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I mezzi di impugnazione, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

Il documento comprende i riassunti del libro "Diritto processuale civile. Il processo di cognizione" (VII ed.) di F. P. Luiso, limitatamente alla parte relativa ai mezzi di impugnazione (pagg. 278 e sgg.).

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 22/01/2016

Fede.7786
Fede.7786 🇮🇹

4.3

(3)

5 documenti

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Scarica I mezzi di impugnazione e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! Le impugnazioni Definizione di impugnazione L’impugnazione è l’iniziativa di quella parte che si ritiene insoddisfatta dall’esito del giudizio a compiere le ulteriori fasi di giudizio. In questo senso, l’impugnazione è un ulteriore utilizzo del meccanismo della disponibilità della tutela giurisdizionale e mediante essa si tende a contestare in tutto od in parte il provvedimento contro il quale si agisce. L’impugnazione, pertanto, può essere visto come il potere della parte di compiere le ulteriori fasi nelle quali è articolato il processo di cognizione o come l’atto con cui si esercita questo potere. Il processo di cognizione ordinario, infatti, è, o può essere (l’esercizio dl potere di impugnazione è lasciato alla discrezionalità della parte) articolato in tre fasi: di primo, di secondo grado e di legalità o cassazione. La funzione dei mezzi di impugnazione I mezzi di impugnazione hanno come funzione quella di modificare o annullare la sentenza contro la quale si agisce. I mezzi di impugnazione costituiscono il punto di incontro tra due esigenze contrapposte: l’esigenza di creare più gradi di giudizio, nel dubbio che la sentenza emessa in primo grado possa essere viziata e l’esigenza di dare certezza al rapporto giuridico, oggetto del processo, dando definitività alla sentenza. I mezzi di impugnazione costituiscono il punto di incontro tra queste due contrapposte esigenze poiché sono in un numero limitato e poiché contribuiscono a rendere incontrovertibile la sentenza una volta decorso inutilmente il termine per proporre le impugnazioni ordinarie o una volta che sia stata esaurita la serie dei mezzi di impugnazione. Questo si capisce se si tiene conto che la sentenza emessa in primo grado è vincolante in modo assoluto per il giudice ed in modo relativo per le parti, dato che queste possono contestarla mediante l’utilizzo dei mezzi di impugnazione. L’incontrovertibilità della sentenza, che si forma una volta decorso il termine per impugnare o una volta esperiti tutti i mezzi di impugnazione, è un fenomeno strettamente processuale che si sostanzia nel c.d. “giudicato formale” di cui all’art. 324 c.p.c. Questo fenomeno processuale, a sua volta, investe anche il diritto soggettivo, poiché si forma il “giudicato sostanziale”, il quale è definito dall’art. 2909 c.c. L’art. 2909 c.c., più precisamente, afferma che la sentenza passata in giudicato formale fa stato tra le parti, i loro eredi o aventi causa e questo significa che il diritto sostanziale deve essere considerato a tutti gli effetti così come accertato dal giudice nella sentenza passata in giudicato. Oggetto delle impugnazioni Oggetto delle impugnazioni sono le sentenze. Non sono oggetto di impugnazione, invece, gli altri provvedimenti del giudice, come ad esempio, le ordinanze. Le ordinanze sono strumento di gestione del processo, non possono mai pregiudicare la decisione della causa e le questioni che risolvono, sono riproponibili all’organo decidente quando la causa passa alla passa decisoria. Non sono autonomamente impugnabili perché non esauriscono il potere giurisdizionale del giudice, il quale, appunto, può riesaminare la questione risolta con ordinanza, e perché il loro contenuto refluisce indirettamente nella sentenza. Ci sono anche ordinanze non modificabili e non revocabili, le quali, però, a differenza della sentenza, difficilmente determinano un pregiudizio per la parte. Infatti, non sono revocabili le sentenze emesse sull’accordo delle parti e questo perché se la parte giunge all’accordo, difficilmente avrà di che lamentarsi; non sono revocabili le ordinanze reclamabili al collegio e in relazione ad esse esiste un meccanismo di controllo. Infine, non sono revocabili le ordinanze dichiarate dalla legge espressamente non impugnabili: in questo caso, le parti non hanno motivo di utilizzare i mezzi di impugnazione, dato che queste ordinanze decidono questioni processuali che non pregiudicano la decisione della causa. Esempi: sono ordinanze dichiarate non impugnabili dalla legge: • quella che ordina la cancellazione della causa dal ruolo; • quella che irroga la multa ad un testimone. Sono decise con sentenza tutte le questioni di cui all’art. 279 c.p.c. e che riguardano aspetti sui quali l’ordinamento impone al giudice di non tornare. Diversamente, invece, le ordinanze hanno il carattere della riesaminabilità e decidono questioni che non fanno perdere al giudice il potere decisorio. Ai fini della spedita dei mezzi di impugnazione, la prevalente giurisprudenza e dottrina usano il principio della prevalenza della forma prescritta dalla legge su quella in concreto adottata: questo significa che può essere impugnato quel provvedimento per il quale la legge prescriveva la forma della sentenza, anche se in concreto, per errore del giudice, sia stato emanato sotto forma di ordinanza. Pertanto, ai fini della spedita del mezzo di impugnazione, è rilevante la forma che la legge impone e, quindi, il tipo di potere che il giudice spende nel pronunciare quel provvedimento che si vuole impugnare. Le ragioni dell’impugnazione La ragione dell’impugnazione è ciò di cui la parte si lamenta nel provvedimento impugnato. I motivi di invalidità dell’atto di cui la parte si lamenta possono derivare da un error in procedendo o da un error in judicando. L’error in procedendo, in particolare, si ha quando si assume esser stata violata una norma processuale e porta alla invalidità, quindi all’inefficacia, della sentenza. Sono tali, ad esempio, gli errori di competenza del giudice, di costituzione del contraddittorio, ecc.. L’error in judicando si ha quando si assume esser stata violata una norma di diritto sostanziale od un criterio di giudizio e questo errore può essere dipeso, a sua volta, da errori di fatto o da errori di diritto commessi dal giudice. Può portare ad una sentenza ingiusta, cioè ad una sentenza le cui regole di condotta enunciate non trovano corrispondenza nella realtà sostanziale esistente al momento in cui è stata emessa. Ragione dell’impugnazione è anche l’affermare che il provvedimento sia semplicemente ingiusto: è tale il provvedimento quando non è affetto da vizi, ossia da errori di diritto, ma è ingiusto nel suo contenuto, nel senso che è il risultato di una ingiusta valutazione delle prove e dei fatti. I mezzi di impugnazione, pertanto, possono essere utilizzati, a prescindere da errori del giudice, per richiedere la rimozione della sentenza emessa quando questa non è conforme alla realtà sostanziale o processuale. Con l’impugnazione, infatti, si portano in giudizio nuovi elementi non conosciuti dal giudice che ha emesso la sentenza impugnata. Questa divergenza della realtà effettiva viene fatta valere, ad esempio, con l’opposizione di terzo, la quale presuppone che il giudice abbia deciso tra attore e convenuto, in relazione al diritto fatto valere dall’attore e senza tener conto della situazione sostanziale del terzo che non ha preso parte al processo dal quale è scaturita la sentenza impugnata. Questo mezzo di impugnazione, infatti, è orientato a far rilevare la incompletezza della situazione sostanziale in base alla quale il giudice dell’impugnazione ha deciso. L’incompletezza, in questo caso, non è dipesa da errori del giudice, ma dal fatto che questi non poteva tener conto, ai fini della decisione, di elementi che vengono fatti valere per la prima volta con l’impugnazione. Struttura del giudizio di impugnazione Il giudizio di impugnazione può svolgersi dinnanzi allo stesso giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato o dinnanzi a un giudice diverso. Il giudizio di impugnazione deve costituire strumento idoneo per decidere dell’invalidità e dell’ingiustizia della sentenza e questo è possibile solo in quanto esso sia strutturalmente equivalente ad un normale processo dichiarativo: il giudice dell’impugnazione, infatti, deve accertare autonomamente i fatti processuali rilevanti e stabilisce se la sentenza è o meno viziata, applicando le norme processuali ai fatti accertati. Se accerta l’esistenza del vizio, annulla la sentenza impugnata. Queste attività sono compiute nella fase rescindete, ossia nella prima fase nella quale il processo di impugnazione è strutturato. La seconda fase della quale si compone il processo di impugnazione è la fase rescissoria, la quale corrisponde al momento in cui si sostituisce con un altro provvedimento la sentenza annullata. Queste due fasi possono svolgersi dinnanzi ad uno stesso giudice o dinnanzi a giudici diversi. La sentenza pronunciata in sede di impugnazione gode di maggior attendibilità rispetto a quella impugnata perché il giudice dell’impugnazione decide sulla base delle critiche avanzate dall’impugnante, partendo dalle conclusioni alle quali è giunto il giudice della sentenza impugnata. Quando si impugna, infatti, si chiede di Si parla di soccombenza virtuale quando non vi è una soccombenza effettiva, perché la parte è vittoriosa (ha ottenuto una tutela equivalente o maggiore a quella richiesta) e, pertanto, non ha il potere di impugnare in via principale. Tuttavia, questa parte, quando l’iniziativa è presa dalla controparte, soccombente effettivo, ha il potere di far riesaminare al giudice dell’impugnazione le questioni per le quali è soccombente virtuale. Si parla di soccombenza parziale reciproca quando il giudice ha accolto solo in parte la domanda e le eccezioni proposte. Questa è una soccombenza reale e, pertanto, tutte le parti sono legittimate ad impugnare. Per verificare la soccombenza in una sentenza con cumulo oggettivo, occorre scinderla in tante sentenze quante sono le domande sulle quali decide e valutare in relazione a ciascuna di esse quale parte è soccombente. Si verifica un fenomeno simile alla soccombenza parziale reciproca quando in relazione ad una domanda è soccombente una parte ed in relazione ad un’alta la controparte. Classificazione dei mezzi di impugnazione Distinzione in relazione alla ragione dell’impugnazione In relazione alla ragione dell’impugnazione, si possono distinguere i mezzi di impugnazione che servono a censurare errori del giudice dai mezzi di impugnazione che servono per richiedere al giudice provvedimenti diversi e che investono ragioni di giustizia: i primi sono i rimedi di legalità ed i secondi sono i rimedi di giustizia. Tuttavia, questa distinzione netta non esiste perché vi sono mezzi di impugnazione con i quali si fanno valere solo errori o vizi (es. ricorso in cassazione) e mezzi di impugnazione con i quali si possono far valere, oltre ai vizi del giudice, anche le semplici ingiustizie nella valutazione del merito, allegando in giudizio elementi ulteriori (es. appello). Distinzione in relazione al modo di operare del mezzo di impugnazione In relazione al modo di operare del mezzo di impugnazione, si distinguono: • i mezzi di gravame (o impugnazioni sostitutive): con questi mezzi di impugnazione, la parte può provocare direttamente il riesame della pronuncia impugnata, lamentandone semplicemente l’ingiustizia. Conseguenza di questa lamentela e che il giudice del mezzo di gravame viene investito del potere di riesaminare la questione già esaminata dal giudice della sentenza impugnata e ha gli stessi poteri che aveva quest’ultimo. La pronuncia del giudice dell’impugnazione ha sempre effetti sostitutivi rispetto alla pronuncia impugnata, anche se ne è identica di contenuto. Infatti, il giudice opera l’esame della sentenza ridecidendo la questione. Sono tali: l’appello (tranne alcune eccezioni), l’opposizione di terzo revocatoria, e il regolamento di competenza. • mezzi di impugnazione in senso stretto (o impugnazioni rescindenti): la parte soccombente deve affermare e provare che nel provvedimento impugnato è presente uno dei vizi tassativamente previsti dal legislatore per l’espletamento di quel mezzo di impugnazione. Il giudice viene investito del potere di controllare se quel vizio effettivamente sussista o meno. A seguito di questo controllo, il giudice può rigettare l’impugnazione o accoglierla: nel primo caso lascia integra la pronuncia impugnata, mentre nel secondo caso emana una sentenza che serve annulla e sostituisce la sentenza impugnata. Sono tali: revocazione, l’opposizione di terzo revocatoria e, solo parzialmente, il ricorso in cassazione. Con riguardo all’attitudine a formare giudicato In relazione all’attitudine a formare giudicato, si suole contrappore i mezzi di impugnazione ordinari ai mezzi di impugnazione straordinari. Sono mezzi di impugnazione ordinari sono quelli spendibili contro una sentenza non ancora passata in giudicato formale e il cui passaggio in giudicato è condizionato proprio dall’improponibilità di questi mezzi. L’elencazione dei mezzi di impugnazione è contenuta nell’art. 324 c.p.c., il quale indica come tali il regolamento di competenza, l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione ordinaria (art. 395 n. 4 e 5 c.p.c.). Questi mezzi di impugnazione vengono utilizzati contro i vizi palesi della sentenza. Sono vizi palesi, in particolare, quelli che la parte può percepire leggendo la sentenza. Un esempio di vizio palese è la falsa applicazione delle norme di diritto sostanziale. La concreta possibilità di esperire questi mezzi discende da un avvenimento certo, la pubblicazione della sentenza, dal quale, tra l’altro, decorre il termine per esperire questi mezzi. I mezzi di impugnazione straordinari, invece, sono spendibili indipendentemente dal passaggio in giudicato formale della sentenza, quindi anche contro una sentenza già passata in giudicato. Sono tali l’opposizione di terzo revocatoria, l’opposizione di terzo ordinatoria e la revocazione per i motivi di cui all’art. 395 n. 1,2,3, e 6 c.p.c. Le impugnazioni straordinarie riguardano i vizi occulti della sentenza, i quali corrispondono ad eventi futuri ed incerti. Un esempio di vizio occulto è l’aver deciso la sentenza sulla base di prove false. I mezzi di impugnazione straordinari riguardano la situazione di fatto e di diritto, qual era al momento determinante per i limiti temporali di efficacia della sentenza e ciò che consente il loro utilizzo attiene alle prove di fatti già allegati (es. scoperta di prove nuove, falsità delle prove utilizzate) o al comportamento tenuto dalle parti e dal giudice durante il processo (es. dolo, collusione, ecc..). I mezzi di impugnazione straordinari, riguardando vizi occulti, sono proponibili senza termine o entro un termine che decorre da un dies a quo incerto, qual è quello in cui il vizio è stato scoperto. La domanda di impugnazione è proposta allo stesso giudice che ha emesso la sentenza impugnata, il processo si svolge con le stesse regole con le quali si è svolto il processo che ha portato alla sentenza impugnata e la sentenza emessa in sede di impugnazione straordinaria è soggetta agli stessi mezzi di impugnazione ai quali era soggetta la sentenza impugnata. In questo senso, infatti, se ad esempio la sentenza impugnata con il mezzo di impugnazione straordinaria era stata emessa in sede d’appello, la sentenza emessa a seguito del giudizio di impugnazione è ricorribile in Cassazione. L’impugnazione straordinaria è un’azione sotto veste di impugnazione: una volta che questa è proposta al giudice, egli deve accertare preliminarmente se sussistono i vizi occulti, che la sentenza si basi effettivamente su questo vizio, che l’impugnazione sia stata proposta entro i termini, ecc.. Solo una volta che abbia analizzato questi aspetti può decidere la causa nel merito; inoltre, nel momento in cui viene proposto il mezzo di impugnazione straordinario, la domanda di impugnazione produce nuovi effetti sostanziali e processuali e sorge una nuova litispendenza. Questo perché la domanda giudiziale produce i sui effetti solo fino a quando la sentenza passa in giudicato formale e dopo questo momento, tornano ad essere applicate le norme ordinarie di diritto sostanziale. Questo è deducibile dall’art. 2652 n9 c.c., il quale richiede che la domanda revocazione e opposizione di terzo revocatoria contro sentenze siano trascritte. Gli effetti sostanziali e processuali che produce la domanda di impugnazione sono legati alla realtà sostanziale esistente al momento in cui è proposta e tale realtà è stata modificata dagli effetti che si sono prodotti medio tempore (nel periodo intercorso tra il passaggio in giudicato formale e la proposizione della domanda giudiziale) in virtù dell’applicazione delle norme di diritto sostanziale. Infatti, gli istituti di diritto sostanziale (es. usucapione, prescrizione, estinzione per non uso, ecc..) sopperiscono alle esigenze di stabilizzare la realtà sostanziale derivante dal passaggio in giudicato della sentenza. Esempio: l’attore propone domanda di accertamento del diritto di proprietà e il convenuto vince la causa perché un testimone dichiara il falso e il giudice fonda la sua decisione sulle risultante della prova testimoniale. Dopo 15 anni, il testimone è condannato per falsa testimonianza. Nel frattempo, il convenuto ha alienato il bene ad un terzo, il quale è acquirente in buona fede e il suo acquisto si fonda su un titolo astrattamente idoneo. L’attore può esperire il suo mezzo di impugnazione nei confronti del convenuto al fine di ottenere il risarcimento del danno, ma non può agire contro il terzo acquirente, avendo questi già trascritto il suo diritto. Termini per impugnare e l’acquiescenza La decorrenza del termine per impugnare e l’acquiescenza sono due fattispecie che determinano la perdita del potere di impugnare. I termini per impugnare I termini entro i quali proporre le impugnazioni sono disciplinati negli artt. 325 – 328 c.p.c. e sono essenzialmente di due tipi: il termine lungo ed il termine breve. 1- Il termine breve per impugnare Il termine breve per impugnare è disciplinato all’art. 325 c.p.c., il quale afferma che è di trenta giorni il termine per proporre il regolamento di competenza, l’appello, la revocazione e l’opposizione di terzo revocatoria. Invece, è di sessanta giorni il termine breva per proporre ricorso in Cassazione. questi termini, inoltre, sono perentori. Il momento a partire dal quale decorre il termine per impugnare è individuato dall’art. 326 c.p.c., il quale individua tre momenti: la notificazione della sentenza, la comunicazione della sentenza e la conoscenza del vizio occulto. La notificazione della sentenza, ai fini del decorso del termine breve di impugnazione, deve essere fatta, su istanza di parte, a norma dell’art. 170 c.p.c., il quale prevede che, avvenuta la costituzione in giudizio per mezzo del difensore, tutte le comunicazioni e le notificazioni vadano fatte al difensore della parte. Pertanto, la notificazione idonea a far decorrere il termine breve per impugnare è solo quella effettuata al difensore della parte e non anche quella effettuata alla parte personalmente. Questa regola vale se la parte, destinataria della notificazione, si è costituita per mezzo di procuratore; se è rimasta contumace o si è costituita in giudizio di persona, invece, la notificazione della sentenza deve esserle fatta a lei personalmente. In virtù del principio di unitarietà del termine per impugnare, la notificazione della sentenza fa decorrere il termine breve sia per chi la riceve, cioè il notificato, e sia per chi la effettua, cioè il notificante; conseguenza di questo principio è il fato che se la notificazione è inidonea a far decorrere il termine breve per il notificato (es. perché effettuata alla parte personalmente, anziché al suo difensore costituito), è inidonea a tal fine anche per il notificante. Ai termini brevi si applicano le cause di interruzione di cui agli artt. 299 e 301 c.p.c., se queste cause si verificano dopo la notificazione della sentenza; l’art. 328 c1 c.p.c. prevede che la notificazione della sentenza debba essere rinnovata per far decorrere nuovamente i termini brevi. L’art. 328 c2 c.p.c. si applica all’ipotesi in cui l’evento interruttivo sia la morte sopravvenuta della parte e dispone che in questo caso la rinnovazione della notificazione venga effettuata agli eredi collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto. Il termine breve per proporre regolamento di competenza, invece, decorre dalla comunicazione del provvedimento del giudice che ha deciso su questo presupposto processuale (art. 47 c.p.c.). Per quanto riguarda i mezzi di impugnazione straordinari, invece, l’art. 326 c.p.c. ha previsto che il termine breve per proporli decorra dal giorno in cui è stato scoperto il vizio occulto. La parte che propone questo mezzo di impugnazione è obbligata a dimostrare, non solo l’esistenza del vizio, ma anche il giorno in cui ne è venuta a conoscenza e ciò ai fini della tempestività dell’impugnazione. E’ da notare che in relazione ai mezzi di impugnazione straordinari, il legislatore ha previsto solo il termine breve e non anche quello lungo. 2- Il termine lungo per impugnare Il termine lungo per impugnare è disciplinato dall’art. 327 c.p.c., il quale prevede che, indipendentemente dalla notificazione, i mezzi di impugnazione ordinari non possono essere proposti dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza. 3- Casi nei quali le impugnazioni sono esperibili senza limiti di tempo L’opposizione di terzo ordinatoria è l’unico mezzo di impugnazione per il quale non è previsto un termine di decadenza. Alla regola generale di cui all’art.327 c1 c.p.c. vi è una sola eccezione, indicata nel sui c2: questa norma afferma che il termine lungo per impugnare non decorre nei confronti della parte contumace che dimostri di non essere stata a conoscenza della pendenza del processo, nei casi di nullità della citazione, nullità della Cause inscindibili Si hanno cause inscindibili quando nel processo a quo si è avuta una pluralità di parti intorno ad un’unica situazione sostanziale. Questa situazione di solo cumulo soggettivo si ha quando nel processo della fase precedente vi è stato: 1. litisconsorzio necessario: in questo caso, infatti, occorre che la pronuncia sia emessa nei confronti di tutti i soggetti e non può che applicarsi l’art. 331 c.p.c.; 2. litisconsorzio unitario: se in primo grado si è realizzato il litisconsorzio, questo deve essere mantenuto anche in sede di impugnazione, visto che l’oggetto del processo è unico e, pertanto, la decisione deve essere unitaria; 3. partecipazione adesiva da un processo altrui: si ha questa forma di partecipazione quando, a seguito di intervento adesivo dipendente ex art. 105 c.p.c. o chiamata in causa non innovativa ex art. 106 o 107 c.p.c., un soggetto partecipa ad un processo avente ad oggetto una situazione sostanziale altrui, connessa ad un'altra di cui egli ne è il titolare. Se la pronuncia viene impugnata da una delle parti, titolari del rapporto principale, occorre che l’impugnazione venga effettuata anche nei confronti del terzo, il quale, intervenendo nel processo della fase precedente, ha acquisito la qualità di parte ed il diritto di partecipare attivamente nel processo della fase precedente e in quello in sede di impugnazione; inoltre, la sentenza impugnata è vincolante anche per questo soggetto; 4. successione nel diritto controverso ex art. 111 c.p.c., quando l’avente causa è stato chiamato o è intervenuto nel processo: in questa maniera, infatti, su è realizzato un cumulo soggettivo e la pronuncia deve essere impugnata nei confronti di tutti i soggetti. Cause dipendenti Se il processo ha ad oggetto più cause dipendenti, significa che è un processo soggettivamente ed oggettivamente cumulato, in quanto ha ad oggetto diritti tra loro legati da varie forme di connessione (es. per garanzia, per titolo, per oggetto, ecc..). In questi casi, per capire se si debba applicare l’art. 331 c.p.c. o l’art. 332 c.p.c. occorre guardare al tipo di connessione, a chi sia il soggetto soccombente e a cosa questi chieda con l’impugnazione e, soprattutto, se la sentenza di impugnazione che accoglie la domanda limitatamente ad una sola delle cause dipendenti sia compatibile o meno con la disciplina che emerge dalla sentenza impugnata e relativa alle altre cause dipendenti. Si hanno cause tra loro dipendenti quando il contenuto della decisione di una di queste cause presuppone un certo contenuto della decisione dell’altra causa. La decisione di una situazione sostanziale, quindi, è condizionata dall’an o dal come dell’altra situazione sostanziale. Il criterio per capire quando applicare l’art. 331 c.p.c. e quando l’art. 332 c.p.c. è il seguente: si applica la prima norma quando l’accoglimento della domanda di impugnazione su una causa dipendente determinerebbe il sorgere di una incompatibilità con la disciplina contenuta nella sentenza impugnata e relativa agli altri diritti non fatti valere in sede di impugnazione. Si applica l’art. 332 c.p.c., invece, quando, l’accoglimento della domanda di impugnazione non è incompatibile con il contenuto della sentenza impugnata. La dipendenza alla quale questi due articoli fanno riferimento, è dipendenza da cause e l’incompatibilità/ compatibilità che determinano l’applicazione dell’una piuttosto che dell’altra norma, nascono dai contenuti delle pronunce. In linea generale, può dirsi che l’art. 332 c.p.c. si applica quando: • si impugna la decisione relativa ad una sola causa scindibile, la quale è fondata su un elemento, proprio di questa causa, e che non ha niente a che vedere con gli elementi delle altre cause; • il motivo dell’impugnazione è attinente solo al modo di essere di un fatto proprio di una sola causa scindibile e che, pertanto, non appartiene alla trattazione delle altre cause e questo anche se la decisione della causa scindibile si è basata sulla decisione di un’altra causa; • nel grado precedente vi è stato litisconsorzio facoltativo. Può dirsi applicabile l’art. 233 c.p.c. quando la sentenza impugnata ha deciso della causa dipendente tenendo conto del modo d’essere dell’altra causa e al giudice dell’impugnazione viene richiesto di accertare in modo unitario il modo d’essere di quest’ultima causa al fine di decidere di entrambe le controversie. Esempi relativi all’applicazione del criterio per capire quando applicare l’art. 331 c.p.c. e quando l’art. 332 c.p.c. Rapporto di garanzia: il proprietario dell’autovettura ha un diritto di regresso nei confronti del conducente quando questi abbia cagionato danni ad altri soggetti. In questo caso, l’esistenza del rapporto principale (il diritto al risarcimento del danno subito dal veicolo) è uno degli elementi della fattispecie costitutiva del diritto di regresso e altri fatti costitutivi sono la proprietà della macchina in capo al soggetto che ha il diritto di regresso e la guida dell’auto da parte del garante al momento del sinistro. In relazione a questa situazione, può aversi una pronuncia in primo grado che accerta il diritto al risarcimento dell’attore nei confronti del proprietario e il diritto di regresso di questi nei confronti del conducente. In questo caso, le parti soccombenti sono due: il proprietario nei confronti del danneggiato e il garante nei confronti del proprietario-garantito. Può accadere che ad impugnare la sentenza sia il proprietario: in questo caso, si applica l’art. 331 c.p.c. perché l’accoglimento della domanda di impugnazione, avente ad oggetto la richiesta al giudice di dichiarare l’inesistenza del diritto al risarcimento, è incompatibile con la parte della sentenza di primo grado dove si dichiara esistente il diritto di regresso. Il diritto di regresso, infatti, esiste in quanto esiste l’obbligo di risarcimento. Il giudice dell’impugnazione, pertanto, è chiamato a riformare anche il capo attinente al diritto di regresso, perché, in caso contrario, si accerta esistente un diritto di regresso nei confronti di un obbligo di risarcimento che non esiste e, pertanto, vi sarebbe incompatibilità tra le due sentenze. Può accadere che ad impugnare sia l’obbligato in via di regresso. In questo caso, per capire quale norma applicare, occorre guardare ai motivi per i quali impugna la sentenza di primo grado. Si applica l’art. 332 c.p.c. se impugna per motivi attinenti alla sola causa di regresso (ad es. affermando che egli non era alla guida dell’autovettura): in questo caso, infatti, l’accoglimento della sua domanda non è incompatibile con quanto accertato nella sentenza di primo grado circa la situazione dipendente. Si applica l’art. 331 c.p.c., invece, quando la domanda di impugnazione si basa sull’affermazione per la quale il suo obbligo di regresso non esiste perché non esiste l’obbligo del proprietario al risarcimento del danno. In questa ipotesi, le cause sono dipendenti sul piano processuale e non su quello sostanziale, poiché la realizzazione del simultaneus processus in primo grado era finalizzata a garantire un accertamento unitario del rapporto principale e di quello dipendente. Pertanto, se il garante impugna la sentenza, negando che esista il suo obbligo di regresso perché non esiste l’obbligo di risarcimento del garantito, deve necessariamente impugnare entrambi i due capi della sentenza. Alla stessa soluzione si giunge anche tenendo conto del fatto che il garante, avendo partecipato al processo di primo grado, ne è divenuto parte e, pertanto, per lui è vincolante quanto statuito nella sentenza anche in relazione al rapporto principale e deve impugnare anche quest’ultimo rapporto quando afferma qualcosa in contrasto con quanto deciso dal giudice di primo grado. Domanda alternativa: l’attore, proprietario di un fondo intercluso, propone domanda di costituzione di servitù nei confronti di due soggetti, proprietari dei fondi confinanti con quello dell’attore. Se il giudice accerta il diritto di servitù nei confronti di un solo proprietario, si hanno due soccombenti, il proprietario nei cui confronti è accertata la servitù e l’attore nei confronti dell’altro proprietario, il cui fondo è rimasto libero. Il convenuto, proprietario del fondo divenuto servente, impugna la sentenza di primo grado; si applica l’art. 331c.p.c. quando la sentenza ha rigettato la domanda dell’attore nei confronti del secondo proprietario perché ha accertato sussistente la servitù nei confronti di questo: in questo caso, impugnando la sentenza, si rimette in discussione il presupposto del rigetto della domanda dell’attore nella causa con l’altro proprietario. Si applica l’art. 332 c.p.c. quando la domanda dell’attore è stata rigettata nei confronti dell’altro proprietario per motivi propri di questa causa e non, come nell’ipotesi precedente, per il fatto che la servitù è costituita sull’alto fondo. Se è soccombente l’attore, questi può scegliere, in sede di impugnazione, di scindere le cause e impugnarne una sola o mantenere il simultaneus processus anche in sede di impugnazione. Le impugnazioni incidentali Le impugnazioni incidentali sono disciplinate agli artt. 333 e 334 c.p.c. Il presupposto delle impugnazioni incidentali è che vi sia una pluralità di soccombenti, i quali non devono essere parti necessarie ex art. 331 c.p.c. del processo di impugnazione. Questa pluralità di soccombenti può aversi quando, nella fase precedente, il processo era plurisoggettivo o era un processo a due e vi è stata una soccombenza parziale reciproca; questa soccombenza, a sua volta, può realizzarsi quando sono state proposte più domande, quindi il processo era cumulato oggettivamente, e ciascuna parte è risultata soccombente in relazione a determinate domande o quando il processo aveva un solo oggetto e la domanda dell’attore (es. domanda di risarcimento del danno) non è stata interamente accolta: in questo caso, infatti, è soccombente l’attore, per la parte di domanda non accolta, ed il convenuto per la parte accolta. Lo scopo che il legislatore vuole perseguire è quello della unitarietà del processi di impugnazione ed il mezzo con il quale raggiunge questo scopo è proprio l’impugnazione incidentale, la quale è prevista come obbligatoria per tutti coloro che impugnano dopo che è stata esperita una prima impugnazione, detta principale. In particolare, i soccombenti, obbligati a impugnare in via incidentale sono: • le parti nei cui confronti è stata proposta impugnazione ex art. 330 c.p.c.; • parti nei cui confronti è stata proposta impugnazione, nei casi di cause inscindibili e cause tra loro connesse o parti chiamate ad integrare il contraddittorio ex art. 331 c.p.c.; • soggetti nei cui confronti non è stata proposta impugnazione, ma a cui è stata notificata l’avvenuta impugnazione ex art. 332 c.p.c. L’impugnazione incidentale è necessaria per far riesaminare al giudice dell’impugnazione la questione della quale è titolare l’impugnato solo in certi mezzi di prova: infatti, vi sono mezzi di prova nei quali non è necessaria perché il giudice riesamina la questione o a seguito dell’impugnazione principale o perché gli viene riproposta dall’impugnato. Questa impugnazione non dipende dalle vicende dell’impugnazione principale: infatti, se quest’ultima non viene esaminata, nulla esclude che il giudice esamini quella incidentale. E’ contenuta nell’atto di difesa, previsto per il singolo mezzo di impugnazione, che l’impugnato compie nei confronti dell’impugnazione principale e questo perché si inserisce in un processo già aperto. Deve essere compiuta nei termini entro i quali la parte deve compiere questo atto di difesa. Ad esempio, la parte deve compiere: • l’atto di comparsa di risposta nell’appello e questo atto deve essere depositato in cancelleria entro il ventesimo giorno antecedente l’udienza di comparizione, fissata con l’atto d’appello; • controricorso nel ricorso per Cassazione: il resistente deve notificare e depositare in cancelleria questo atto entro i 40 giorni dalla notificazione del ricorso. L’impugnazione incidentale è inammissibile se è proposta dopo il termine ultimo previsto per il compimento dell’atto difensivo, stabilito per il singolo mezzo di impugnazione. La giurisprudenza sostiene che questa norma sanzioni non tanto l’utilizzo della forma incidentale, quanto il rispetto del termine per la proposizione della stessa e da questa premessa, arriva ad ammettere la possibilità che le parti propongano impugnazione principale anziché incidentale quando quest’ultima è troppo gravosa. Impugnazioni incidentali tardive Le impugnazioni incidentali tardive sono disciplinate dall’art. 334 c.p.c., il quale ammette che le parti, contro le quali è stata proposta impugnazione e quelle chiamate ad integrare il contraddittorio ex art. 331 c.p.c., possano compiere impugnazione incidentale tardiva anche se nei loro confronti è decorso il termine per impugnare o hanno fatto acquiescenza e, quindi, la sentenza è divenuta definitiva. La ratio della norma è quella di permettere l’impugnazione anche a coloro per i quali il potere di impugnazione, precluso o escluso, nasce (come nel caso del soccombente virtuale) o risorge a seguito dell’impugnazione fatta da altri e che, pertanto, non potevano compiere un’impugnazione principale. Oggetto dell’impugnazione incidentale tardiva sono anche le sentenze non definitive: la parte, vincitrice sulla sentenza definitiva, potrà impugnare, in via incidentale, quella non definitiva sulla quale era soccombente e che ormai è passata in giudicato. L’impugnazione incidentale tardiva, inoltre, è possibile anche nei casi di notificazione, permette alla controparte piena conoscenza legale della sentenza; sulla base di questa premessa, poi, ha affermato che anche l’atto di impugnazione inammissibile fa decorrere il termine breve per impugnare e, pertanto, la proposizione di un nuovo atto è possibile solo fino a quando non sia decorso il termine breve per impugnare. La dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione, inoltre, non determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Infatti, in certi casi alla dichiarazione di inammissibilità d quel mezzo di impugnazione non fa seguito il passaggio in giudicato della sentenza: • si pensi al caso in cui la stessa pronuncia sia stata impugnata con più mezzi di impugnazione: la dichiarazione di inammissibilità di un mezzo non determina l’impossibilità di esperire l’altro mezzo; • se la parte ha errato nell’utilizzare il mezzo di impugnazione, l’impugnazione è dichiarata inammissibile e la parte può esperire il mezzo corretto, se ancora non sono decori i termini; • nelle ipotesi di cui all’art. 331 c.p.c., se l’impugnazione di un soggetto è dichiarata inammissibile, niente impedisce che l’atto di impugnazione venga compiuto da un altro soccombente, con il conseguente coinvolgimento di tutti i soggetti nel processo di impugnazione; • l’impugnazione è stata dichiarata inammissibile perché non era ancora sorto il presupposto per impugnare. La dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione principale determina anche la caducazione dell’impugnazione incidentale tardiva: questo è un effetto proprio dell’inammissibilità. L’improcedibilità L’improcedibilità non è definita in maniera generale dal legislatore. Le norme che trattano di improcedibilità sono gli artt. 348, 369 e 399 c.p.c. L’art. 348 c.p.c., in particolare, tratta di improcedibilità in relazione all’appello ed afferma che l’appello è dichiarato improcedibile quando l’appellante non si è costituito nei termini o si è costituti, ma non è comparso né in prima udienza e né alla successiva, fissata dal giudice. L’art. 369 c.p.c., il quale afferma che il ricorso per cassazione è improcedibile quando l’atto di ricorso e i documenti necessari non sono depositati in cancelleria entro venti giorni dalla loro notificazione. L’art. 399 c.p.c. afferma che la revocazione è dichiarata improcedibile se l’atto introduttivo non è depositato in cancelleria entro 20 giorni dalla notificazione, assieme con copia autenticata della sentenza impugnata. Da queste norme è possibile dedurre che l’improcedibilità è legata all’omissione di un’attività del soggetto impugnante e che è successiva alla proposizione dell’atto d’impugnazione. Tuttavia, le ipotesi di improcedibilità sono tassative e non estensibili analogicamente e questo perché manca un quid proprium che le contraddistingua dalle ipotesi di inattività delle parti che determinano estinzione del processo. L’improcedibilità deve essere dichiarata dal giudice dell’impugnazione e prima che possa pronunciare questa dichiarazione, se non sono decorsi i termini per impugnare, la parte può riproporre l’atto di impugnazione. La dichiarazione di improcedibilità produce gli stessi effetti della dichiarazione di inammissibilità: l’impugnazione non può essere proposta e non si ha il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. L’estinzione L’estinzione è un istituto proprio solo di alcuni mezzi di impugnazione, a differenza dell’inammissibilità e dell’improcedibilità, le quali si applicano a tutti i mezzi di impugnazione; infatti, questo istituto non opera per i mezzi di impugnazione straordinari. E ‘disciplinata all’art.338 c.p.c., il quale afferma che il processo di impugnazione si estingue per rinuncia agli atti o per inattività delle parti. La rinuncia agli atti, in particolare, deve provenire dall’impugnante principale e deve essere accettata da tutte le parti che abbiano proposto impugnazione incidentale, ancorché tardiva. Determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. E’ ipotesi frequente che l’estinzione del processo per rinuncia agli atti avvenga sulla base di un accordo delle parti, il quale non è detto che venga formalizzato nel processo di impugnazione come conciliazione. Quando si verifica questo accordo, si ha una sentenza che è passata in giudicato formale ma non in giudicato sostanziale: nel momento in cui la sentenza non è più impugnabile con i mezzi ordinari di impugnazione, non forma giudicato sulla realtà sostanziale perché la situazione sostanziale in essa contenuta è modificata da questo accordo delle parti, il quale è successivo ai limiti temporali della sentenza. La fonte regolatrice del rapporto, pertanto, non è la sentenza, bensì l’accordo delle parti. L’ inattività delle parti, come causa di estinzione del processo di impugnazione, opera solo per l’appello e per la revocazione ordinaria: non opera, invece, per il ricorso in cassazione, il quale prosegue ex officio e si arriva alla sentenza senza bisogno di atti di impulso della parte. L’estinzione del processo produce come effetto quello di determinare il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. L’art. 338 c.p.c. individua un limite al passaggio in giudicato della sentenza impugnata: essa, infatti, non passa in giudicato quando, in sede di impugnazione, è stato emanato un provvedimento che ne abbia modificato gli effetti. La giurisprudenza della cassazione intende il termine <<provvedimento>> dell’art. 338 c.p.c. come sentenza non definitiva, la quale modifica necessariamente gli effetti della sentenza impugnata ed impedisce il passaggio in giudicato di quest’ultima se il processo di impugnazione si estingue. Non ha, invece, inteso il termine come “ordinanza”: dall’ordinanza che ammette i mezzi istruttori, ad esempio, è desumibile che il giudice dell’impugnazione ritenesse di dover dare alla questione impugnata una regolamentazione diversa (es. ammette mezzi istruttori volti ad accertare la correttezza delle eccezioni sollevate nel grado precedente dal convenuto e sulle quali si è basato il giudice per emettere la sentenza impugnata, con la quale ha rigettato la domanda dell’attore non avrebbe ammesso altri mezzi istruttori se avesse ritenuto corretta l’impostazione data dal giudice del grado precedente), ma questo provvedimento non incide sul passaggio in giudicato della sentenza impugnata perché l’estinzione è determinata dall’inattività delle parti e spetta alla parte, alla quale è più favorevole il provvedimento, fa proseguire il processo se non vuole che si estingua. Pertanto, solo la sentenza non definitiva, emessa in sede di processo di impugnazione estinto e con la quale si dà alla questione che risolve, un’impostazione diversa rispetto a quella datale nel grado precedente (es. la sentenza non definitiva ritiene il diritto non prescritto, mentre la sentenza impugnata aveva rigettato la domanda dell’attore perché il diritto si era prescritto), non fa passare in giudicato la sentenza definitiva emessa nel grado precedente. L’effetto espansivo della pronuncia di impugnazione L’effetto espansivo della pronuncia emessa in sede di impugnazione, disciplinato dall’art. 336 c.p.c., si distingue in effetto espansivo interno ed effetto espansivo esterno. L’effetto espansivo interno L’effetto espansivo interno della pronuncia emessa in sede di impugnazione è disciplinato dall’art. 336 c1 c.p.c., in virtù del quale la riforma o la cassazione parziale della sentenza impugnata ha effetto anche sulle parti della sentenza non impugnate e dipendenti da quelle parti cassate o riformate in sede di impugnazione. L’art. 336 c1 c.p.c. va coordinato con l’art. 329 c2 c.p.c., il quale considera come acquiescenza tacita qualificata il comportamento della parte che compie un’impugnazione parziale: infatti, allorquando si verifica un fenomeno simile, le parti della sentenza impugnate vengono riformate o cassate e la sentenza emessa in sede di impugnazione produce i suoi effetti anche sui capi non impugnati della sentenza emessa nel grado precedente e che sono dipendenti con i capi impugnati. Pertanto, l’effetto espansivo interno è il fenomeno in virtù del quale la riforma o la cassazione della parte pregiudiziale della sentenza impugnata produce i suoi effetti anche sulla parte dipendente e non impugnata. Inoltre, questo effetto, a differenza di quello espansivo esterno, opera in relazione ad un unico provvedimento con più parti tra loro collegate da un rapporto di dipendenza. Questo fenomeno può verificarsi quando: 1. la sentenza impugnata pronuncia su più oggetti e viene impugnato l’oggetto pregiudiziale: in questo caso, la sentenza di riforma o cassazione dell’oggetto pregiudiziale, emessa in sede di impugnazione, determina la caducazione dell’oggetto dipendente non impugnato. Questo effetto si verifica anche in appello, il quale è si un mezzo di impugnazione sostitutivo (la pronuncia emessa in sede d’appello si sostituisce in toto alla sentenza appellata), ma in questo caso, l’effetto sostitutivo si coordina con un effetto espansivo interno. Esempio: la sentenza di primo grado dichiara inefficace il licenziamento e condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno. Se la sentenza emessa in sede di impugnazione, che ha solo ad oggetto il licenziamento, dichiara quest’ultimo efficace, produce i suoi effetti anche sul capo del risarcimento del danno, il quale è caducato; 2. la sentenza impugnata ha un solo oggetto e viene riformata in sede di impugnazione: in questo caso, si verifica l’effetto espansivo interno nel rapporto “decisione della causa- condanna alle spese”, se in sede di impugnazione, viene ribaltata la decisione; infatti, la condanna alle spese processuali è un capo dipendente alla decisione della domanda, in base alla quale, appunto, si determina la soccombenza, quindi, anche la condanna alle spese, e nel momento in cui il giudice dell’impugnazione modifica le soccombenze, la sentenza da lui emanata sulla decisione principale produce effetti anche sulla condanna alle spese processuali; 3. la parte impugna il capo della sentenza relativo alla competenza con regolamento di competenza facoltativo e in questa sede, la Cassazione dichiara l’incompetenza del giudice adito; questa pronuncia della cassazione ha efficacia interna espansiva in quanto determina la caducazione della decisione nel merito, contenuta nella sentenza. I capi della sentenza relativi al merito, infatti, vengono travolti perché emessi dal giudice adito sulla base di un presupposto processuale inesistente. L’effetto espansivo esterno L’effetto espansivo esterno è disciplinato dall’art. 336 c2 c.p.c., il quale afferma che la riforma o la cassazione estende i suoi effetti anche ai provvedimenti o agli atti dipendenti dalla sentenza impugnata. L’effetto espansivo esterno, pertanto, opera in relazione a più provvedimenti, i quali sono tra loro legati da un rapporto di dipendenza. Il rapporto di dipendenza tra provvedimenti si ha quando la decisione di una questione, contenuta in un provvedimento si è fondata sulla decisione di un’altra questione, contenuta in un altro provvedimento. Questo rapporto implica che la modifica, in sede di impugnazione, del provvedimento contenente la questione pregiudiziale, estende i sui effetti sul provvedimento contenete la questione dipendente, poiché quest’ultimo ha visto modificarsi il presupposto logico sul quale si fonda. Questo effetto espansivo esterno si produce nei casi: 1. il giudice, in primo grado, pronuncia sentenza non definitiva (es. accerta che c’è la giurisdizione o che il diritto si è prescritto) e ordina la prosecuzione in istruttoria della controversia, ma la sentenza che ha emesso sulla questione pregiudiziale o preliminare di merito viene immediatamente impugnata e non si verifica sospensione del processo in corso ex art. 279 c.p.c.: in questo caso, se il giudice dell’impugnazione accoglie l’impugnazione, la sentenza che emette determina il travolgimento di tutti gli atti e provvedimenti emessi in primo grado, dopo la pronuncia della sentenza impugnata, e della sentenza definitiva di primo grado (anche se già passata in giudicato); pertanto, la sentenza emessa in sede di impugnazione ha efficacia espansiva esterna sui provvedimenti istruttori ( e ulteriori atti) e sulla sentenza di primo grado e questo si spiega perché la decisione contenuta nella sentenza di primo grado dipendeva dalla decisione contenuta nella sentenza non definitiva, la quale è stata riformata; 2. il giudice in primo grado decide con sentenza non definitiva sull’an e questa viene immediatamente impugnata, mentre prosegue in istruttoria in primo grado la parte relativa al quantum: se in sede di impugnazione, la sentenza sull’an viene ribaltata, essa ha efficacia espansiva esterna in quanto travolge tutti gli atti istruttori e la decisione emessa in primo grado sul quantum; 3. il giudice in primo gradi si pronuncia sulla domanda pregiudiziale con sentenza parzialmente definitiva, mentre prosegue l’istruttoria per la decisione sulla domanda dipendente: se viene impugnata la sentenza parzialmente definitiva e l’impugnazione viene accolta, la sentenza emessa impugnazione (una domanda? entrambe le domande dell’attore?) e le questioni attinenti a tale oggetto (inadempimento non tanto grave da giustificare una risoluzione del contratto, ecc..). La competenza Le sentenze del giudice di pace si impugnano dinnanzi al tribunale, nel cui ambito territoriale si trova l’ufficio del giudice di pace che ha emesso la sentenza. Le sentenze del tribunale, invece, si impugnano dinnanzi alla corte d’appello, nel cui distretto si trova il tribunale che ha emesso la sentenza da impugnare. A questa regola generale c’è una sola eccezione: nelle cause di competenza del giudice di pace, anche se parte in causa è un’amministrazione dello Stato, non si applica il foro erariale e l’impugnazione conto queste sentenze non va effettuata la tribunale, bensì al foro erariale, quindi il tribunale del capoluogo di regione. Se l’appello è proposto ad un giudice territorialmente incompetente, opera la transatio iudicii: questo significa che il giudice si dichiara incompetente e la causa può essere riassunta, entro un termine da lui fissato, dinnanzi al giudice dichiarato come competente e se avviene la riassunzione, sono fatti salvi gli effetti dell’atto di proposizione dell’impugnazione. Se la riassunzione non è tempestiva, invece, l’appello è dichiarato inammissibile. La fase di introduzione della causa: l’atto d’appello, le novità proponibili e l’inammissibilità e l’improcedibilità. L’atto d’appello: contenuto e altri profili L’art. 342 c.p.c. prevede che l’appello si proponga con l’atto di citazione, il quale deve contenere, oltre agli elementi di cui all’art. 163 c.p.c., anche le motivazioni, ossia: 1. l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare: da questa indicazione è possibile dedurre quali questioni vengono devolute al giudice dell’impugnazione; 2. l’indicazione delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione dei fatti, compiuta dal giudice di primo grado: questa indicazione rappresenta la ricostruzione di quale sia, per l’appellante, la corretta ricostruzione della questio facti; 3. l’indicazione delle circostanze da cui deriva violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata: questa indicazione rappresenta quale sia la corretta ricostruzione della questio iuris secondo l’appellante. L’atto d’appello si compone di una parte eventuale e di una parte necessaria. La parte eventuale è data dall’indicazione delle ragioni dell’impugnazione, cioè gli argomenti che valgono a convincere il giudice d’appello della fondatezza dell’impugnazione, le quali possono essere contenute anche in atti successivi e, in particolare, nelle comparse conclusionali dell’appello (rappresentano il momento in cui ciascuna parte espone le proprie ragioni in fatto e in diritto). La parte necessaria, invece, consiste nell’indicazione delle questioni devolute al giudice, le quali costituiscono l’oggetto proprio del processo d’appello. Questa indicazione rappresenta la parte volitiva dell’atto d’appello (è l’appellante, infatti, che sceglie le questioni da riproporre) ed è sempre affiancata da una parte argomentativa, costituita dalle ragioni in virtù delle quali la sentenza impugnata deve essere riformata e queste ragioni devono essere potenzialmente in grado di fondare l’accoglimento dell’appello e, normalmente, consistono in errori commessi dal giudice a quo. Pertanto, i motivi dell’appello costituiscono i limiti della devoluzione delle questioni al giudice di secondo grado e l’ampiezza di questi limiti dipende, in primis, dalla volontà dell’appellante. L’appellante, con l’atto d’appello, deve riproporre al giudice tutte le questioni che sono state affrontate e decise in modo a lui sfavorevole se vuole che siano riesaminate. Infatti, le domande e le eccezioni non riproposte in sede d’appello, si danno per rinunciate (art. 346 c.p.c.). L’atto d’appello deve contenere l’indicazione della data di prima udienza, la quale non può essere fissata in un termine inferiore a quello indicato dall’art. 163 bis c.p.c. All’atto d’appello, inoltre, si applicano gli artt. 164 c.p.c. (cause di nullità e sanatoria dell’atto di citazione) e 291 c.p.c. (notificazione dell’atto di citazione). La riproposizione di domande ed eccezioni L’art. 346 c.p.c. afferma che le domande e le eccezioni devono essere riproposte al giudice di secondo grado, con l’atto d’appello o con l’atto di comparsa di costituzione; se non vengono riproposte tempestivamente, si intendono per rinunciate. Lo scopo di questa riproposizione è quello di permettere al giudice d’appello di pronunciarsi su queste questioni. Le questioni che possono essergli devolute, sono quelle in relazione alle quali ciascuna parte è soccombente. In particolare, l’appellante deve proporre le questioni rigettate, mentre l’appellato deve riproporre, oltre le eccezioni rigettate e quelle assorbite nella sentenza di primo grado. Le istanze istruttorie, invece, devono essere riproposte con l’atto d’appello o con la comparsa di risposta quando la decisione di ammissibilità di quel mezzo di prova è stata presa con sentenza: se il g.i. non si è pronunciato perché ha assorbito l’allegazione dei fatti ai quali quel mezzo di prova si riferiva, non c’è bisogno di una riproposizione esplicita, dato che il giudice viene in automatico investito del potere di ammettere la prova con la riproposizione dell’allegazione assorbita. Infatti, le istanze istruttorie non esaminate in primo grado sono estranee all’ambito di applicazione di cui all’art. 346 c.p.c. e sono devolute automaticamente al giudice d’appello quando gli è riproposto il fatto al quale si riferiscono. Devono essere riproposte anche le questioni preliminari di merito e pregiudiziali di rito, già rilevate d’ufficio in primo grado: se queste questioni non vengono riproposte, su di esse si forma giudicato. La loro caratteristica della rilevabilità d’ufficio viene meno una volta che sono state rilevate e sulla loro decisione il giudice di primo grado ha emesso la sentenza. Questo significa che se queste questioni non sono state individuate in primo grado, il giudice d’appello potrà rilevarle d’ufficio. Devono essere riproposte anche le domande assorbite e non quelle rigettate, le quali devono essere oggetto di appello incidentale. Una domanda è assorbita in due casi: 1. quando sono state proposte domande subordinate e la subordinata non è stata istruita perché è stata accolta la principale; 2. quando sono state proposte domande alternative pure, cioè senza vincolo di subordinazione tra le stesse ed il giudice ha accolto quella che per prima è divenuta matura per la decisione, senza esaminare l’altra. In questi casi, la parte, la cui domanda principale o alternativa, è stata accolta può riproporre quella non esaminata in primo grado con la tecnica della riproposizione, senza avvalersi, quindi, dell’impugnazione incidentale. Diverso è il caso in cui siano state proposte più domande ed il giudice abbia rigettato la principale, accogliendo la subordinata: in questo caso, la parte può appellare in via principale perché soccombente (non è stata accolta la domanda che aveva proposto per prima). L’art. 346 c.p.c. determina come conseguenza per la non riproposizione delle domande assorbite e delle eccezioni rigettate od assorbite che queste questioni si danno per rinunciate. La giurisprudenza interpreta la norma nel senso che essa presume un atto di volontà della parte che attivamente partecipa al processo, la quale rinuncia alle questioni che non ripropone espressamente. La giurisprudenza, inoltre, dà la stessa interpretazione anche al comportamento del contumace in appello. Appello incidentale L’appello incidentale è disciplinato dall’art. 343 c.p.c., il quale prevede che debba essere contenuto nell’atto di comparsa di risposta e che questo atto debba essere depositato in cancelleria, a pena di decadenza, almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione, fissata nell’atto d’appello. L’appello incidentale deve essere notificato all’appellante contumace (non si è costituito per il processo d’appello), a differenza della riproposizione di domande assorbite o delle eccezioni rigettate o assorbite (art. 346 c.p.c.). Questa notificazione si spiega perché l’appello incidentale determina l’entrata di una novità nel processo di secondo grado e, pertanto, è l’equivalente funzionale di una domanda nuova nel processo di primo grado. Oggetto dell’appello incidentale sono le domande esaminate e rigettate non fatte valere con l’appello principale; con questo strumento, infatti, la parte fa valere la propria soccombenza . La fattispecie da cui può prendere applicazione è quella di un processo di primo grado nel quale siano state proposte più domande e l’appellante principale abbia già sollevato appello in relazione ad una domanda sulla quale è soccombente: in questi casi, l’appellato può utilizzare l’appello incidentale per far riesaminare una questione decisa in maniera favorevole per la controparte. Non è necessario che vengano fatte valere con l’appello incidentale le questioni preliminari di rito sulle quali l’appellato è rimasto soccombente in primo grado. Le questioni relative ai presupposti processuali, infatti, non possono essere poste a fondamento di una autonoma domanda e di un autonomo processo e, pertanto, vanno riproposte ex art. 346 c.p.c. Le questioni preliminari di merito, invece, vanno riproposte con l’appello incidentale se in primo grado sono state poste a fondamento di una autonoma domanda giudiziale, mentre vanno semplicemente riproposte se poste a fondamento della decisione; la diversità dei modi di devoluzione della questione al giudice d’appello si spiega se si considera che la questione preliminare di merito, fatta valere in primo grado con una autonoma domanda, ha fatto sorgere una causa autonoma, sulla quale il giudice ha dovuto pronunciarsi. A questa regola vi è un’eccezione: la parte soccombente sulla non definitiva, ma vittoriosa sulla definitiva, deve impugnare la sentenza non definitiva con l’appello incidentale (anche tardivo), anche se non aveva fatto riserva d’appello. La giurisprudenza giustifica questa eccezione affermando che la sentenza non definitiva produce una sorta di autonomizzazione della questione preliminare e pregiudiziale e, per questo, deve essere riproposta con l’impugnazione incidentale. E’ da ricordare che se la parte fosse soccombente sia sulla definitiva che sulla non definitiva, deve impugnare, con l’atto d’appello, entrambe le sentenze e che può essere impugnata in maniera autonoma anche solo la non definitiva, se era stata proposta riserva d’appello. L’appello incidentale può essere tempestivo, tardivo o inammissibile (se l’atto di comparsa di risposta è depositato in cancelleria meno di 20 giorni prima dell’udienza di prima comparizione). L’appello incidentale deve essere notificato alla parte contumace e a colui che non è ancora parte nel processo d’appello (nei casi di cause inscindibili o tra loro dipendenti, ex art. 331 c.p.c.): in quest’ultimo caso, però, occorre che l’atto di comparsa, contenente l’appello incidentale, venga notificato al soggetto e che contenga anche la chiamata in causa di questi, cioè la vocatio in ius; in questo modo, infatti, questi destinatari assumono la qualità di parte, vengono messi al corrente della pendenza del processo d’appello, invitati a costituirsi e vengono informati della data in cui si terrà la prima udienza. La proposizione di novità in appello Domande nuove: l’inammissibilità come regola generale L’art. 345 c.p.c. afferma che in appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, queste devono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Questo significa che non si può investire il giudice di secondo grado della decisione di una situazione sostanziale, non ricompresa nell’oggetto del processo. L’allegazione eventualmente proposta in secondo grado determina la proposizione di una domanda nuova quando l’elemento proprio di novità, del quale se ne deve valutare l’ammissibilità, può essere posto a fondamento di una autonoma domanda giudiziale, in quanto non integra l’oggetto del processo e, pertanto, non è precluso dal giudicato. Si è, invece, dinnanzi ad una modifica di una domanda proposta in primo grado quando l’elemento di novità, contenuto nell’allegazione fatta in appello, non può essere posto a fondamento di una autonoma domanda giudiziale, nel momento in cui la sentenza passa in giudicato formale e questo perché è ricompreso nella preclusione del dedotto e del deducibile. Pertanto, il criterio per capire quando un elemento di novità allegato costituisca domanda nuova e quando modifica di una domanda già proposta è il seguente: guardare se l’elemento è precluso dall’ipotetico passaggio in giudicato della sentenza o se, invece, può essere posto a fondamento di una domanda nuova. 2. mancata comparizione dell’appellante, già costituitosi, in prima udienza ed in quella successiva, fissata dal giudice e comunicatagli dal cancellerie. L’improcedibilità, a norma dell’art. 348 c.p.c., è dichiarata anche d’ufficio. Se il giudice non la dichiara e non si pronuncia su di essa, la questione è rilevabile anche in Cassazione; invece, se il giudice d’appello si è pronunciato sulla questione con ordinanza, essa è controllabile in Cassazione solo se riproposta con ricorso principale od incidentale. La trattazione della causa L’art. 350 c1 c.p.c. spiega come debba svolgersi la fase di trattazione e di decisione della causa nel grado d’appello e distingue a seconda che l’appello sia proposto al tribunale o alla corte d’appello; nel primo caso, infatti, si impugnano le sentenze del giudice di pace e la trattazione e decisione della causa è monocratica; nel secondo caso, invece, si impugnano le sentenze del tribunale e la trattazione e decisione della causa è affidata ad un collegio, il cui presidente può delegare un membro dello stesso all’assunzione dei mezzi di prova. Pertanto, nel processo d’appello in corte d’appello non c’è la dicotomia tra giudice istruttore e collegio, la quale è propria del processo di primo grado nelle cause di cui all’art. 50 bis c.p.c. La prima udienza e le attività del giudice Le attività che il giudice deve compiere in prima udienza sono indicate dagli artt. 350 e 351 c.p.c. L’art. 350 c.p.c., in particolare, prevede che il giudice debba verificare la regolare costituzione del processo ed ordinare, quando occorre,: 1. l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c.; 2. la notificazione dell’atto d’appello ex art. 332 c.p.c.; 3. la rinnovazione della notificazione dell’atto d’appello, quando questo presenti i vizi di cui all’art. 164 c.p.c. A questo proposito, occorre tener presente che se la citazione dell’appello è viziata con riferimento alla vocatio in ius, la rinnovazione ha efficacia ex tunc e, quindi, è sempre possibile; invece, se presenta vizi riferiti alla editio actionis, la rinnovazione ha efficacia ex nunc e, pertanto, è possibile solo quando i termini per appellare non sono ancora decorsi. La editio actionis riguarda le questioni che vengono sottoposte al giudice d’appello. 4. Dichiara la eventuale contumacia dell’appellante o dell’appellato; 5. ordina la riunione degli appelli proposti contro la stessa sentenza; 6. provvede ad un tentativo di conciliazione, quando lo ritiene opportuno. L’art. 351 c.p.c., invece, dispone che il giudice possa pronunciare la sospensione dell’esecuzione provvisoria della sentenza. L’art. 283 c.p.c. prevede che la parte interessata possa richiedere, con impugnazione (principale o incidentale) e non con la semplice riproposizione nella comparsa o nell’atto d’appello, al giudice d’appello la sospensione totale o parziale dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza di primo grado. Questa richiesta può essere fatta quando vi siano gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza della parte. La fattispecie sospensiva riguarda il pregiudizio che l’esecuzione arrecherebbe alla parte condannata ed il fumus di fondatezza dell’appello. Tra i motivi da considerare, poi, vi è anche l’insolvenza della parte, quindi il pericolo che l’adempimento generi l’insolvenza del condannato in primo grado o che la mancata prestazione determini l’insolvenza dell’avente causa. Oggetto della sospensione può essere: • l’efficacia esecutiva della sentenza: questa sospensione può intervenire quando l’esecuzione non è ancora iniziata; • l’esecuzione della sentenza: in questo caso, la sospensione interviene dopo che l’esecuzione era già iniziata. La parte può richiedere al giudice di pronunciarsi sulla sua istanza prima dell’udienza di comparizione, fissata per la trattazione nel merito della causa; in questo caso, il giudice si pronuncia sull’istanza fissando un’udienza davanti a sé (quando l’appello è proposto al tribunale) o davanti alla camera di consiglio e, in caso di particolare urgenza, può disporre immediatamente la sospensione della sentenza, ma deve far riconfermare questo suo provvedimento all’udienza fissata. Se l’istanza è inammissibile o manifestamente infondata, il giudice condanna la parte che l’ha proposta ad una pena pecuniaria non inferiore a 250€ e non superiore a 10000€. L’ordinanza che dispone questa pena pecuniaria non è modificabile e né revocabile, però se l’appello è accolto, significa che la sentenza di primo grado è travolta e viene meno, di conseguenza, anche questa ordinanza. In occasione della decisione su questa istanza, il giudice d’appello può decidere anche il merito, se ritiene la causa matura per la decisione: questo è disposto dall’art. 351 c4 c.p.c., il quale rimanda, per le modalità di trattazione e decisione della causa all’art. 281 sexies c.p.c. Una volta compiute le attività di cui agli artt. 350 e 351 c.p.c., il giudice può o far precisare le conclusioni e rimettere la causa in decisione o disporre l’assunzione di eventuali prove. Le ordinanze istruttorie L’art. 354 c.p.c. prevede che il giudice d’appello, se dispone la prosecuzione del processo, possa ammettere una nuova prova, una prova non illegittimamente ammessa in primo grado e disporre la rinnovazione totale o parziale delle prove già assunte in primo grado. Il giudice, in questo modo, dispone la prosecuzione dell’istruttoria, a norma degli artt. 191 e ss. c.p.c. Nelle corti d’appello, l’assunzione delle prove è affidata al collegio, salvo che il presidente non ne deleghi un membro. Oggetto della trattazione della causa L’oggetto della cognizione in sede d’appello, se è impugnata una sentenza definitiva, potenzialmente non ha limiti: esso, infatti, può riguardare tutte le questioni analizzate in primo grado o può riguardare attività istruttorie che vengono compiute per la prima volta in appello (questo accade se il giudice di primo grado, erroneamente, ha rimesso in decisione una controversia che avrebbe dovuto essere istruita). Quando viene impugnata una sentenza non definitiva, invece, l’oggetto della cognizione in appello è limitata alla questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito, risolta con tale sentenza. In questo caso, non solo la cognizione è limitata, ma anche l’istruzione probatoria della causa: il giudice d’appello, infatti, non può conoscere delle altre questioni per le quali in primo grado sta proseguendo l’istruttoria e non può assumere le prove di fatti non attinenti alla questione che gli è stata proposta. Esempio: in primo grado il giudice emette sentenza con la quale afferma che si tratta di prescrizione decennale e nega, pertanto, che si sia verificato questo fatto estintivo del diritto. La parte soccombente impugna immediatamente la sentenza ed il giudice d’appello si convince che si tratta di prescrizione quinquennale ed ammette le prove, richieste dalla parte, sui fatti interruttivi della prescrizione stessa. Le questioni che il giudice deve esaminare sono, nel seguente ordine,: • quelle attinenti alle questioni di rito proprie dell’impugnazione, quindi attinenti alla decidibilità nel merito dell’appello. Infatti, solo se il processo è stato validamente costituito, perché l’appello è stato correttamente proposto, ecc.. , la questione è decidibile e sussiste il potere per il giudice d’appello di pronunciarsi; • una volta accertato che la causa è decidibile e che il giudice è stato correttamente investito dei suoi poteri decisori, si passa all’esame delle questioni di rito in generale (es. riproposizione di una richiesta istruttoria negata in primo grado) e alle questioni pregiudiziali di rito (es. eccezione di competenza, ecc..). Il giudice d’appello può esaminare: 1. questioni di rito rilevabili d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, e non rilevate in primo grado; 2. le questioni rilevabili solo su istanza di parte, quando sia stata riproposta con gli atti introduttivi dell’appello; 3. le questioni di rito rilevabili d’ufficio e sulle quali si era già pronunciato il giudice di primo grado: in questo caso, il giudice d’appello è investito del potere di deciderle solo se vi è la richiesta della parte, la quale deve essere contenuta negli atti introduttivi del processo d’appello. • Terminata l’analisi delle questioni di rito, si passa all’esame del merito. Tuttavia, c’è orientamento in dottrina che ammetterebbe che il giudice potesse esaminare prima le questioni di merito e poi quelle di rito quando vi sia stata la richiesta di parte. Un ipotesi simile è immaginabile nel caso in cui la parte è soccombente virtuale sulla sola questione di rito decisa dal giudice con sentenza non definitiva e la sua controparte, soccombente effettiva sulla sentenza definitiva, impugna: in questo caso, la parte soccombente virtuale può riproporre la questione, con impugnazione incidentale, vincolando il giudice ad esaminarla solo dopo l’esame della domanda d’appello e solo se questa viene accolta. La fase decisoria I provvedimenti che il giudice d’appello può emettere La sentenza emessa in sede d’appello ha effetto sostitutivo di quella di primo grado e questa è diretta conseguenza del fatto che l’appello è un mezzo di gravame; il giudice d’appello, infatti, ha gli stessi poteri di riesame e decisori che aveva il giudice di primo grado e può ridecidere le stesse questioni (se gli sono state devolute), operando una nuova valutazione di tutto il materiale, compresa una nuova valutazione di attendibilità delle prove libere e delle presunzioni semplici. La sentenza di primo grado è sostituita a tutti gli effetti dalla sentenza d’appello, la quale la ingloba ed assorbe in sé. In fase decisoria, il giudice può emettere una sentenza non definitiva, accompagnata da un’ordinanza di rimessione della causa in trattazione, per l’ulteriore compimento di attività istruttorie che si rendono necessarie per decidere anche delle altre questioni. In questo caso, a differenza delle non definitiva di primo grado, la sentenza non definiva del giudice d’appello non è immediatamente ricorribile in Cassazione e il ricorso contro di essa potrà essere fatto, senza la necessità di riservarselo, quando il giudice pronuncerà la sentenza definitiva. Se, invece, è stata appellata una sentenza non definitiva, il giudice ha un ambito di cognizione limitato alla sola questione che gli è stata proposta; questo, però, non comporta automaticamente una limitazione della sfera decisoria, quindi dell’oggetto della sentenza, la quale potrà decidere di tutto l’oggetto del processo di primo grado, cioè del diritto fatto valere. Infatti, se la sentenza d’appello riforma la sentenza non definitiva emessa in primo grado (afferma che si è verificata prescrizione, che il giudice non ha la giurisdizione, ecc..), essa è definitiva, non solo del processo d’appello, ma anche di tutta la controversia. Con questa sentenza di riforma, infatti, il giudice si pronuncia su tutto l’oggetto del processo ed essa, proprio per l’oggetto sul quale decide, ha un effetto espansivo esterno su tutti gli atti e provvedimenti emessi in primo grado; infatti, se accerta carente un presupposto processuale, significa che il processo di primo grado non può proseguire, mentre se accerta una questione preliminare di merito, rende inutile la trattazione e decisione della causa in primo grado sulle altre questioni, giacché la domanda ormai è già decisa. Invece, la sentenza d’appello che conferma il contenuto della sentenza non definitiva appellata, ha contenuto identico a quella emessa in primo grado, è conclusiva del processo d’appello e, rispetto all’oggetto del processo di primo grado, ha le stesse caratteristiche della sentenza non definitiva, in quanto si limita a decidere una questione preliminare o pregiudiziale, senza pronunciarsi sul diritto. Appello come strumento per rimediare all’invalidità della sentenza impugnata L’appello può essere utilizzato come rimedio per l’eventuale ingiustizia della sentenza di primo grado e come strumento per rimediare ai vizi che questa presenta. Siccome i vizi della sentenza si convertono in motivi di impugnazione, la parte può farli valere direttamente con l’appello, trovando, con questo mezzo di impugnazione, un grado di giudizio idoneo ad accogliere, istruire e decidere la contestazione della parte in relazione al vizio che inficia la sentenza. Il ricorso per Cassazione Le funzioni e lo sviluppo storico della Corte di Cassazione La Corte di Cassazione nasce con le leggi rivoluzionarie francesi come organo esterno all’ordinamento giudiziario. In questo periodo, partecipa delle funzioni legislative, in quanto è chiamata a controllare l’esatta interpretazione e applicazione delle leggi del parlamento. Non appartenendo all’organo giudiziario, i provvedimento che emana non sono provvedimento giurisdizionali e, pertanto, potevano limitarsi solo a cassare, cioè annullare, le sentenze che venivano impugnate. Successivamente, invece, diventa organo giurisdizionale e a questo passaggio si affianca un aumento dei suoi poteri: infatti, oggi, oltre ai poteri di annullamento della sentenza, le sono riconosciuti, in certi casi, poteri di pronunciare sentenze che sostituiscono quella impugnata. Inoltre, svolge la funzione di dirimere le controversie che sorgono fra i giudici speciali. In quanto organo supremo, poi, ha la funzione nomofilattica: l’art. 65 dell’ordinamento giudiziario, infatti, afferma che la Corte di Cassazione è chiamata ad assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonché l’unità del diritto oggettivo nazionale. Provvedimenti ricorribili in Cassazione La Corte di Cassazione rappresenta il terzo grado di giudizio. I provvedimenti per i quali si può compiere ricorso in Cassazione sono le sentenze emesse in grado d’appello o in unico grado. I provvedimenti ricorribili vengono individuati per mezzo del principio della prevalenza della forma prevista dalla legge su quella in concreto adottata. Inoltre, se per stabilire il mezzo di impugnazione da utilizzare è rilevante la qualificazione del diritto fatto valere o dell’azione proposta, si deve guardare alla qualificazione data dal giudice che ha pronunciato la sentenza da impugnare. In Cassazione, infine, sono ricorribili i provvedimenti che non hanno la forma di sentenza, ma le caratteristiche di decisorietà e stabilità che sono proprie delle sentenze: è in questo senso sostanzialistico che viene interpretato il termine “sentenza” utilizzato dall’art. 111 Cost. Pertanto, in virtù di questa interpretazione, sono ricorribili in Cassazione anche i decreti e le ordinanze che incidono su diritti soggettivi e che sono definitivi, nel senso che contro di essi non è prevista altra forma di istanza di riesame, reclamo o impugnazione e, pertanto, non possono essere oggetto di un altro processo. L’art. 360 c.p.c. ammette un ricorso per saltum: prevede, cioè, che le sentenze del tribunale siano immediatamente ricorribili in Cassazione, senza il passaggio intermediario costituito dall’appello, quando vi è un accordo delle parti; la norma, però, limita in questo caso la possibilità di ricorso in Cassazione solo ai casi in cui la sentenza da impugnare presenti un vizio attinente alla violazione o alla falsa applicazione delle norme di diritto. Tuttavia, ci sono sentenze della Corte di Cassazione che ammettono il ricorso, senza l’appello, quando vi è stata violazione di norme processuali. I motivi per i quali è proponibile il ricorso Il ricorso per Cassazione è un mezzo di impugnazione in senso stretto e questo significa che le censure sottoponibili alla Corte sono solo quelle indicate dal legislatore; conseguenza di questo è il fatto che la parte non può proporre ricorso per motivi non previsti dal legislatore e che la Corte può controllare la sentenza impugnata solo sotto il profilo di uno dei motivi di nullità previsti dalla legge. I motivi sono indicati agli artt. 360, 360 bis, 362 e 363 c.p.c. I motivi di ricorso di cui all’art. 360 c.p.c. I motivi per i quali è proponibile il ricorso sono individuati dall’art. 360 c.p.c. e sono: 1. motivi attinenti alla giurisdizione; 2. violazione di norme sulla competenza; 3. violazione o falsa applicazione delle norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali; 4. nullità della sentenza o del procedimento; 5. omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Causa di nullità 1: per motivi attinenti alla giurisdizione Non si può ricorrere in Cassazione per la questione di giurisdizione se si è formato giudicato interno su questo presupposto processuale nel corso del processo. Causa di nullità 2: violazione di norme sulla competenza Non si può ricorrere in Cassazione per questo motivo di nullità del provvedimento se sulla questione di competenza si è già formato giudicato nel corso del processo e se il provvedimento è impugnabile con regolamento necessario di competenza. Il regolamento necessario di competenza può essere esperito entro 30 giorni dalla data di comunicazione dell’ordinanza emessa in primo o in secondo grado e che decide solo su questo presupposto processuale. Il ricorso in Cassazione, se presenta le caratteriste ed i presupposti propri del regolamento necessario di competenza ed è esperito entro il termine previsto per questo mezzo di impugnazione, si converte in automatico in regolamento di competenza.. Causa di nullità 3: violazione o falsa applicazione delle norme Le regole, la cui violazione o falsa applicazione determina vizio di nullità della sentenza, sono quelle di giudizio che attengono al merito, quindi le norme di diritto sostanziale, visto che, normalmente, oggetto della controversia sono le regole di condotta relative ad una situazione sostanziale. Tuttavia, possono determinare nullità della sentenza anche la violazione o falsa applicazione di norme di diritto processuale: questo si verifica quando l’oggetto della controversia attiene a regole di condotta processuale, le quali riguardano un altro processo. Esempio: l’opposizione agli atti esecutivi è un processo di cognizione che ha ad oggetto la nullità degli atti del processo esecutivo. Pertanto, le norme violate che determinano nullità della sentenza sono quelle che hanno come destinatari le parti del processo od un altro giudice e che vengono utilizzate dai giudici come metro di giudizio per pronunciarsi sulla domanda che è stata loro posta. La violazione che viene in rilievo come vizio di nullità della sentenza è costituita dall’errore nel quale incorre l’interprete nell’individuazione (individua come vigente, come abrogata, ecc.. ) o nell’interpretazione della norma. La falsa applicazione, invece, è un errore nel quale incorre l’interprete quando, individuata correttamente la portata precettiva della norma, la applica ad una fattispecie concreta diversa da quella astratta in essa prevista; pertanto, la falsa applicazione si pone come errore di sussunzione. Le norme che possono essere violate o falsamente applicate sono le fonti dell’ordinamento statale, quindi: norme costituzionali, le leggi, gli atti aventi forza di legge, le leggi regionali, i regolamenti come fonte secondaria, le consuetudini, gli usi in quanto richiamati e le norme di diritto comunitario, le quali prevalgono sempre sul diritto nazionale e se sulla loro interpretazione sorge controversia dinnanzi alla Corte di Cassazione, questa deve rimettere la questione alla Corte di giustizia. Inoltre, il legislatore ha ammesso il ricorso in Cassazione per violazione o falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro: la possibilità di esperire ricorso per la violazione di queste norme si spiega tenendo presente la sua funzione nomofilattica e il valore di precedente che hanno le sue pronunce. E’ suscettibile di fondare ricorso in Cassazione anche la violazione o la falsa applicazione di norme di diritto straniero, richiamate dal contratto o da norme di diritto internazionale privato. Le norme delle quali si lamenta la violazione o la falsa applicazione devono riguardare fatti storici allegati dalle parti e così come ricostruiti dal giudice di merito (di primo o di secondo grado). Questo si deduce tenendo conto del fatto che in Cassazione non possono essere presi in considerazione fatti storici diversi da quelli allegati nei precedenti processi di merito (il limite temporale della quaestio facti nel processo di merito è l’udienza di precisazione delle conclusioni) e del fatto che la Corte di Cassazione non può provvedere ad una autonoma ricostruzione dei fatti storici allegati e provati. Pertanto, quando si ricorre in Cassazione affermando questo il vizio di nullità di cui al n. 3 art. 360 c.p.c., la Corte di Cassazione decide del ricorso tenendo per buoni i fatti ed individuando l’interpretazione e la corretta applicazione delle norme. Le censure di diritto che le parti possono proporre alla sentenza impugnata devono riguardare i fatti storici, così come allegati ed accertati dal giudice di merito della fase precedente. Causa di nullità 4: nullità della sentenza o del procedimento Questo motivo di nullità riguarda gli errores in procedendo, i quali si contrappongono agli errores in iudicando. Gli errores in iudicando sono gli errori di giudizio, i quali attengono più che altro all’ingiustizia della sentenza. In relazione a questi errori, la Corte di Cassazione ha dei poteri limitati: infatti, il suo intervento è necessariamente circoscritto alle questioni che le siano state sottoposte dalle parti con i motivi del ricorso e la questio iuris non rientra nel suo ambito di cognizione. Gli errores in procedendo, invece, sono vizi di attività, i quali attengono all’invalidità della sentenza. In relazione a questi vizi, la Corte ha poteri più ampi: infatti, può rilevare d’ufficio, senza bisogno che la questione le sia sollevata dalla parte, qualunque tipo di questione attenente alla violazione di norme processuali, purché non sia preclusa (perché non rilevabile in ogni stato e grado del processo o perché già decisa in precedenza e non riproposta alla Corte). In relazione alle questioni di rito, poi, si dice che la Corte è giudice anche del fatto: infatti, attingendo agli atti del processo, procede all’autonoma cognizione e ricostruzione del fatto storico processuale rilevante per verificare che vi sia stata una violazione di una norma processuale. Ciò che conta ai fini di questa causa di nullità, non sono le motivazioni del giudice circa l’interpretazione o applicazione delle norme processuali, ma la semplice violazione delle stesse. Causa di nullità 5: omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti Questa causa di nullità è detta vizio di motivazione. L’impugnazione della sentenza per questo implica la possibilità che la Corte di Cassazione sia chiamata a verificare le motivazioni poste dal giudice alla base della decisione presa. Il controllo sulla motivazione è stato inserito, tra i motivi di impugnazione, come vizio di forma da una peculiare interpretazione della Corte che riteneva ammissibile il ricorso quando la sentenza non presentava tutti gli elementi previsti dall’art. 132 c.p.c. La motivazione di questa ipotesi non è motivazione di diritto: il controllo sulla quaestio iuris è svolta dalla Cassazione con poteri analoghi a quelli dei giudici precedenti. Infatti, non ha senso un controllo sulla motivazione in diritto, perché in relazione al punto censurato la Cassazione ripete il giudizio. Pertanto, non ci sono ricorsi in Cassazione nei quali ci si lamenta di cattive interpretazioni date dal giudice nell’applicare le norme: ciò che conta, infatti, è che le norme siano state applicate e non la motivazione in punto di diritto. Il difetto di motivazione di cui al n.5 art. 360 c.p.c. riguarda il giudizio di fatto, quindi gli errores in iudicando e, in particolare, la ricostruzione dei fatti storici rilevanti ai fini del merito. I poteri di controllo della Cassazione sulle questioni di merito sono più limitati dei poteri che ha il giudice d’appello sulle stesse questioni: il controllo in Cassazione avviene solo nei limiti di cui al n. 5 art. 360 c.p.c. La norma parla di “fatto decisivo”, quale oggetto della ricostruzione fatta nella sentenza impugnata e della quale la parte si lamenta. La dottrina interpreta questo fatto in maniera restrittiva, intendendolo solo come fatto principale e non secondario; questa ricostruzione implica la possibilità di ricorrere in Cassazione solo quando si vuole censurare la ricostruzione di un elemento proprio della fattispecie (fatto principale, infatti, è il fatto costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo), cioè quando si vuole censurare il modo con il quale il giudice è arrivato a dire che il fatto è esistente o non esistente. La censura della ricostruzione di un fatto secondario, invece, secondo questa tesi, non è ricorribile in Cassazione e, pertanto, non si può fare ricorso quando si contesti l’accertamento del fatto secondario, compiuto dal giudice e sul quale egli ha basato il suo ragionamento presuntivo. Mente la causa dell’ipotesi precedente ammette il ricorso quando vi siano errores in iudicando, questa causa lo ammette in presenza di errores in procedendo. Questa ipotesi deve essere letta correlativamente ai casi di cui ai nn. 1,2 e 4 dell’art. 360 c.p.c., in quanto si ritiene che essa ammetta il ricorso quando siano stati violati principi regolatori del giusto processo. Gli atti introduttivi del ricorso in Cassazione L’atto di ricorso in Cassazione Gli elementi propri del ricorso sono indicati dagli artt. 365 e 366 c.p.c. e sono previsti a pena di inammissibilità. Il ricorso deve essere proposto da un avvocato cassazionista, cioè iscritto all’albo dei difensori di fronte alle giurisdizioni superiori, il quale deve essere munito di procura speciale, cioè di una procura con la quale gli si dà incarico di proporre ricorso avverso quella determinata sentenza. La procura deve essere rilasciata dopo il deposito della sentenza e prima della proposizione del ricorso. L’atto di ricorso deve contenere l’indicazione delle parti, della sentenza da impugnare, l’esposizione sommaria dei fatti della causa, i motivi per i quali si propone ricorso, con l’indicazione delle norme di diritto sui quali si fondano e l’indicazione della procura. L’atto di ricorso deve essere prima notificato alla controparte e poi depositato in cancelleria. Una volta avvenuto il deposito, il processo di Cassazione può giungere al suo termine senza bisogno di ulteriori atti di parte: infatti, a questo processo non si applica l’istituto dell’estinzione per inattività, ma solo gli istituti di inammissibilità e di improcedibilità. Il controricorso E’ l’atto che può compiere colui che si vede notificare il ricorso, se vuole partecipare al processo di cognizione. E’ disciplinato all’art. 370 c.p.c. deve contenere gli elementi di cui all’art. 366 c.p.c. Può essere compiuto solo da un avvocato cassazionista, munito di procura speciale. Può contenere impugnazioni incidentali. Deve essere notificato al ricorrente e depositato in cancelleria. Se non viene compiuto, la parte non può depositare memorie scritte, ma solo partecipare alla discussione orale. L’oggetto del processo di Cassazione L’oggetto della cognizione della Corte, essendo il ricorso in Cassazione un mezzo di impugnazione in senso stretto, è limitato ai vizi di cui all’art. 360 c.p.c. che le parti abbiano denunciato. Oltre ai vizi denunciati dalle parte, la Corte può conoscere delle questioni rilevabili d’ufficio e che non siano state oggetto di decisione nelle fasi precedenti. Non appartengono all’ambito di cognizione della Corte, invece, le questioni assorbite, a meno che non vi sia stato un errore nell’assorbimento. Ad esempio, si verifica un errore nell’assorbimento quando il giudice d’appello decide dell’eccezione di pagamento ed assorbisce quella di prescrizione, mentre il convenuto aveva eccepito prima la prescrizione e poi il pagamento. Il motivo per il quale la Corte non può pronunciarsi su questioni assorbite, salvo il caso di errori nell’assorbimento, è semplice: la pronuncia su queste questioni non può presentare vizi perché non c’è stata! La riproposizione delle questioni, senza bisogno di impugnazione incidentale, è possibile solo se ha ad oggetto questioni che la Corte può rilevare d’ufficio o in virtù del vizio denunciato con l’impugnazione principale. Le riproposizione, inoltre, è possibile quando si voglia utilizzare l’istituto della correzione della motivazione di cui all’art. 384 c4 c.p.c. La riproposizione delle questioni, cioè la semplice difesa, può essere contenuta nel controricorso, nelle memorie o può essere fatta nella discussione orale. Con l’impugnazione principale e con quella incidentale, invece, il ricorrente ed il resistente devono far valere tutte le questioni risolte dal giudice in maniera a loro sfavorevole, che costituiscano un vizio della sentenza e sulle quali la Cassazione non possa conoscere d’ufficio. La teoria del ricorso incidentale condizionato La giurisprudenza della Cassazione e la dottrina maggioritaria sostengono che il resistente, cioè il soccombente virtuale sulla sentenza impugnata, possa proporre solo un’impugnazione incidentale condizionata sulle questioni sulle quali è rimasto soccombente. La proposizione di un ricorso simile implica per la Corte l’obbligo di analizzare, in primis, l’impugnazione principale e solo quando ritenga questa fondata, passare ad analizzare il ricorso incidentale. Questo ordine di esame delle questioni è giustificato, secondo coloro che sostengono queste tesi, dal fatto che il soccombente virtuale non ha legittimazione ad impugnare finché non sia accolto il ricorso principale. Le critiche che vengono mosse alla tesi sono le seguenti: 1. la legittimazione ad impugnare in via incidentale non nasce dall’accoglimento del ricorso principale, ma dalla proposizione dello stesso; 2. l’ordine di esame sostenuto da questa tesi porta ad una alterazione inaccettabile ed ingiustificata dell’ordine tra questioni di rito e di merito: ciò è evidente se il resistente propone impugnazione incidentale relativa ad una questione di rito, la quale sarebbe esaminata, applicando questa tesi, dopo l’analisi del ricorso principale sul merito; 3. è contraria al principio di correttezza e buona fede: il resistente, infatti, è la parte vincitrice della sentenza impugnata e, se si sostenesse questa tesi, gli si permetterebbe di sollevare censure attinenti al rito, le quali, se accolte determinano il travolgimento della sentenza impugnata (es. carenza di giurisdizione, di competenza, ecc..), pur facendogli accettare la decisione nella parte di merito della sentenza e ciò è assurdo visto che l’esame di merito postula l’esistenza di tutti i presupposti processuali. Le allegazioni possibili in Cassazione Per quanto riguarda le allegazioni possibili in Cassazione, occorre distinguere tra i profili di merito ed i profili di rito. Per quanto riguarda i profili di merito, in sede di Cassazione non possono mai essere allegati fatti storici ulteriori rilevanti per la decisione nel merito della causa. Il referente ultimo di efficacia della sentenza di Cassazione, per quanto attiene ai fatti, è l’udienza di precisazione delle conclusioni del processo dal quale è scaturita la sentenza impugnata. Questo significa che vi può essere una divaricazione, anche molto ampia, tra la realtà legale, sulla quale si pronuncia la Cassazione, e la realtà effettiva, fatta anche dei fatti sopravvenuti dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni. Questa peculiarità del processo di Cassazione si spiega perché esso è un processo di pura legittimità. Se la Cassazione accoglie il ricorso e rinvia il processo ad un altro giudice per la fase rescissoria, i fatti sopravvenuti possono essere allegati dalle parti in questa sede, dato che il giudice di rinvio emette la pronuncia nel merito e il referente temporale diviene la nuova udienza di precisazione delle conclusioni che si svolge davanti a lui. Pertanto, i fatti sopravvenuti possono essere allegati dalle parti solo in sede di processo di rinvio. Lo ius superveniens, cioè le nuove norme di diritto che siano state emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, devono essere sempre poste dalla Cassazione a fondamento della sua decisione e questo è naturale, visto che la Cassazione è il giudice di legittimità e non può mai fare a meno di applicare le norme. Se l’applicazione delle nuove norme esige l’accertamento di nuovi fatti, la fase istruttoria e la nuova fase decisoria, volta ad ottenere una pronuncia nel merito della sentenza, si svolge dinnanzi al giudice di rinvio. Per quanto riguarda i profili di rito, invece, sono possibili le stesse novità ammesse in appello: in Cassazione, infatti, come in secondo grado, possono essere rilevate per la prima volta tutte quelle questioni di rito, rilevabili in ogni stato e grado del processo anche d’ufficio, sulle quali non vi sia stata una decisione di un precedente giudice. Tuttavia, si può porre il problema della fondatezza di questa questione: infatti, in Cassazione non è possibile attività istruttoria relativa alle prove costituende, mentre quella relativa alle prove precostituite è limitata dall’art. 372 c.p.c. e, pertanto, queste questioni potranno essere ritenute fondanti solo se emergono da fatti già acquisiti e provati nel processo. Esempio: è questione rilevabile d’ufficio quella attinente alla mancata integrazione del contraddittorio in ipotesi di litisconsorzio necessario: questa questione può essere rilevata per la prima volta in Cassazione, ma la Corte la riterrà infondata se non emerge dagli atti di causa. Le questioni di rito attinenti alla corretta instaurazione del processo di Cassazione, quindi attinenti all’ammissibilità, procedibilità del ricorso ed estinzione per rinuncia agli atti, vengono analizzate dalla Corte alla stessa maniera con la quale vengono analizzate dal giudice d’appello. L’attività istruttoria ammessa in Cassazione In Cassazione non può svolgersi attività istruttoria relativa alle prove costituende e questo è conseguenza della struttura della Corte stessa, la quale è un giudice supremo. Invece, è possibile produrre in giudizio prove precostituite, dato che queste non richiedono, come le prove costituende, il compimento di attività istruttoria ulteriore. Tuttavia, l’art. 372 c.p.c. limita fortemente la produzione in giudizio di nuovi documenti, in quanto afferma che possono prodursi solo quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso o controricorso. Pertanto, tranne per le questioni di rito indicate dalla norma, non è possibile la produzione in giudizio di nuovi documenti che attengano a fatti già allegati e rilevanti per la decisione di merito o di rito. Le questioni di merito e di rito, comprese quelle sollevate per la prima volta in Cassazione, possono essere dimostrate solo dalle prove già acquisite nel corso del processo. Se la parte lamenta in Cassazione l’ingiusta omissione di un’attività istruttoria tempestivamente richiesta e la Corte accerta questa ingiusta omissione, cassa la sentenza e fa assumere la prova al giudice di rinvio. Alla regola di cui all’art. 372 c.p.c., la giurisprudenza della Cassazione ha introdotto un’eccezione consistente nella possibilità di produrre in giudizio i documenti dai quali si ricava la cessazione della materia del contendere. Sono documenti che attestano la cessazione della materia del contendere quelli che si siano formati dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni della sentenza impugnata e che forniscono una disciplina, autonoma e prevalente su quella della sentenza impugnata, alla situazione sostanziale controversa. Si tratta in particolare di transazioni, accordi, ecc.. che le parti hanno stipulato dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni. Questi accordi sono rilevanti per il merito e per il rito, in quanto portano all’estinzione del processo se prodotti in giudizio. La Cassazione ammette la produzione di questi documenti, in deroga alla regola dell’art. 372 c.p.c. per evitare attività processuale inutile, cioè per evitare che si giunga ad una sentenza di merito i cui effetti sono già stati superati dall’accordo delle parti, del quale la sentenza non può tener conto perché stipulato dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni. Il processo di Cassazione Estinzione Nel processo di Cassazione non c’è necessità di impulso processuale ad opera delle parti e una volta depositato il ricorso si può giungere alla sentenza anche se le parti rimangono totalmente inattive. Ciò comporta che non è possibile un’estinzione del processo per inattività; la sola ipotesi di inattività delle parti che potrebbe dar luogo ad estinzione, cioè l’omesso tempestivo deposito del ricorso, è stata qualificata dal legislatore come causa di improcedibilità. Gli artt. 390 e 391 c.p.c. disciplinano l’estinzione per rinuncia agli atti, la quale si ha quando il ricorrente rinuncia agli atti; perché la rinuncia sia efficace il resistente, che abbia compiuto ricorso incidentale, deve accettarla. Sull’estinzione del processo per rinuncia agli atti la Corte si pronuncia con ordinanza o con sentenza, a seconda che debba o meno decidere di altri ricorsi contro la stessa sentenza. Dopo la pronuncia di estinzione, la sentenza impugnata passa in giudicato formale. Secondo un orientamento prevalente, al processo in Cassazione, non si applicano gli istituti della sospensione e dell’interruzione e questo perché non è necessario l’impulso di parte. Tuttavia, anche in Cassazione c’è un contraddittorio da rispettare e atti da compiere e per questo la morte dell’unico difensore della parte può ledere il diritto di difesa; per evitare un tal pregiudizio alla parte, la Corte ha introdotto in La situazione sostanziale, cioè il diritto fatto valere con la domanda giudiziale sarà esaminato di fronte al giudice dichiarato fornito di giurisdizione (art. 386 c.p.c.). 4- Decisione sulla competenza La Corte statuisce sulla competenza, cioè decide sempre, sia quando cassa per violazione delle norme sulla competenza che quando decide in sede di regolamento di competenza. 5- Sentenza di cassazione senza rinvio Questo tipo di sentenza si ha in tre ipotesi ed è correlata alla chiusura in rito del processo, stante l’impossibilità di giungere ad una sentenza di merito. Le ipotesi in cui si ha una sentenza simile sono: 1. nel caso di difetto assoluto di giurisdizione: un difetto simile si ha nei confronti di un giudice straniero o di un potere non giurisdizionale dell’ordinamento. Se il difetto di giurisdizione fosse relativo, la Corte si pronuncerebbe con sentenza sulla giurisdizione; 2. nel caso in cui la causa non poteva essere proposta per improponibilità soggettiva o oggettiva della domanda. Si ha improponibilità oggettiva della domanda quando: • la tutela richiesta al giudice non può essere data perché non esiste nell’ ordinamento; • c’è la carenza di un presupposto processuale attinente all’oggetto del processo: es. litispendenza, ne bis in idem, patto compromissorio, mancato compimento del tentativo di conciliazione obbligatorio, ecc.. Si ha improponibilità soggettiva della domanda quando sussiste un vizio attinente alle parti insanabile, insanato o non sanabile con efficacia retroattiva; se fosse sanabile con efficacia retroattiva, allora si avrebbe la cassazione della sentenza con rinvio al giudice d’appello o di primo grado; 3. nel caso in cui il processo non poteva essere proseguito perché la domanda era inammissibile (in questo caso, si ha cassazione parziale, limitata al capo della sentenza che si pronuncia sulla domanda inammissibile), perché si era verificata la fattispecie estintiva e non era stata rilevata (vengono a cadere le sentenze pronunciate dopo che il fatto estintivo si è verificato), perché si è verificato un fatto di improcedibilità o inammissibilità (in questo caso, si travolge solo la sentenza emessa in appello e non anche quella emessa in primo grado perché il fatto si è verificato in secondo grado), ecc.. Sentenza di cassazione sostitutiva Si ha sentenza di cassazione sostitutiva di quella impugnata quando la Corte ritenga di potersi pronunciare nel merito della controversia perché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto. In questi casi, si ha l’annullamento della sentenza impugnata e la pronuncia, da parte della Corte, di una nuova sentenza nel merito, la quale costituisce la disciplina sostanziale del rapporto controverso ed è l’unico provvedimento rilevabile all’esterno. Il presupposto per una simile pronuncia è che non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto; ulteriori accertamenti di fatto si ritengono necessari, ad esempio, quando la Cassazione, individuando un error in procedendo, ritenga necessaria la riassunzione o l’assunzione di una prova, l’interpretazione e l’applicazione della norma dà rilevanza a fatti diversi da quelli accertati dai giudici di merito o quando ci si debba pronunciare su una domanda o eccezione assorbita ed in relazione alla quale non è stata compiuta attività istruttoria: in questi casi, la Corte si limiterà ad annullare la sentenza impugnata e rinviare ad altro giudice la pronuncia nel merito della causa. Se non è necessario acquisire ulteriori fatti o compiere ulteriore attività istruttoria, la Corte potrà pronunciarsi nel merito. Infatti, la Corte non può compiere ulteriore attività istruttoria perché questo implicherebbe l’utilizzo di risorse che, invece, devono essere indirizzate all’attuazione della sua funzione nomofilattica, la quale viene compiuta nell’interesse di tutti. A questa considerazione generale è possibile individuare delle eccezioni nelle quali la Corte è chiamata ad esaminare le prove ed a compiere la quaestio facti prima di pronunciarsi nel merito; questo avviene nei casi in cui la quaestio facti è semplice e si ricava dalla sentenza cassata, pertanto, il giudizio di rinvio è inutile. Queste eccezioni si hanno quando i fatti, ai quali applicare le norme, sono pacifici o la valutazione probatoria relativa agli stessi è già stata effettuata e non sono sorte contestazioni su tale attività istruttoria. La ratio della pronuncia di una sentenza di merito sostitutiva di quella impugnata si incontra proprio nell’esigenza di evitare il rinvio della causa ad un altro giudice quando la soluzione nel merito è immediata. Sentenza di cassazione con rinvio La sentenza di cassazione con rinvio al giudice per ka pronuncia nel merito si ha quando non sussistono i presupposti che permettono alla Corte di Cassazione di pronunciare sentenza sostitutiva di quella impugnata. In questi casi, infatti, si deve limitare ad emanare un provvedimento di annullamento della sentenza e rinviare la causa ad un giudice di pari grado a quello che ha pronunciato la sentenza impugnata. Nell’ipotesi di ricorso per saltum, la Corte può scegliere se rinviare la sentenza annullata al giudice di primo grado o a quello che sarebbe stato competente per l’appello. Il destinatario della causa è un “altro giudice”, intendendosi per tale lo stesso ufficio giudiziario che ha emesso la sentenza, ma in composizione diversa. Se la Corte individua una nullità del processo di primo grado, cassa la sentenza impugnata che rinvia direttamente al giudice di primo grado. Questo costituisce una deroga alla regola per la quale la controversia deve tornare al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata Esempio: in primo grado ed in secondo grado non è stata individuata la mancata integrazione del contraddittorio in un caso di litisconsorzio necessario; la Cassazione, nell’annullare la sentenza di secondo grado, rimette la causa al giudice di primo grado. L’efficacia delle sentenze della Cassazione Le sentenze dalla Cassazione nascono già formalmente passate in giudicato. Gli strumenti attraverso i quali si può incidere sulle sentenze della Corte sono due e sono disciplinati dall’art. 391 bis c.p.c.. Tali strumenti sono: 1. la correzione della sentenza: questo strumento serve per far valere omissioni o errori di calcolo o materiali; il procedimento di correzione è disciplinato dagli artt. 287 e 288 c.p.c.; 2. la revocazione per errori di fatto ex art. 395 n4 c.p.c.: l’utilizzo di questo strumento, esteso dalla Cassazione anche ai casi nei quali la Corte stessa abbia commesso errores in procedendo, non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza e non sospende il giudizio di rinvio che segua la sentenza di annullamento, contro la quale è stato utilizzato questo strumento. E’ esperibile entro un anno o entro sei mesi dal deposito o dalla notificazione della sentenza della Corte. Pertanto, tranne le ipotesi di errori di calcolo, errori materiali, omissioni ed errori di fatto, la sentenza della Cassazione, essendo già passata in giudicato formale, è intoccabile con i mezzi di impugnazione ordinari e altri errori, diversi da quelli indicati dall’art. 391 bis c.p.c., sono irrilevanti perché insindacabili. L’enunciazione di un principio di diritto L’art. 384 c1 c.p.c. afferma che, quando la Corte deve pronunciarsi su un ricorso di cui all’art. 360 c1 n3 (per violazione o falsa applicazione di norme di diritto) e in ogni altro caso in cui, decidendo dei motivi del ricorso, deve decidere una questione di diritto di particolare importanza, essa deve enunciare un principio di diritto. La formulazione originaria del codice prevedeva l’obbligo per la Corte di pronunciare questo principio solo nel caso in cui il ricorso fosse stato fatto per falsa applicazione o violazione delle norme di diritto e aveva come ratio ispiratrice quella di enunciare una regola che guidasse e fosse valevole nel giudizio di rinvio. La ratio dell’istituto e la sua applicazione sono andati ampliandosi: si è preso atto, infatti, che l’enunciazione del principio può essere rilevante non solo per la quaestio iuris, ma anche per la quaestio facti, nei casi in cui la Corte individui come rilevante un certo fatto, trascurato nelle fasi precedenti; in questi casi, infatti, la soluzione della controversia dipende d’accertamento che il giudice di rinvio fa sul fatto stesso. La Corte può pronunciarlo sia quando accoglie il ricorso e sia quando lo rigetta e, nel primo caso, sia quando analizza errores in iudicando che quando analizza errores in procedendo. L’enunciazione del principio di diritto è importante nel giudizio di rinvio, ma anche al di fuori di esso, potendo imporsi per la sua forza vincolante (imperio rationis). Il principio di diritto, in ogni caso, risente della sopravvenienza di nuove norme di diritto, delle pronunce di incostituzionalità della Corte Cost. e di quelle della Corte di giustizia in materia di interpretazione delle norme comunitarie. Nelle controversie di lavoro, la sentenza con la quale la Cassazione decide una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o di un accordo collettivo nazionale, ha un’efficacia peculiare: il precedente che con essa viene dato, vincola gli altri giudici, dinnanzi ai quali si ponga la stessa questione, non nel merito (possono sempre discostarsi dalla pronuncia della Corte), sibbene nel rito, dato che questi devono pronunciare una sentenza solo sulla questione, sulla quale vi è il precedente, quando ritengano di non abbracciare il principio enunciato dalla Corte. La sentenza può essere impugnata dalle parti solo con ricorso immediato in Cassazione. Il giudizio di rinvio Quando c’è processo di rinvio? Il processo di rinvio c’è quando la Cassazione ha annullato una sentenza e c’è la necessità di svolgere ulteriore attività, che non può essere compiuta davanti alla Corte. Funzione La funzione specifica del giudizio di rinvio è di emettere una sentenza di merito. Infatti, in questa sede, non possono essere fatti valere vizi inerenti a presupposti processuali che portino ad una chiusura del processo in rito. L’unica eccezione si ha quando la Corte abbia disposto l’assunzione di prove sulla fattispecie del presupposto processuale: in tal caso, l’esito del processo dipende dall’attività istruttoria e, pertanto, ove risulti il vizio si può avere una pronuncia in rito che chiuda il processo. Natura del giudizio di rinvio Per lungo tempo il giudizio di rinvio è stato ritenuto come un nuovo processo d’appello: la Cassazione, infatti, era organo legislativo e il provvedimento di annullamento della sentenza, in quanto provvedimento legislativo, non vincolava in alcun modo il giudice di rinvio. Questa visione era rimasta anche nel previgente codice, il quale disponeva che il giudice d’appello fosse vincolato alla sentenza della Cassazione solo in presenza di due sentenze uguali (vincolo della doppia sentenza conforme). Oggi, invece, il giudizio di rinvio è strutturato come la fase rescissoria del giudizio di Cassazione, nel senso che è prosecuzione di quest’ultimo e in esso si compiono quelle attività che si rendono necessarie in conseguenza della sentenza della Cassazione. Questo è dimostrato anche dall’art. 393 c.p.c.. Attività da compiere in sede di rinvio e poteri delle parti In sede di rinvio non sono ammesse nuove allegazioni di fatti e nuove richieste istruttorie, in quanto le attività che si fanno sono solo le attività processuali compiute dal punto in cui è caduta la censura della Cassazione. In questo modo solo le attività viziate vengono sostituite da attività nuove. Per capire che attività compiere si deve guardare alle ragioni dell’annullamento della sentenza impugnata. Le parti hanno tutti i poteri che normalmente hanno in un processo che si trovi nello stadio in cui si è verificato il vizio. Esempi: Caso 1: annullamento per motivi attinenti alla giurisdizione e alla competenza In questo caso il vizio del processo sussiste fin dall’atto introduttivo del processo di primo grado e, pertanto, tutto il processo è viziato e va rifatto fin dai suoi atti introduttivi. Le parti possono compiere ogni tipo di attività, in quanto hanno tutti i poteri che spettano loro fin dagli atti introduttivi del processo. Caso 2: annullamento per nullità della sentenza o del procedimento L’annullamento per vizio del procedimento implica che la Cassazione abbia individuato un vizio nell’iter processuale, il quale può collocarsi in qualsiasi fase del processo. Sulla base delle regoli generali sulla nullità La revocazione Natura La revocazione è un mezzo di impugnazione disciplinato negli artt. 395 e ss. c.p.c. La si considera un mezzo di impugnazione in senso stretto, con una fase rescindente, la quale termina con una pronuncia di rito che annulla o rifiuta di annullare la sentenza impugnata, a seconda che si accerti come esistente o non esistente il vizio, e con una eventuale fase rescissoria che serve per emanare una nuova pronuncia in merito, volta a sostituire la sentenza annullata. Provvedimenti impugnabili I provvedimenti impugnabili con la revocazione sono le sentenze ed i provvedimenti aventi forma diversa dalle sentenze. Le sentenze impugnabili sono quelle emesse in grado d’appello, in unico grado e in sede di Cassazione; queste ultime sono revocabili quando affette da errore di fatto (art. 391 bis c.p.c.). Se la sentenza della Corte di Cassazione ha deciso anche nel merito della causa, essa è revocabile per i motivi di cui all’art. 395 nn. 1,2,3 e 6 c.p.c. (art. 391 ter c.p.c.). La revocazione contro una sentenza della Cassazione che decide nel merito la causa, si fa alla Corte stessa, la quale, dopo aver compiuto la fase rescindente, se ritiene sussistente il vizio, passa alla fase rescissoria che affida al giudice della sentenza impugnata quando è necessario compiere attività istruttoria per decidere nel merito. Tuttavia, la stessa fase rescindente può necessitare di attività istruttoria per accertare esistente il vizio di revocazione: in questi casi, siccome davanti alla Corte tale attività non può essere compiuta, la Cassazione si limiterà a pronunciare un giudizio formale di ammissibilità del ricorso e affiderà il compimento anche della fase rescindente al giudice che ha emesso la sentenza cassata. I provvedimenti revocabili con questo mezzo di impugnazione sono quelli che non hanno la forma della sentenza, come il decreto ingiuntivo o il lodo arbitrale. La Corte Cost. ha esteso l’utilizzo di questo mezzo di impugnazione anche contro i provvedimenti di convalida di licenza e sfratto. Inoltre, la revocazione può essere utilizzata anche contro le ordinanze della cassazione pronunciate ex art. 375 c.p.c. quando affette da errore di fatto (art. 391 bis c.p.c.). I motivi della revocazione L’art. 395 c.p.c. individua sei casi nei quali è possibile la revocazione della sentenza e tali sono: 1. la sentenza è il frutto del dolo di una parte; 2. la sentenza è stata pronunciata sulla base di prove false; 3. scoperta di un documento decisivo dopo la sentenza; 4. errore di fatto; 5. esistenza di contrasto con un precedente giudicato; 6. dolo del giudice. Causa 1: la sentenza è l’effetto del dolo di una parte in danno all’altra Questa prima causa di revocazione si ha quando la parte ha commesso dolo contro l’altra parte; si intende per dolo un raggiro idoneo a paralizzare le difese della controparte. Normalmente, è ritenuto come comportamento doloso la collusione con il legale dell’altra parte o il non rispetto dell’accordo extraprocessuale, concluso tra la parte costituta e la parte contumace, in virtù del quale la prima si impegnava ad abbandonare il processo. Per aversi solo revocatorio non è sufficiente un comportamento omissivo, come, ad esempio, la mancata produzione di documenti o la richiesta di prove; tuttavia, la giurisprudenza più recente in certi casi ha ritenuto come dolosa questa omissione, ammettendo la revoca della sentenza impugnata. Inoltre, non è comportamento doloso la reticenza o l’allegazione di fatti non veri: quest’ultima, infatti, è un atto di volontà e non di scienza e, pertanto, la parte non è obbligata a dire la verità. Causa 2: si è giudicato sulla base di prove dichiarate o riconosciute come false Questa causa di revocazione opera quando il giudice ha emesso la sentenza sulla base di prove riconosciute o dichiarate successivamente come false. Il riconoscimento della falsità della prova deve provenire dalla parte vittoriosa nella sentenza impugnata, quindi non da chi ha formato la prova o l’ha richiesta. La dichiarazione di falsità, invece, deve provenire da sentenza civile o penale, passata in giudicato e preesistente alla domanda di revocazione: infatti, non vi può essere cumulo tra processo di revocazione e quello avente ad oggetto la falsità delle prove. La dichiarazione o il riconoscimento della falsità delle prove devono essere successivi alla pronuncia della sentenza che si vuole impugnare con la revocazione; se sono antecedenti, la revocazione è ammessa la parte, che la richiede, prova l’incolpevole ignoranza dell’esistenza della dichiarazione o del riconoscimento. Causa 3: dopo la sentenza sono stati ritrovati documenti decisivi Questa causa di revocazione opera quando, dopo la pronuncia, si ritrovano documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per forza maggiore o per fatto dell’avversario. Si ritengono come decisivi quei documenti che hanno ad oggetto fatti decisivi, cioè fatti che se fossero stati presi in considerazione dal giudice avrebbero portato ad una soluzione diversa della controversia. I documenti devono essere preesistenti e devono avere ad oggetto fatti già allegati nella precedente processuale. La revocazione per questa causa non è possibile quando la parte era a conoscenza dell’esistenza del documento e non ha richiesto l’ordine di esibizione, ovvero quando avendo ottenuto l’esibizione, la controparte non ha adempiuto (l’inadempimento di questa permette di ritenere per veri i fatti che si vuole provare con l’esibizione e, pertanto, la revocazione non è ammessa dato che il giudice ha già tenuto conto di questi fatti nella pronuncia della sentenza). Invece, la revocazione può essere richiesta quando l’ordine di esibizione è stato rivolto ad un terzo e questi non ha adempiuto. La revocazione, inoltre, non è possibile quando il documento si trovava presso un pubblico ufficiale: chiunque, infatti, può farsene rilasciare una copia. Non dà luogo a revocazione la scoperta di altre prove diverse dai documenti. Causa 4: la sentenza è l’effetto di un errore di fatto L’errore di fatto, che deve emergere dagli atti o documenti della causa, è un errore di percezione, consistente in una svista del giudice, il quale ha dato per esistente un fatto che risultava sicuramente inesistente dagli atti di causa, oppure ha ritenuto inesistente un fatto che, invece, emergeva come esistente dagli atti di causa. Pertanto, questo errore si pone già nella lettura degli atti, quindi in una fase antecedente alla ricostruzione dei fatti storici. Può riguardare, oltre ai fatti sostanziali, anche i fatti processuali, cioè fatti storici sui quali si basano i presupposti processuali (es. può comportare revocazione della causa l’errore del giudice che abbia inteso che il convenuto aveva il domicilio in Italia, mentre emerge da altre prove che il domicilio era all’estero). Causa 5: contrasto con precedente giudicato Si ha questa causa di revocazione quando vi è un precedente giudicato tra le parti e nel processo che ha portato alla seconda sentenza non è stata sollevata l’eccezione di precedente giudicato. Pertanto, dà luogo a revocazione il giudicato esterno non allegato o on eccepito. Non dà luogo a revocazione l’esistenza di un giudicato interno, il quale risulta dagli atti di causa. Inoltre, non è utilizzabile la revocazione, sibbene il ricorso in Cassazione, quando nel secondo processo l’eccezione è stata sollevata, ma il giudice non si sia pronunciato o si sia mal pronunciato sull’eccezione stessa. La revocazione, inoltre, è possibile solo per contrasto effettivo e non apparente (la precedente sentenza ha ad oggetto un diritto pregiudiziale a quello della sentenza), cioè quando si abbiano due sentenze, le quali, allo stesso tempo, dichiarano lecito od illecito il comportamento e hanno lo stesso oggetto. Se questo vizio non è fatto valere, prevale quanto deciso nella seconda sentenza. Causa 6: dolo del giudice Il dolo del giudice è causa di revocazione solo se è accertato con sentenza passata in giudicato. Non risultano pronunce di revocazione della sentenza per questa causa. I termini per proporre revocazione La revocazione è mezzo di impugnazione ordinario e straordinario. E’ mezzo di impugnazione ordinario per i motivi di cui all’art. 395 nn. 4 e 5 c.p.c. (errore di fatto e precedente giudicato): in questi casi, si è dinnanzi ad un vizio palese e la revocazione deve essere proposta entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza o entro 6 mesi dalla sua pubblicazione. E ‘ mezzo di impugnazione straordinario per i motivi di cui all’art. 395 nn. 1,2,3 e 6 c.p.c.: in questi casi, si è dinnanzi a vizi (intendendosi come tale non l’errore nel giudice, ma la difformità tra la decisione e la realtà effettiva) occulti e la revocazione va proposta, se la sentenza è già passata in giudicato, entro 30 giorni dalla scoperta del vizio; in questi casi, c’è un dies a quo incerto poiché non si sa se e quando il vizio verrà scoperto. Il motivo di revocazione straordinaria va fatto valere con l’appello quando è scoperto in un momento in cui la sentenza è ancora appellabile; l’art. 396 c2 c.p.c. prevede, a tal fine, che il termine per appellare si prolunghi di un mese dal giorno della scoperta del vizio. Da questa disposizione si deduce che non c’è concorrenza tra appello e revocazione, cioè la sentenza non è sottoponibile contemporaneamente ai due mezzi di impugnazione. C’è concorrenza, invece, tra la revocazione ed il ricorso in Cassazione: la sentenza, pertanto, può essere contemporaneamente sottoposta all’esame di entrambi questi due mezzi di impugnazione; tuttavia, l’art. 398 c4 e 5 c.p.c. prevede che, in caso di concorso tra questi mezzi, il giudice della revocazione possa sospendere i termini per ricorrere in Cassazione o il procedimento davanti alla Corte stessa, quando ritiene la revocazione non manifestamente infondata. L’art. 398 c.p.c. è l’unica disposizione che consente ad un giudice di sospendere il processo in corso dinnanzi ad un altro giudice. Questa norma si basa sulla considerazione per la quale i vizi della revocazione si pongono in un momento antecedente (quale quello dell’attività istruttoria e della ricostruzione dei fatti) rispetto a quello nel quale sorgono i vizi denunciabili in Cassazione. La sospensione dei termini per il ricorso in Cassazione o del procedimento ha luogo fino alla comunicazione della sentenza che decide della revocazione. Revocazione proposta dal PM L’art. 397 c.p.c. permette anche al PM di impugnare con la revocazione le sentenze, quando: • la sentenza è il frutto della collusione delle parti per frodare la legge: il presupposto di questa ipotesi è che si tratti di diritti indisponibili. La revocazione della sentenza per collusione delle parti era frequente prima della legge che ammette il divorzio, in quanto le parti agivano in giudizio con prove false per dimostrare la nullità del matrimonio; • la controversia rientra tra quelle dell’art. 70 c.p.c. e nel giudizio non c’è stata la partecipazione del PM. L’atto introduttivo del processo di revocazione La revocazione si propone con citazione, tranne nei processi di rito speciale, nei quali si propone con ricorso. L’atto di revocazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi del ricorso e se si tratta di revocazione straordinaria, deve contenere anche le prove volte a dimostrare il dies a quo della scoperta del vizio. La revocazione è una domanda sotto veste d’azione; infatti, da essa sorge una nuova litispendenza e può essere trascritta quando riguarda beni immobili e beni mobili registrati (artt. 2643 e 2684 c.c.). Inoltre, il tempo che decorre tra il passaggio in giudicato della sentenza impugnata e la domanda di revocazione è regolato dalle norme di diritto sostanziale. La citazione deve essere depositata dell’ufficio giudiziario e l’attore in revocazione deve costituirsi, a pena di improponibilità, entro 20 giorni dalla notificazione dell’atto di citazione. La citazione si propone allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Il processo di revocazione Il processo di revocazione è disciplinato dalle stesse norme generali che disciplinano il processo di fronte al giudice al quale è stato proposto l’atto di citazione. I poteri delle parti e l’iter processuale, quindi, dipendono dal grado nel quale è stata emessa la sentenza che si vuole impugnare con la revocazione. E’ possibile Il pregiudizio presuppone, quindi, una sentenza che riconosca dovuto da parte del soccombente un certo comportamento nei confronti dell’altra parte originaria. In questo senso, l’opposizione di terzo ordinatoria ha come scopo quello di impedire il pregiudizio del terzo, togliendo di mezzo il provvedimento che rende necessario il comportamento nei confronti dell’alta parte originaria, e sostituirlo con un’altra pronuncia del giudice che imponga di soddisfare il diritto del terzo. Quindi, l’opposizione di terzo ordinatoria vuole evitare l’attuazione inter partes della situazione sostanziale che fa capo alle parti originarie. Se l’obbligato ha già tenuto il comportamento dovuto in virtù della sentenza pronunciata, il terzo, titolare del diritto incompatibile, prevalente ed autonomo, può solo agire in via ordinaria nei confronti della parte vittoriosa originaria (se sussiste ancora il suo diritto) o in risarcimento danni nei confronti del soccombente originario. La dottrina e la giurisprudenza ritengono che possa compiere opposizione di terzo ordinatoria anche il litisconsorte necessario pretermesso (art. 102 e 331 c.p.c.): in questo caso, il pregiudizio che questo soggetto subisce consiste nella violazione di un proprio diritto processuale, cioè il diritto di difesa. Inoltre, legittimato sarebbe, secondo una certa tesi, anche il falsamente rappresentato. Effetti dell’accoglimento dell’opposizione Opposizione avanzata dal litisconsorte necessario pretermesso Se il litisconsorte si è limitato a chiedere che venga dichiarata l’inefficacia della sentenza, il giudice si pronuncerà in questo senso, senza scendere all’esame di merito, ove ritenga esiste il vizio del contraddittorio. Se, invece, ha richiesto una pronuncia nel merito, il giudice deve annullare la sentenza impugnata, se ritenga esiste il vizio, e rimettere la causa in primo grado se è stata impugnata sentenza d’appello; se oggetto dell’impugnazione è una sentenza di primo grado, il giudice può o prima annullare e successivamente sostituire la sentenza impugnata, oppure con un unico provvedimento annulla e sostituisce. Opposizione avanzata dal titolare di un diritto autonomo, prevalente ed incompatibile La giurisprudenza si ispira ad un principio di tendenziale conservazione del giudicato tra le parti originarie, in quanto afferma che l’accoglimento dell’opposizione del terzo non travolge il giudicato tra le parti originarie, tranne che in sede d’opposizione il diritto del terzo non risulti incompatibile con quello oggetto della sentenza impugnata. Parte della dottrina, invece, ritiene che l’accoglimento dell’opposizione faccia sempre venir meno gli effetti della precedente pronuncia e questo proprio in virtù del nesso di incompatibilità e prevalenza del diritto dell’opponente: l’accoglimento dell’opposizione, infatti, implica che venga soddisfatto il diritto dell’opponente, mentre la parte vittoriosa nella sentenza impugnata non si vedrà più riconosciuta una situazione sostanziale; questa parte vittoriosa nella sentenza impugnata e soccombente in sede di opposizione avrà solo diritti di natura risarcitoria (risarcimento danni per evizione, inadempimento, ecc..), i quali nascono dalla sua soccombenza nel processo di impugnazione e potranno essere fatti valere con un’autonoma domanda giudiziale, quindi in un altro processo nel quale continua a produrre i suoi effetti la sentenza impugnata limitatamente a questi diritti risarcitori. Se l’opposizione del terzo è accolta, il giudice pronuncia nel merito e la pronuncia ha effetti sostitutivi. L’opposizione di terzo revocatoria L’opposizione di terzo revocatoria è definita dall’art. 404 c2 c.p.c. Legittimati a proporre opposizione di terzo revocatoria L’art. 404 c.p.c. prevede che questo mezzo di impugnazione possa essere utilizzato da coloro ai quali è opponibile la sentenza, cioè gli aventi causa ed i creditori di una delle parti. Infatti, questo mezzo di impugnazione ha come scopo quello di permettere a questi soggetti di sottrarsi all’efficacia della sentenza altrui. L’accoglimento dell’opposizione di terzo revocatoria è subordinata alla prova, che l’opponente deve fornire, che la sentenza impugnata è affetta da dolo o da collusione delle parti. La collusione consiste in una condotta processuale, concordata tra le parti, volta a far apparire come esistente una data realtà sostanziale al fine di ottenere una pronuncia, la quale non produrrà effetti per le parti, in virtù dell’accordo tra loro concluso. In questo senso, la collusione è l’equivalente della simulazione sul piano del diritto sostanziale. Il dolo, invece, consiste in una condotta processuale, anche della sola parte soccombente della sentenza impugnata, con la quale si vuole effettivamente l’alterazione fraudolenta, mediante il processo, della realtà sostanziale a danno del terzo. L’opposizione qui assume la stessa funzione che ha l’azione revocatoria nei confronti di atti di diritto sostanziale. Il terzo che impugna la sentenza deve dimostrare non solo il dolo o la collusione, ma anche che questi hanno inciso sul contenuto della sentenza e cioè che il giudice ha fondato la sua decisione sulla fraudolenta attività o omissione delle parti. Invece, l’opponente non deve dimostrare l’ingiustizia della sentenza, cioè che il diritto riconosciuto in realtà non esiste o viceversa. La sentenza affetta da dolo o da collusione deve pregiudicare il terzo e il pregiudizio deve nascere dalla sentenza. Per i creditori questo pregiudizio consiste nella concreta diminuzione del patrimonio del debitore, quindi nella diminuzione di potersi soddisfare su di esso. Per gli aventi causa, invece, il pregiudizio è diretto ed incondizionato in quanto al sentenza impedisce loro di affermare che la realtà sostanziale è diversa da quella accertata nella sentenza; i terzi titolari di diritti dipendenti perdono il loro diritto se la sentenza impugnata ritiene inesistente il diritto pregiudiziale, mentre i terzi titolari di obblighi dipendenti non hanno più la possibilità di sostenere l’insussistenza del debito se la sentenza ritiene esistente quello pregiudiziale. Effetti dell’accoglimento dell’opposizione Guardando alla semplice fase rescindente, l’annullamento della sentenza dà già di per sé tutela al terzo, allorquando accerti un debito di questi; in questo caso, spetterà alla parte vincitrice della sentenza impugnata dimostrare che il suo diritto di credito (quindi l’obbligo del terzo opponente) esistono anche a prescindere dal dolo o dalla collusione. Se la pronuncia nega l’esistenza di un elemento attivo del patrimonio del debitore, il terzo, dopo aver richiesto l’annullamento della sentenza, dovrà richiedere che si accerti che quell’elemento effettivamente appartiene al patrimonio del debitore. Gli aventi causa ottengono tutela semplicemente dall’annullamento della sentenza. La pronuncia emessa in sede rescissoria avrà effetto tra i titolari della pronuncia originaria, in quanto la nuova decisione consegue alla domanda di una delle parti originarie o dell’opponente in sede di legittimazione straordinaria (fa valere in giudizio il diritto di un suo debitore o dante causa). Il processo d’opposizione Provvedimenti impugnabili Sono impugnabili in sede d’opposizione le sentenze, i decreti ingiuntivi divenuti esecutivi (art. 656 c.p.c.) e il lodo arbitrale. Possono essere impugnati con l’opposizione di terzo anche tutti i provvedimenti definitivi e che hanno portata decisoria, anche se non hanno la forma della sentenza, come, ad esempio, i provvedimenti di convalida di licenza e sfratto. se il provvedimento non è definitivo, il terzo può tutelarsi contro di esso intervenendo nel processo. L’art. 391 ter c.p.c. ritiene ammissibile l’opposizione di terzo anche contro le sentenze della Corte di Cassazione che decidono nel merito: l’impugnazione è proposta alla Cassazione, la quale pronuncia nel merito dell’impugnazione quando non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, mentre, in caso contrario, emette un provvedimento con il quale ritiene ammissibile l’opposizione di terzo e rimette la causa al giudice che ha emesso la sentenza impugnata. Termine L’opposizione di terzo ordinatoria non è sottoposta ad alcun termine, mentre l’opposizione di terzo revocatoria deve essere proposta entro trenta giorni dalla data di scoperta della collusione o del dolo delle parti. Competenza L’art. 405 c.p.c. afferma che competente per l’opposizione di terzo è lo stesso giudice che ha emanato la sentenza impugnata. In questo senso, se si impugna una sentenza di primo grado, l’opposizione va fatta al giudice di primo grado, mentre va fatta al giudice d’appello se si impugna una sentenza di secondo grado. Se in appello venga impugnato un solo capo della sentenza di primo grado e l’altro passi in giudicato, l’opposizione sul capo non appellato va fatta al giudice di primo grado. La dottrina ha individuato un limite all’opposizione, affermando che se la sentenza di primo grado è appellata, l’opponente può far valere il suo diritto solo intervenendo in appello: la pendenza dell’appello, infatti, impedisce l’opposizione di terzo. Atto introduttivo La domanda si propone con citazione, mentre nei riti speciali con ricorso. Tra l’opponente e le parti si instaura una causa inscindibile (art. 331 c.p.c.). L’inscindibilità riguarda il solo capo della sentenza impugnato e se il contraddittorio non è istaurato nei confronti di tutte le parti, si dà luogo all’integrazione dello stesso (art. 331 c.p.c.). Deve contenere gli elementi di cui all’art. 405 c2 c.p.c. e tali sono gli elementi di cui all’art. 163 c.p.c., l’indicazione della sentenza impugnata e l’indicazione del giorno della scoperta della collusione o del dolo delle parti, nel caso di opposizione di terzo revocatoria. Svolgimento del processo Il processo si svolge secondo le regole previste per il processo innanzi al giudice competente per l’opposizione. si dovrà compiere attività istruttoria per dimostrare il dolo o la collusione delle parti e l’esistenza del litisconsorte pretermetto, nel coso di opposizione revocatoria, mentre l’attività istruttoria sarà volta ad accertare la prevalenza, l’incompatibilità e l’autonomia del diritto del terzo dell’opposizione di terzo ordinatoria. Se l’opposizione è fatta dal litisconsorte pretermesso, le attività istruttorie compiute nel precedente giudizio sono nulle, mentre negli altri casi l’opponente avrà diritto a fornire la prova contraria e a chiedere la riassunzione di quelle prove costituende assunte nel precedente giudizio. L’opponente ha diritto di richiedere la sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata, la quale verrà concessa con ordinanza non impugnabile alle condizioni e a seguito del procedimento di cui all’art. 372 c.p.c. Provvedimento che decide dell’opposizione Il processo di opposizione può chiudersi con una pronuncia in rito che dichiari l’inammissibilità e l’improcedibilità dell’impugnazione: la prima viene dichiarata quando si è in presenza di un vizio insanabile o insanato (es. art. 331 c.p.c. quando non si è integrato il contraddittorio) dell’atto di citazione (la mancanza di uno degli elementi di cui all’art. 405 c2 c.p.c. non integra una causa di inammissibilità), mentre si ha dichiarazione di improcedibilità nei casi di cui all’art. 348 c.p.c.; pertanto, l’improcedibilità è applicabile solo al processo di opposizione che si svolga contro una sentenza d’appello. Può essere, infine, di accoglimento o di rigetto dell’opposizione e, nel primo caso, è seguita da una pronuncia nel merito. Contro la sentenza emessa in sede di impugnazione, possono essere esperiti tutti i mezzi di impugnazione che erano utilizzabili contro la sentenza impugnata e anche con l’opposizione di terzo ad opera di altri terzo. Non c’è disposizione normativa che disciplini il concorso dell’opposizione di terzo con la revocazione o con il ricorso in Cassazione contro lo stesso provvedimento e la questione è dibattuta in dottrina e in giurisprudenza.
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