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I Malavoglia, Verga, il verismo, Sintesi del corso di Italiano

I Malavoglia, recensione di Capuana

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 23/11/2020

sofia-pedersoli
sofia-pedersoli 🇮🇹

4.1

(13)

11 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica I Malavoglia, Verga, il verismo e più Sintesi del corso in PDF di Italiano solo su Docsity! Giovanni Verga - I Malavoglia - recensione di Luigi Capuana ~~~~ Scritti in francese, a quest'ora I Malavoglia avrebbero reso celebre il nome dell'autore anche in Europa, e toccherebbero, per lo meno, la ventesima edizione. In Italia, intanto, pare che pochi se n'accorgano o vogliano mostrare d'essersene accorti. Ecco, per esempio, io dubito molto che il De Sanctis voglia indursi a fare pei Malavoglia quello che osò per L'Assommoir dello Zola. Eppure mi sembra che pochi dei nostri libri moderni siano meritevoli quanto I Malavoglia che l'acuta analisi del critico napoletano s'eserciti a farne risaltare le bellezze di prim'ordine, profuse con larghezza di gran signore in quelle quattrocento e più pagine. Il caso non deve sorprenderci. Parecchie ragioni lo producono, e non è inutile cercarle. Primieramente l'autore ch'esce quasi all'improvviso dalla sua maniera. Dopo l'Eva, dopo l'Eros, dopo Tigre reale, i lettori del Verga s'erano abituati a quei suoi personaggi del gran mondo, dalle passioni raffinate, dipinti con colori caldissimi, con pennellate nervose, figure nuotanti in un'atmosfera smagliante di luce, le quali seducevano per un cotal partito di crudezze di toni, di mezze tinte, di sfumature che somigliava molto da vicino al fare un po' vaporoso d'Ottavio Feuillet. È vero che un giorno era venuta fuori la Nedda, viva viva, con tutta la rozza realtà della campagna siciliana, con quell'asino che interrompeva un colloquio d'amore fra i castagni dell'Etna; ma pare ch'essa fosse riuscita piccante più per la novità del soggetto che per il fino magistero dell'arte con cui la natura scoppiava fuori immediata e potente dalle poche pagine della novella. Infatti, quando il Verga tornò, bene ispirato, a soggetti consimili; quando, come per esercitarsi la mano pel gran quadro, schizzò quei suoi stupendi bozzetti della Vita dei campi, il nostro pubblico non fece al volume l'accoglienza festosa che c'era d'aspettarsi. Il Verga non aveva mai scritto nulla di così magistrale come La lupa, Jeli il pastore, Rosso Malpelo. Ma si vede che il grosso del pubblico vi cercava tutt'altro che la sincera evidenza della realtà, e assuefatto a manicaretti pepati di rettorica e di romanticismo, non riusciva a gustare quella semplicità quasi nuda. I lettori si trovavano lì faccia a faccia colla natura; invece pare amassero meglio vederla a traverso la simpatica personalità dell'autore, con tutti i fiori, i fronzoli e il ciarpame delle forme invecchiate; e si sentivano messi fuori strada. A proposito di forme, c'era anche la novità di quella che il Verga s'era creduto obbligato d'usare, perché il difficile strumento di questa diabolica lingua italiana che ci tiene, tutti, impacciati, potesse rendere limpidissimamente, con la più assoluta trasparenza che l'arte della parola consenta, le più minute particolarità del suo soggetto siciliano. E la felice intuizione d'artista con cui il Verga colava la lingua comune e il dialetto isolano in un cavo straordinariamente lavorato, come disse d'aver voluto fare lo Zola colla lingua francese e il gergo popolare parigino nell'Assommoir, rompeva a un tratto tutte le nostre tradizioni letterarie impastate, anzi che no, di pedanteria, tenaci, più di quello che paia. anche nei meglio disposti verso le utili e necessarie novità e le arditezze ben riuscite. Occorrerebbe assai meno di tutto questo per spiegare facilmente la accoglienza freddina che ora ricevono I Malavoglia, benché non ci sia neppure da far confronti fra il valore artistico d'essi, e quello di tutti i precedenti lavori del medesimo autore. Ma il ghiaccio si romperà; può prevedersi con sicurezza e senza aver l'aria di voler essere per questo un gran profeta. Forse sarebbe troppo strano che accadesse diversamente di quel che accade. Il romanzo, da noi, è una pianta che bisogna ancora acclimare. Non ha tradizioni, nasce appena, quando è già grande e glorioso altrove, in Francia e in Inghilterra. In Francia, specialmente si può seguire passo a passo tutto lo svolgimento di questa modernissima forma dell'arte che ha un colosso, il Balzac, tra i suoi cultori, uno di quei genii che fanno fare all'arte i passi del Giove antico. In Italia, quando avremo nominato i Promessi Sposi, non potremo citare che degli scarsi tentativi lodevoli, forse, meglio per le buone intenzioni che per altro. Anzi gli stessi Promessi Sposi s'abbarbicano soltanto con poche radici nel suolo dell'arte moderna; più per una meravigliosa esecuzione delle parti secondarie, che per tutto l'insieme. Il quale s'attacca a Walter Scott, secondo una naturalissima necessità di circostanze che nessun ingegno, per grande che sia, potrà vincere mai intieramente. [...] Certamente è un problema interessantissimo quello che offre la letteratura italiana rispetto al romanzo. Quando troviamo alle sue origini, il portento del Decamerone, dove tutti i germi dell'arte moderna non già sul punto di aprirsi, non si capisce perché poi quei germi sian rimasti così infecondi e perché bisogna fare il gran salto di parecchi secoli per arrivare al Manzoni. Prese una diecina di novelle del Decamerone alle mani, potremmo trovare dei meravigliosi riscontri col Balzac, col Flaubert, collo Zola, tenuto il debito conto della differenza tra un organismo incipiente e un organismo quasi arrivato al suo completo sviluppo. Eppure la novella moderna e il romanzo, cominciano soltanto ora ad attecchire in Italia. E se non vogliamo rifare il già fatto (un'operazione assurda in arte e in ogni altra cosa) ci tocca, per forza, di cominciare dal punto dove questa forma d'arte è oggi arrivata altrove, e adottarne tutti i mezzi per adoperarli, si intende, su materia nostra e per farla progredire, se n'abbiamo la forza. Ma le difficoltà sono immense. E certamente non servono a levarle di mezzo i giudizii strambi a proposito dei tentativi che gli scrittori italiani van facendo da una diecina di anni in qua. Ad essi, per contentare certi critici, anche la materia riesce ribelle. I popoli moderni han perduto, in gran parte, il loro vecchio carattere particolare. L'italiano, il francese, l'inglese, il tedesco di certe classi sociali si può anzi dire non esistano più. La aristocrazia e la borghesia oramai non sono di questa o di quella nazionalità, ma europee. Molti angoli sono smussati; molte differenze, specialmente interiori, furono scancellate affatto; e quelle che ancora rimangono son così impercettibili che bisogna armarsi d'una lente d'ingrandimento per riuscire a distinguerle. Talché non è solamente la forma straniera (e dico straniera per modo di dire, l'arte non avendo patria), ma è anche la materia italiana, così poco diversa dalla francese, dall'inglese, dalla tedesca, quella che impaccia i nostri passi e ci fa apparire più imitatori di quanto noi non siamo in realtà. Eppure si sa che nessun autore neppure i genii, cascano belli e formati dalle nuvole, senza procedere da qualcuno che gli ha preceduti; si sa che la generazione spontanea non è ancora provata in arte più che non sia provata nella natura. E, pel romanzo, non si tratta d'un organismo elementare o protozoo letterario, ma d'un organismo completo che oggimai si riproduce per fecondazione diretta e trasmette in eredità i suoi caratteri speciali, perfezionandoli, adattandoli, ma non mutandoli a capriccio di questo o di quello.
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