizzato un modello razionale di uomo che usa le proprie capacità d’indagine, di comprensione per adattarsi all’ambiente; mentre per quanto riguarda i fenomeni sociali viene impiegato un modello istintivo-viscerale di uomo come se nella vita collettiva gli individui perdessero le proprie capacità razionali. Moscovici e Doise si associano nel denunciare questa visione pessimistica dell’uomo sociale come un individuo che appena si riunisce ad altri perde le proprie capacità e ciò è anche confermato dagli studi sui comportamenti della folla che sottolineano gli aspetti regressivi e irrazionali. Inoltre secondo Moscovici e Doise, molte ricerche si basano sulla concezione dell’uomo-massa cioè una folla composta da individui anonimi, suggestionabili, privati di volontà propria. Questa concezione pessimistica è stata ricodificata oggi con il termine cognitive miser cioè di economizzatore di energie cognitive come viene descritto l’uomo collettivo. Moscovici ritiene che i gruppi e quindi non gli individui, sono capaci di introdurre nella dinamica sociale, elementi di innovazione e di mutamento come mostrano gli studi sulle minoranze attive da lui avviate negli anni ’60 in particolare si è visto come una minoranza all’interno di un gruppo può condizionare se non tutta almeno una parte della maggioranza. L’esperimento mostrò come in un gruppo di sei persone, due complici, riuscirono a indurre con le loro risposte sbagliate, l’8% dei soggetti a riconoscere verdi le diapositive blu. Lewin fu il primo autore ad aver dimostrato che le decisioni di gruppo possono diventare tecniche di mutamento di costumi consolidati come ad es. le abitudini alimentari: “Esse non sorgono in uno spazio vuoto ma come i fenomeni quali il ritmo di produzione di una fabbrica, sono il risultato di una molteplicità di forze”(Lewin). Per comprendere perché gli individui hanno delle particolari abitudini alimentari e necessario analizzare sia i fattori psicologici come le preferenze individuali e sia quelli non psicologici come il reddito familiare. Inoltre alla base delle decisioni sui cibi da mangiare hanno un ruolo importante anche il sistema dei valori come la salute o il costo. Questo esperimento fu condotto in una città centro-occidentale degli USA nel 1942 su 5 gruppi: 3 rappresentavano le stratificazioni economiche della popolazione bianca americana (ad alto, medio e basso reddito); 2 rappresentavano due minoranze, l’una cecoslovacca e l’altra nera. Lewin doveva cercare di introdurre, utilizzando metodologie atte a persuadere le massaie, a comperare e cucinare frattaglie di pollo in un periodo di ristrettezze alimentari a causa della Seconda Guerra Mondiale. Già il governo aveva lanciato una campagna di propaganda per persuadere gli americani a consumare appunto frattaglie ma con scarsi risultati. L’idea di Lewin era quella di non ricorrere a tecniche di persuasione individuale ma cercare di mutare le norme di gruppo affinchè determinino cambiamenti individuali. Egli utilizzò due tipi di sperimentazione su gruppi di donne volontarie: Un metodo consisteva in lezioni-conferenze sui vantaggi dietetici delle frattaglie; L’altro nella ⇒ ⇒ partecipazione attiva a discussioni di gruppo sulla stessa tematica che si sarebbe conclusa con la decisione, per alzata di mano, a consumare tale alimento. Solo il secondo metodo comportò una consistente modificazione e questo è dovuto alla decisione di gruppo che sembra avere un legame consolidante sia per essere coerente con la decisione presa che per restare fedele all’impegno preso nei confronti del gruppo. Nascono così l’action-research che è una ricerca in cui sono attivi sia i soggetti-oggetti sia i ricercatori in essa impegnati, un esempio di action- research è proprio l’esempio su riportato sul mutamento delle abitudini alimentari e il T-group (training group) che è un metodo di formazione attiva di gruppo che ha lo scopo di permettere l’acquisizione di conoscenze su tre livelli del comportamento sociale: 1. Interpersonale ( le relazioni degli individui fra loro) 2. Di gruppo ( funzionamento gruppale e il suo sviluppo) 3. Fra gruppi. Novità di questo metodo è che ciascun partecipante diventa responsabile attivo del proprio apprendimento e mutamento. Secondo Lewin un processo di mutamento sociale doveva essere concepito come un processo a 3 fasi: disgelamento del livello precedente, mutamento di tale livello e consolidamento del nuovo. Partendo dalla distinzione effettuata da Moscovici fra minoranze eterodosse (cioè contro-normative, portatrici di valori e norme opposte a quelle della maggioranza) e minoranze ortodosse (pro-normative, rafforzanti le norme maggioritarie), Mucchi Faina sostiene che sarebbe necessario indagare sui diversi effetti delle minoranze contro-normative. Esse non raggiungono sempre gli obiettivi sperati ma producono un rafforzamento dell’ordine vigente. Per esplorare questo problema è necessario non restare limitati alle ricerche di laboratorio ma guardare alla realtà sociale; si tratta del problema della validità ecologica delle ricerche cioè della loro rilevanza sociale che interessa tutte le discipline sperimentali. Par. 3 “definizioni di gruppo” McGrath parte dal presupposto che se è vero che ogni gruppo è un’aggregazione di individui, ogni aggregazione di individui non è necessariamente un gruppo. Egli quindi stila varie tipologie di aggregazioni sociali: AGGREGAZIONI ARTIFICIALI: i componenti sono classificati insieme in base a qualche caratteristica comune (età, sesso), ma che non sono implicati necessariamente in qualche tipo di relazione. (gruppi statici o categorie sociali) AGGREGAZIONI NON ORGANIZZATE: vengono anche chiamati aggregati da Giddens, sono degli insiemi di individui che si trovano nello stesso luogo e nello stesso momento senza altro tipo di legame. Essi possono includere o meno la vicinanza fisica e uno scopo contingente comune esempio chi costituisce il pubblico di uno spettacolo non condivide la vicinanza fisica. UNITA’ SOCIALI CON MODELLI DI RELAZIONE: insiemi di individui che condividono set di valori, costumi, abitudini, le parentele. UNITA’ SOCIALI STRUTTURATE: diviene più forte il carattere di interdipendenza e di relazioni strutturate, come società, comunità, famiglia. UNITA’ SOCIALI INTENZIONALMENTE PROGETTATE: come un’organizzazione o un gruppo di lavoro. UNITA’ SOCIALI MENO INTENZIONALMENTE PROGETTATE: come un’associazione o un’organizzazione di volontariato, o un gruppo di amici. (possono essere caratterizzati da legami interpersonali). Queste aggregazioni differiscono su due dimensioni: la base su cui si fondano le relazioni fra i membri e la grandezza dell’aggregato. Infatti per McGrath i gruppi sono quelle aggregazioni sociali che implicano reciproca consapevolezza e una reciproca interazione. Ma questa definizione è alquanto restrittiva perché vi sono gruppi che non necessariamente hanno interazione dirette. Inoltre secondo McGrath la grandezza e l’interazione diretta distinguono i piccoli gruppi dai grandi gruppi. Innanzitutto secondo De Grada bisogna effettuare una distinzione tra piccolo gruppo e gruppo faccia a faccia: PICCOLI GRUPPI: i comportamenti si conoscono e si influenzano reciprocamente, per quanto l’interazione diretta e continuativa di tutti i membri non sia una conditio sine qua non GRUPPI FACCIA A FACCIA: gruppo ristretto nel quale tutti i membri interagiscono direttamente, hanno riunioni frequenti anche per un lungo periodo, hanno diversi livelli di strutturazione e di ufficialità. Un’altra distinzione deve essere fatta tra gruppi primari e secondari: GRUPPI PRIMARI: sono insiemi di persone che interagiscono direttamente, sono legate da vincoli di tipo affettivo, sentono un forte senso di appartenenza e di lealtà nei confronti del gruppo. GRUPPI SECONDARI: insiemi di persone che hanno scopi da raggiungere, ruoli differenziati in funzione del raggiungimento degli obiettivi, relazioni di tipo piuttosto impersonale perché basate su fini pratici e sul contributo, in termini di ruolo, che ciascun membro può offrire. Secondo De Grada è meglio parlare di primarietà e secondarietà. Ancora bisogna distinguere i gruppi formali da quelli informali: o GRUPPI FORMALI: si formano sotto un’egida istituzionale, che ne detta gli obiettivi principali nel quadro di attività specifiche come associazioni sportive, religiose e culturali. o GRUPPI INFORMALI: aggregazioni spontanee il cui scopo non consiste nel perseguimento di attività specifiche, ma nell’intensità delle relazioni fra i membri come la socializzazione fra pari nell’adolescenza. Secondo McGrath le TIPOLOGIE dei gruppi UTILIZZATE NELLA RICERCA SONO 3: GRUPPI NATURALI: esistono indipendentemente dalle attività e dai propositi della ricerca (es. gruppi di lavoro) GRUPPI INVENTATI (concocted): sono creati come mezzi per la ricerca, si tratta di gruppi meno naturali, per quanto essi siano nel complesso della sperimentazione reali, poiché gli individui in essi coinvolti reagiscono realmente agli stimoli sperimentali, interagiscono direttamente usando tutti i canali comunicativi QUASI- GRUPPI: sono come i precedenti in quanto creati a scopo di ricerca, ma non sono completamente dei gruppi poiché hanno pattern d’attività altamente artificiali e costrittivi. Nella letteratura psicosociale compare anche il concetto di: GRUPPI DI RIFERIMENTO: sono quelli con cui l’individuo si identifica o ai quali aspira di appartenere. Costituiscono una fonte di atteggiamenti e di valori. Essi sono per Sherif la manifestazione della complessità delle moderne società occidentali. IL GRUPPO NELLE TEORIE DI LEWIN SHERIF E TAJFEL: a) Per LEWIN il GRUPPO è una totalità dinamica in cui le parti di cui si compone sono interdipendenti fra loro. Utilizza una definizione di gruppo che può essere utilizzata sia per i piccoli sia per i grandi gruppi. Una totalità dinamica è costituita dall’interdipendenza delle sue parti la quale è divisa in: Interdipendenza del destino membri di un gruppo e poi scoprono che il gruppo stesso abbia degli aspetti spiacevoli, possono ridurre la dissonanza in due modi: o si autoconvincono che l’iniziazione non è stata troppo spiacevole o tendono ad esagerare gli aspetti positivi del gruppo hanno voluto fare un esperimento sull’effetto dell’iniziazione severa sulla preferenza per un gruppo. I soggetti sperimentali sono 63 studentesse universitarie che vengono invitate a partecipare ad una discussione di gruppo sulla psicologia del sesso. Per evitare disagi e imbarazzi vari, l’intervista sarà fatta mediante un interfono. Lo sperimentatore dice che è necessario prima di accedere alla discussione, sottoporsi ad un test di imbarazzo che consiste nel leggere ad alta voce materiale sessualmente orientato. Le 3 condizioni sperimentali sono: 1. Condizione di iniziazione severa: leggere ad alta voce 12 parole oscene e 2 descrizioni di attività sessuale; 2. Condizione d’iniziazione moderata: leggere ad alta voce 5 parole collegate con il sesso ma non oscene; 3. Condizione di controllo: i soggetti non devono leggere nulla e possono accedere alla discussione di gruppo dopo aver affermato, su domanda dello sperimentatore, che si sentono in grado di parlare liberamente di sesso. Lo sperimentatore chiede a ciascuna ragazza di non partecipare alla prima discussione di gruppo ma di ascoltare quello che il gruppo dice sul tema del giorno cioè il comportamento sessuale negli animali. Alla fine dell’ascolto le ragazze devono valutare sia la discussione sia i partecipanti. I risultati confermarono le ipotesi di partenza. I soggetti che avevano subito un’iniziazione severa valutano in modo più positivo la discussione e i partecipanti. Le iniziazioni severe hanno diverse funzioni psicologiche: L’iniziazione severa potrebbe avere la funzione di suscitare nel nuovo membro un impegno maggiore nei confronti del gruppo, disponendolo ad accettare tutte le future pratiche di socializzazione per diventare effettivamente un membro. Ma può avere anche la funzione di scoraggiare gli aspiranti poco motivati, che in tal modo rinunciano di entrare in un gruppo in cui rimarrebbero per poco. L’iniziazione severa può avere la funzione di indebolire, confondere, rendere dipendente dai membri del gruppo il nuovo arrivato che si troverà in tal modo nella posizione più propizia per accettarne senza opposizione le regole e le dinamiche. Secondo Clark le iniziazioni severe permettono di avere informazioni preziose sui nuovi arrivati: i newcomers che rifiutano l’iniziazione o falliscono nelle prove rendono esplicito al gruppo che non sono adatti a far parte di quel gruppo. Non tutte le entrate in un gruppo sono contrassegnate da meccanismi cerimoniali.una dlle esperienze più comuni nella nostra società è quella del passaggio ad ordini di scolarità diversa. ZAZZO afferma che i passaggi di scolarità costituiscono una prova cruciale per ciascun allievo, in quanto ciascun ordine di scuola prevede una serie di norme, di ordinamenti strutturali e di attese che mettono a dura prova le capacità di adattamento dell’individuo e che impongono costi psicologici più o meno evidentia seconda dei casi. RUBLE & SEIDMAN considerano tutti i passaggi di scolarità come transizioni sociali e citano varie ricerche in cui vengono illustrate le difficoltà di passaggio di scuola: le difficoltà maggiori sono al primo anno, ma permangono con una percentuale elevata anche durante il secondo anno. Una delle ragioni che rendono rischiosi per l’adattamento i passaggi di scolarità è la rottura nella natura e nello schema delle relazioni sociali in riferimento tanto al gruppo dei pari quanto al gruppo degli insegnanti. Per quanto riguarda poi il passaggio all’università il rischio è quello di trovarsi fuori dai vari gruppi e di sperimentare un vero e proprio isolamento sociale. La SOCIALIZZAZIONE SECONDARIA è l’introduzione in settori sociali diversi da quelli della famiglia. Le prime esperienze di socializzazione secondaria si hanno al partire della scuola materna. Nei primi tempi di entrata nella scuola materna, vari autori hanno rilevato un periodo di osservazione a distanza dei B fra di loro, è come se si studiassero i comportamenti e le reazioni degli altri prima di sperimentare costi e benefici dell’interazione diretta. Questo periodo di osservazione e di attesa, è definito da Brown, periodo probatorio che permette da un lato all’individuo di effettuare alcuni elementari apprendimenti sociali per essere accettato dal gruppo e dall’altro costituisce una tattica di immissione nel gruppo. Accedere ai giochi già iniziati costituisce un abilità sociale, uno dei numerosi apprendimenti che permettono di far parte della cultura dei coetanei cioè un insieme stabile di attività, routine, valori, interessi e obiettivi comuni che i bambini producono e condividono durante le interazioni con i coetanei. Anche il gruppo richiede generalmente un’immissione cauta del nuovo venuto e gli oppone barriere e resistenze: l’origine di queste è legata alla fragilità stessa delle interazioni fra bambini. I bambino popolari a differenza di quelli impopolari sanno adeguarsi all’esistente prima di cercare di introdurre nuove attività ludiche. Infatti i bambini che diventano leader nel nuovo gruppo sono attendisti in quanto osservano e poi si adeguano inizialmente alle norme del gruppo, poi propongono dapprima poche modifiche aumentandole gradualmente nei giorni successivi: funziona così anche negli adulti. STUDIO LONGITUDINALE DI ZILLER & BEHRINGER: è uno studio sul processo di assimilazione dei newcomers in classi nelle scuole elementari dove si era già costituito il gruppo degli old-timers. All’inizio dell’immissione nel gruppo, la popolarità dei neofiti è ragionevolmente elevata, ma essa declina bruscamente subito dopo e tale rimane per diverse settimane, tendendo a risollevarsi solo verso la fine dello studio, mentre la popolarità degli anziani mostra un trend quasi opposto. All’inizio delle osservazioni i newcomers tendono a scegliere i compagni meno popolari a differenza di quanto fanno gli old-timers: tale differenza tende a scomparire col trascorrere del tempo. Il processo di assimilazione al gruppo sembra influenzato dal sesso e dall’età dei newcomers: le femmine e i + giovani di età vengono integrati + rapidamente dei maschi e di coloro che hanno età + elevata, forse perché essi sembrano meno minacciosi rispetto alla gerarchia già costituita nel gruppo. La socializzazione in un gruppo è + difficile se i newcomers fanno parte di quella che è la minoranza sessuale all’interno del gruppo. MODELLO DELLA SOCIALIZZAZIONE DI GRUPPO DI MORELAND & LEVINE descrive il passaggio degli individui attraverso i gruppi e ha lo scopo di chiarire i cambiamenti affettivi, cognitivi e comportamentali che gruppi e individui producono l’uno sull’altro. Questo modello è da applicarsi principalmente a piccoli gruppi i cui membri interagiscono direttamente e hanno legami affetti. Secondo gli autori, l’ APPARTENENZA AD UN GRUPPO può essere descritta in una serie di fasi separate da loro da transizioni di ruolo, FASI CHE PORTANO ALL’APPARTENENZA AD UN GRUPPO: Esplorazione quando l’individuo è solo un membro aspirante del gruppo. Durante questa fase da un lato il gruppo cerca delle persone che sembrino adatte ad offrire contributi al raggiungimento degli obiettivi di gruppo (reclutamento di gruppo), dall’altro l’individuo cerca gruppi che sembrino adatti a contribuire alla soddisfazione dei suoi bisogni personali (ricognizione individuale). Se vengono rispettati i rispettivi criteri decisionali, avviene l’entrata nel gruppo. Per quanto riguarda la RICOGNIZIONE INDIVIDUALE è necessario: 1. la persona deve identificare gruppi potenzialmente desiderabili per sé, e deve accertarsi della loro reperibilità nell’ambiente circostanza. 2. la persona deve valutare il grado in cui l’appartenenza ad un gruppo potrà soddisfare i suoi bisogni, il che implica la necessità di avere informazioni sulle possibili ricompense legate all’appartenenza a quel gruppo. 3. supponendo che l’impegno per un particolare gruppo superi i criteri d’entrata dell’individuo, questo dovrà prendere provvedimenti per entrarvi. Il processo di ricognizione individuale risente anche delle esperienze precedenti in altri gruppi: gli esperti rispetto agli inesperti mostrano una maggiore capacità di prendere in considerazione i benefici ma anche i costi della vita di gruppo, pur conservando un atteggiamento fondamentalmente positivo e costruttivo. La VALUTAZIONE ANTICIPATA prende in considerazione i benefici e i costi della vita di gruppo. Le persone tendono a centrarsi di più sulle ricompense che sui costi dell’appartenenza di gruppo. Le tre possibili fonti di quest’ottimismo sono: I. le informazioni a cui accedono gli aspiranti possono essere connotate da un bias positivo che tende a minimizzare i costi e ad enfatizzare i benefici dell’appartenenza a quel gruppo. II. L’ottimismo degli aspiranti può riflettere i loro sforzi di fronteggiare i sentimenti di dissonanza rispetto al gruppo cui vogliono accedere. III. Può originarsi da un generale bisogno di sottolineare gli aspetti positivi di sé, di rappresentarsi nella luce migliore, per raggiungere questo scopo è possibile nutrire ILLUSIONI SELFSERVING che includono autovalutazioni eccessivamente positive, un esagerato senso di controllo personale ed un irrealistico ottimismo per il futuro: le persone in media credono di avere più probabilità degli altri di sperimentare eventi positivi e meno probabilità degli altri di sperimentare eventi negativi. Lo STAFFING LEVEL è la differenza fra quanti membri appartengono attualmente al gruppo e quanti membri sarebbero necessari per una prestazione ottimale. Vi sono dei problemi che intercorrono fra lo staffing level e le attività di reclutamento del gruppo, e le pratiche di socializzazione dei nuovi membri: nelle percezioni dei leader i gruppi a cui appartengono sono più frequentemente considerati sottodimensionati che sovradimensionati. Per i gruppi sottodimensionati i problemi più comuni indicati riguardano prestazioni di gruppo carenti, fatica, mancanza di risorse; il reclutamento di più membri o la riorganizzazione del gruppo vengono indicati come le possibili soluzioni di tali problemi. Per i gruppi sovradimensionati i problemi più comuni sono apatia, noia, disorganizzazione, le più comuni soluzioni per tali problemi sono incoraggiare i membri attuali a lavorare duramente, limitare l’accesso al gruppo, dividere il gruppo in sottogruppi. I gruppi sottodimensionati si mostrano più aperti nei confronti dei membri aspiranti, e dei nuovi arrivati, di quanto non lo siano i gruppi sovradimensionati, per i quali si pongono altri problemi di gestione del gruppo che impongono una relativa chiusura rispetto all’immissione di nuovi membri. Nel processo di entrata in un gruppo è rilevante anche lo status sociale del newcomers: più elevato è lo status sociale esterno più è facile la sua socializzazione. Moreland & Levine indicano 4 tattiche che dispongono i newcomers ad una più facile entrata in un gruppo: I. Condurre un efficace processo di ricognizione durante la fase di esplorazione. II. Giocare il ruolo di nuovo membro: ci si attende che il newcomers sia ansioso e cauto, totalmente dipendente dagli old-timers, e conformista rispetto alle norme di gruppo. I newcomers che si presentano come tali hanno più probabilità di essere accettati dagli anziani e di ricevere da questi delle informazioni utili per un’effettiva integrazione. III. Cercare referenti di fiducia cioè old-timers che aiutino il nuovo arrivato a diventare membro del gruppo a pieno titolo. Il tutore può fungere da intermediario fra il newcomer e il gruppo persuadendo l’uno e l’altro a non essere troppo rigidi nelle aspettative reciproche. Esistono vari tutor: MODELLI: old-timers che non si sentono coinvolti nella⇒ socializzazione dei nuovi membri che questi scelgono come guide del loro comportamento. TRAINERS: molto ⇒ conformisti alle norme di gruppo e hanno da questo il mandato di occuparsi dei nuovi illustrando loro norme e valori del gruppo stesso. SPONSORS: spesso reclutatori o amici o parenti del newcomer. MENTORI: che ⇒ ⇒ sviluppano una stretta relazione con i newcomers e fanno il possibile per rendere più facile la socializzazione dei nuovi membri. IV. Collaborare con gli altri newcomers. La collaborazione produce una socializzazione più facile. Esistono tre tipi di relazioni fra pari: PARI DELL’INFORMAZIONE: hanno una relazione piuttosto debole e impiegano il loro tempo a spettegolare sull’azienda PARI COLLEGIALI: la loro relazione è + forte e si fonda su problemi personali e piani di carriera. PARI SPECIALI: hanno fra di loro una relazione + forte per cui discutono di qualunque argomento e cercano di fornirsi un reciproco sostegno emozionale. CAMBIAMENTI: ACCOMODAMENTO ANTICIPATORIO i membri aspiranti chiedono cambiamenti da parte del gruppo. Tali comportamenti potrebbero comportare delle alterazioni nella vita di gruppo e/o delle promesse che tali trasformazioni si realizzeranno quando l’individuo diverrà membro a tutti gli effetti. L’accomodamento anticipatorio può avere conseguenze nella vita di gruppo per esempio esso può avere l’effetto di indebolire il potere del gruppo nel trattenere i nuovi membri nel caso in cui le promesse di trasformazione non vengano mantenute, oppure quello di contrariare gli old-timers con eccesso di ricompense ai newcomers. Se i nuovi membri non potessero essere in grado di portare fermenti ai nuovi gruppi che accedono, sarebbe piuttosto difficile spiegare perché esistono il cambiamento e l’innovazione sociali. L’esempio più calzante di tutto ciò è quello che emerge dagli studi sull’influenza minoritaria che sono stati iniziati da Moscovici. Par. 2 “Processi di socializzazione di gruppo” Una volta entrati in un gruppo è necessario imparare a rimanervi. Per Brim la socializzazione è un processo attraverso il quale gli individui acquisiscono le conosce, le abilità e le disposizioni che li rendono in grado di partecipare come membri più o meno effettivi dei gruppi e della società. La socializzazione è un processo interattivo in quanto l’individuo da socializzare è un soggetto attivo che può influenzare l’ambiente e il gruppo che lo accoglie. In definitiva la SOCIALIZZAZIONE riguarda quei meccanismi informali che trasmettono comportamenti abilità e conoscenze molto generali, ma indispensabili per far parte a pino titolo di quel gruppo. MORELAND &LEVINE hanno sviluppato una teoria che considera sia l’individuo sia il gruppo come agenti attivi di influenza reciproca e che presuppone che la loro relazione cambi in modo sistematico nel corso del tempo. La teoria si basa su tre processi psicologici: 1) VALUTAZIONE: implica gli sforzi fatti dal gruppo e dall’individuo per stimare e massimizzare la remuneratività l’uno e dell’altro. La remuneratività della relazione per entrambe le parti è basata sul grado in cui ciascuno viene incontro alle aspettative normative dell’altro. 2) IMPEGNO: dipende dal risultato del processo di valutazione: come aumenta la percezione di remuneratività delle loro passate, presenti, future relazioni più il gruppo e l’individuo si sentiranno impegnati reciprocamente, al contrario come aumenta la percezione remuneratività delle loro passate presenti e future relazioni alternative, meno il gruppo e l’individuo si sentiranno impegnati l’uno con l’altro. 3) TRANSIZIONI DI RUOLO: poiché i livelli di impegno del gruppo e dell’individuo cambiano nel tempo, cambia anche la natura della loro relazione. Quando l’impegno reciproco del gruppo e dell’individuo si alza o si abbassa nei confronti dei rispettivi criteri decisionali precedentemente stabiliti, che riflettevano certi livelli di impegno, allora l’individuo affronterà una transizione di ruolo e le sue relazioni col gruppo cambieranno, come pure muteranno le aspettative reciproche. Le transizioni di ruolo spesso comportano cerimonie e rituali. Dopo la transizione di ruolo continua la valutazione che produce ulteriori cambiamenti nell’impegno e susseguenti transizioni di ruolo. L’individuo può passare attraverso 5 fasi della socializzazione di gruppo: 1. L’esplorazione dell’aspirante membro che implica per l’individuo un processo di ricognizione sul gruppo e per il gruppo un processo di reclutamento dei nuovi membri. Se i livelli di impegno raggiungono i rispettivi criteri, si compie la transizione di ruolo dell’entrata; 2. La socializzazione in questa fase il gruppo cerca di cambiare l’individuo in modo che contribuisca maggiormente al raggiungimento degli scopi del gruppo: se ciò avviene l’individuo viene ASSIMILATO dal gruppo. Nello stesso tempo l’individuo cerca di produrre cambiamenti nel gruppo in modo che esso possa contribuire maggiormente alla soddisfazione dei suoi bisogni personali: se ciò si realizza il gruppo attraversa l’esperienza dell’ACCOMODAMENTO. 3. MANTENIMENTO: il gruppo e l’individuo si cimentano in negoziazioni di ruolo nelle quali il gruppo cerca di trovare per l’individuo un ruolo speciale che massimizzi i suoi contributi per il raggiungimento degli scopi comuni, dal canto suo l’individuo cerca un ruolo specializzato che gli consenta la soddisfazione dei propri bisogni personali. Se la negoziazione di ruolo fallisce e i livelli di impegno da ambo le parti si abbassano rispetto ai loro rispettivi criteri di divergenza, avviene la transizione di ruolo della divergenza e l’individuo diventa un membro marginale del gruppo. 4. RISOCIALIZZAZIONE: in questa fase tanto il gruppo quanto l’individuo cercano di ripristinare i contributi che ciascuno dei due può fornire rispettivamente per il raggiungimento degli scopi di gruppo e per la soddisfazione dei bisogni personali. Se l’operazione ha successo e se i livelli di impegno superano i rispettivi criteri di divergenza, l’individuo torna membro a tutti gli effetti e si realizza nuovamente assimilazione e accomodamento. Questa transizione di ruolo che è piuttosto rara può essere definita come convergenza. Se invece i livelli di impegno di ambo le parti scendono sotto i rispettivi criteri di uscita si compie la transizione di ruolo dell’uscita e l’individuo diventa un ex membro. 5. RICORDO: il gruppo rammenta quanto l’individuo ha fatto per il raggiungimento degli scopi gruppali e queste memorie diventano una parte della tradizione di gruppo. Da parte sua l’individuo si impegna nell’elaborazione di ricordi su quanto il gruppo gli ha offerto per la soddisfazione dei suoi bisogni personali e su quanto non ha riconosciuto del contributo da lui offerto. Le strategie socializzanti si differenziano a seconda del tipo di neofita che entra: MEMBRI ISTITUENTI: coloro che arrivano insieme per creare un nuovo gruppo. VISITATORI: coloro che entrano per breve tempo nel gruppo e non partecipano in modo totale alle sue attività. TRASFERITI: coloro che hanno partecipato di recente ad un gruppo simile o affiliato all’attuale. SOSTITUTI: coloro che prendono il posto di precedenti membri del gruppo. NEOFITI REGOLARI: si uniscono ad un gruppo in corso, si aspettano di restarvi a lungo, non hanno partecipato a gruppi simili nel passato e non rimpiazzano nessuno. NOVARA & SARCHIELLI parlano della FASE DESTRUTTURANTE (o di desocializzazione) cioè quando il neofita prende atto delle resistenze che gli oppone il gruppo e della necessità di ridefinire se stesso e i propri modi di operare per giungere ad una piena accettazione e perciò il socializzando potrà cercare nel nuovo ambiente dei gruppi di SOCIALIZZAZIONI ALTERNATIVE cioè sottoculture/sottogruppi all’interno dei gruppi i cui comportamenti possono essere in parte incongruenti con la vita sociale del gruppo. Le situazioni di socializzazione alternativa caso dei GRUPPI INFERIORI: l’abbandono del gruppo di appartenenza può avvenire nelle situazioni di mobilità sociale in cui c’è flessibilità sociale sufficiente da permettere a chi ne abbi all’energia di trasmigrare in un gruppo più elevato. L’abbandono del proprio gruppo può essere difficile invece o perché associato ad un forte conflitto di valori, o per la paura di gravi sanzioni sociali nel caso in cui si abbandonasse il gruppo, o una combinazione di entrambe le situazioni Il binomio mobilità sociale-cambiamento sociale può essere avvicinato al binomio defezione-protesta di cui parla l’economista Hirschman secondo cui esiste una dimensione lungo la quale gli individui cercano di risolvere i propri problemi. La mobilità sociale equivale alla defezione di un individuo dal proprio gruppo e vi è equivalenza fra cambiamento sociale e protesta in quanto l’impossibilità oggettiva o la credenza soggettiva che la defezione sia impossibile può condurre a comportamenti sociali di protesta ovvero di cambiamento sociale. Una situazione estrema dell’uscita dai gruppi è rappresentata dall’emigrazione: all’interno della situazione di emigrazione esiste quella particolare di esilio. IOSIF BRODSKIJ: sostiene che l’esilio di uno scrittore è peggiore di quello di un gastarbeiter o di un profugo medio, in quanto lo scrittore è tormentato dal bisogno di accettazione e di riconoscimento sociali nel nuovo mondo che lo ospita, per quanto paradossalmente l’unica cosa che resti allo scrittore in esilio è la sua lingua materna, quella in cui scrive e che non è quella del paese ospitante. I gruppi sociali Capitolo terzo, I fenomeni dinamici della vita di gruppo Il gruppo è un organismo vivo, che non funziona semplicemente in modo sommativo rispetto alle sue parti ma non funziona nemmeno indipendentemente dai vari individui che tra loro interagiscono. La vita di un gruppo viene scandita da alcuni fenomeni ricorrenti, i quali permettono la sua strutturazione nonché il suo funzionamento nel tempo, questi fenomeni vengono definiti come strutturali; poiché essi costituiscono l’impalcatura che permette al gruppo di esistere e funzionare come tale, differenziandolo da un semplice agglomerato casuale di individui. Dunque i fenomeni dinamici che sono alla base del gruppo, sono riscontrabili nei gruppi formali come nei gruppi informali, nei gruppi naturali come in quelli di laboratorio e infine nei gruppi con una storia come nei gruppi a tempo limitato. Osservando un gruppo in azione, la prima cosa che possiamo notare è che non tutti i membri sembrano essere allo stesso livello. Alcune ricerche, di tipo osservativo, hanno dimostrato che si può comprendere chi occupa un posto elevato in un gruppo anche solo dal comportamento non verbale. Secondo Harper, ad esempio, chi ha più potere tende a parlare con voce ferma e con poche esitazioni, mantiene il contatto visivo con gli altri, ha una postura eretta. Mentre per quanto riguarda il comportamento verbale, chi ricopre uno status elevato tende a parlare più degli altri, ad esprimere più critiche, dando ordini e interrompendo gli altri e anche ricevendo un maggior numero di comunicazioni da parte degli altri membri. Quindi i membri di un gruppo si differenziano tra loro a seconda dello status di ognuno; lo status si riferisce alla posizione che un individuo occupa in un gruppo e alla valutazione di questa posizione in una scala di prestigio. Gli indicatori principali che possono informarci sullo status dei membri di un gruppo solo almeno due: 1. La tendenza a promuovere iniziative, le quali vengono successivamente continuate dal resto del gruppo. E’ chiaro che chi ha uno status più elevato ha un potere di iniziativa più alto rispetto a chi ha uno status meno elevato. Whyte, nel suo lavoro Street Corner Society, studiò, attraverso il metodo dell’osservazione partecipante, un quartiere di Boston chiamato Cornerville, abitato quasi totalmente da immigrati italiani; egli visse per almeno 3 anni condividendo con queste persone usi, linguaggio, il loro ritmo quotidiano. Nel suo studio l’autore descrive la vita sociale dello slum (area urbana strutturalmente svantaggiata in cui confluiscono gruppi sociali deprivati economicamente), mostrando come esso sia un sistema sociale fortemente organizzato e integrato, a dispetto dell’immagine caotica che possono averne le classi medie abitanti fuori da tale area. L’autore descrive con particolare precisione la banda di via Norton, i Nortons, i quali sono guidati da Doc, di cui Whyte diventa amico e confidente. Doc è il motore di ogni iniziativa che verrà portata avanti dagli altri membri e quando lui è assente, i suoi “luogotenenti” prendono le redini delle attività. Nel caso in cui un membro marginale desidera avanzare una proposta, egli deve suggerirla a chi conta di più e se viene ritenuta attraente verrà accolta dai membri più importanti, altrimenti cadrà nel vuoto. Una posizione a parte nel gruppo era quella di Long John, il quale ha lo status di “satellite” (portaborse) di Doc e dei suoi luogotenenti, egli non ha alcuna influenza sul gruppo, non ha un sottogruppo di appartenenza, quindi non può contare sull’appoggio di altri membri. Sostanzialmente la quantità del potere d’iniziativa è direttamente proporzionale allo status dei membri di un gruppo. 2. La valutazione consensuale del prestigio connesso ad un certo status. Sherif osserva che nel gruppo, c’è maggiore consensualità (ossia accordo di giudizio), soprattutto per quanto riguarda le posizioni estreme ossia quando si considerano le posizioni più elevate e quelle più basse. Quando, per un qualsiasi motivo, intervengono eventi che incidono sulla vita di gruppo si possono osservare cambiamenti nella gerarchia di status, ossia che i membri situati nei ranghi intermedi possono avere spostamenti verso l’alto o verso il basso. Questi cambiamenti seguono una logica posizionale, infatti nelle osservazioni compiute da Sherif in bande di adolescenti, si sono registrati cambiamenti a seguito di eventi come il trasferimento in un’altra città di un membro di status elevato, o l’allontanamento di un membro di alto rango per avere infranto norme centrali di gruppo. Ad esempio nel gruppo della via Norton, è la forza fisica e il primato di combattività a cambiare le posizioni dei membri. Nel lavoro di Whyte è evidente come il prestigio connesso alle varie posizioni sia un fenomeno totalmente consensuale, ossia tutti i membri lo condividono perfettamente, ed è proprio questa condivisione che permette azioni orientate alla meta, nel rispetto dell’ “ordine di beccata” (ogni gallinaceo si sottomette a quelli che risultano superiori nel combattimento e predominano sui più deboli). Le differenziazioni di status concernono anche i gruppi informali, Sherif ad esempio notò che gli adolescenti, se interrogati sulle differenze di posizione nel gruppo, tendono a negare la loro esistenza forse per il bisogno di affermare un’omogeneità che sembra minacciata dall’esistenza di gerarchia. Secondo alcuni autori lo status di un gruppo si produce nel tempo, attraverso alcuni comportamenti; nell’esperienza sociale diretta invece possiamo notare che il sistema di status si sviluppa molto rapidamente o addirittura nelle prime fasi di costruzione del gruppo. I sostenitori della corrente etologica sostengono che fin dalle loro prime interazioni i membri di un gruppo si misurano fra loro a partire da dati percettivi come l’apparenza, che includono elementi evidenti come l’espressione facciale ma anche più sfumati come la capacità di fissare una persona finché questa distolga lo sguardo. Quindi fin dalle prime interazioni si abbozza una prima gerarchia di status che potrà essere confermata o non confermata con l’aggiungersi di nuove informazioni. Secondo Baron lo status può basarsi anche su caratteristiche percettive particolarmente idealizzate e ammirate. Invece, i teorici degli stati d’aspettativa sostengono che i membri di un gruppo formano fin dai primi incontri un insieme di aspettative relativamente ai contributi che ciascuno potrà offrire per il raggiungimento degli obiettivi del gruppo stesso; in questo modo saranno valutate quelle caratteristiche che i diversi membri vorranno appositamente esibire e quelle immediatamente percepibili. Le caratteristiche personali più pertinenti al raggiungimento degli obiettivi avranno maggiore forza d’impatto sulle aspettative, sostanzialmente le persone che possiedono i tratti più congruenti con gli scopi del gruppo suscitano maggiori aspettative. Tuttavia queste assegnazioni di status sono provvisorie poiché richiedono le conferme operative delle aspettative formatesi. A loro volta le aspettative sono direttamente legate agli scopi del gruppo, ma tuttavia non sempre i gruppi al lavoro sono in grado di modificare rapidamente il loro sistema di aspettative e le conseguenti assegnazioni di status con la conseguenza di non pervenire al raggiungimento dell’obiettivo nei tempi prefissati. Queste due correnti esplicative (etologica e degli stati d’aspettativa) non sono reciprocamente esclusive, poiché entrambi avranno un impatto sul rapido strutturarsi di posizioni differenziate nel gruppo. La differenziazione di status nei gruppi costituisce un fenomeno comune e ineludibile, essa crea ordine e prevedibilità all’interno del gruppo, coordina le varie forze in vista del raggiungimento degli obiettivi ed è funzionale all’autovalutazione di ogni membro. Le ricerche su quest’ultimo aspetto hanno dimostrato che chi ha uno status elevato ha più autostima di chi ha basso status, a parità di prestazioni chi ha uno status alto viene giudicato più positivamente di chi lo ha basso, il che contribuisce ad aumentare la fiducia in sé e il sentimento del proprio valore. Talvolta nell’ambito di queste autovalutazioni si può assistere al fenomeno di adeguamento dei propri comportamenti alle attese del gruppo, anche a svolgere prestazioni ad un livello più basso di quanto si potrebbe realmente fare. Ciò succede di solito in gruppi molto strutturati, con una forte leadership e con una certa resistenza al cambiamento. Può succedere anche che un membro, alla ricerca di un miglioramento della propria posizione e della propria autostima, si impegni per essere valutato più positivamente dagli altri membri e se i suoi sforzi non sortiscono alcun effetto esca dal gruppo per mantenere un buon livello di autostima. Il sistema di status comunque non è inamovibile, poiché anche la vita di un gruppo è sottoposta al cambiamento e alla trasformazione. Per esempio Sherif osservò che all’intensificarsi del conflitto con l’altro gruppo, la leadership viene assunta da un membro più aggressivo. Se lo status definisce l’architettura essenziale del gruppo, il ruolo riguarda i comportamenti esibiti ed attesi dei vari componenti. Il ruolo è definito come un insieme di aspettative condivise circa il modo in cui dovrebbe comportarsi una persona che occupa una certa posizione nel gruppo. Questo aspetto di reciprocità ha la propria base e le proprie radici nella cultura o nella subcultura in cui essi vengono svolti, quindi hanno una coloritura “locale” data dai valori, dalle ideologie, dalle rappresentazioni condivise di una società. Un esempio emblematico è dato dall’esperimento di Zimbardo sulla Standford Prison, in cui venne simulata la relazione fra guardie e carcerati in una finta prigione costruita nel seminterrato dell’Università di Standford. I soggetti di quest’esperimento vennero reclutati attraverso un annuncio di giornale che cercava, dietro compenso, dei volontari per uno studio psicologico sulla vita in prigione, i 24 soggetti prescelti erano tutti maschi e studenti universitari, e furono selezionati sulla base del loro equilibrio psicologico e della loro maturità, in modo tale che non ci fossero differenze disposizionali fra chi avrebbe interpretato un ruolo o l’altro; a caso venne attribuito a metà di loro il ruolo di guardia e all’altra metà quello di prigioniero. Il contratto di ricerca prevedeva che l’esperimento durasse massimo due settimane, le guardie presero parte ad un incontro il giorno prima dell’inizio dell’esperimento, mentre i carcerati vennero interpellati telefonicamente e nel giorno dell’esperimento fu simulato il loro arresto con la conseguente chiusura in carcere. Dopo neanche 2 giorni dall’inizio dell’esperimento, ci fu una ribellione dei carcerati contro le guardie, che misero in atto delle prepotenze per intimidire i prigionieri e ridurli alla sottomissione. Nel corso dei primi 4 giorni, 4 dei carcerati dovettero essere liberati in quanto avevano mostrato gravi disturbi emozionali o psicosomatici. A partire dal 5 giorno i prigionieri si attestarono in una posizione rinunciataria e passiva, mostrando segni di destrutturazione individuale e di gruppo. Circa un terzo delle guardie diede prova di un’aggressività e violenza che andavano al di là di quanto richiesto nelle istruzioni iniziali dell’esperimento. Le reazioni osservate non sono state la manifestazione di “caratteristiche permanenti di personalità, ma piuttosto di modelli di risposta specifici di ruoli e istituzioni particolari della società americana contemporanea”. La finta prigione diventa reale dal punto di vista psicologico, i comportamenti relativi ai ruoli di guardie e prigionieri sono legittimati, secondo Brofenbrenner, da due istituzioni: il sistema carcerario esistente e l’università in cui l’esperimento è stato svolto. Questo esperimento mostra come i comportamenti relativi ad un ruolo siano influenzati dai modelli più generali della cultura di appartenenza, che generano aspettative condivise. Se nei ruoli formali vi sono aspetti definiti e in qualche modo ineludibili, gli stessi ruoli non sono svolti da tutto gli attori con le stesse modalità, cioè è lo stile di ruolo che rientra negli aspetti soggettivi di interpretazione del ruolo e ha a che fare con le caratteristiche personali, i valori, i modelli di colui che li svolge. Anche nei gruppi informali ritroviamo i ruoli informali, che non sono soggetti ad un copione stabilito. Secondo Levine e Moreland, in quasi tutti i gruppi possono essere rinvenuti alcuni ruoli, i più comuni dei quali sono quelli di leader, di nuovo arrivato e di capro espiatorio. Per quanto riguarda quest’ultimo, Wells sostiene che questo ruolo ha una funzione importante nel gruppo, in quanto permette agli altri membri di risolvere i propri conflitti interiori riguardo all’integrazione delle parti negative nell’immagine di sé, proiettandole sul capro espiatorio. Una differenziazione di ruoli nel gruppo può essere svolta sull’asse strumentale-espressivo, infatti alcuni membri più di altri si centrano sul compito, mentre altri giocano più di frequente ruoli di tipo espressivo. Bales ritiene che nel gruppo le attività orientate al compito possono produrre malumori, soprattutto nella fase che si approssima alla realizzazione delle proposte emerse (fase di controllo); in questi momenti è importante che qualcuno allenti la tensione con battute scherzose, con affidabilità ed ironia, che creano un clima distensivo e sdrammatizza i nascenti conflitti fra membri. Baron per esempio, sostiene che tra i ruoli informali di un piccolo gruppo c’è quello del clown, un ruolo socio emozionale che ha una certa importanza, poiché serve a mitigare le tensioni pur avanzando, con l’ironia, critiche e commenti. E’ probabile che nell’economia di un gruppo che perdura nel tempo i membri tendano a scavarsi una nicchia ecologica, cioè a trovarsi un ruolo che tende a stabilizzarsi anche per il consenso degli altri. Talora possiamo riscontrare un ruolo nei gruppo, che è quello del leader d’opposizione, ossia qualcuno che nelle interazioni presenta spesso un punto di vista divergente e ciò procura non poche disfunzioni e attriti. Questi membri mostrano una stabile tendenza al dissenso, spesso ottengono l’ascolto del gruppo in virtù della sicurezza dei loro interventi o anche di meriti conquistati all’esterno del gruppo; talora egli raccoglie qualche seguace e in questo caso egli assume il ruolo di “testa d’ariete” utile a sfaldare la maggioranza, ma non è detto che egli conservi il ruolo di leader anche nella nuova configurazione del gruppo, potrebbe anche essere messo in disparte. Come affermano Levine e Moreland i conflitti possono nascere in fase di assegnazione di ruoli, oppure quando vi è disaccordo trai membri a proposito della modalità con cui dovrebbe essere svolto un ruolo e chi dovrebbe ricoprirlo. Possono esserci conflitti anche a livello individuale, nel momento in cui una persona comincia a svolgere un ruolo e perde motivazione in itinere oppure capisce che il ruolo ricoperto è contraddittorio o incongruente con la mansione che egli già svolge. Secondo Jackson e Schuler, i conflitti di ruolo nei gruppi di lavoro producono un aumento delle tensioni e un decremento della produttività. I ruoli in un gruppo hanno almeno 3 funzioni: 1. Facilitare il raggiungimento dello scopo di gruppo, poiché i ruoli dividono la mole di lavoro fra i vari membri; 2. Portare ordine e prevedibilità nel gruppo, poiché i ruoli si basano su aspettative condivise e in questo modo tutti sanno cosa aspettarsi e da chi, soprattutto in certi momenti cruciali della vita di gruppo; 3. Contribuiscono alla nostra autodefinizione, cioè alla consapevolezza di ciò che siamo. In ogni tipo di gruppo esistono comportamenti consentiti e non consentiti, queste sono le cosiddette norme. Per norma si definisce la gamma delle differenze individuali che i membri dei gruppo ritengono accettabile, nonché il limite al di là del quale un certo comportamento può essere biasimato, tramite la disapprovazione o altre sanzioni a seconda della gravità della violazione. Rappresentano delle scale di valori che definiscono ciò che è accettabile e ciò che non lo è, per i membri di un gruppo o di una comunità o di una società. Le norme possono anche essere definite, come affermano Levine e Moreland, dalle aspettative condivise circa il modo in cui dovrebbero comportarsi i membri di un gruppo. Quindi rappresentano un prodotto collettivo e non includono solo regole di comportamento, ma possono riguardare anche modalità espressive o pratiche alimentari e salutiste. Secondo Sherif l’essenza di un gruppo, è data da due elementi centrali: la struttura e le norme e valori; le situazioni sociali in cui mancano tali proprietà sono definibili come aggregati e no come gruppi. Egli infatti vede nel processo normativo un elemento caratterizzante tutti i gruppi; per esempio nei gruppi formali questo processo può seguire un iter formativo di lunga durata. Le norme possono essere esplicite o implicite, queste ultime non sono né scritte né espresse direttamente, ma hanno uguale forza di impatto per sancire l’esclusione di un membro che le abbia violate (come nei gruppi di adolescenti). Vi sono inoltre norme centrali e norme periferiche. Le prime si riferiscono a questioni che comportano conseguenze per il gruppo dal punto di vista della sua esistenza e del suo funzionamento e che quindi pongono in modo grave il problema della conformità e della devianza. A questo proposito, Sherif ritiene che più il gruppo è coeso più i membri reagiscono unitariamente quando uno di loro devia da una norma centrale, inoltre la realtà delle norme e i limiti di comportamento che impongono ai membri divengono più chiaramente riscontrabili quando la devianza produce interventi correttivi e punitivi. Le norme periferiche, invece riguardano questioni considerate dal gruppo come marginali al proprio schema di comportamento, Sherif parla di zone grigie intendendo quelle aree di comportamento per le quali non c’è né accettazione né rifiuto. L’osservanza delle norme diversifica i membri del gruppo, come hanno visto Sherif e Sherif nei loro studi sui gruppi naturali di adolescenti, notando come l’ampiezza di comportamento che può essere accettata varia con la posizione che l’individuo occupa nel gruppo, cioè con il suo status. Per quanto riguarda le norme centrali, il leader o i leader sono ancora più obbligati degli altri a seguire le norme da cui dipende l’identità e la sopravvivenza del gruppo, mentre nei confronti delle norme periferiche, il leader è più libero di non conformarsi e addirittura di cambiarle, cosa che non è concessa ai membri giungendo alla conclusione che nella stanzetta si arriva ad un consenso più estremo rispetto all’anfiteatro. Oltre lo spazio, esistono altri fattori che incidono sulla qualità e l’intensità degli scambi comunicativi, come le modalità con cui è condotta la discussione. La discussione può essere spontanea oppure più centrata sule procedure con cui si arriva alla decisione e meno sui contenuti e vincolata da limiti precisi di tempo. L’esperimento di Moscovici, Doise e Dulong mostra che il contesto della discussione spontanea senza limiti di durata porta il gruppo ad effetti di polarizzazione, mentre quando la discussione è regolamentata da preoccupazioni procedurali e da limiti temporali il gruppo giunge a posizioni di compromesso fra le varie posizioni, senza che le interazioni siano state nel segno dell’effettivo scambio e del possibile mutamento di posizioni. Moscovici e Doise distinguono: • La partecipazione consensuale, ossia la situazione in cui tutti i membri del gruppo possono esprimere le varie posizioni senza preoccupazioni di ordine procedurale; • La partecipazione normalizzata, caratterizzata dal fatto che le possibilità di accedere alla discussione sono regolamentate dalla gerarchia esistente nel gruppo. Con la prima forma di partecipazione gli scambi sono accesi; con la seconda gli scambi sono più ordinati, producendo tuttavia reticenze e scarso coinvolgimento degli individui. Bales studiò prevalentemente le strutture di comunicazione nei piccoli gruppi di discussione libera; egli suddivide l’interazione di un gruppo in atti microscopici, ossia segmenti di comportamento significativi e percepibili ad un osservatore esterno. Questi atti vengono codificati in 12 categorie mutualmente esclusive ( ogni atto può essere categorizzato in una sola categoria di contenuto). Le 12 categorie sono divise in 3 grandi aree: • L’area socio emozionale positiva, che comprende tre categorie: 1) dimostrare solidarietà, 2) allentare le tensioni, 3) mostrarsi d’accordo; • L’area del compito, che è definita come neutra e comprende sei categorie: 4) dare suggerimenti; 5) esprimere opinioni, 6) fornire degli orientamenti, 7) chiedere degli orientamenti, 8) chiedere delle opinioni, 9) chiedere dei suggerimenti; • L’area socio emozionale negativa, che comprende tre categorie: 10) disapprovare, 11) esprimere tensione, 12) mostrare antagonismo. Con la codifica delle 12 categorie di contenuto, possiamo ottenere un profilo dell’interazione del gruppo nel suo insieme. Flament osserva che la quantità degli atti emessi e ricevuti corrisponde all’ordine degli status sociometrici. Tuttavia si possono però sviluppare delle particolari strutture comunicative indipendentemente da qualunque fattore socio psicologico, come nell’esempio sperimentale di Steinzor, in cui si osserva che, in una disposizione delle persone a cerchio, il numero delle comunicazioni emesse da ciascun individuo è massimo nei confronti di chi sta di fronte e decresce in modo regolare passando ai membri che sono posti di fianco all’individuo frontale. Gli individui posti di fronte sono semplicemente più visibili e diventano in questo modo i testimoni più efficaci ed influenti dell’impatto delle comunicazioni dell’emittente. Secondo le ipotesi di Festinger, nel gruppo le correnti di maggioranza avrebbero rivolto più comunicazioni nei confronti della minoranza deviante nel tentativo di persuaderla e salvando così la coesione del gruppo stesso; se la minoranza dissidente non fosse tornata nei ranghi, il gruppo avrebbe messo in atto nei suoi confronti meccanismi di espulsione simbolica o addirittura di espulsione concreta, cacciandola dal gruppo. Attraverso questi lavori possiamo dire che la comunicazione non è l’elemento centrale di ricerca, ma essa viene utilizzata come cartina tornasole per mettere in evidenza altri fenomeni di gruppo. Bavelas e Leavitt si attestano invece sullo studio delle reti di comunicazione con metodi sperimentali e matematici. Secondo questi autori i gruppi non agiscono allo stesso modo nelle diverse reti di comunicazione a loro disposizione. Le reti studiate dagli autori sono quattro: rete centralizzata o ruota, rete a catena, rete a y e rete circolare o a cerchio. I risultati di questo tipi di esperimenti mostrano che la rete centralizzata risolve il problema più rapidamente e con maggiore precisione, il membro a popolarità sociometrica elevata è il soggetto nella posizione centrale e il morale del gruppo risulta più basso. Quindi il leader che sta nella posizione centrale, mostra un morale molto elevato, mentre gli altri membri un morale molto basso, di conseguenza il morale complessivo risulta molto basso rispetto che nelle altre reti. Nella rete più decentralizzata cioè il cerchio, il tempo di soluzione è alto, ma il morale complessivo è nettamente più elevato e non mostra disuguaglianze fra i membri e per quanto riguarda la popolarità sociometrica non emerge nessun leader. Studi successivi hanno messo in evidenza che i risultati di questo studio sono attendibili quando il compito è molto semplice, quando il compito diviene complesso la rete centralizzata si mostra meno efficace di una rete decentralizzata. Le ragioni di questa diversa efficienza nelle reti sono due: 1) Di tipo cognitivo, quando il problema è complesso il leader della rete centralizzata si trova a gestire un numero troppo grande di informazioni ed è soggetto ad un sovraccarico cognitivo, che abbassa il livello di prestazione, mentre nelle reti decentralizzate l’onere cognitivo è distribuito ugualmente fra i membri. 2) Di tipo motivazionale, nelle reti centralizzate il morale dei membri è basso come pure il livello di implicazione nel lavoro, al contrario di quanto avviene nelle reti decentralizzate, in cui ciascun membro del gruppo sembra voler fornire il proprio apporto. Secondo Flament è necessario studiare insieme la rete di comunicazione, ossia l’insieme delle comunicazioni dirette possibili, e il modello del compito, ossia l’insieme delle comunicazioni necessarie per giungere alla soluzione del medesimo. I modelli del compito sono: 1) Il modello centralizzato, dove un solo individuo centralizza le informazioni iniziali e ne deduce la soluzione che poi comunica ai suoi compagni. 2) Modello omogeneo, dove ciascun membro del gruppo centralizza per proprio conto le informazioni iniziali e ne deduce la soluzione. 3) Modelli intermedi, dove ci sono almeno due centralizzatori e un individuo non centralizzato. Inoltre può esistere anche un isomorfismo fra rete e modello e in tal caso non ci saranno difficoltà che ostacoleranno l’efficienza di gruppo. Mentre può verificarsi al posto dell’isomorfismo un eteromorfismo, quando alcune comunicazioni possibili nella rete non sono necessarie al modello o quando alcune comunicazioni necessarie nel modello non sono possibili nella rete, in questi casi sorgeranno difficoltà diverse, come: • Nel caso di eccesso di canali i soggetti potranno produrre comunicazioni inutili e a volte nocive per la soluzione del problema, quindi i soggetti dovranno arrivare ad astenersi da queste comunicazioni inutili. • Nel caso di penuria di canali, i soggetti dovranno trovare la strada comunicativa che possa conciliare quella particolare rete al tipo di modello di compito da svolgere. Capitolo quarto: “ La leadership: teorie a confronto” Un leader è la persona che può influenzare gli altri membri di un gruppo più di quanto sia essa stessa influenzata. In un gruppo può esservi più di un leader seppur con ambiti di influenza differenziati. Il leader può essere: • Formale quando ne ha l’incarico ufficiale (gruppi di lavoro istituzionali); • Informale nei gruppi spontanei o anche nei gruppi formali quando emerge durante le interazioni una leadership non istituzionalmente definita; • Legittimo o illegittimo cioè il leader può essere imposto ad un gruppo (gruppi formali) o emergere spontaneamente. PER HOLLANDER la LEADERSHIP è un processo d’influenza fra leader e membri per raggiungere gli scopi del gruppo, produce persuasione ed è essenziale al funzionamento organizzato di tutte le società non solo umane mentre il POTERE implica aspetti di coercizione e controllo e produce compiacenza. Inoltre, la leadership è un processo che implica l’interazione fra leader, seguaci (followers) o subordinati che hanno un ruolo attivo nelle attività di gruppo e le varie situazioni. La leadership è quindi un processo e non una persona. Novara e Sarchielli propongono quattro distinzioni concettuali: 1. POTERE come capacità di influenzare o di vincere le resistenze degli altri, assicurandosi comportamenti di adesione o di acquiescenza-compiacenza. 2. AUTORITA’: come legittimità dell’esercizio del potere, che si fonda su regole stabilite e rispetto ad un certo campo di attività. 3. CONTROLLO: come modalità con cui viene valutato il conseguimento degli obiettivi predefiniti e si assicura il rispetto di un certo patto sociale che lega fra di loro gli attori sociali. 4. LEADERSHIP: pur comprendendo gli aspetti sovra evocati, si delinea con una propria specificità e cioè come una forma d’influenza, caratterizzata dalla capacità di determinare un consenso volontario, un’accettazione soggettiva e motivata nelle persone rispetto a certi obiettivi del gruppo o dell’organizzazione. SECONDO TURNER: i tre principali processi d’influenza sociale sono: − POTERE che produce compiacenza. − INFLUENZA che produce persuasione. − AUTORITA’ definita come potere d’influenza che si basa su norme sociali, tradizioni, valori e regole ed è quindi legittimata. − LEADERSHIP: rappresenta o un ruolo sociale formale, o un esercizio di influenza agito da uno o più membri del gruppo; tanto nel ruolo sociale formale quanto nel ruolo informale i leader possono usare uno o più dei processi sopra descritti. Par. 1 “le teorie del ovvero l’approccio dei tratti” L’APPROCCIO DEI TRATTI è un approccio individualistico nato dai primi approcci teorici alla comprensione del fenomeno della leadership che tentarono di mettere in rilievo un set di tratti di personalità che costituissero dei predittori o delle spiegazioni post hoc, per dar conto al fenomeno dell’emergere di un leader: leader si nasce non si diventa cioè esistono negli individui delle propensioni naturali al comando. Quest’approccio era in voga nella prima metà di questo secolo, le numerose ricerche effettuate in quest’ambito sono state analizzate da Stogdill in due rassegne (basati sul lavoro di Northouse) in cui l’autore cerca di identificare i tratti correlati positivamente con la leadership. La prima rassegna si riferisce a 124 studi compiuti fra il 1904 e il 1947 dalla quale emerge che i tratti che differenziano il leader dal non-leader sono l’intelligenza, la vigilanza (alertness), l’intuizione, la responsabilità, l’iniziativa, la pertinacia, la fiducia in sé, la socievolezza; Nella seconda, formata da 153 studi compiuti fra il 1948 e il 1970, sono stati enumerati altri tratti che caratterizzano il leader e cioè propensione alla responsabilità e al conseguimento del compito, forza e tenacia nel perseguimento degli obiettivi, temerarietà e originalità nel problem solving, tendenza a prendere iniziative nelle situazioni sociali ecc. Kirkpatrick e Locke inoltre, sottolineano l’importanza di tratti come la grinta, il desiderio di comandare, l’onestà e l’integrità, la fiducia in sé, l’abilità cognitiva, la conoscenza del compito. Secondo Bodiou, la leadership non sarebbe costituita da tratti di personalità ma da una strategia identitaria che permette all’individuo di soddisfare certi suoi bisogni quali ad es. il rinforzo dell’immagine di sé, la valorizzazione di sé, il desiderio di contare agli occhi degli altri. Ciò comporta una certa visibilità sociale che secondo Moscovici costituisce l’aspetto più importante per ogni individuo. Nel gruppo la visibilità sociale si conquista innanzitutto con la parola (il leader parla più degli altri). Quindi si diventerebbe leader per una sorta di contratto interattivo che Oberlè definisce transazione implicita fra leader e il suo gruppo; contratto che d’altra parte è per sua natura instabile poiché altri membri del gruppo possono avere lo stesso bisogno di emergere come leader e dato che il leader non è sempre in grado di soddisfare le funzioni per cui è designato. La leadership è quindi una strategia identitaria che insieme a gli indubbi benefici, comporta dei costi per l’individuo in termini di mantenimento di tale posizione. Per tale motivo Bidiou vede nella leadership un processo dinamico ed evolutivo, che è il risultato di strategie individuali, interpersonali e di gruppo. Questa concezione può adattarsi al massimo a situazioni di piccoli gruppi informali o di gruppi di formazione temporanea. Tale concezione non spiega perché alcuni individui più di altri sentano la necessità identitaria di assumere posizioni leaderistiche ed altri no, il che riporta in qualche modo alla concezione dei tratti personali. L’approccio dei tratti ha delle debolezze: I. la prima è quella di prendere in considerazione solo un elemento del processo di leadership, tralasciando in modo marcato gli altri elementi del processo, cioè i componenti del gruppo e le situazioni, i contesti in cui si afferma un certo leader. Le persone che possiedono certe qualità possono diventare leader in certe situazioni ma non in altre. II. La lista dei tratti, inoltre, è quasi infinita e ci sono poche somiglianze fra i vari studi; III. L’approccio dei tratti si limita ad elenchi descrittivi delle qualità del leader, ma non si occupa di come questi influenzino i membri del gruppo, la loro produttività ed il loro livello di soddisfazione. Poiché i tratti vengono considerati come delle strutture psicologiche relativamente stabili non c’è grande spazio per l’apprendimento e lo sviluppo di caratteristiche utili per essere dei buoni leader. Secondo Avallone, se ci limitiamo ad una visione dei tratti, non si capisce come mai possano avere gli stessi tratti personali dei leader che falliscono come tali, dei leader che hanno successo e degli individui che non diventano mai dei leader. Inoltre non vengono considerati i tratti negativi ma solo quelli positivi ostacolando così il ritratto del leader efficiente. Come osserva Hollander, i tratti non sono degli elementi statici ma dinamici in quanto si esprimono in un contesto interpersonale e che possono essere giudicati più o meno opportuni per una data situazione. Par. 2 “I comportamenti del leader” RICERCHE SUI TRE STILI DI LEADERSHIP DI LEWIN, LIPPITT, WHITE: la situazione sperimentale era nel contesto di un doposcuola per preadolescenti in cui i collaboratori di Lewin, si alternavano alla guida di un gruppo adottando tre stili di leadership differenti (autocratica, democratica, permissiva o laissez faire) e conservando per sette settimane uno stile coerente di leadership. Poiché ogni collaboratore cambiando gruppo cambiava stile di leadership, ogni risultato osservato doveva essere attribuito non a tratti di personalità del leader ma alla condotta da questi adottata. I. il leader autocratico organizza e dirige ogni attività, resta piuttosto distaccato nei confronti dei ragazzi, tende ad inibire le comunicazioni fra coetanei, non rende partecipi gli allievi del progetto operativo. II. il leader democratico discute con il gruppo ogni decisione ed ogni attività, è piuttosto amichevole e disponibile, non inibisce i contatti fra i pari, rende partecipativi i membri del gruppo. III. il leader permissivo interviene pochissimo nelle attività di gruppo lasciandolo libero di agire. I risultati sono osservati a proposito di due variabili: la produttività di gruppo e il suo clima sociale. I gruppi a leadership autocratica presentarono un buon livello di produttività ma il clima era contrassegnato da aggressività fra i pari e da marcata dipendenza dal conduttore; i gruppi a leadership democratica giunsero ad un discreto livello produttivo mostrando motivazione al lavoro e una capacità di autogestione quando il leader si assentava, il clima era sereno. I gruppi a conduzione permissiva ebbero i più bassi livelli produttivi e i ragazzini passavano la maggior parte del tempo a giocare piuttosto che a lavorare, il clima era a volte caotico con qualche cenno di aggressività, il leader era meno gradito di quello democratico. La maggior parte dei primi lavori sul comportamento del leader vennero svolti in ambienti militari e avevano lo scopo di individuare i pattern comportamentali dei leader nelle posizioni più elevate. Tutto ciò attraverso il LEADER BEHAVIOR DESCRIPTION QUESTIONNAIRE (LBDQ). Veniva chiesto ai subordinati di descrivere i loro capi sulla base della frequenza con cui esibivano ciascuno dei nove comportamenti elencati nel questionario. Si evidenziarono quattro fattori: 1) la considerazione include comportamenti come aiutare i sottoposti, porre attenzione alla loro sicurezza sociale, fare loro dei favori, spiegare le cose, essere amichevoli e disponibili; 2) il dare origine ad una struttura (initiating structure) include comportamenti come portare i sottoposti a seguire regole e procedure, mantenere gli standard produttivi, rendere espliciti i ruoli del leader e dei subordinati; 3) l’enfasi sulla produzione; 4) la sensibilità. I primi due sono quelli meglio conosciuti. BLAKE & MOUTON idearono la Leadership Grid (griglia manageriale) ideata per valutare lo stile di comando dei dirigenti che include come fattori indipendenti l’interesse per le persone e l’interesse per la produzione. Dall’utilizzo di questa griglia appaiono 5 stili di leadership: 1. POVERO O LAISSEZ FAIRE: stile in cui è basso sia l’interesse per le persone e sia quello per la produzione. I leader che hanno questo stile cercano di fare il minimo sforzo per far eseguire il lavoro richiesto, cercano di evitare i problemi e di passare inosservati. 2. CIRCOLO RICREATIVO: stile in cui è alto l’orientamento per la produzione e basso quello per le persone. I leader che usano tale stile organizzano il lavoro in modo tale da raggiungere nel minor tempo possibile gli scopi prefissati e in modo tele che l’elemento umano interferisca in modo molto ridotto. 3. META’ STRADA: stile di un leader che mostra un interesse medio per il compito e per la relazione. 4. TEAM O SQUADRA: stile in cui è alto sia l’orientamento alle persone che alla produzione. I leader che adottano questo stile possono ottenere buoni risultati in un clima contrassegnato da soddisfazione e fiducia. Era emerso da alcune ricerche che I leader più efficienti sono quelli che hanno valutazioni più elevate in entrambe le scale sulle RELAZIONI UMANE & CENTRAGGIO SUL COMPITO. Ricerche successive non confermarono completamente questo assunto poiché vari altri fattori possono intervenire nel determinare l’efficienza di uno stile di leadership. Hollander sostiene che la descrizione del comportamento del leader è più relativa alle percezioni o agli atteggiamenti dei seguaci che una misura diretta di comportamento. L’approccio allo studio della leadership che si basa sul comportamento del leader mette troppo in ombra che le situazioni concrete costituiscono una variabile interveniente importante, tale da decretare il successo o il fallimento di un determinato stile di leadership. Il comportamento non contestualizzato del leader rischia di apparire un tratto della personalità. Par. 3 “l’approccio situazionista” L’ APPROCCIO SITUAZIONALISTA cerca di definire cosa richiesto ad un leader nella situazione in cui si trova. Il punto centrale di quest’approccio è che il leader ha bisogno di ricoprire funzioni diverse in situazioni che contemplano compiti diversi. Se nell’approccio dei tratti e in quello centrato sul comportamento del leader, il focus attentivo è sulla persona del capo, nell’approccio situazionista il focus si sposta sulle circostanze ambientali, sviluppano e si mantengono attraverso un reciproco scambio di risorse significative. TEORIA TRANSAZIONALE DI HOLLANDER: MODELLO DEL CREDITO IDIOSINCRATICO: le teorie transazionali sottolineano l’interazione reciproca fra leader e subordinati. Appunta l’attenzione sulle fonti di status, uno status che viene guadagnato fra i seguaci, e sulla base del quale il leader può apportare innovazioni al gruppo. Il CREDITO IDIOSINCRATICO è la credibilità personale che il leader conquista presso i followers e riguarda i seguenti 4 punti: 1) CONFORMISMO INIZIALE: il leader o l’aspirante tale deve inizialmente conformarsi alle norme del gruppo per acquistare l’influenza necessaria per poi eventualmente cambiarle: i leader ATTENDISTI cioè inizialmente conformisti nei confronti delle regole del gruppo, secondo la ricerca di Merei, conquistano il potere e la possibilità di introdurre innovazioni più dei leader interventisti. Secondo Hollander, Saranno giudicati ben diversamente dal gruppo atti di non conformità produttivi ed efficaci per il gruppo che atti di non conformità che conducono al fallimento delle iniziative. 2) COMPETENZA: il leader deve dare prova di contribuire al principale compito del gruppo con le competenze di cui dispone. Insieme alla conformità iniziale, le prove di competenza costituiscono i primi elementi che fondano il credito che il gruppo accorda al leader. 3) LEGITTIMITA’: è importante per guadagnare autorità. La legittimità può derivare da 2 fonti: DESIGNAZIONE ESTERNA: il leader viene assegnato ad un gruppo. Può essere una fonte di credito abbastanza debole se il leader non è in grado di dar prova di competenza e di efficacia. EMERGERE DI UN LEADER: che può realizzarsi sia con l’elezione del leader da parte del gruppo (es. politica), sia informalmente nei gruppi naturali grazie a prove di abilità mostrate dal leader. I dati di ricerca (Hollander) dimostrano che ai leader eletti viene riconosciuta più autorità di quelli designati in quanto i seguaci si sentono più coinvolti perché hanno scelto personalmente il loro capo, anche se sono più vulnerabili di quelli assegnati se le cose vanno male. 4) IDENTIFICAZIONE COL GRUPPO: la credibilità che si conquista un leader è legata anche a quanto egli dimostri di identificarsi con gli scopi e la natura del gruppo. Hollander parla di LEALTA’  che può anche essere riferita alle norme. Vi sono norme cui i membri del gruppo devono conformarsi, altre da cui il leader può deviare senza sanzioni da parte del gruppo (es. arrivano tardi agli incontri). Il leader deve essere percepito come qualcuno che lavora al meglio per il bene del gruppo, è molto probabile che i seguaci lo rifiutino se egli viene percepito come qualcuno che agisce in nome di propri interessi personali. Questa teoria si presenta come un approccio più dinamico di quelli della contingenza e pare più adatta a spiegare i cambiamenti che si realizzano in un qualunque processo di leadership, ma considera i membri del gruppo come un blocco unico senza accordare attenzione al fatto che non tutti i membri di un gruppo hanno lo stesso tipo di relazione con il leader. Secondo Brown, un altro limite di questa teoria è quello di centrarsi esclusivamente sui processi intragruppo, mentre le relazioni intergruppi sono spesso responsabili di notevoli cambiamenti anche nelle relazioni intragruppo e possono influenzare il processo di leadership. IL MODELLO DEI LEGAMI DIADICI DI LEADERSHIP E IL MODELLO DELLA COSTRUZIONE DELLA LEADERSHIP: nel modello dei legami verticali diadici, i rapporti fra il leader e i followers non sono considerati tutti allo stesso livello ma ogni seguace costruisce un rapporto specifico con il capo (si parla di diadi). Ogni leader ha un cerchio più o meno prossimo di seguaci, questi cerchi costituiscono l’ingroup quando sono vicini al capo, l’outgroup quando sono più distanti. I seguaci che fanno parte dell’ingroup ricevono più informazioni e confidenze rispetto a quelli dell’outgroup che hanno rapporti più formali con il capo. Ma essere più prossimi al capo ha un costo cioè richieste più alte di prestazione, adesione ad un codice più rigido di lealtà ed obbedienza; inoltre se un membro prossimo al capo fallisce, il fallimento coinvolge anche il leader perché viene ritenuto responsabile. NEL MODELLO DELLA COSTRUZIONE DELLA LEADERSHIP (Graen e Uhl): l’idea di base è che il leader possa sviluppare scambi di alta qualità con tutti i subalterni e non solo con alcuni fatto che avvantaggerà gli obiettivi dell’organizzazione come pure il progresso di carriera degli individui. La costruzione della leadership si sviluppa in tre fasi: I. FASE SCONOSCIUTA: le interazioni all’interno della diade leader-sottoposto sono limitate dalle norme esistenti, suggerite dai rapporti contrattuali. La motivazione del subalterno è orientata agli interessi personali piuttosto che verso quelli di gruppo. II. FASE DI CONOSCENZA: questa fase inaugura gli scambi ed inizia con un’offerta da parte del leader e del subalterno per migliorare gli scambi, condividere informazioni e risorse. Si tratta di una fase di valutazione sia per il leader che per il sottoposto. Gli scambi sono di media qualità e l’interesse si sposta da quello personale della prima fase ad un maggiore interesse per gli scopi e gli obiettivi di gruppo. Le diadi nelle fasi di conoscenza cominciano ad incrementare fiducia e rispetto reciproci. III. FASE MATURA DI ASSOCIAZIONE: questa fase è caratterizzata da scambi di alta qualità, da un alto lato di reciprocità fra leader e sottoposti. In questa fase il leader e i followers sono giunti a collegare i risultati positivi per se stessi con quelli positivi per l’organizzazione, addirittura il centraggio preferenziale è sugli interessi di gruppo. In questa teoria è centrale l’idea che il leader forma con ciascuno dei suoi sottoposti una diade, un rapporto diadico che può essere di tipo ingroup o outgroup. Nel modello di costruzione della leadership si sostiene che il leader dovrebbe creare con tutti i subalterni delle relazioni di tipo ingroup. Questa teoria dello scambio ha come punti di forza il fatto di prendere in considerazione la qualità differenziata delle relazioni fra il leader e ciascuno dei suoi sottoposti; di sottolineare come in ogni gruppo vi siano dei sottogruppi e di portare l’attenzione sull’importanza della comunicazione nel processo di leadership. La sua debolezza è nel non chiarire come i sottoposti accedano all’ingroup o all’outgroup e quanto sia possibile muoversi dall’uno all’altro quando le categorizzazione all’interno del gruppo siano piuttosto consolidate; non è chiaro cosa sia possibile fare per migliorare le relazioni con tutti i membri. Par. 6 “LEADERSHIP TRASFORMAZIONALE E LEADERSHIP CARISMATICA” Secondo Northouse, L’approccio trasformazionale fa parte dei paradigmi della NUOVA LEADERSHIP e può essere utilizzato per spiegare sia situazioni di microsistema, in cui un leader cerca di coinvolgere uno ad uno i suoi sottoposti, sia situazioni di macrosistema, come intere organizzazioni o culture, che trovano in un leader lo stimolo aggregante per produrre profondi cambiamenti politici. L’approccio trasformazionale inizia con il lavoro del sociologo politico Burns che considera i leader come gli individui che stimolano le motivazioni dei seguaci allo scopo di raggiungere sia i propri scopi che quelli dei seguaci, inoltre, ritiene che la leadership si distingua dal potere in quanto essa è legata ai bisogni dei seguaci. Distingue fra il concetto di leadership transazionale e trasformazionale perché entrambe si occupano dei rapporti tra leader e sottoposti: la prima è centrata sugli scambi per cui il leader acquista un vantaggio concedendo qualcosa ai seguaci ad esempio il manager che dà promozioni e incentivi di carriera agli impiegati che raggiungono obiettivi elevati; la seconda si riferisce ad un processo diverso per cui un leader si impegna attivamente con i suoi seguaci creando con essi una interrelazione che eleva sia la propria motivazione e il proprio morale sia quelli dei sottoposti. Un esempio di leader trasformazionale è secondo Burns, Gandhi, un leader che ha saputo recepire e farsi interprete dei bisogni e delle aspirazioni del popolo. Con leadership trasformazionale ci si riferisce ad un processo che trasforma gli individui in esso coinvolti. La teoria della leadership carismatica è stata elaborata da House; essa ha diversi aspetti simili a quelli della leadership trasformazionale. Egli sostiene che il leader carismatico ha speciali caratteristiche quali la dominanza, il desiderio di influenzare gli altri, la fiducia in sé, una forte consapevolezza dei propri valori. I leader carismatici: - forniscono forti modelli di ruolo ai loro seguaci per permettere l’adozione di particolari credenze e valori. Un esempio è quello di San Francesco d’Assisi che in prima persona ha mostrato ai suoi discepoli il valore della povertà; - mostrano livelli di competenza elevati ai loro seguaci. Un esempio storico è Napoleone Bonaparte considerato dai suoi soldati un genio militare per le sue abilità strategiche; - esprimono scopi ideologici che hanno implicazioni morali. Il discorso di Martin Luther King viene considerato come un esempio di questo tipo di comportamento del leader carismatico; - hanno la capacità di comunicare ai loro seguaci un elevato grado di aspettative e hanno fiducia nelle loro capacità di rispondere a tali attese; - sono in grado di attivare le motivazioni rilevanti per l’esecuzione del compito nei seguaci. Bass ha formalizzato la teoria trasformazionale della leadership. Rispetto a Burns ritiene che leadership transazionale e trasformazionale non siano dimensioni indipendenti ma gli elementi di un continuum. Rispetto ad House suggerisce che il carisma è una condizione necessaria ma non sufficiente per una leadership trasformazionale. La leadership trasformazionale si manifesta quando i leader: - stimolano tra colleghi e collaboratori l’interesse a considerare il proprio lavoro da nuovi punti di vista; - generano consapevolezza della missione o visione del gruppo e dell’organizzazione; - spingono colleghi e collaboratori a livelli più elevati di abilità e di potenziale; - motivano colleghi e collaboratori a guardare al di là dei loro interessi individuali. Bass e Avolio individuano sette fattori: a) fattori di leadership trasformazionale sono fattori conosciuti come le quattro I • influenza idealizzata: i leader trasformazionali mettono in atto comportamenti tali da renderli modelli di ruolo per i loro collaboratori; • motivazione ispirazionale: i leader trasformazionali motivano i collaboratori, li coinvolgono nell’immaginare situazioni future attraenti; • stimolazione intellettuale: i ledear trasf. Stimolano i loro seguaci ad essere creativi, innovativi, affrontando le vecchie situazioni in modi nuovi. • considerazione individualizzata: i leader trasf. Sono attenti ai bisogni di crescita e di successo di ognuno dei loro seguaci; b) fattori di leadership transazionale: • la ricompensa contingente: si riferisce al processo di scambio per cui il leader ricompensa gli sforzi dei seguaci; • direzione per eccezione (management-by-exception): si riferisce a quel tipo di leadership che comprende la critica tendente a correggere, feedback negativo e rinforzo negativo. Essa assume due forme, attiva e passiva; la forma attiva implica un’osservazione da vicino di quanto fanno i sottoposti allo scopo di rilevare errori e violazioni di regole. La forma passiva implica che l’intervento del leader non sia così immediato ma avvenga quando non sono stati raggiunti gli standard previsti. La differenza fra la ricompensa contingente e la direzione per eccezione è che la prima usa modelli di rinforzo positivo, la seconda modelli di rinforzo negativo. c) Fattore di non leadership in questo caso c’è assenza o evitamento di leadership: • Laissez faire: il leader abdica alle proprie responsabilità, rinvia le decisioni, non fornisce feedback, non si sforza di andare incontro ai loro bisogni. Applicando gli strumenti derivati da questo modello come l’MLQ (multificator Leadership Questionnaire) elaborato in un primo momento da Bass e poi revisionato da Bass e Avolio, sono state compiute ricerche negli ambiti più diversi dalle quali emerge che i leader più efficaci usano prevalentemente lo stile trasformazionale. Un esempio recente è di Geyer e Steyrer che hanno svolto una ricerca su venti banche austriache usando una forma revisionata a quattro fattori dell’MLQ, somministrato per la prima volta ad una popolazione germanofona. In questa ricerca si intende rapportare lo stile di leadership a degli indici obiettivi di prestazione che prendendo in considerazione le caratteristiche dei clienti e del mercato locale indicano se gli obiettivi stabiliti siano o non siano raggiunti. I risultati mostrano che la leadership trasformazionale promuove la prestazione più della leadership transazionale. I punti forte della teoria trasformazionale e carismatica consistono nel superamento dell’ottica di scambio e di ricompensa per inaugurare una diversa considerazione del processo di leadership che si appunta su un corpus di valori che spingono al superamento degli interessi soggettivi in vista di un bene comune. I punti critici di questo tipo di studi è l’enfasi sulla forza trascinante di un leader che ricorda da vicino l’approccio dei tratti e il mito del grande uomo, che può elicitare una considerazione aristocratica e ed elitaria del capo. Un’altra critica a questo approccio è che i primi dati sulla leadership trasformazionale sono stati desunti da ricerche qualitative su leader ad alto livello ed è quindi lecito chiedersi quanto essi siano poi esportabili a posizioni basse o intermedie di leadership. Par. 7 “Donne e leadership: un binomio possibile?” Oggi, nelle nostre società evolute, le donne occupano posizioni nelle varie organizzazioni e partecipano costituita da una cultura che pretende di essere neutra. Secondo Gherardi, la pretesa di neutralità delle organizzazioni nasce da un impegno morale verso un’etica di universalità. Le organizzazioni si differenziano secondo il genere: il mondo degli affari è più maschile di quello della pubblica amministrazione, e in genere sono più maschili gli ambiti di lavoro considerati consensualmente come più prestigiosi. All’interno di una stessa organizzazione sono più maschili i settori che hanno importanza strategica e reputazionale come per esempio la produzione, le posizioni più elevate sono quelle maschili e quelle basse sono femminili, e quando le donne occupano posizioni manageriali ciò avviene in unità di lavoro meno prestigiose. Rosener nel suo studio su donne leader, effettuato tramite interviste a donne e uomini, ha trovato che le donne descrivono il loro stile di leadership come più interattivo o trasformazionale di quello degli uomini. MODELLO DI LEADERSHIP FEMMINISTA di Griggs: le donne leader tendono a creare strutture partecipative piuttosto che autoritarie e quindi le decisioni vengono prese con modalità di tipo consensuale. Mentre la leadership maschile è di tipo verticale cioè gerarchico, quella femminile è piuttosto del tipo a rete in cui le persone sono interrelate tra loro. Per gli uomini il potere è concepito come dominazione e controllo degli altri, per le donne è energia e forze che possono essere condivise. la gestione del conflitto per le donne è qualcosa di importante per giungere a soluzioni produttive e soddisfacenti per tutti. Nella concezione maschile, il conflitto è visto come una minaccia o qualcosa di negativo da evitare, mentre per le donne il conflitto costituisce un momento di interazione forte. Con le donne si ha la creazione di un ambiente di lavoro di tipo supportivo: caratterizzato da calore, comprensione, incoraggiamento, supporto, fiducia. Come mostrano numerose ricerche, le donne sarebbero, per il tipo di socializzazione ricevuta, più competenti degli uomini nelle relazioni a tutte le età. La valorizzazione della differenza costituisce uno dei cavalli di battaglia del femminismo fin dai suoi esordi. Le donne valorizzano le differenze in quanto tendono a considerare tutte le differenze come fonti possibile di arricchimento e di innovazione. MAIER in una rassegna sulle prospettive presenti in letteratura riguardo alle posizioni di comando (management) nelle organizzazioni distingue quattro periodizzazioni nelle concezioni sulla somiglianza o differenza fra uomini e donne: • Anni ‘50-’60 ESSENZIALMENTE DIVERSI: concezione maschilista per cui si ritiene che il posto della donna sia a casa. Questa concezione non produce né cambiamenti di tipo strutturale, né di tipo individuale. • Dagli anni ’70 ad oggi ESSENZIALMENTE SIMILI: concezione delle pari opportunità per la quale le donne possono offrire contributi pari a quelli degli uomini. In questo caso si ha cambiamento individuale da parte delle donne, ma non di cambiamenti di natura strutturale. • Dagli anni ’80 ad oggi ESSENZIALMENTE DIVERSI: concezione della differenza, sviluppatasi in Italia come filosofia della differenza, per cui si esalta il valore della differenza i cambiamenti fra uomini e donne. I cambiamenti non sono di tipo individuale, ma piuttosto emergono qualche cambiamenti strutturale. • A partire dagli anni ’90 ESSENZIALMENTE SIMILI: FEMMINISMO TRASFORMATIVO: si riconosce l’interdipendenza fra famiglia e lavoro e i cambiamenti sono di natura sia individuale che strutturale. Con queste ricerche si vuole dimostrare che gli uomini e le donne possono imparare gli uni dalle altre, incorporando reciprocamente gli aspetti migliori degli uni e delle altre, e dando luogo ad uno stile di leadership più ANDROGINO. Ad esempio le donne possono imparare dagli uomini ad essere più centrate sul compito mentre gli uomini possono imparare dalle donne a sviluppare le abilità relazionali e le capacità nel riconoscimento ed espressione delle emozioni. Glaser e Smalley usano nel loro libro “Swim with the dolphins” la metafora di squali, guppies e delfini. Gli squali sono a sangue freddo, arroganti, duri, forti e propensi al comando e al controllo; I guppies rappresentano delle applicazioni inefficaci di leadership; i delfini hanno grandi capacità di comunicazione, sono a sangue caldo e amichevoli, sono implicati come gli squali nelle questioni di profitto e bilanci ma scelgono uno stile alternativo che massimizza l’efficacia organizzativa. In quest’ottica i delfini sono veri leader e non capi; donne e uomini possono essere delfini per quanto le prime siano più predisposte ad assumere questo ruolo. La realtà è che ancora oggi sono presenti molti stereotipi negativi sulle capacità di leadership delle donne. Smith presenta a questo proposito un panorama della situazione statunitense in cui le donne hanno stipendi più bassi degli uomini a pari livello occupazionale; la presenza di donne in un’organizzazione abbassa il prestigio di questa e gli uomini tendono ad uscirne. La Smith sottolinea che i limiti di questo approccio sono da ascriversi ad una certa aneddoticità, spesso determinata da un punto di partenza ideologico che enfatizza eccessivamente le differenze fra il modo di essere leader maschi e femmine e meno legata all’esigenza di buoni disegni di ricerca. Gli studi sulla leadership femminile sono affetti da un ulteriore bias di partenza, essendo stati svolti su donne bianche ed ignorando il fatto che altre donne di altre razze ed etnie hanno esperienze molto diverse, che andrebbero ugualmente analizzate e raccontate. Cap 5 “Le forze centripete e centrifughe nel gruppo: dall’uniformità alla divergenza” Le principali forme che tendono a mantenere unito in gruppo nel tempo e a rendere il più uniforme possibile la sua visione del mondo sono le forze centripete, ossia: la coesione e la conformità. La coesione risulta essere la convincere dal gruppo nel corso della discussione; • Il mode, doveva scegliere e mantenere nella discussione la posizione modale dell’opinione del gruppo, non doveva quindi discostarsi dalle posizioni del gruppo. I principali risultati di questo esperimento mostrano che: • Il deviante è il membro che ottiene alle scelte sociometriche il più alto livello di rifiuto: tanto più è alta la coesione in un gruppo, tanto più il deviante viene rifiutato; a parità di livello di coesione il rigetto del deviante è più forte nei gruppi rilevanti che in quelli irrilevanti. • I processi di comunicazione nel gruppo mostrano alcuni fatti interessanti. Il risultato principale è che il deviante è il destinatario di un numero elevato di comunicazioni, che ovviamente tendono a convertirlo alle posizioni del gruppo per salvarne in qualche modo la coesione. Secondo Moscovici e Doise, la coesione può funzionare come un invito al conformismo e una difesa contro le minacce di devianza, oppure funzionare come un legame di fiducia, una specie di credito che il gruppo concede ai suoi membri, permettendo loro di agire in libertà ma contando sulla loro lealtà: in questi gruppi i dissensi non sono temuti sono anzi incoraggiati ed è visto come minacciante un eccesso di uniformità. In termini di influenza minoritaria si può sostenere che essa sia + pronunciata negli aggregati, che non hanno interesse per la coesione e l’identità di gruppo, e nei gruppi maturi, in cui l’identità e i confini di gruppo sono già definiti, mentre nei gruppi che sono nelle prime fastidi costruzione questa influenza è assai debole. Mucchi Faina sottolinea, che hanno maggiore effetto d’influenza le minoranze tardive rispetto a quelle precoci, soprattutto nei gruppi a debole coesione. Per quanto riguarda la tipologia di gruppi, distinguiamo i gruppi chiusi e quelli aperti: i primi sono gruppo che si richiudono su se stessi, difendendo la propria identità e distinguendosi con forza da altri gruppi; i secondi sono gruppi che si basano sull’attrazione reciproca degli individui e che sono in grado di proporre ideali da perseguire. Questa distinzione si collega ai due volti dell’identità di gruppo, di cui parla Tourraine: l’identità difensiva e l’identità offensiva. La prima è costituita da un richiamo difensivo e regressivo all’uniformità; mentre la seconda è una forza d’innovazione, fa leva su ideali comuni e tollera il dissenso interno come espressione di libertà e partecipazione sociale. Un’altra possibile espressione del dissenso è costituita da posizioni di minoranza; la scoperta dell’influenza minoritaria è di Moscovici. Egli ha messo in luce il potere di persuasione e conversione di minoranze che si caratterizzino per un certo stile di comportamento, ossia: • La consistenza, l’essere coerenti e tenaci sincronicamente e diacronicamente (nel corso del tempo). • L’autonomia, l’essere indipendente da legami esterni e agire secondo principi. • L’investimento, dare prova di coinvolgimento, di sacrifici personali e materiali per sostenere le proprie posizioni. • La flessibilità, la capacità di assumere uno stile di negoziazione flessibile pur mantenendo la coerenza. • L’equità, capacità di guardare anche a posizioni diverse dalla propria con imparzialità. Secondo l’autore, la maggioranza produce soprattutto compiacenza, cioè un’adesione pubblica senza che vi sia un’accettazione personale. Mentre la minoranza può avere un’influenza indiretta definita come conversione, cioè un effettivo cambiamento delle proprie posizioni iniziali rispetto ad un determinato problema. Nemeth sostiene che il dissenso minoritario promuove un pensiero divergente, è un pensiero creativo che stimola gli individui e i gruppi a considerare il problema posto dalla minoranza secondo molteplici prospettive e che può avere l’esito di produrre soluzioni originali; mentre la maggioranza tende ad un pensiero convergente, dove diviene prioritario aderire alla norma condivisa, fossilizzando il gruppo su un’unica posizione e bloccando il processo di ricerca delle possibili alternative. Per quanto riguarda la tipologia delle risposte negative del gruppo al fenomeno della dissidenza interna, esse sono: • Rifiuto esplicito e totale, ciò che afferma il dissidente non corrisponde a verità, non dispone di alcuna attendibilità; a questa strategia si collega un processo di attribuzione di caratteristiche negative al deviante. A questa strategia contro la minoranza deviante si accompagna un vero e proprio processo di distorsione dei fatti disponibili. Questa strategia può accompagnarsi all’espulsione materiale o simbolica del deviante dal gruppo. • Rifiuto parziale, anche se è vero quello che afferma il deviante è meglio non parlarne per ragioni di credibilità del gruppo. Il rifiuto è parziale in quanto la maggioranza può essere consapevole che ciò che afferma il deviante non è talmente sprovvisto di senso, per quanto viene riprovato il fatto che egli ne parli pubblicamente. Con questa strategia il deviante può essere tenuto nel gruppo per quanto si cerchi di farlo tacere. • Disconferma, una strategia che nega la presenza del deviante, che ne annulla in qualche modo l’esistenza. Con questa strategia i gruppi non hanno neppure bisogno di espellere materialmente il membro deviante dal gruppo in quanto sarà probabilmente il deviante stesso a scegliere di andarsene per salvaguardare la propria identità o di adeguarsi alla maggioranza. • Ridicolizzazione, strategia che tende a mostrare i devianti come personaggi un po’ patetici. La sanzione del ridicolo sociale è molto potente, tale da riportare nei ranghi coloro che vorrebbero opporsi al punto di vista maggioritario, anche quando esso è palesemente scorretto. • Naturalizzazione, forma di resistenza alla devianza che si presenta in modo sottile e consiste in un meccanismo per cui i gruppi si immunizzano contro i devianti rovinando la loro credibilità con l’attribuire l’origine dei loro comportamenti ed opinioni a caratteristiche personali naturali. La naturalizzazione può assumere forme diverse: 1. Biologizzazione, consiste in un’attribuzione dei comportamenti devianti a caratteristiche biologiche. 2. Psicologizzazione, l’attribuzione si appunta sulle caratteristiche di personalità: tale meccanismo diminuisce il potenziale d’influenza di un deviante all’interno dei gruppi. 3. Sociologizzazione, in cui il focus attributivo riguarda le opinioni e l’impegno sociopolitico oppure alle origini sociali dell’individuo. La maggioranza, inoltre, può avere un’influenza pervasiva sul comportamento, detto effetto modellante. Alcune ragioni per cui può iniziare un conflitto intragruppo, sono: • Accesso a delle risorse limitate. • La distribuzione ineguale delle opportunità e qualità fra i membri • Concezioni divergenti su questioni importanti in quel determinato momento • Possibilità che le graduatorie del prestigio personale dei membri siano sconvolte e trasformate per circostanze intervenienti. L’interdipendenza che hanno fra loro i membri di un gruppo li distingue da un semplice aggregato di persone. Si distingue fra interdipendenza del compito e interdipendenza del destino il che suggerisce che il gruppo sia interdipendente riguardo alle informazioni e ai risultati e che entrambi questi due tipi di interdipendenza possono produrre conflitti: • Informazioni, i conflitti relativi all’interdipendenza delle informazioni si attivano con la comparsa di opinioni divergenti fra i membri su questioni rilevanti per il gruppo e si esprimono con discussioni accese e tentativi di difesa delle proprie opinioni, possono essere sottesi da motivazioni competitive o cooperative. • Risultati, i conflitti relativi all’interdipendenza dei risultati si attivano quando si produce una relativa incompatibilità fra gli scopi e gli interessi dei vari membri: ossia quando si forma un’interdipendenza negativa. Nella dinamica dei gruppi il conflitto viene considerato da un lato come una minaccia al raggiungimento degli obiettivi, dall’altro come una minaccia alla coesione. Tuttavia, il continuo appiattimento delle posizioni e la continua repressione dei sentimenti di antagonismo può produrre un collasso del gruppo, da cui i membri possono ritirarsi sia simbolicamente che realmente. Altre volte l’evitamento del conflitto e l’illusione di unanimità possono condurre a scelte disastrose, come nel caso del pensiero di gruppo. I meccanismi che adottano i gruppi per far fronte al conflitto sono tre: I. Evitamento del conflitto, si tratta di un intervento preventivo teso ad impedire la comparsa del conflitto oppure a bloccarlo prima che diventi saliente per il gruppo. I conflitti che si basano sulla divergenza d’opinioni possono essere evitati con modalità di controllo del pensiero, che può essere controllo del proprio o dell’altrui pensiero. Nel primo caso l’individuo non esplicita le opinioni personali, che egli ritiene divergenti da quelle degli altri e che possono minacciare l’unione di gruppo. Nel secondo caso si cerca nell’ottica dell’evitamento del conflitto di controllare e manipolare i pensieri degli altri membri. Per quanto riguarda gli espedienti per controllare e manipolare i pensieri degli altri, essi sono: • Controllo dei comportamenti verbali, ossia porre limiti di tempo e di contenuti alle discussioni; • Introduzione di regole decisionali implicite o esplicite, più o meno severe; • Interpretazione falsata del disaccordo nel senso di ridurne l’importanza e quindi il potenziale eversivo; • Adozione del compromesso; • Processo di normalizzazione, che consiste nell’influenza reciproca fra i membri per raggiungere una ragionevole posizione media che sia accettabile per tutti, un minimo comune denominatore che sopprima le differenze fra le varie posizioni. Avviene quando la posta in gioco non è saliente per i partecipanti al gruppo. Tuttavia l’evitamento del conflitto non costituisce un meccanismo molto produttivo in quanto impedisce le forme di apprendimento e di ricerca. II. Riduzione del conflitto, intervento atto a ridurre o eliminare un conflitto già acceso e divenuto rilevante per il gruppo. Alcune forme di riduzione: • Influenza maggioritaria: la maggioranza impone il suo punto di vista e isola o espelle la minoranza; • Influenza minoritaria: la minoranza riesce a far passare la propria posizione e produce accomodamenti nel gruppo o converte alcuni membri; • Votazioni; • Processi di negoziazione. III. Creazione del conflitto, produzione intenzionale del conflitto in situazione di assenza del medesimo oppure esacerbazione di conflitti già esistenti. La positività del conflitto e dell’esposizione a punti di vista minoritari sta nel fatto che promuovono un pensiero divergente (creativo), stimolano la ricerca di informazioni alternative, incoraggiano ad assumere prospettive molteplici e ad utilizzare strategie diversificate per svolgere la prestazione. Deutsch distingue il conflitto in • Conflitto distruttivo, caratterizzato da un allargamento ed escalation della conflittualità a tal punto che essa diviene indipendente dalle cause che l’hanno generata ed è possibile che continui anche quando queste cause sono state rimosse o addirittura dimenticate. • Conflitto costruttivo, comporta un processo di ristrutturazione cognitiva un impegno di cooperazione e di ricostruzione. La nozione di scisma si riferisce al processo di divisione di un gruppo in sottogruppi e alla secessione finale di almeno uno dei sottogruppi dal gruppo originario. La storia di quasi tutti i gruppi è segnata prima o poi da uno scisma a qualunque stadio del loro sviluppo. Le condizioni necessarie affinchè avvenga lo scisma sono: • La percezione di una minaccia all’identità di gruppo, avviene quando i membri di un sottogruppo percepiscono le idee di un altro sottogruppo come un qualcosa che contrasta con la vera identità di gruppo e temono una futura identità che contrasti con la storia, la cultura e i valori del gruppo per come essi li percepiscono. • La percezione della mancanza di entitatività del gruppo, quando un sottogruppo vede nella posizione di un altro sottogruppo qualcosa che contrasta con l’identità del gruppo stesso, si fa strada la sensazione che il gruppo non sia più un gruppo. • Quando si realizzano le condizioni precedenti, si accentuano sia le differenze fra i sottogruppi che le somiglianze fra i membri di uno stesso sottogruppo. • Quando un sottogruppo percepisce la posizione di un altro sottogruppo come contrastante con l’identità profonda del gruppo, i membri di tale sottogruppo diventano impermeabili all’influenza sociale da parte dei membri dell’altro sottogruppo e cessano di considerare questi ultimi come membri legittimi del gruppo stesso, ed anzi iniziano a percepirli come membri illegittimi. • Le percezioni dei sottogruppi devono essere simmetriche, se c’è asimmetria, cioè se solo uno dei due sottogruppi vede l’altro come sovversivo, c’è una maggiore probabilità di trovare un compromesso, in quanto una delle due fazioni può essere più disponibile ad accettare le esigenze dell’altra. • Il modo in cui si sviluppa uno scisma dipende probabilmente anche dalle relazioni di status fra le fazioni, può succedere ad esempio che la fazione maggioritaria per potere o numero di adepti possa tollerare una minoranza percepita come sovversiva se persegue una strategia che necessita di un certo numero di presenze nel gruppo per raggiungere determinati scopi e ciò avviene di frequente nei partiti politici. Può succedere anche che una minoranza, che percepisca le posizioni maggioritarie come contrarie all’identità intragruppo, resti ugualmente nel gruppo o perché non ha al momento alternative valide, o perché spera di poter prima o poi rovesciare la situazione a proprio favore, o per un sentimento di lealtà nei confronti di un gruppo. Mentre con scisma ci si riferisce al processo di separazione, il sottogruppo che si spacca viene definito setta, la quale è un’ organizzazione socio religiosa formatasi per separazione rispetto ad una tradizione religiosa storicamente consolidata. La dinamica che presiede la costruzione di una setta è la seguente: 1. All’interno di un’istituzione religiosa si sviluppano dei presupposti dottrinali in modo tale che si possa delineare una nuova forma di pensiero: questo stadio viene contrassegnato dal conflitto ( vedi protestantesimo); 2. Si costituisce un nuovo principio di autorità: vi è un nuovo leader; 3. Ricerca di nuove condotte di vita che segnano la radicalità della scelta religiosa compiuta; 4. Temporanea o definitiva fuoriuscita dal mondo normale, cioè dal comune sistema istituzionale precedente. I gruppi sociali Cap. 6 CONFRONTI, CONFLITTI E TENSIONI NELLE RELAZIONI TRA GRUPPI I rapporti fra gruppi costituiscono molta importanza per la comprensione della realtà sociale in cui è sempre in atto il confronto fra gruppi con tensioni, conflitti e tentativi di collaborazione. Ricerca longitudinale (1958-1960) di Elias e Scotson in una piccola comunità urbana del Leicester. Obiettivo: studiare i rapporti fra gruppi 3 zone in base alla distribuzione del potere: I. Area residenziale abitata da classi medie; II. Area abitata da classi operaie di vecchio insediamento con reti sociali di famiglie di vecchio insediamento e con codice normativo rigido che restringe la libera iniziativa personale; (ETABLISHED) III. Area abitata da classe operaia di nuovo insediamento con famiglie problematiche. (OUTSIDERS) Durante la ricerca di campo si verifica un processo di esclusione e di etichettamento e discriminazione verso gli outsiders da parte degli etablished per la presenza di un piccolo numero di famiglie disturbate che diventano il pretesto per la costruzione di stereotipi negativi. Nel corso dello studio si verifica un decremento della delinquenza a causa del trasferimento di alcune famiglie di outsiders in altri luoghi. Tuttavia gli stereotipi negativi rimangono per i restanti outsiders quali definiti ancora inaffidabili. Tali fenomeni dimostrano la resistenza dei processi di stigmatizzazione e che i cambiamenti di stereotipi sono possibili ma ci vuole molto tempo affinché avvengano rispetto ai tempi delle ricerche longitudinali. Par. 1 STUDI SULLE RELAZIONI INTERGRUPPI Nelle relazioni intergruppi si manifesta il carattere di entità concreta e relazionale del gruppo. Gli individui agiscono in quanto componenti di un gruppo. Tajfel immagina il comportamento lungo un continuum con due estremi: 1) COMPORTAMENTO INTERPERSONALE: tipico delle situazioni sociali tra più persone in cui ogni interazione è determinata dall’incontro diretto fra le persone stesse con le rispettive caratteristiche individuali; 2) COMPORTAMENTO INTERGRUPPI: tipico delle situazioni sociali tra più persone in cui ogni interazione sociale è determinata dall’appartenenza a diversi gruppi o categorie sociali. Tuttavia è impossibile trovare un incontro tra 2 o più persone in cui entrino in gioco i fattori sociali di appartenenza ed è più attendibile trovare un incontro determinato dall’appartenenza di gruppo. E’ ancora più difficile trovare un caso puro di comportamento intergruppi in una situazione di collaborazione tra gruppi(es. accordo commerciale tra società).Quanto più il comportamento sarà vicino all’estremo intergruppi tanto sarà più indipendente: - dalle differenze individuali (ogni persona potrà agire come agisce); - dalle relazioni personali tra i singoli membri dei 2 gruppi; - dallo stato emozionale dei membri. Quanto più il comportamento sarà vicino all’estremo interpersonale saranno messe in risalto: - le differenze; - le affinità dei protagonisti. Quali sono le CONDIZIONI che permettono all’individuo di valutare se l’incontro con l’altro è interpersonale o intergruppale? • CONDIZIONE COMP. INTERGRUPPI: credenza o rappresentazione sociale secondo cui i confini dei gruppi sono rigidi e immutabili per cui non è possibile passare da un gruppo all’altro. • CONDIZIONE COMP. INTERPERSONALE: credenza secondo cui i confini dei gruppi sono permeabili e non vi sono ostacoli che impediscono il passaggio tra i gruppi. Se si verifica la prima condizione (confini rigidi), l’attore, non avendo la possibilità di poter cambiare la propria situazione, deve operare insieme al proprio gruppo. Quello che persegue è il cambiamento sociale. Se si verifica la seconda condizione (confini permeabili) l’attore avverte le situazioni sociali in base alla propria consapevolezza di essere membro, all’ampiezza delle valutazioni positive e negative dell’appartenenza e dall’investimento emozionale associato alla consapevolezza e alle valutazioni. Per questo l’appartenenza è avvertita in termini cognitivi, valutativi, emozionali e viene incrementata da fattori sociali, storici ed economici. ETNOCENTRISMO : condizioni che inducono i membri di un gruppo a svalutare i gruppi diversi dal proprio (outgroups). Merton afferma che gli atteggiamenti verso un outgroup possono essere negativi, positivi o neutrali. Schmidt sostiene che lo sviluppo della coscienza di gruppo sviluppa atteggiamenti di rifiuto nei confronti di chi non è parte dello stesso gruppo. A tal proposito Sherif ha fatto una ricerca in un campo estivo in America con ragazzi americani bianchi per 2 settimane i quali non sapevano di essere osservati. Obiettivo: studiare la relazione tra i gruppi. Il campo era diretto da lui stesso e la ricerca la divise in 4 fasi: 1) i soggetti entravano in contatto tra loro e le compagnie e le relazioni preferite venivano appuntate dai ricercatori; 2) i soggetti vennero divisi in 2 gruppi distinti ROSSI e BLU e venivano separati tutti gli amici più stretti e tutte le attività comuni cessarono; 3) i gruppi entrano in competizione l’uno con l’altro; 4) (introdotta successivamente) viene creata una situazione in cui le ostilità diminuiscono perché dovevano raggiungere un unico scopo tutti insieme (scopo sovraordinato) Risultati: se 2 gruppi che sono in rapporto tra loro si pongono degli scopi competitivi giungeranno rapidamente a un conflitto intergruppi. Se si pongono scopi sovraordinati (spingere tutti insieme la macchina rimasta ferma) ci sarà (variabile 1: interdipendenza, a due livelli vs interdipendenti; variabile 2: identificazione con l’ingroup, a due livelli alta vs. bassa). Veniva detto ai soggetti autonomi che avrebbero ricevuto il numero massimo di punti previsti nell’esperimento; i soggetti interdipendenti ricevevano i punti a loro attribuiti dagli altri membri dell’ingroup e dell’outgroup. A differenza di quanto ci potevamo aspettare dall’ipotesi di Rabbie, i soggetti autonomi e interdipendenti discriminavano allo stesso modo; i soggetti identificati con il proprio gruppo discriminavano di più di quelli meno identificati. Nell’esperimento gli autori impiegano compensi simbolici. Horwitz e Rabbie sostengono che il passaggio da categoria a gruppo si verifichi quando l’insieme di individui è visto come un’entità che passa da una posizione ad un’altra nel campo sociale, attivamente (di propria iniziativa) o passivamente, per raggiungere un vantaggio o evitare un danno. L’esempio degli ebrei che soltanto da quando cominciarono ad essere discriminati dai nazisti, avvertirono di appartenere a un gruppo. Quindi resta aperta la questione secondo la quale i gruppi si costituiscono come sostiene Rabbie, sulla base dell’interdipendenza di scopi e compiti fra attori sociali o se si costituiscano come Turner sostiene, producendo anche riscontri empirici. Par. 2.2 “Individualismo e collettivismo nella dinamica intergruppi (Hinkle e Brown)” Brown, sempre attraverso il metodo sperimentale, ha evidenziato alcuni limiti delle teorie di Tajfel e Turner. L’autore individua delle contraddizioni nella SIT su tre argomenti in particolare: 1. In diversi esperimenti riguardanti i rapporti di status fra i gruppi si evidenzia un favoritismo nei confronti dell’outgroup da parte dei gruppi di status inferiore; 2. Differenti tipi di comparazione intergruppi; 3. Relazione tra identificazione e processo di differenziazione intergruppi. Hinkle e Brown analizzando i risultati di 14 studi, rilevarono che solo in due di essi la correlazione tra identificazione con il gruppo di appartenenza e favoritismo verso lo stesso appare consistente. Quindi l’identificazione con il proprio gruppo e il bias favorevole verso l’ingroup non sono sempre positivamente associati, così si può ipotizzare che i processi alla base dell’identità sociale siano più complessi di quelli definiti da Tajfel e Turner. La maggior parte di tutti questi esperimenti sono stati condotti su gruppi creati a fini sperimentali e raramente su gruppi naturali. A questo proposito sono state individuate, da Hinkle e Brown, due dimensioni indipendenti che permettono di individuare diverse tipologie di gruppi: 1) Dimensione dell’individualismo-collettivismo: individualismo si riferisce alle conquiste individuali e all’indipendenza del soggetto dal proprio ingroup; collettivismo si riferisce alla cooperazione tra i membri. Secondo Triandis nelle società collettiviste: • I bisogni, gli obiettivi del gruppo sono più importanti di quelli del singolo; • Gli individui tendono a rispettare le norme sociali e ad adempiere ai doveri imposti dal gruppo; • Gli individui tendono ad aderire alle credenze del gruppo; • La cooperazione tra i membri è un dovere e una sicurezza in quanto i membri sanno di poter contare gli uni sugli altri. Nelle società individualiste invece si parla di bisogni e soddisfazioni individuali. Per Triandis individualismo e collettivismo dipendono sia dalla società che dal tipo di personalità (idiocentrica o allocentrica). Hinkle e Brown affermano che i processi sociopsicologici della SIT siano tipici di gruppi collettivisti (allocentrico). Inoltre il costrutto individualismo-collettivismo permette di considerare insieme le relazioni tra sé, l’ingroup e l’outgroup; Tajfel, invece, voleva evidenziare i diversi sistemi di credenze che possono influenzare le strategie degli individui per mantenere la propria identità. Esistono gruppi (gruppi di terapia) che pur essendo collettivisti non tendono a confrontarsi con altri gruppi, invece gruppi come i team sportivi tendono a confrontarsi con altri gruppi. 2) Dimensione autonomo-relazionale che si riferisce al tipo di ideologia o di orientamento adottato da un gruppo. I gruppi con orientamento relazionale valuteranno il proprio ingroup e i propri risultati confrontandosi con gli altri gruppi presenti nel contesto e con i loro risultati; i componenti di un gruppo autonomo non avvertiranno tale esigenza. Secondo gli stessi autori i processi sociopsicologici descritti dalla SIT possono verificarsi solo con individui o gruppi collettivisti ad orientamento relazionale. Sono stati effettuati 3 studi: nei primi due sono stati creati gruppi ad hoc in laboratorio, nel terzo sono stati utilizzati gruppi reali di studenti di una scuola secondaria. Gli autori hanno chiesto ai soggetti sperimentali di partecipare ad un compito di presa di decisione di gruppo, inoltre dovevano rispondere a questionari sull’orientamento individualista-collettivista, sull’identificazione con l’ingroup, valutazione circa ingroup e outgroup e orientamento relazionale-autonomo. La correlazione tra individualismo-collettivismo e orientamento relazionale-autonomo è risultata bassa o inesistente, ciò sembra confermare le ipotesi secondo cui tale dimensioni siano indipendenti e ortogonali. Gli esperimenti 1 e 3 hanno dimostrato che i soggetti collettivisti e relazionali esprimono la più alta correlazione tra identificazione con l’ingroup e bias favorevole ad esso, mentre gli individualisti autonomi esprimono quella più bassa. Gli autori sottolineano che questi risultati riguardano solo il livello degli individui singoli per questo sarebbe importante replicare lo studio con i gruppi. Le considerazioni sinora presentate sono in contrasto con la tesi centrale della SIT secondo cui il favoritismo dovrebbe essere sempre rivolto all’ingroup. Par. 2.3 “Interazione sociale e relazioni intergruppi” La Scuola di Ginevra ha elaborato una critica diversa nei confronti di SIT e SCT. La loro prospettiva si basa sul concetto di covariazione. Deschamps afferma che le dinamiche sociale a livello interindividuale ed intergruppi sono simili e interdipendenti. Quindi i processi che nell’analisi di Tjfel e Turner appaiono antagonisti, secondo Deschamps possono covariare. In particolare, la distintività personale dipende dalle posizioni che l’attore occupa in una rete particolare di relazioni intergruppi; l’autore ha perciò messo a fuoco l’importanza della variabile dominanti-dominati nelle relazioni fra gruppi: questa variabile è definita in rapporto alla posizione concreta del gruppo considerato nei confronti di altri gruppi in un dato momento. I membri dei gruppi dominanti considerano se stessi come individui unici e non sentono l’esigenza di definire se stessi in base all’appartenenza al gruppo. I comportamenti dei gruppi dominati si definiscono in base alle categorizzazioni sociali imposte su di loro. L’ipotesi di covariazione si applica meglio ai componenti dei gruppi in posizioni dominanti. Doise, partendo dai risultai di Deschamps, effettua delle critiche. Turner afferma che una forte differenza fra i gruppi corrisponde ad una forte somiglianza interindividuale entro lo stesso gruppo. La psicologia sociale di Freud sostiene la necessità di individuare un nemico al di fuori del proprio gruppo perché questo sia libero da conflitti. Non sempre però la competizione tra gruppi rafforza la solidarietà intragruppo come ha dimostrato Sherif quando una sconfitta in un gioco competitivo ha prodotto incremento di tensioni e conflittualità. Marques ha descritto l’effetto cioè al fine di dimostrare la superiorità del proprio gruppo, gli attori sociali svalutano i membri devianti marginali dell’ingroup. In un esperimento si è chiesto a studenti belgi di immaginare che a causare la morte di circa 40 tifosi della JUVENTUS ed a ferirne un centinaio nella tragedia dello stadio Heysel del 1985 fossero stati hooligans non inglesi ma belgi e tedeschi. I risultati mostrarono che i membri dell’ingroup (i belgi) erano giudicati più negativamente di quelli dell’outgroup (i tedeschi). In molti dei gruppi sperimentali costruiti ad hoc è stata riscontrata un’elevata omogeneità intragruppo. I gruppi appena costituiti tendono a percepire l’ingroup più omogeneo perché si sentono coinvolti nell’elaborazione di una nuova identità La formazione di un gruppo viene infatti considerata dalla SCT come un processo psicologico in cui il soggetto organizza cognitivamente la propria esperienza della realtà sociale. Secondo le ricerche di Doise la SCT si applica bene a determinati campi sperimentali ma non a tutti. Par. 2.4 “Quali motivazioni per quali identificazioni?” Alcuni ricercatori hanno voluto soffermarsi sulle motivazioni che spingono gli attori sociali a identificarsi con un gruppo particolare. Deaux critica sia la SCT che la SIT in quanto non hanno preso in considerazione gli aspetti relazionali ed affettivo- emozionali ma solo la dimensione cognitiva. Deaux e altri hanno indagato le possibili variazioni del modo in cui si presenta l’identificazione sociale utilizzando tecniche di cluster analysis e di scaling multidimensionale. Partendo da 64 diverse identità citate da soggetti sperimentali in una ricerca pilota preliminare fu chiesto a chi partecipava alla ricerca di raggruppare tali identità sulla base delle somiglianze vs. differenze percepite. L’analisi dei clusters mise in evidenza 5 tipi diversi di identità sociale fondate su: - Relazioni (relationship); - Ruoli e funzioni occupazionali (vocation e avocation); - Affiliazioni politiche; - Religione ed etnicità; - Aspetti stigmatizzanti (obeso, invalido civile). Le identità fondate sulla relazione differiscono dalle altre per essere più desiderabili e sono fondate sulla dimensione temporale mentre quelle etniche e religiose si basano molto spesso sul colore della pelle. Hogg e Abrams hanno considerato una serie di motivazioni sottostanti all’identificazione sociale (bisogno di conoscenza di sé, di significato, di potere e controllo) e hanno poi sostenuto che la motivazione più importante per l’identificazione sociale è la riduzione dell’incertezza. Ma questa tesi secondo Deux non è soddisfacente. Una prospettiva più interessante è quella di Brewer il quale con la nozioni di specificità ottimale, le identità sociali sono scelte o attivate per far fronte a bisogni opposti di differenziazione del sé dagli altri e di inclusione del Sé in identità sociali più ampie. La specificità per Brewer è dipendente dal contesto per cui un’identità specifica in un certo setting può essere meno soddisfacente se lo schema di riferimento cambia. Un esempio tipico della specificità ottimale è dato dall’impegno apparentemente contradditorio messo in atto dagli adolescenti per differenziarsi dalla famiglia di origine ma nello stesso tempo per sentirsi simili ai coetanei considerati prototipici. Inoltre la Deaux ha fatto un ulteriore esperimento volto a valutare le motivazioni delle identificazioni. Il team di ricerca ha prima raccolto una serie di dati , individuate tutte le possibili motivazioni, sono stati costituiti degli item presentati in una forma tale per cui i soggetti partecipanti alla ricerca dovevano inserire un termine mancante. Il questionario è stato somministrato a 600 persone. inoltre ai partecipanti, prima di compilare il questionario, veniva chiesto di selezionare un’identità sociale specifica. È stato dimostrato che per es. gruppi che esercitano uno sport di squadra avranno motivazioni al confronto e alla competizione mentre per i gruppi religiosi, la cooperazione intragruppo sarà la principale motivazione. In conclusione, l’equilibrio di somiglianza vs differenza nel rapporto ingroupoutgroup non è costante come la SIT e la SCT sostengono ma varia con l’impegno che fornisce ogni gruppo. Par. 2.5 “Giustificazione del sistema e teorie intergruppi (Jost)” Jost si chiede come può accadere che certi gruppi de-privilegiati (marginali) considerino naturale il sistema entro il quale sono inseriti cioè in una posizione di completa subordinazione a chi detiene il potere. In un articolo scritto con Banaji, afferma che gli attori sociali hanno l’esigenza di giustificare gli eventi sociali in particolare i comportamenti discriminatori e aggressivi propri o del proprio gruppo. Prendendo in considerazione la giustificazione del Sé, un caso esemplare è dimostrato dalla ricerca sulla personalità autoritaria (Adorno). Il pregiudizio etnocentrico contro le minoranze, serve al soggetto come meccanismo di difesa per non affrontare i gravi conflitti interni che vengono proiettati su capri espiatori costituiti da uno o più fra i gruppi minoritari. Allport sostiene che la funzione principale dello stereotipo è quello di giustificare la nostra condotta in relazione ad altre categorie. Tajfel effettua una distinzione tra: - Stereotipi cognitivi - Stereotipi sociali i quali non sono riducibili ai primi in quanto adempiono a diverse funzioni di difendere gli interessi e le azioni del gruppo soprattutto nel caso questi siano in contrasto o abbiano danneggiato un altro gruppo Jost e Banaji affermano che l’individuo di fronte a certi problemi, elabora una rappresentazione della realtà in base a cui giustifica il sistema al fine di preservare lo status quo. L’approccio SYSTEM JUSTIFICATION può spiegare il comportamento messo in atto dai gruppi privilegiati per difendere il proprio status dominante su altri. La differenza di potere può essere giustificata in vari modi: Invocando ragioni di competenza o di legittimità; Utilizzando meccanismi di svalutazione dei subordinati. Pur essendo danneggiati dalla situazione, questi soggetti la percepiscono come un dato naturale e perciò immodificabile, non come un prodotto sociale e quindi modificabile. Jost e Banaji interpretano queste tendenze per accettare/salvaguardare l’esistente in base ad un meccanismo di falsa coscienza cioè un insieme di credenze false che sostengono la propria oppressione. I limiti del lavoro di Jost sono molti ad es. la è usata in modo ridotto. Eagly ha dimostrato come gli stereotipi di genere derivino da assunzioni riguardanti i diversi ruoli occupati da uomini e donne.
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