Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

I mezzi di ricerca della provaGeneralitàI mezzi di ricerca della prova, Appunti di Diritto

dsssssssssssssssssssssssssssssaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 19/03/2020

lucatherocker1
lucatherocker1 🇮🇹

4.7

(18)

29 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica I mezzi di ricerca della provaGeneralitàI mezzi di ricerca della prova e più Appunti in PDF di Diritto solo su Docsity! I mezzi di ricerca della prova Generalità I mezzi di ricerca della prova sono:  Ispezioni  Perquisizioni  Sequestro probatorio  Intercettazioni I mezzi di ricerca della prova trovano la loro sede naturale nella fase delle indagini preliminari, in quanto è in tale fase che si ricercano quei fatti che consentono al PM di esercitare l’azione penale ma anche di poter sostenere l’accusa nel futuro processo. Inoltre, vedremo che i mezzi di ricerca della prova tendono a collocarsi temporalmente prima dei c.d. mezzi di prova che vi si differenziano dai primi, essendo utili a formare il convincimento del giudice in fase processuale. Viceversa con i mezzi di ricerca della prova, veicolano innanzi al giudice fonti del suo convincimento (tracce, cose, dichiarazioni) che preesistono (es. cosa sequestrata, conversazione intercettata telefonicamente) e che quasi sempre sono acquisite nelle indagini e cioè prima del dibattimento. Il pubblico ministero, in quanto dominus delle indagini preliminari, è colui che – in genere- ordina la ricerca dei mezzi di prova; tuttavia un’attività di ricerca della prova può avere luogo sia pure raramente, innanzi allo stesso giudice dibattimentale, il cui compito precipuo peraltro è quello di presiedere alla valenza probatoria e non già alla sua ricerca. In ordine alla valenza probatoria, i mezzi di ricerca della prova posti in essere durante la fase delle indagini preliminari formano prova, per quanto attiene alle loro risultanze, in quanto per la loro generale natura di atti c.d. a sorpresa si configurano come atti ab origine non ripetibili, non potendosi ricreare la sorpresa (cioè vanno eseguiti per la loro finalità con tempestività). Ciò vale per le ispezioni, perquisizioni e sequestro probatorio. Le ispezioni, le perquisizioni, il sequestro probatorio in particolare, se adottati in fase di indagine preliminare fanno venire meno il segreto interno delle indagini stesse: è evidente come l’indagato, subendo un ispezione, perquisizione o sequestro probatorio, venga quanto meno a sapere di essere indagato e che il PM sta ricercando dei mezzi per provare l’accusa contro di egli. Le ispezioni e le perquisizioni Dobbiamo anzitutto distinguere le modalità di svolgimento delle ispezioni e perquisizioni:  Con l’ispezione , tendiamo ad osservare re al fine di poter descrivere tracce di reato ed altri suoi effetti materiali su persone, luoghi e cose.  Con la perquisizio ne, tendiamo a ricercare con grande cura e diligenza, rovistando in luoghi sospetti o frugando addosso delle persone allo scopo di trovare cose nascoste, proibite o compromettenti. Cambia anche la finalità ultima dei mezzi in discorso. Mentre con l’ispezione la finalità ultima è quella di descrivere quanto ispezionato, con la perquisizione si ricerca- il corpo del reato e in genere le cose pertinenti al reato- al fine di acquisire al processo ciò che costituisce profilo del reato. - In definitiva possiamo dire che, l’ispezione si spinge oltre ciò che è in evidenza, rilevando tracce di reato ed altri suoi effetti materiali: pensiamo all’ispezione personale dove quando si è convocati in luoghi giudiziari, possono essere acquisiti il campione di saliva dalla bocca col tampone, pezzetto di carne sotto le unghia, polvere da sparo dalle mani. - Mentre con la perquisizione ci si limita a ricercare il profilo del reato o le cose pertinenti ad esse, tale che l’autorità procedente tende a ricercare in superficie, a non spingersi oltre l’evidenza: ad esempio quando ci perquisiscono nelle tasche o nei vari indumenti. L’ispezione si caratterizza dunque per una invasività che non presenta invece la perquisizione: per tale motivo si vuol dire che l’ispezione è un atto garantito (art. 364) per cui deve essere avvisato il difensore, il quale ha diritto a partecipare all’ispezione stessa. Nel caso di mancanza di difensore e di ispezione personale, la persona sottoposta alle indagini è altresì avvisata che è assistita da difensore d’ufficio ma può nominarne uno di fiducia. L’ispezione quale atto garantito, ci permette anche di distinguere sotto tale profilo la perquisizione: questa è in genere atto a sorpresa, che esclude invece l’obbligo di preavviso al difensore. L’ispezione infatti non può essere disposta a sorpresa, ma l’autorità procedente deve avvisare l’indagato almeno 24 h prima che procederà ad ispezione. Quindi, l’invasività che caratterizza l’ispezione spiega perché si debba procedere ad avvisare l’indagato che non può altrimenti subire la lesione del suo diritto all’integrità fisica (ispezione personale), ovvero alla riservatezza (ispezione locale); con la perquisizione invece l’autorità procedente al fine di acquisire il corpo del reato e le cose pertinenti ad esso, procede solitamente a sorpresa per rilevare ciò che compromette l’indagato. Infatti, la disciplina dettata per le ispezioni e perquisizioni, viene in rilievo la sensibilità legislativa per il profilo della loro incidenza sui diritti di libertà tutelati a livello costituzionale (art. 13-14 Cost). Il che si traduce in un rafforzamento della dimensione garantistica delle previsioni ad essi collegate, a cominciare dalla stessa necessità del decreto motivato dell’autorità giudiziaria che è stato previsto (novità legislativa) sia per le ispezioni che per le perquisizioni, potendo riguardare oggi anche sistemi informatici o telematici. L’ispezione L’ispezione consiste in attività volta a rilevare tracce di reato ed altri suoi effetti materiali su persone, luoghi e cose. Quanto ai soggetti legittimati a procedere alle ispezioni: -Vi procede il PM o la PG (quando delegata a compiere la sola ispezione locale e non personale), in fase di indagini preliminari -Vi procede il giudice in fase processuale, nel dibattimento Dal punto di vista della difesa tecnica, il difensore ha sempre diritto ad assistere alla perquisizione, anche se compiuta in situazioni di urgenza: naturalmente, la natura di atto a sorpresa che contraddistingue la perquisizione dall’ispezione, esclude che debba essere dato avviso al difensore. Ulteriore garanzia è costituita dalla necessità del decreto scritto con cui il PM o giudice dispongono la perquisizione e che deve essere preventivamente consegnato all’interessato. L’art. 248 prevede un’ipotesi particolare di perquisizione, quando questa abbia ad oggetto cose determinate: in questi casi l’autorità giudiziaria può invitare il soggetto a consegnare la cosa determinata e solo quando non ha luogo la consegna si procede alla perquisizione. Tuttavia, potrebbe capitare che nonostante la consegna della cosa determinata, debba comunque procedersi a perquisizione per esigenze di completezza delle indagini. Ai sensi dell’art. 252, le cose rinvenute a seguito della perquisizione sono sottoposte a sequestro con l’osservanza degli art. 250 e 260. Si tratta del successivo e collegato mezzo di ricerca della prova del sequestro probatorio: la perquisizione è infatti funzionale al successivo sequestro. Dato questo collegamento, ci si è chiesti se un’eventuale perquisizione contra legem possa o meno inficiare il sequestro e quindi rendere inutilizzabili i relativi risultati rivenuti: le S.U. della Cassazione hanno stabilito che l’illegittimità della perquisizione non inficia il sequestro probatorio. Perquisizione presso banche: presso le banche, per rintracciare le cose da sottoporre a sequestro, può essere delegata la PG, ma se la banca rifiuta l’esibizione degli atti richiesti deve procedere direttamente l’autorità giudiziaria (PM o giudice) eventualmente tramite perquisizione. Ciò accade allorché si tratti di “rintracciare cose da sottoporre a sequestro (collegamento all’art. 255), ovvero di “accertare altre circostanze utili ai fini delle indagini”. Perquisizione presso gli uffici dei difensori: quando debbano eseguirsi negli studi professionali dei difensori- da parte del giudice in persona ovvero nel corso delle indagini preliminari da parte del PM- la relativa procedura di caratterizza per la prevista necessità che ne venga avvisato il locale consiglio dell’ordine forense, affinché il presidente o un consigliere suo delegato, possa assistere alle operazioni di perquisizione (senza pregiudizio ovviamente per le comuni garanzie attinenti all’assistenza fiduciaria o difensiva in occasione di atti del genere). La procedura se in corso in fase di indagini, viene esercitata sulla scorta di un motivato decreto autorizzativo del giudice competente per tale fase (GIP). LEGGI PAG 358 359 Il sequestro probatorio Il sequestro e il vincolo con la perquisizione Il sequestro, come la perquisizione, ha ad oggetto il corpo del reato e le cose a questo pertinenti; ma se ne differenzia perché la perquisizione attiene all’attività di ricerca mentre il sequestro, attiene a quella di immediata acquisizione e detenzione. Pertanto, siffatta acquisizione sappiamo può essere consequenziale alla ricerca, ovvero non consequenziale a seconda che l’oggetto del sequestro abbisogni o meno di essere preventivamente rintracciato. Inoltre, la perquisizione, può mirare anche al rintraccio di persona (indiziato, imputato, o condannato evaso) mentre il sequestro attiene sempre a cose: nella perquisizione locale, lo spazio si pone come teatro della scena di ricerca. Nel sequestro invece (es. terreni abusivamente lottizzati), il luogo è visto come cosa immobile essa stessa assoggettata a vincolo. Il sequestro probatorio si caratterizza- in genere- per essere un mezzo di ricerca della prova c onseguente alla perquisizione (art. 252 cpp): infatti è la perquisizione che è finalizzata al sequestro e non il contrario. Ciò significa che, l’autorità procedente, che ha proceduto a perquisizione personale o locale e ha rinvenuto il corpo del reato o cose pertinenti al reato, per avere la detenzione della cosa necessita di un titolo detentivo  non basta che l’autorità spossessi della res l’interessato ma si abbisogna di un titolo legittimante qual è il sequestro probatorio. Se ad esempio l’autorità procedente rinvenisse a seguito di perquisizione locale, una bustina di polvere bianca (che fa presumere che sia droga ma non vi è la certezza) per accertare la proprietà delle cosa rinvenute si procede a sequestro probatorio che permette di detenere la cosa ai fini dell’accertamento. Ma sussiste sempre tale vincolo di consequenzialità tra perquisizione e sequestro? NO. La suprema corte di Cassazione, in una delle sue pronunce, ha affermato l’autonomia del sequestro facendo notare che:  In ogni caso, il sequestro, sebbene effettuato a seguito di una perquisizione, mantiene una sua autonomia: tanto è vero che se la perquisizione è stata disposta o svolta in modo illegittimo, il susseguente sequestro del corpo di reato manterrà egualmente la sua validità (S.U. Cass.).  In sostanza, la giurisprudenza senza esitazioni, afferma che l’autonomia strutturale e funzionale che contraddistinguono i presupposti e le forme dell’attività di ricerca della res da un lato e quella di apprensione ed assicurazione della cosa reperita dall’altro, giustifica una valutazione differenziata tra la “perquisibilita” e la “sequestrabilità” che impedisce agli eventuali vizi della prima di inficiare per contaminazione la validità ed efficacia della seconda, anche per ciò che attiene ai profili di utilizzazione processuale. Si può fare l’esempio dell’autorità che rinviene in un luogo pubblico (es. in un sopralluogo) un coltello: tramite sequestro si accerterà che poi quel coltello è attinente al reato. In questo caso, la perquisizione non ha avuto luogo tale che il vincolo col sequestro, non è condizione necessaria.  Si è opinato in altri termini che, quando si tratti di sequestro ex art. 253 (del corpo di reato o delle cose pertinenti al reato), essendo il sequestro un atto dovuto, debba reputarsi irrilevante il modo con cui allo stesso si è pervenuti e debba invece prevalere l’obbligo dell’autorità procedente di disporre il sequestro. Anche perché se l’autorità non procedesse (ad es. nel detenere un coltello rinvenuto in pubblico) configurerebbe un’omissione alle sue funzioni tipiche. Il sequestro: generalità e procedura Il sequestro probatorio è previsto dall’art. 253 cpp il quale dispone che l’autorità giudiziaria (PM o giudice) può disporre con decreto motivato il sequestro del corpo di reato e delle cose pertinenti ad esso , quando ciò è necessario per l’accertamento dei fatti. Sono corpo di reato, le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso (es. il motociclo utilizzato per la rapina), nonché le cose che costituiscono il prodotto, profitto, prezzo del reato (es. il denaro provento da attività di spaccio sequestrato dall’A.G per fini probatori).  Le S.U. hanno hanno offerto di recente una definizione di profitto del reato, affermando che si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito. Sono cose pertinenti al reato , quelle che servono anche indirettamente ad accertare l’illecito ed il suo autore e che quindi hanno un legame con l’accertamento dell’illecito stesso (es. gli attrezzi edili rinvenuti in un cantiere di un immobile abusivo) Il decreto motivato disposto dall’A.G. và motivato, pena nullità dello stesso: le S.U. hanno precisato che la mancanza di motivazione del decreto, cioè l’assenza dell’esplicitazione della finalità probatoria perseguita col sequestro, rende quest’ultimo nullo. Copia del decreto di sequestro è consegnata all’interessato, se presente. Contro il decreto di sequestro ex art. 257, l’imputato, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione, possono proporre richiesta di riesame anche nel merito a norma dell’art. 324 Il sequestro probatorio può essere disposto: -In fase di indagini preliminari, dal PM oppure la PG Se procede la polizia giudiziaria, questa può agire in due modi diversi: 1. per delega del PM 2. oppure in casi urgenti di propria iniziativa senza decreto del PM (354 co.2) , dovendo però in quest’ultimo caso, immediatamente precisare nel verbale i motivi dell’urgenza e contestualmente al sequestro consegna copia del verbale alla persona alla quale le cose sono state sequestrate. Il verbale, è trasmesso senza ritardo e comunque non oltre le 48 ore dal sequestro, al PM del luogo dove il sequestro è stato eseguito (art. 355 co.1). Il pubblico ministero, nelle 48 ore successive, con decreto motivato, convalida il sequestro ne ricorrono i presupposti, ovvero dispone la restituzione delle cose sequestrate. Copia del decreto di convalida è immediatamente notificata alla persona alla quale le cose sono state sequestrate (355 co.2). Contro il decreto di convalida, la persona alle quali le cose sono state sequestrate o l’indagato o suo difensore, possono proporre entro 10 gg dalla notifica del decreto (ovvero dalla diversa data in cui l’interessato ha avuto conoscenza dell’avvenuto sequestro), richiesta di riesame anche nel merito (la richiesta di riesame non sospende l’esecuzione del provvedimento- art. 355 co.3-4).  Quando viene disposto sequestro preventivo (art.321)? Per quanto riguarda il sequestro preventivo, la legge dice che, quando c’è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze dello stesso ovvero agevolare la commissione di altri reati, a richiesta del pubblico ministero il giudice ne dispone il sequestro con decreto motivato. Facciamo un esempio: ritroviamo presso il locale del soggetto indagato un sacchettino di polvere bianca. Tramite perquisizione e quindi sequestro probatorio, abbiamo la possibilità in qualità di autorità procedente di detenere il sacchetto per accertare la natura eventualmente illegittima della polvere al suo interno. Una volta espletati gli accertamenti (es. con perizia o consulenza tecnica) e accertato che si tratti di sostanze stupefacenti quindi illegali, la finalità del sequestro probatorio si esaurisce e viene meno. L’autorità a tale punto, non può certo restituire la sostanza illegale al soggetto, poiché andrebbe a favorire la commissione di altri reati ovvero ad agevolare l’uso di droga per il soggetto: cosa si fa? Si utilizza un sequestro preventivo, appunto per impedire la commissione di ulteriori reati.  Quando viene disposto un sequestro conservativo (art. 316)? Il sequestro conservativo ha una finalità prevalentemente economica: infatti, il suo scopo è quello di sottrarre all’imputato la disponibilità di beni mobili o immobili in vista del pagamento della pena pecuniaria, delle spese del procedimento oppure del risarcimento dovuto alla persona offesa . Il sequestro conservativo può essere richiesto sia dal pubblico ministero che dalla parte civile interessata al risarcimento del danno; a disporlo è il giudice con ordinanza, avverso la quale è possibile ricorrere al tribunale in sede di riesame. Facciamo un esempio: nel caso si verifichi il reato di bancarotta fraudolenta, tipico dell’imprenditore che ha distrutto, dissimulato, occultato in tutto o in parte i suoi beni, ovvero allo scopo di recare pregiudizio ai suoi creditori ha esposto o riconosciuto passività inesistenti. E’ questo il caso dell’imprenditore fallito: con la dichiarazione di fallimento si apre la procedura concorsuale mirata a tutelare i creditori dell’imprenditore fallito. Si cerca quindi di ricostruire il patrimonio dell’imprenditore fallito e si cerca di soddisfare le pretese creditorie. Ora, l’autorità giudiziaria potrebbe espletare una perquisizione presso la sede legale dell’impresa dell’imprenditore fallito, per verificare se tutte le scritture contabili sono state redatte e tenute correttamente. Non vengono trovate delle scritture contabili e quindi l’autorità procedente, passa a perquisire (con le giuste misure) l’abitazione dell’imprenditore: non vengono trovate le scritture ma dei contanti. Vengono quindi sequestrati a fini probatori i contanti (es. 1 milione di euro) che fanno presagire che l’imprenditore stava svuotando i suoi conti bancari per ostacolare ed impedire il legittimo soddisfacimento dei creditori; una volta svolto l’accertamento e concluso il sequestro probatorio si scopre che parte di questi soldi sono contraffatti e quindi non possono né essere rimessi in circolazione né restituiti all’imprenditore. Sul denaro contraffatto, viene disposto sequestro preventivo. Mentre, sulla somma non contraffatta viene esercitato invece il sequestro conservativo: in questo modo si impedisce che l’imprenditore possa destinare tale somma a finalità diverse da quelle necessarie a soddisfare i propri creditori. Le intercettazioni Premessa Le intercettazioni figurano tra i mezzi di ricerca della prova però presentando notevoli modifiche, apportate dalla riforma Orlando, che la collocano in una posizione sui generis. Presentano infatti: -Una disciplina più rigorosa, rispetto ai precedenti mezzi di ricerca della prova. -Una modalità di svolgimento più complessa. A differenza inoltre dell’ispezione e perquisizione, attività che nel momento in cui vengono espletate fanno cadere il segreto interno delle indagini preliminari (l’inquisito sa che si sta procedendo nei suoi confronti nel reperire materiale probatorio), le intercettazioni si caratterizzano per essere un’attività occulta (es. se intercettano il nostro cellulare non lo sappiamo in un primo momento). In più, le intercettazioni, avendo ad oggetto le comunicazioni, confidenze e conversazioni tra le persone, vanno ad interferire con la tutela della riservatezza e della privacy. Ebbene, quando il Legislatore ha introdotto la disciplina delle intercettazioni nel codice di rito, ha dovuto trovare in Costituzione una valvola di apertura: cioè una norma che giustificasse l’adozione di determinate misure, che se non regolate entro certi limiti, violano e ledono la libertà e segretezza delle comunicazioni, che sono inviolabili (art. 15 Cost. co.1). Ciò in quanto: -Se da un lato le intercettazioni giovano alle indagini, per ricercare fonti di prova -Dall’altro lato, un vantaggio per le indagini non può mai significare pregiudicare i diritti fondamentali della persona. Ecco perché la norma che legittima lo svolgimento di un così delicato mezzo di ricerca della prova quali le intercettazioni, è stata rinvenuta nell’art. 15 della Costituzione dove si precisa che la libertà e la segretezza delle comunicazioni definite inviolabili possono venire limitate soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge. Altra differenza rispetto ai precedenti mezzi di prova, è quella secondo cui verso le intercettazioni vige una riserva di giurisdizione. Infatti, mentre le ispezioni, perquisizioni ecc, sono iniziate a seconda della fase processuale, dal PM o giudice; le intercettazioni di regola sono disposte dal pubblico ministero, che richiede l’autorizzazione al GIP per intercettare. La necessità di espletare delle indagini, deve passare al vaglio del giudice che con provvedimento motivato, può autorizzare o meno l’inizio delle indagini da parte del PM. Concludiamo la nostra premessa, facendo cenno all’intervento apportato dalla recente riforma Orlando. La riforma Orlando interviene, come sappiamo sulla scorta delle pronunce della Cassazione, per rafforzare la tutela della riservatezza e dunque rafforzare la tutela di tutte quelle conversazioni e comunicazioni in gioco con le intercettazioni. Interviene rafforzando anche il segreto investigativo, allo scopo di evitare che queste intercettazioni possano in qualche modo pregiudicare la segretezza delle indagini evitando altresì la divulgazione del relativo materiale raccolto verso l’esterno. Interviene introducendo l’uso del c.d. trojan virus, cioè un captatore informatico che installato occultamente in un dispositivo connesso ad internet, consente di acquisire in tempo reale ogni sorta di dati in esso presenti ed inclusa la registrazione di suoni ed immagini nell’ambiente circostante, mediante l’attivazione a distanza del microfono o della videocamera. Le intercettazioni: generalità, presupposti e procedimento  Cos’è un’intercettazione ? L’intercettazione, regolata dagli art. 266 e ss c.p.p è definita come la captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti attuata da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato. Questa è la definizione di intercettazione resa dalla Cassazione. Possiamo dunque ripercorrere i caratteri tipici di una simile attività:  Si deve trattare di una captazione occulta, cioè di un’attività volta a raccogliere dati da utilizzare per fini di giustizia.  Che abbia ad oggetto comunicazioni o conversazioni tra due o più soggetti attuata da soggetto estraneo alla stessa attività, che deve essere persona estranea al colloquio ed autorizzata a procedere in tal senso. Pertanto, le intercettazioni rilevano sotto il profilo della segretezza e dell’incisività verso la riservatezza e privacy della persona intercettata: ecco perché dunque ex art. 15, bisogna predisporre una normativa di garanzia, assai complessa, che possa permettere l’espletamento di tale attività. Le intercettazioni si qualificano come atto a sorpresa, cioè da svolgere nell’immediatezza e tempestività tale da non far trapelare le fonti per cui si procede; è un mezzo di ricerca della prova che tende a far acquisire prove al processo.  Per poter procedere a svolgere un’intercettazione devono ricorrere alcuni presupposti fondamentali. 1. Il rispetto di alcuni limiti, oggettivi e soggettivi.  Partiamo dal limite oggettivo. Questo attiene alla possibilità di svolgere le intercettazioni, solo per talune categorie di reati (266 co.1), identificati in base al tipo di reato (criterio qualitativo) ovvero in base all’entità della pena (criterio quantitativo). E’ l’art. 266 del codice a predisporre un elenco tassativo di reati, che ne sottolinea la natura e gravità degli stessi, ed entro cui deve ritenersi come ammissibile l’intercettazioni di conversazioni o comunicazioni di qualunque specie. L’intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione è consentita nei procedimenti relativi ai seguenti reati: a. delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a cinque anni determinata a norma dell’articolo 4; b. delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni determinata a norma dell’articolo 4; Intercettazioni: tipologie Le intercettazioni possono essere: A) Intercettazioni telefoniche, art. 266 co.1 che mettono sotto controllo una specifica utenza telefonica registrando tutte le chiamate in entrata ed in uscita, quindi delle comunicazioni private. L’intercettazione telefonica consiste nella violazione della privacy delle conversazioni private, attraverso il controllo delle telefonate, dei messaggi e della chat. B) Intercettazioni ambientali, art. 266 co.2, se avviene tra persone presenti all’insaputa di almeno di uno degli interessati e avviene presso gli ambienti dove la persona sospettata vive o lavora. Le intercettazioni ambientali avvengono nei luoghi in cui si svolge la vita della persona sospettata dei reati sopra detti, come la casa, l’ufficio e l’automobile. Queste intercettazioni avvengono mediante l’uso di microspie, microfoni o telecamere nascoste. C) Intercettazioni informatiche e telematiche (Art. 266 bis), per l’acquisizione di dati trasmessi o ricevuti via web. Metodo di ricerca di tali dati informatici o telematici, è quello del captatore informatico (c.d. trojan virus) che all’insaputa della presunta vittima, agisce come software spia. Operazioni di intercettazione: procedimento Una volta che, il pubblico ministero abbia provato l’esistenza dei presupposti generici valevoli per tutte le tipologie di intercettazione (e con le dovute integrazioni qualora intercetti all’interno del domicilio e con il captatore informatico), i presupposti e le forme del provvedimento relativo alle operazioni di intercettazione risultano dettati dall’art. 267 dove è definita la scansione delle competenze. 1) L’attività di intercettazione scandita dal PM, viene richiesta al GIP che l’autorizza con decreto motivato, provvedimento volto ad un ulteriore controllo sulla sussistenza di tutti i presupposti necessari. Quindi il PM, una volta che ha rispettato i presupposti generici, fatta richiesta al GIP questi può pronunciare decreto motivato ove controlla che il PM abbia rispettato: il limite oggettivo e soggettivo, la presenza di un grave indizio di reità, l’indispensabilità dell’intercettazione per la prosecuzione delle indagini preliminari. CASI IN CUI IL PM Può COMINCIARE DIRETTAMENTE LE INTERCETTAZIONI SENZA AUTORIZZ. DEL GIP  Tuttavia, nei casi di urgenza qualora vi siano valide ragioni per ritenere che, il ritardo provocherebbe gravi pregiudizi alle indagini, si ammette che l’iniziativa di disporre l’intercettazione possa venire direttamente assunta dal PM con decreto motivato, peraltro da convalidarsi entro 48 ore ad opera del medesimo giudice mediante un proprio decreto: con la conseguenza che, nel caso di mancata (tempestiva) convalida da parte del GIP, l’intercettazione non potrà venire proseguita ed i risultati eventualmente già ottenuti non potranno essere utilizzati (c.d. intercettazioni inutilizzabili-> vedi dopo).  Nello stesso modo il PM può procedere (cioè per urgenza non potendo attendere il vaglio e autorizzazione del GIP) ma soltanto per i delitti di cui all’art. 51 co. 3 bis e quater , per poter disporre l’intercettazione tra presenti (intercettazione ambientale) mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo portatile, indicando nel decreto le ragioni di urgenza che rendono impossibile attendere il provvedimento del giudice. Cioè il Legislatore ha specificato che una seconda eccezione alla richiesta del GIP, può sussistere solo in relazione ai reati gravi ex art. 51 co.3 bis e quater (in campo mafioso e di criminalità organizzata ovvero dei pubblici ufficiali contro P.A.), stante la loro gravità e maggiore necessità di reprimerli. In questi casi, è il pubblico ministero che autorizza l’inizio delle stesse intercettazioni, spettando al GIP- vista l’urgenza del caso- una mera convalida a posteriori, ma le intercettazioni possono proseguire nel frattempo ed arrestandosi nel caso in cui entro 48 ore non segue la convalida del GIP. 2) Il PM, una volta ottenuta l’autorizzazione con decreto motivato da parte del GIP, può scandire le fasi delle intercettazioni. Infatti la direzione delle intercettazioni e le operazioni scelte da eseguire, vengono stabilite dal PM: in particolare è il PM, con un ulteriore decreto che impartisce direttive sull’esecuzione dell’intercettazione. Con tale decreto il PM:  Stabilisce le modalità dell’intercettazione (ad esempio individuando le utenze telefoniche da sottoporre a controllo,, secondo i criteri già indicati dal giudice nel provvedimento autorizzativo).  La durata delle corrispondenti operazione di intercettazione. A tale proposito, l’art. 267 co.3 prevede che le operazioni di intercettazione non possano durare più di 15 gg. Scaduti questi 15 giorni, il PM se volesse continuare le suddette operazioni, dovrebbe nuovamente far richiesta di autorizzazione a procedere al GIP, che può prorogare con decreto motivato le operazioni di intercettazione ed in permanenza dei presupposti richiesti ab origine per periodi successivi di 15 giorni. Ricordando che queste operazioni dovranno essere eseguite personalmente dal PM che ne fa richiesta o come avviene di regola, tramite un ufficiale di polizia giudiziaria (Art. 267 co.4). Alla sfera delle preoccupazioni legislative di tipo garantistico, si ricollega la previsione che impone al PM di annotare in un apposito registro riservato, secondo il loro ordine cronologico, tutti i decreti che abbiano disposto, autorizzato, convalidato ovvero prorogato le intercettazioni; nonché in rapporto a ciascuna di esse, i tempi di inizio e di conclusione delle operazioni di intercettazione. Le operazioni di intercettazione, senza l’utilizzo del captatore informatico, devono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica (uffici del PM presso i vari organi giudiziari). Ciò in quanto:  Se l’impianto non si trovasse in luoghi in cui si garantisce l’idoneo funzionamento degli impianti a norma di legge, con personale autorizzato a svolgerne le relative operazioni di intercettazione, ma si trovasse presso un cittadino privato, sorgerebbero dei problemi.  Problemi inerenti alla regolarità e segretezza delle operazioni di intercettazioni, inevitabilmente ed irrimediabilmente lese qualora si proceda tramite impianti non autorizzati. Presso un impianto privato, vi entrano persone non autorizzate e vi fuoriescono portando le notizie oggetto delle operazioni al di fuori della sede naturale. Allo scopo di non rendere oggetto di divulgazione tali operazioni dunque, la legge impone che si proceda presso impianti della Procura della Repubblica  salvo il caso eccezionale in cui per insufficienza o inidoneità dei medesimi impianti lo stesso PM possa autorizzare con decreto motivato l’uso degli impianti di pubblico servizio, ovvero quelli in dotazione alla polizia giudiziaria, qualora esistano eccezionali ragioni di urgenza. Pertanto, la legittimità dell'operazione presuppone non solo un apposito provvedimento al riguardo, ma anche un effettivo apparato motivazionale , ed è solo tale motivazione, infatti, che dà conoscenza piena dell'accertamento dei presupposti richiesti dall'art. 268, comma terzo, cpp e della valutazione sul contemperamento degli interessi costituzionali protetti e del corretto uso del potere discrezionale e delibativo attribuiti al requirente. Invero, già le Sezioni Unite hanno chiarito che:  l'obbligo di motivazione del decreto del pm non può ritenersi assolto con l'astratto riferimento all'insufficienza o inidoneità degli impianti dell'ufficio perché costituirebbe un raggiramento delle garanzie minime che affondano nel giusto processo; tale provvedimento deve essere dotato di un apparato motivazionale che consenta di dedurre l'iter cognitivo e valutativo in relazione alle circostanze di fatto oggetto delle indagini.  Infatti, in primis, viene confermato che la condizione dell'inidoneità degli impianti interni alla Procura ricorre non solo quando questi non sono materialmente funzionanti, ma anche laddove venga specificato che non siano in grado di raggiungere, nel caso concreto, lo scopo al quale sono destinati, in relazione al reato per cui si procede e alla tipologia di indagine necessaria per il suo accertamento. Requisito, quindi, che non attiene solo all'aspetto tecnico o strutturale, concernente le condizioni materiali dell'impianto stesso, ma anche quello cd. funzionale, da valutare in relazione al tipo di indagine che si svolge e allo specifico delitto per il quale si procede. Ragion per cui la Corte di cassazione conferma che l'obbligo motivazionale non si può ritenere adeguatamente adempiuto con la semplice enunciazione relativa a una generica indisponibilità delle utenze, senza alcuna indicazione delle cause concrete, posto che, altrimenti, verrebbe vanificato l'intento del Legislatore. Ad ogni buon conto, nulla vieta che il decreto in questione possa essere legittimamente motivato con il riferimento a una situazione probabile e futura, in virtù di una prospettiva previsionale di indisponibilità degli impianti, sempre che il pm integri la motivazione con gli opportuni dati documentali, pena la loro inutilizzabilità (ad es. perché sono tutti occupati). La Corte di cassazione4, da ultimo, ha inteso ribadire che i due requisiti richiesti dalla Legge - l'insufficienza o l'inidoneità degli impianti e le eccezionali ragioni d'urgenza -, non essendo alternativi, debbono essere contemporaneamente esplicitati nella motivazione mediante il riferimento alle circostanze fattuali in oggetto. Nel caso di intercettazione di comunicazioni informatiche o telematiche, si ammette l’uso autorizzato anche di impianti appartenenti a privati. 3) Una volta che il PM in presenza dei presupposti generici, chiesta e concessa l’autorizzazione da parte del GIP con decreto motivato, dunque scandite le operazioni con proprio decreto che ne chiarisca le modalità ed i tempi, si passa alla vera e propria operazione di intercettazione. Infatti fin ora, si è proceduto nel scandire, precisare le modalità e i tempi delle operazioni di intercettazioni. Precisiamo subito che, le operazioni di intercettazione, richiesta dal PM (al GIP) ed egli ne scandisce l’inizio, ma materialmente queste sono eseguite dalla polizia giudiziaria: in sostanza, nell’impianto della Procura La nuova procedura di acquisizione  Prima della riforma Orlando, il materiale raccolto tramite le operazioni di intercettazione, veniva immediatamente trasmesso al PM che (entro 5 gg dalla chiusura delle operazioni) non appena riceveva tale materiale lo aggiungeva al fascicolo delle indagini. Il vecchio art. 268 co.4 disponeva infatti che il PM deposita in segreteria tale materiale, salvo che il giudice non riconosce necessaria una proroga. In più, si prevedeva che effettuato tale deposito del materiale delle intercettazioni raccolte, ne veniva dato avviso ai difensori delle parti che hanno la facoltà di esaminare gli atti e di ascoltare le registrazioni, nonché di estrarre copia. Quali i problemi della disciplina previgente?  In primo luogo, se il deposito di tale materiale avviene in un luogo in cui può accedervi qualunque persona autorizzata ad entrare negli spazi circostanti (es. addetto alle pulizie che magari è un infiltrato dell’organizzazione criminale indagata), poteva facilmente assumere le informazioni di proprio interesse e riporre al suo posto il fascicolo.  In secondo luogo, così facendo veniva meno l’esigenza di segretezza delle intercettazioni, che potevano facilmente essere divulgate verso l’esterno. Ancora, difetto della previgente disciplina era quello per cui una volta effettuato il deposito del materiale, questo veniva raccolto e portato dinanzi al GIP: dinanzi a tale giudice veniva celebrata la c.d. udienza stralcio, cioè un’udienza celebrata in camera di consiglio (art. 127) alla quale partecipava il GIP, PM ed il difensore dell’indagato ed è nell’ambito di tale udienza che si doveva decidere cosa acquisire, non acquisire ovvero di non poter acquisire (perché si è assunto materiale violando le norme in tema di riservatezza e privacy della persona-> lesione art. 15 Cost). Il problema di una simile modalità di svolgimento, non riguardava soltanto il pericolo di divulgazione del materiale d’intercettazione ma anche delle lungaggini dell’udienza stralcio, che il più delle volte esaminava un’eccessiva quantità di atti tale da non porre mai una fine alla valutazione da parte del GIP. Ciò accadeva in virtù della precedente attività di trascrizione operata dall’ufficiale di polizia (c.d. brogliacci), che aggravava la futura acquisizione del materiale delle intercettazioni raccolto. In ultima istanza, le intercettazioni raccolte per conto del PM e PG, poste dinanzi al Gip questi decideva quali fossero le intercettazioni rilevanti e da acquisire tali da essere trascritte in forma intelligibile: cioè il materiale raccolto senza limiti dalla PG e in modo confuso, veniva “corretto” reso comprensibile e riportato su un foglio di stampa su cui veniva riportato ogni singola voce dell’intercettazione. Sussistevano quindi, notevoli problemi da risolvere: le indagini erano “attentate” dalle modalità di espletamento delle intercettazioni, complesse e lunghe, tali da poter violare le esigenze di garanzie dei diritti dell’indagato/imputato ma anche della loro stessa segretezza ormai non più al sicuro.  Con l’intervento della riforma Orlando, si è deciso di risolvere tali problemi. La riforma Orlando è intervenuta sulle modalità di deposito ed acquisizione delle comunicazioni e conversazioni intercettate e trascritte, ritardandolo rispetto alla previgente disciplina.  Prima novità. Una volta che le operazioni di intercettazione sono terminate, l’ufficiale di polizia può procedere in due modi. Se le operazioni, per proroga chiesta al GIP da parte del PM, non sono concluse, il materiale può anche rimanere presso la disponibilità della polizia giudiziaria al fine di essere rivalutato e selezionare le conversazioni o comunicazioni rilevanti. Se invece le operazioni giungono alla loro conclusione, la polizia giudiziaria trasmette il materiale al PM che:  Non pone il materiale nel fascicolo delle indagini in segreteria, ma lo pone in un archivio segreto. E’ questa la novità più significativa introdotta dalla riforma, l’istituzione di un archivio segreto riservato, nel quale vanno conservati i verbali, registrazioni ed ogni altro atto ad esse relativo. L’art. 269 co.1 prevede che tale archivio sia istituito presso l’ufficio del pubblico ministero che ha richiesto ed eseguito l’intercettazione, secondo le modalità ex art. 89 disp. Att. Che attribuisce al procuratore della Repubblica (in qualità di capo dell’ufficio) la direzione e la sorveglianza dell’archivio, con il dovere di assicurarne la segretezza. Ciò significa che, il contenuto delle conversazioni intercettate continuerà ad essere coperto dal segreto finché il GIP non ne abbia disposto l’acquisizione, se ed in quanto rilevanti a fini di prova. Questo archivio conosciuto e a cui ha accesso il solo PM, neutralizza il pericolo precedente di conoscenza e divulgazione degli atti intercettati ponendo al riparo l’esito delle indagini preliminari e tutelando al meglio la riservatezza della persona indagata e dei terzi occasionalmente coinvolti.  L’ulteriore novità apportata dalla riforma Orlando, incide sul diritto dei difensori di venire a conoscenza del fascicolo contenente anche le intercettazioni. Mentre dapprima, i difensori potevano essere avvisati che era stato effettuato il deposito del materiale in segreteria (problema del luogo), potevano esaminare gli atti e estrarne copia (problema della divulgazione e segretezza e mancata tutela della riservatezza), ad oggi:  Potranno accedere all’archivio riservato oltre al giudice, PM e ufficiali di polizia giudiziaria delegati, anche i difensore delle parti per consultare gli atti ed ascoltare le registrazioni ma senza estrarne copia. Ciò significa che il difensore, può solo visionare e non estrarre copia del materiale frutto di intercettazione così non eludendo la disciplina sulla segretezza.  Ogni accesso deve essere dettagliatamente annotato allo scopo di poter risalire più facilmente alla responsabilità di eventuali violazioni del segreto.  Entro 5 giorni dalla conclusione delle operazioni, il PM deposita le annotazioni, verbali e le registrazioni, insieme ai decreti autorizzativi e l’elenco delle comunicazioni che reputa rilevanti a fini di prova, dandone avviso ai difensori affinché ne prendano cognizione. Però, il giudice può autorizzare il PM a ritardare il deposito se ne può derivare grave pregiudizio per le indagini, fino alla chiusura delle stesse. A questo punto il PM, entro i successivi 5 giorni dal deposito, deve presentare al giudice la richiesta di acquisizione delle intercettazioni depositate e i difensori (entro 10 gg dall’avviso ricevuto dallo stesso PM) hanno la facoltà di chiedere l’acquisizione delle intercettazioni secondo loro rilevanti: però solo quelle non incluse nell’elenco redatto dal PM o prima ancora non trascritte e solo annotate. I difensore delle parti, potranno altresì richiedere nello stesso termine, l’eliminazione di quelle inutilizzabili o di cui è vietata la trascrizione; il PM può poi chiedere l’eliminazione di quelle di cui sia sopravvenuta l’irrilevanza. Qual è la finalità dell’elenco predisposto dal PM? (elenco redatto sulla base del materiale trasmesso dalla PG) Predisporre un elenco, aiuta a sfoltire e ridurre la lunghezza nonché la complessità del procedimento di acquisizione delle intercettazioni. Infatti così facendo, il PM tende a decidere quali intercettazioni meritano un esame per la loro rilevanza dinanzi al GIP; in un secondo momento ed avvisate dal PM, le parti potranno redigere il loro elenco, al di fuori delle eccezioni indicate. La decisione del giudice L’elenco del PM e l’elenco dei difensori delle parti, vengono trasmessi al giudice che deve esprimere la sua decisione, potendo: A. Disporre l’acquisizione delle intercettazioni richieste, perché rilevanti. B. Disporre l’esclusione e quindi la non acquisizione delle intercettazioni manifestamente irrilevanti (riportate nell’archivio perché magari potrebbero tornare utili) o inutilizzabili (in quanto assunte in violazione delle norme a garanzia della riservatezza verranno distrutte). In entrambi i casi, la decisione del GIP viene adottata con ordinanza emessa in camera di consiglio (art. 127), senza la presenza delle parti ovvero tramite il c.d. contraddittorio cartolare: il giudice non ha bisogno della presenza delle parti, necessitando solo gli elenchi presentati dal PM e difensore, così che può determinare la sua decisione solo sulla base di questi. Laddove ritenga necessario sentire le parti, fissa un’udienza ad hoc: in questa udienza, il giudice può sentire le parti magari perché ricorrano incomprensioni o incertezze sul materiale raccolto. Questa modalità snella e veloce, prende il posto dell’udienza stralcio, laddove entrava materiale a dismisura dinanzi al GIP e che prevedeva tempi eccessivi. Inoltre e a differenza della disciplina previgente, le intercettazioni acquisite, non vengono trasfuse in un foglio reso in forma intelligibile ma vengono riportate nel fascicolo delle indagini così come rese dal PM e PG, cioè nella forma del brogliaccio anche se ad oggi trasformato in un fascicolo molto più chiaro e coeso. C. Con l’ordinanza del GIP, che dispone l’acquisizione delle intercettazioni rilevanti, viene meno il segreto delle indagini. Questa è una diretta conseguenza del procedimento di acquisizione delle intercettazioni e non della mera attività di intercettazione, resa quest’ultima al fine di raccogliere il materiale di indagine: le intercettazioni acquisite, vengono inserite nel fascicolo delle indagini di cui all’art. 373 co. 5 e i difensori possono estrarre copia. Ad opera della riforma Orlando infatti, rileviamo come il momento in cui i difensori delle parti possono prendere copia delle intercettazioni è stato ritardato non realizzandosi più tale facoltà al momento del deposito da parte del PM in segreteria ma solo alla fine dell’intera procedura di acquisizione da parte del GIP delle intercettazioni ritenute rilevanti. Viene meno il segreto interno delle indagini (le parti sono a conoscenza delle sole intercettazioni oggetto della procedura acquisitiva-> il brogliaccio), ma non viene meno il segreto esterno delle indagini su tali intercettazioni acquisite ( non potendo formare oggetto di trasmissioni televisive, testate giornalistiche e siti web). Le intercettazioni inutilizzabili Le intercettazioni sono inutilizzabili quando il PM non ha rispettato (art. 271): -I presupposti generici alla base dell’intera procedura per predisporre un’intercettazione (quindi limite oggettivo e soggettivo, presenza di un grave indizio di reità, provare l’indispensabilità dell’intercettazione ai fini della prosecuzione delle indagini), ovvero quelli che sarebbero stati necessari per l’utilizzo del captatore informatico. Di qui, l’elencazione dei fatti suscettibili di diventare oggetto dell’accertamento probatorio, quali emergono dal co.1 dell’art. 187, dove è evidente lo sforzo di una limitazione del perimetro del thema probandum corrispondente all’area delle questioni poste attraverso l’esercizio dell’azione penale. Sono quindi pertinenti all’oggetto della prova:  I fatti che si riferiscono all’imputazione;  I fatti che si riferiscono alla punibilità dell’imputato;  I fatti che si riferiscono alla determinazione della pena o della misura di sicurezza (187 co.1). Del tutto nuova appare la prevista estensione dell’oggetto della prova anche ai c.d. fatti processuali o più esattamente ai fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali (art. 187 co.2): il riferimento è quindi alle norme del codice di procedura penale. Esemplificazione di situazioni oggetto di prova: -una testimonianza per accertare la presenza dell’imputato sul luogo del delitto e la sua detenzione di un’arma (fatti inerenti all’imputazione) -una perizia tendente ad accertare la capacità processuale (e quindi di intendere e di volere) dell’imputato (circostanza inerente alla punibilità) -accertamenti sull’avvenuta o meno notifica di un atto (fatto attinente all’applicazione di norme processuali) Quando vi sia costituzione di parte civile poi, il tema probatorio è destinato ad allargarsi fino ad includere le questioni derivanti dall’esercizio dell’azione civile in sede penale (art. 187 co.3 e art. 75). Saranno oggetto di prova in tal caso: l’an e il quantum del danno e le vicende che seguono la pretesa risarcitoria della parte civile. Le varie distinzioni in tema di prova  Prove atipiche Quanto alla dibattuta questione delle prove atipiche (od innominate), sempre al centro di discussioni tra gli estremi opposti rispettivamente ispirati al criterio di tassatività ovvero al criterio di libertà delle prove, il codice ha operato una scelta di natura dichiaratamente intermedia. Infatti apparve troppo rigido l’indirizzo volto ad escludere espressamente che il giudice potesse ammettere prove diverse rispetto a quelle previste dalla legge: si è quindi deciso di non dettare alcuna preclusione nei confronti delle prove non disciplinate dalla legge ma di trasferire in capo al giudice, caso per caso, il compito di un vaglio preliminare circa l’ammissibilità o meno di tali prove. E’ perfino superfluo aggiungere che in ogni caso, dovrà trattarsi di prove non vietate dalla legge, essendo da escludere che per questa via possano introdursi nel processo prove contrarie ad espressi divieti legislativi o difformi per difetto di qualche elemento della fattispecie, dal modello di prova tipica e quindi disciplinata dalla legge. Più precisamente, quando si abbia a che fare con una prova non riconducibile ad alcuna delle figure probatorie legislativamente predeterminate, spetterà al giudice il potere di decidere di volta in volta, se la medesima possa trovare ingresso in sede processuale, sulla base di una verifica subordinata a due distinte e concorrenti valutazioni (art. 189): 1. Da un lato, che la prova atipica risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti, e ciò significa che tale accertamento non risulterebbe possibile attraverso l’impiego della prova tipica. 2. Dall’altro, che la prova atipica non pregiudica la libertà morale della persona Quest’ultima valutazione, lascia chiaramente intendere come la tutela della libertà morale della persona assuma in ogni caso un ruolo determinante rispetto all’esito della stessa valutazione: nel senso che, nessuna prova potrà essere ammessa come prova atipica ex art. 189 qualora possa derivarne una lesione della libertà morale del soggetto che vi è coinvolto. Si tratta del resto, di una applicazione del principio di fondo secondo cui, non possono essere utilizzati (neppure col consenso della persona interessata) tecniche o metodi probatori idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti (art. 188). - Un principio che già specificato nella sede relativa all’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini (cioè in rapporto ad un istituto non direttamente riconducibile alla tematica probatoria e comunque dominato dalla sua finalità difensiva ex art. 64 co.2), che viene inserito tra le disposizioni generali relative alla disciplina delle prove, allo scopo di sancirne il rango di regola basilare nel settore idonea a configurare un limite assoluto alla ammissibilità di mezzi o procedure con essa configgenti. Si vuol dire in sostanza che nessuna prova potrà essere ammessa né tanto meno assunta quando la stessa presupponga il ricorso: -A metodiche tali da vanificare o comunque tali da compromettere la normale attitudine della persona all’autodeterminazione ed all’esercizio della facoltà mnemoniche e valutative. -Quando ciò accada ad esempio tramite narcoanalisi, ipnosi, lie detector e sieri della verità E ciò non solo per una preoccupazione rilevante sotto il profilo dell’attendibilità delle risultanze così conseguibili (inevitabilmente alterate o compromesse), ma soprattutto per un’esigenza di tutela della libertà morale della persona, da intendersi in chiave oggettiva e che quindi prescinde dall’eventuale consenso della stessa.  Prove tipiche Le prove tipiche sono quelle espressamente previste dal Legislatore e a cui il giudice deve obbligatoriamente conformarsi quando si presenti l’occasione di applicarle in sede di giudizio.  Prove dirette ed indirette Le prove dirette sono quelle aventi per oggetto il fatto da provare; sono prove indirette quelle che non hanno direttamente ad oggetto il fatto da provare bensì un altro fatto, dal quale il giudice potrà risalire al primo solo attraverso un operazione mentale di tipo induttivo (fondata sulla logica o sulla regola dell’esperienza). Sicché si definiscono tali prove anche come prove storiche o rappresentative, consiste in quel ragionamento che da un fatto noto (ad esempio ciò che riferisce un testimone nel corso di una deposizione) ricava, per rappresentazione appunto, l'esistenza di un fatto da provare. E le prove critiche all’opposto si basano su deduzioni logiche, passaggi argomentativi che portano il giudice a ritenere come pertinente o meno un certo fatto: per tale motivo si fa riferimento agli indizi (c.d. prove indiziarie). Gli indizi in questione, sono relativi ad elementi conoscitivi di varia natura, di per sé idonei a concretare soltanto una situazione di fumus commissi delicti (probabile commissione del delitto): elementi legittimamente acquisiti ma che non sono necessariamente dotati di efficacia probatoria piena. Diritto alla prova e criteri di ammissione La disciplina delle modalità di ammissione della prova, costituisce una della basi su cui incide il modello del processo di parti, in coerenza con il suo canone di fondo per cui il giudice, di regola, deve decidere secondo le prove raggiunte ed i documenti allegati. Corollario di questa impostazione è il riconoscimento nei confronti delle parti di un vero e proprio diritto alla prova, che a sua volta si estrinseca nella manifestazione del diritto di difesa, previsto esplicitamente dal codice. Lungo questa prospettiva, capovolgendo la logica inquisitoria ispirata all’idea dell’iniziativa officiosa del giudice in materia di prove, l’art. 190 non esita ad affermare con chiarezza il principio (di chiara impronta accusatoria) per cui le prove sono ammesse a richiesta di parte: è questa un’esplicita manifestazione del principio dispositivo secondo cui, sono le parti a proporre al giudice gli elementi di prova su cui basare il proprio convincimento. Il giudice, sulle prove presentate dalle parti, provvede senza ritardo e con ordinanza, provvedendo alla delibazione dell’ammissibilità che gli è demandata. Emerge così il duplice livello sul quale si articola il diritto alla prova riconosciuto alle parti: 1) In primo luogo, come diritto di richiedere l’ammissione di determinate prove, espressivo di un potere di disponibilità in ordine all’intera gamma delle prove ammissibili (salve le ipotesi ex art. 190 co.2 in cui è consentito al giudice un intervento ex officio). Che cosa significa "Ammissione della prova"? È il provvedimento con cui il giudice istruttore dà accesso alla prova nel processo, dopo averne valutato la rilevanza e la pertinenza rispetto alla decisione. Una volta ammessa la prova, essa deve essere assunta (es. il teste deve essere sentito). 2) In secondo luogo, una volta adempiuto a tale onere, come diritto ad ottenere la prova richiesta, entro i limiti in cui la medesima possa venire ammessa o comunque ad ottenere una tempestiva pronuncia- distinta dalla sentenza finale- sulla richiesta ritualmente formulata. Per quanto riguarda i criteri della pronuncia sull’ammissibilità della prova, il giudice risulta vincolato ad un duplice ordine di parametri, ai fini del giudizio che gli compete (art. 190 co.1) e che rappresenta un passaggio obbligato (in chiave di “filtro”) rispetto a qualunque prova. Le seconde sono invece effetto di una c.d. vittimizzazione secondaria, vale a dire quelle conseguenze negative dal punto di vista emotivo e relazionale, derivanti dal contatto tra la vittima e il sistema delle istituzioni in generale, e quello della giustizia penale in particolare. Troppo spesso succede che le vittime diventino tali una seconda volta per effetto dei metodi usati nei loro confronti dalle forze di polizia e degli appartenenti al sistema giudiziario. Come è naturale che sia, il rischio di vittimizzazione secondaria è tanto più elevato quanto più ci si trovi al cospetto di vittime particolarmente deboli, quali ad esempio i minori, i minorati mentali e/o fisici o le vittime dei reati sessuali. In via generale è rischioso sottovalutare gli effetti della vittimizzazione secondaria in quanto, in alcuni casi, i suoi effetti possono essere addirittura più pregiudizievoli di quelli della vittimizzazione primaria e ciò in quanto, essendo prodotta dal contesto istituzionale stesso, viene a frustrare le aspettative di tutela e assistenza che la vittima di un reato legittimamente vanta nei confronti dello Stato, per antonomasia soggetto deputato a difenderla. In altri termini, le vittime possono diventare tali una seconda volta: non di rado accade che le persone offese dal reato siano costrette a ripetere più volte le narrazioni dolorose relative al reato, al fine di verificare la loro credibilità e moralità, nonché la personalità del reo; per di più, se a distanza di tempo non ricordano dettagliatamente i fatti, le dichiarazioni in primo tempo dolorosamente rilasciate, potranno essere censurate. Ma in ogni caso viene previsto un limite alla richiesta ed ammissibilità di tali fonti di prova (dichiarazioni)? NO. Infatti il Legislatore, nella parte finale dell’art. 190 bis, dispone che l’esame di tali soggetti è ammesso solo se riguarda: - Fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni. Il che potenzia il potere del giudice di ammettere o di non ammettere la rinnovazione dell’esame dei soggetti in questione all’accertamento di un presupposto ben definito, qual è la diversità su cui debbano fondarsi i fatti o circostanze assunti. - Ovvero, quando il giudice o una delle parti (sempre su autorizzazione del giudice) lo ritengano necessario sulla base di specifiche esigenze. Specifiche esigenze che devono trarsi da incompletezze o lacune del quadro probatorio precedentemente acquisito. E non sembra dubbio che quest’ultima valutazione, debba riservarsi sempre al giudice, secondo i principi generali in tema di ammissione della prova. In presenza dei suddetti presupposti, tale deroga al criterio di ammissione della prova (art. 190), viene a configurarsi quando: 1. Per alcune tipologie di reato (criterio oggettivo), si proceda per i delitti di criminalità organizzata, nonché per estensione della regola di cui all’art. 190 co.1 bis anche ai reati a sfondo sessuale. 2. Verso alcuni soggetti (criterio soggettivo), che rendono una prova dichiarativa, precisamente quando sia richiesto l’esame di un testimone, compreso l’imputato nei casi dell’art. 197 bis- testimoni assistiti) o di uno dei soggetti di cui all’art. 210 3. Dichiarazioni rese da tali soggetti già in precedenza , in sede di incidente probatorio o in dibattimento, purché nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime dovranno essere utilizzate, cioè con la garanzia del rispetto del principio del contraddittorio nella prova (art. 111 co.4 Cost). La testimonianza della vittima “vulnerabile”: l’incidente probatorio e l’audizione in dibattimento. La testimonianza resa dalla persona offesa dal reato per lungo tempo è stata trattata da un certo indirizzo giurisprudenziale con molta cautela, ciò legato al fatto che non veniva attribuita a quest’ultima piena forza probante all’interno del processo penale. Attualmente, invece, si afferma che la testimonianza della vittima può essere sufficiente anche da sola a formare il libero convincimento del giudice su un fatto di reato specialmente per quel che concerne i reati con vittime vulnerabili. L’importanza e la necessità di preservare la genuinità della prova dichiarativa nel procedimento penale quando questa abbia come fonte la vittima vulnerabile è stata avvertita in sede internazionale e recepita da ultimo con la legge comunitaria del 2009 che prevedeva espressamente l’obbligo per il governo di “introdurre nel codice di procedura penale una o più disposizioni che riconoscano alla persona offesa dal reato, che sia da considerare per ragioni di età, condizione psichica o fisica, particolarmente vulnerabile la possibilità di rendere al propria testimonianza secondo modalità idonee a proteggere la sua personalità e a preservarla dalle conseguenze della sua deposizione in udienza”. Rendere testimonianza nel procedimento penale su fatti e circostanze legati all’intimità della persona e connesse alle violenze subite è sempre esperienza difficile e psicologicamente pesante e traumatica, specie se poi chi è chiamato a deporre è persona particolarmente vulnerabile e più di altre esposta ad influenze e condizionamenti esterni. In questi casi l’adozione di speciali modalità “protette” di assunzione della prova quanto a luogo, ambiente, tempo nonché alle modalità concrete di procedere all’esame, non solo non contrasta con le esigenze proprie del processo, ma, al contrario, concorre altresì ad assicurare la genuinità della prova medesima suscettibile, al contrario di essere pregiudicata ove si dovesse procedere ad assumere la testimonianza con le modalità ordinarie. I poteri ufficiosi del giudice L’articolo 190 co.1 pone una regola generale da applicarsi ogni qual volta il processo segue il suo normale andamento: disponendo dunque che, le prove sono ammesse a richiesta di parte. E’ questo un principio generale che segue due direzioni dirette alla stessa finalità (quella di favorire le parti):  Principio accusatorio , sono le parti a fornire al giudice il materiale probatorio ed il giudice è spettatore ed arbitro imparziale, che vigila sul rispetto delle regole processuali. Il giudice pertanto, non ricerca né forma la prova, ma si limita a valutarla.  Principio dispositivo , sono le parti a proporre al giudice gli elementi di prova su cui basare il proprio convincimento. Nel processo penale però, possono sussistere dei problemi, poggiando lo stesso processo sul canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio (ciò significa che verte in capo al giudice l’onere di decidere al meglio), non può parlarsi soltanto di principio dispositivo. Precisamente, il Legislatore penale ha introdotto infatti un sistema misto:  In quanto nel codice di rito, vi è una spiccata prevalenza accusatoria, tenuto conto della tendenziale disparità tra le parti processuali (PM e imputato)  Ma sussistono casi specifici ed eccezionali in cui il Legislatore penale, permette al giudice per fondare il suo convincimento assoluto, di consentire al giudice un intervento ex officio. In questo modo persiste (anche se in maniera ridotta) una traccia del principio inquisitorio, privilegiando talvolta l’esigenza di assicurare la punizione del colpevole. Perché il Legislatore sceglie un codice fondato su un sistema misto (accusatorio-inquisitorio)? Perché in un processo come quello penale, la cui funzione è quella di punire il presunto colpevole (art. 27 co.2 Cost), potrebbe capitare che riferendosi al solo principio dispositivo per cui l’iniziativa probatoria è promossa dalle parti il giudice non perviene ad un convincimento “oltre ogni ragionevole dubbio”; le parti potrebbero in altri termini provocare delle lacune, alcuni dei fatti rilevanti rimangono al di fuori del processo. In presenza di tali lacune, il Legislatore ha quindi temperato il principio dispositivo con il principio inquisitorio: infatti l’art. 190 co.2 dispone che la legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse di ufficio (art. 195 co.2, 196, 210, 238, 238 bis, 507, 508, 511 bis, 603 co.3). Il che, si traduce in un onere di iniziativa al fine dell’acquisizione al processo delle prove non richieste dalle parti. Viene dunque a crearsi un rapporto di regola-eccezione, dove la regola è il rispetto del principio dispositivo (rispettando i diritti di libertà individuale in attuazione del carattere accusatorio) mentre, l’eccezione è la funzione integrante del principio inquisitorio: tanto è vero che, il giudice non può assumere di sua iniziativa la prova escludendo quelle richieste dalle parti. Il giudice, soltanto quando le parti hanno già fatto richiesta di ammissione delle prove e quando nonostante ciò, si renda conto di non poter decidere secondo il canone “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”, può in un secondo momento integrare il materiale probatorio tramite il suo intervento (nelle sole ipotesi previste dalla legge). Il giudice quindi, ha un potere notevolmente limitato, dovendosi ricordare che il codice di rito richiama un’impronta di spiccata tendenza accusatoria ed è tale la direzione da seguire. Prove illegittimamente acquisite e sanzione di inutilizzabilità A parte quanto già si è rilevato con riferimento ai principi sanciti ex art. 188 (impossibilità di acquisire prove lesive della libertà morale) e 189 (prove atipiche), nel medesimo indirizzo di garanzia per il rispetto delle previsioni relative alla tematica probatoria e quindi di tutela del principio di legalità in materia di prova, si colloca la regola che sancisce la non utilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite. Ciò quando, tali prove vengano ammesse o assunte in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (art. 191). Una regola diretta a sottolineare la portata garantistica delle norme sulla prova, esplicitando nel contempo la reazione negativa dell’ordinamento di fronte al fenomeno delle prove illegittime, perché acquisite contra legem (nella inosservanza di un divieto). distinzione tra prove dirette ed indizi questi ultimi intesi come prove critiche indirette) assumono valenza di prova e diventano senz’altro idonei ad integrare la piattaforma di convincimento da cui può- a norma dell’art. 192 co.2- essere desunta l’esistenza di un fatto. Infatti l’art. 192 co.2 dispone che “l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi almeno che questi siano gravi, precisi e concordanti”. Dove per indizio grave si intende, un indizio dotato di alta persuasività che riesce a resistere ad eventuali obiezioni; per indizio preciso si intende, un indizio non suscettibile di svariate interpretazioni bensì univoca; per indizio concordante si intende quello che mira nella stessa direzione. Quindi la regola imposta dal Legislatore al giudice penale, è di non poter valutare alla stregua di indizi la prova nel processo ma se questi indizi sono gravi, precisi e concordanti si viene a configurare la deroga a tale previsione (art. 192 co.2) per cui in tal caso, il giudice, potrà utilizzarli come piattaforma di convincimento da cui potrà essere desunta l’esistenza di un fatto. 2. In secondo luogo, ma questa volta con riferimento alla peculiare situazione dei coimputati (processo verso più persone) del medesimo reato (art. 12 lett.a), ovvero degli imputati in un procedimento connesso (art. 12), si stabilisce che le dichiarazioni (di natura sostanzialmente testimoniale) provenienti da tali persone  non possano venire valutate autonomamente ma debbano sempre essere valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità (art. 192 co.3). Si è anzitutto coimputati, per i casi di connessione descritti e previsti dall’art. 12 del codice: in generale possiamo dire che il coimputato è chi ha commesso al fianco di altra persona, lo stesso reato per cui si procede. Ad esempio: Massimo e Ciro operano assieme una rapina al banco di Napoli, entrambi procedono a commettere lo stesso reato (art. 12 lett. A- connessione soggettiva). Se tali soggetti rendono dichiarazioni nel processo penale (tramite un mezzo di prova qual è la testimonianza) cosa accade? - I due soggetti, avendo agito assieme e per lo stesso interesse, quando rendono delle dichiarazioni, vengono ritenuti dal Legislatore poco attendibili . Ciò in quanto, il coimputato nel processo penale, ha due atteggiamenti: coprire l’operato del proprio complice, ovvero, di infangare l’altra persona. - Alla luce di questo comportamento imprevedibile nonché anomalo dei coimputati, il Legislatore configura una sorta di presunzione relativa di inattendibilità delle suddette dichiarazioni rese da tali soggetti, ammettendo che di esse possa tenersi conto unicamente quando siano stati acquisiti altri elementi probatori (prove o indizi) idonei a comprovarne la credibilità (da soli o anche nell’ambito di una valutazione congiunta tra gli elementi probatori originari e quelli sopravvenuti). E’ palese la deroga così apportata al principio di libero convincimento del giudice (attraverso la ricezione degli indirizzi giurisprudenziali che affermano l’esigenza del riscontro probatorio estrinseco in ordine alla chiamata in correità), come pure sono intuibili i condizionamenti che più o meno recenti esperienze giudiziarie possono avere esercitato su una soluzione simile. La quale, in definitiva, non esclude l’utilizzabilità probatoria delle dichiarazioni rese dal coimputato dichiarante sull’altrui responsabilità; ma nell’imporre la valutazione unitaria delle stesse insieme agli altri elementi che ne confermano l’attendibilità, finisce di necessità per subordinarla (nel momento valutativo) al concreto vaglio di tali elementi di riscontro estrinseci, con riferimento ad un vaglio rimesso all’apprezzamento del giudice. I mezzi di prova nel processo penale Una volta dettati i principi generali che disciplinano la materia dei mezzi di prova dobbiamo analizzare quali finalità e caratteristiche abbiano questi ultimi. Le prove nel processo penale sono:  la testimonianza;  l’esame delle parti;  il confronto;  le ricognizioni;  gli esperimenti giudiziali;  la perizia;  i documenti. La perizia E' un mezzo di prova istituito dal legislatore per consentire al giudice una visione più completa e una conoscenza più approfondita di un argomento tramite l'intervento di un esperto terzo al processo. Circa l’oggetto della perizia, esso risulta delineato in via generale dall’art. 220 co.1 attraverso la definizione del presupposto di ammissibilità della prova peritale, che si configura al contempo come presupposto del dovere del giudice di disporre la perizia: cioè facendo riferimento alle situazioni in cui occorre svolgere indagini ovvero acquisire dati o valutazioni, i quali richiedano specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche. Quando il giudice accerti la sussistenza di una delle necessità indicate nell’art. 220 co.1, egli sarà obbligato ad ammettere e quindi disporre la perizia anche d’ufficio, il che ci fa dedurre che la perizia può anche essere richiesta su istanza di parte (PM e imputato). La perizia si svolge attraverso un procedimento composto di alcune fasi principali.  La nomina del perito Quanto alla nomina del perito, va sottolineata la preoccupazione del Legislatore di assicurare un adeguato livello di specifica qualificazione professionale di tali soggetti a cui la perizia stessa viene affidata. A tal fine il giudice, deve preliminarmente controllare: 1) La particolare competenza del perito (art. 221 ss.). Ciò che si realizza, adottando quale criterio principale per la nomina del perito, quello della sua iscrizione negli appositi albi professionali (sia pure senza escludere il ricorso ad altri periti esperti di particolare competenza). Ciò garantirà la posizione del perito, che in quanto chiamato a fornire un giudizio tecnico qualificato, deve rivestire nel corso del processo, una posizione di imparzialità ed equidistanza fra le parti. 2) L’assenza di particolari cause di incapacità o incompatibilità (art. 222), astensione o ricusazione del perito (art. 223). 3) Il giudice dunque, nomina il perito , disponendo nel caso di indagini particolarmente complesse o che richiedono distinte conoscenze in differenti discipline (art. 221), la perizia collegiale. Il giudice, nomina il perito con un’ordinanza motivata che contenga oltre alla nomina del perito, la sommaria enunciazione dell’oggetto delle indagini e l’indicazione dell’ora, luogo e giorno fissati per la comparizione del perito.  A questo punto individuato e nominato il perito nell’albo professionale di riferimento, l’art. 226 prescrive che si passi al conferimento dell’incarico. Il giudice, accertate le generalità del perito, gli chiede se si trova in una delle condizioni previste dagli articoli 222 (incapacità e incompatibilità) e 223 (astensione e ricusazione), lo avverte degli obblighi e delle responsabilità previste dalla legge penale e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: “consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo nello svolgimento dell’incarico, mi impegno ad adempiere al mio ufficio senza altro scopo che quello di far conoscere la verità e a mantenere il segreto su tutte le operazioni peritali”. Il giudice formula quindi i quesiti , sentiti il perito, i consulenti tecnici, il pubblico ministero e i difensori presenti. I quesiti consistono nelle questioni tecniche che vengono poste dal giudice al perito, in modo che vengano risolte le questioni di specifica competenza. Il quesito viene scritto dal giudice per essere posto al perito e la sua lettura deve avvenire in pubblica udienza, alla presenza in contraddittorio delle parti (PM e imputato e il suo difensore- art. 226 co.2): ciò non può che avvenire nella sede naturale della formazione ed acquisizione della prova, cioè il dibattimento. Dibattimento in cui, prende luogo il diritto alla prova ma anche alla prova contraria (art. 111 co.4 Cost), per cui il quesito determinando l’oggetto della perizia ne fissa il fatto e la cui lettura deve avvenire nel contraddittorio delle parti: in particolare, le parti potrebbero richiedere la consulenza endo-peritale (in questo caso il consulente tecnico viene nominato dalle parti private o dal PM, in risposta alla nomina di un perito da parte del giudice). Il compito in quest’ultimo caso del consulente tecnico, consiste nel confutare e mettere in discussione i risultati avanzati dal perito: la parte privata, cerca dunque attraverso la nomina di un consulente di fiducia, di smontare la tesi del perito, ecco perché viene definita consulenza endo-peritale, perché avviene incidentalmente alla perizia. Va rilevato che, è espressamente vietata la c.d. perizia personalogica (diretta ad accertare il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità patologiche- in questo caso potrebbe usarsi l’accertamento della capacità processuale e non una perizia) e criminologica (dirette a stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato e la stessa tendenza a delinquere).  Concluse le formalità di conferimento dell’incarico, il perito procede immediatamente ai necessari accertamenti e risponde ai quesiti con parere raccolto nel verbale, con ciò formando la relazione peritale (art. 227). Il perito può rispondere ai quesiti oralmente, mediante parere. Ma quando sia necessario ai fini dell’accertamento, il perito può anche presentare relazione scritta al giudice ove la stessa risulti indispensabile ad illustrare il suddetto parere. -Se dichiara informazioni sui fatti in fase di indagini preliminari- contro l’imputato Tizio- sarà qualificata come persona informata sui fatti -Se quelle dichiarazioni rilasciate dalla persona informata sui fatti, vengono usate nel processo ed esercitata l’azione penale, può anche essere la stessa persona fisica ma cambia la sua qualifica giuridica, essendo divenuta testimone. Per la persona informata sui fatti, ovvero per il testimone, il Legislatore ha predisposto una disciplina molto severa: ciò lo si desume dal vincolo che esiste tra il richiamo eventualmente fatto dall’autorità giudiziaria a cui deve seguire la presenza di l’una o l’altra persona interessata a dichiarare sui fatti. Se la persona informata sui fatti o il testimone non si presentasse dopo aver ricevuto il richiamo dall’autorità giudiziaria, ne è disposto l’accompagnamento coattivo. Una volta che la persona informata sui fatti o il testimone, si siano presentati innanzi all’autorità giudiziaria, deve rispondere alle domande dell’autorità giudiziaria e quindi non ha la facoltà di non rispondere e deve rispondere secondo verità: se infatti la persona informata sui fatti o il testimone non dovesse rispondere o non dovesse rispondere secondo verità, andrà incontro a responsabilità penale per aver dichiarato il falso. - Nel secondo gruppo , rientrano l’indagato/imputato e le parti Prima di delineare il regime giuridico da applicare in sede dichiarativa a tali soggetti nonché le differenze con la persona informata dei fatti e del testimone, dobbiamo fare un passo indietro: l’indagato/imputato e le parti sono destinatari, qualora dovessero rendere dichiarazioni, di una disciplina di favore. E’ il paradosso creato dalla presunzione di innocenza ex art. 27 co.2 Cost. In conseguenza di ciò, l’indagato/imputato e le altre parti: -non sono obbligati a presentarsi, qualora vengano richiamati dall’autorità giudiziaria (pertanto nel caso di assenza non potrà verso essi essere disposto l’accompagnamento coattivo) -Hanno la facoltà di non rispondere, non andando incontro eventualmente a responsabilità penale -Non hanno l’obbligo di dire la verità Una volta ricordata la diversa disciplina applicata ai soggetti che possono rilasciare delle dichiarazioni ed eventualmente ascoltati, riconduciamoci alla disciplina della testimonianza. La capacità di testimoniare Nel procedimento penale, ogni persona ha la capacità processuale di testimoniare (art. 196 co.1). La testimonianza, quale tipico mezzo di prova che garantisce da un lato l’oralità della stessa ed il diritto al contraddittorio dall’altro del c.d. esame incrociato (cross examination), prescinde da una valutazione fondamentale: il legislatore stabilendo tale principio generale al comma 1, ha voluto dar rilevanza alle affermazioni rilasciate da qualunque soggetto, poiché per le caratteristiche del processo penale ogni informazione può costituire fonte di prova decisiva. E’ pertanto un principio generale questo che va preso “con le pinze”: il Legislatore ha sì stabilito che ogni persona ha la capacità processuale di testimoniare (art. 196 co.1) ma è chiaro che qualora si presenti a testimoniare un soggetto in evidente stato di incapacità o incompatibilità a testimoniare, il giudice dovrà disporre gli opportuni accertamenti ed eventualmente potrà anche decidere in senso contrario all’assunzione della testimonianza (art. 196 co.2). Ciò allo scopo di fissare subito il concetto di capacità: intesa come capacità fisica e mentale di testimoniare, che vale ad attribuire maggiore o minore credibilità ed attendibilità alle dichiarazioni rese da un soggetto. Il principio generale sancito dall’art. 196 co.1 viene derogato in due diverse direzioni, a seconda che si consideri: -La facoltà riconosciuta ai soggetti indicati dall’art. 199-200 (salvo eccezioni), per cui tali persone possono decidere se deporre o meno  I prossimi congiunti dell’imputato (coniuge, parenti, affini), quando però non abbiano presentato denuncia, querela, istanza, ovvero siano offesi dal reato (Art. 199)  Le persone legate all’obbligo del segreto per il proprio ministero, ufficio o professione in relazione a quanto hanno appreso per tale motivo (sacerdoti, avvocati, consulenti tecnici, medici farmacisti ecc- art. 200 c.d. segreto professionale) Un limite a tale facoltà prevista dall’art. 200, è previsto però in rapporto ai casi in cui i soggetti elencati dalla norma hanno l’obbligo e non più la facoltà, di riferire all’autorità giudiziaria le notizie conosciute per ragione del proprio ministero, ufficio o professione (ad es. quanto agli esercenti le professioni sanitarie, relativamente all’obbligo di referto).
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved