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I nuovi mondi: USA, Cina e Giappone, Appunti di Storia Contemporanea

Nella seconda metà dell'Ottocento, gli Stati Uniti attraversarono un'epoca di crescita economica e sviluppo industriale, espandendosi verso l'ovest e consolidando l'unità nazionale dopo la Guerra Civile. Nel 1867, il Giappone intraprese la Restaurazione Meiji, modernizzando rapidamente la sua società e diventando una potenza industriale. Nel frattempo, la Cina affrontò sfide con la Ribellione dei Boxer e il Trattato di Tianjin, segnando la sua debolezza dinastica. Gli Stati Uniti emersero come un'importante potenza economica e industriale, la Cina lottò con la modernizzazione, mentre il Giappone si trasformò in una potenza emergente, anticipando il ruolo chiave che avrebbero giocato nel panorama globale del XX secolo.

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 01/02/2024

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Scarica I nuovi mondi: USA, Cina e Giappone e più Appunti in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! I nuovi mondi Gli Stati Uniti Intorno alla metà del XIX secolo, gli Stati uniti d’America erano un paese in crescente espansione, i cui confini continuavano a spostarsi verso Ovest. Negli Stati Uniti coesistevano tuttavia tre diverse società, corrispondenti a diverse zone del paese, ciascuna col suo sistema economico, i suoi valori, le sue tradizioni culturali: • Stati del Nord-Est, sede delle prime colonie britanniche e nucleo originario dell’Unione. Era la zona più progredita, più ricca e più industrializzata, dove sorgevano i maggiori centri urbani (New York, Boston, Philadelphia), dove si concentravano i commerci con l’Europa e dove principalmente si indirizzava l’ondata migratoria. Un ambiente, dunque, in perenne trasformazione profondamente influenzato dai valori del capitalismo imprenditoriale. • Stati del Sud, società agricola e profondamente tradizionalista, che fondava la sua economia e la sua organizzazione sociale sulle grandi piantagioni di cotone. La manodopera che vi lavorava era costituita in gran parte da schiavi neri, discendenti da quelli che erano stati forzatamente trapiantati in America nel Settecento. Il ceto dei grandi proprietari costituiva una ristretta minoranza, che però dominava la vita politica e sociale. • Stati dell’Ovest, i liberi agricoltori e allevatori di bestiame. Era una società in rapida evoluzione: man mano che la frontiera si spostava verso il West, le aziende stabili si sostituivano agli insediamenti isolati dei pionieri, lo scambio in natura e l’autoconsumo cedevano il passo all’agricoltura mercantile che forniva generi alimentari, soprattutto cereali, alle città del Nord-Est. Fu proprio l’Ovest a costituire il pomo della discordia, e al tempo stesso l’elemento risolutore, nel contrasto che, a partire dalla metà del secolo, oppose il Nord industriale e il Sud schiavistico. Intorno alla metà del secolo, ci fu l’acutizzarsi dello scontro sulla schiavitù e al centro del dibattito non stava tanto il problema dell’esistenza o meno di questa «istituzione peculiare», quanto quello della possibilità di introdurla nei territori di nuova acquisizione. Lo scontro sulla questione della schiavitù fece sentire i suoi effetti anche in campo politico. Nei decenni precedenti, la scena era stata dominata da due grandi partiti, entrambi privi di una caratterizzazione ideologica ben definita ma formatisi sulla base di coalizioni fra grandi gruppi di interesse: • il Partito democratico che si ispirava a ideali di democrazia rurale, di liberismo economico, di rispetto dell’autonomia dei singoli Stati e raccoglieva il consenso sia dei piccoli e medi agricoltori, sia dei grandi piantatori del Sud, ma anche di buona parte dei lavoratori immigrati del Nord-Est; • il Partito whig che godeva dell’appoggio della borghesia del Nord e invocava un rafforzamento del potere centrale. Negli anni Cinquanta, entrambi i partiti entrarono in una profonda crisi. I democratici, identificandosi sempre più con la causa dei grandi proprietari schiavisti, persero molti dei consensi di cui godevano al Nord e all’Ovest. Il Partito whig, diviso fra una corrente progressista e una conservatrice, si dissolse nel giro di pochi anni. Dall’ala progressista nacque nel 1854 una nuova formazione politica: il Partito repubblicano. Qualificandosi in senso decisamente antischiavista e accogliendo nella sua piattaforma politica sia le rivendicazioni degli industriali sia quelle dei coloni dell’Ovest, il Partito repubblicano ottenne sempre maggiori consensi e nelle elezioni del 1860 venne eletto Abraham Lincoln, proveniente dall’Ovest. Nonostante Lincoln fosse un convinto avversario della schiavitù, non era un abolizionista radicale, tanto che nella sua campagna elettorale aveva negato qualsiasi intenzione di abolire la schiavitù dove essa già esisteva, ma, la vittoria repubblicana nelle elezioni del Sessanta fu sentita da una parte dell’opinione pubblica del Sud come l’inizio di un processo irreversibile che avrebbe portato alla vittoria degli interessi industriali, al rafforzamento del potere centrale, alla progressiva emarginazione degli Stati schiavisti. Di qui la decisione, presa fra il dicembre 1860 e il maggio 1861 da undici Stati del Sud, di staccarsi dall’Unione e di costituirsi in una Confederazione indipendente che ebbe come capitale Richmond, in Virginia. La secessione suscitò la reazione del potere federale e non vi era alcuna alternativa alla guerra civile, che ebbe inizio nell’aprile 1861 quando le forze confederate dei secessionisti del Sud attaccarono la piazzaforte di Fort Sumter, nella Carolina del Sud, occupata dall’esercito unionista. I confederati facevano affidamento sulla migliore qualità delle loro forze armate, ma speravano anche in un dalla Gran Bretagna, ma quando fu chiaro che avrebbero dovuto contare solo sulle loro forze, e che la guerra sarebbe stata lunga e logorante, il fattore numero e quello economico si rivelarono decisivi. Il 9 aprile 1865, quando ormai l’esercito unionista occupava buona parte del Sud, i confederati si arresero. Pochi giorni dopo, il presidente Lincoln cadeva vittima di un attentato per mano di un fanatico sudista. La guerra era durata ben quattro anni ed è la prima guerra ad aver coinvolto così a lungo la società civile di un grande paese moderno, la prima in cui fossero stati utilizzati sistematicamente i nuovi mezzi offerti dallo sviluppo tecnologico e industriale. Per vincerla, i nordisti dovettero non solo fare appello a tutte le loro risorse economiche, ma anche mobilitare tutte le energie politiche disponibili. Per questo Lincoln e i suoi collaboratori furono costretti a spingersi oltre i loro programmi iniziali. Nel 1862 fu approvata una legge che assegnava gratuitamente ai cittadini che ne facessero richiesta quote di terre del demanio statale. L’anno dopo fu decretata la liberazione degli schiavi in tutti gli Stati del Sud, gli schiavi acquisirono la libertà ma le loro condizioni economiche non migliorarono. La vittoria nordista e le innovazioni legislative non valsero a colmare le disuguaglianze sociali, né poterono cancellare i pregiudizi razziali profondamente radicati nella società del Sud. Negli anni successivi alla fine della guerra, il Sud era sottoposto a un regime di vera e propria occupazione militare e governato da uomini dell’ala radicale del Partito repubblicano. Il ritorno alla normalità nel Sud, che poté considerarsi compiuto solo alla fine degli anni Settanta, significò anche il ritorno all’indiscussa supremazia dei bianchi e ad un regime di segregazione di fatto. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, gli Stati Uniti conobbero un periodo di grandi trasformazioni interne e di rapido sviluppo territoriale. Chiuso il capitolo della guerra di secessione e della ricostruzione postbellica, riprese con rinnovato slancio la colonizzazione dei territori dell’Ovest, ora favorita dallo sviluppo della rete ferroviaria. Intorno al 1890, la conquista del West poteva considerarsi compiuta. Vittime principali della corsa all’Ovest furono le tribù dei pellirosse, contro di essi il governo federale condusse, fra il 1866 e il 1890, una serie di campagne militari che avevano lo scopo di proteggere le vie di comunicazione e di rendere più sicura l’opera di colonizzazione dei pionieri. Nel 1890, data dell’ultima battaglia delle guerre indiane, ogni resistenza armata cessò. I pellirosse erano stati decimati dalle guerre e furono confinati nelle riserve e ridotti a un corpo estraneo e marginale nella società americana. Pur restando ancora un paese in larga misura agricolo gli Stati Uniti conobbero, in questo periodo, una rapida crescita dei grandi centri urbani. La spinta all’urbanesimo diede alle città nordamericane l’aspetto di grandi metropoli ferventi di attività, specchio di una società che non aveva conosciuto i vincoli del passato feudale, che faceva sempre più del progresso materiale il suo obiettivo fondamentale e della competizione il motore del proprio sviluppo. Fino agli ultimi anni dell’Ottocento, la crescita economica della potenza statunitense non ebbe proiezioni significative al di fuori delle Americhe. La stessa dottrina Monroe, con la quale nel 1823 gli Stati Uniti avevano affermato il loro ruolo di custodi degli equilibri del continente contro qualsiasi ingerenza esterna, fu intesa soprattutto in senso difensivo. Cina e Giappone Intorno alla metà del XIX secolo, i due paesi più importanti dell’Estremo Oriente, la Cina e il Giappone, si trovarono entrambi a fronteggiare la pressione delle potenze europee, che miravano a imporre, se necessario con la forza, la loro presenza commerciale in aree fin allora chiuse alla penetrazione occidentale, ma mentre in Cina si ebbe un aggravamento della crisi interna, in Giappone la reazione nazionalista e modernizzante della classe dirigente pose le premesse per la nascita di una nuova potenza mondiale. L’impero cinese e le guerre dell’oppio L’organizzazione politica della Cina si fondava su un forte potere centrale, incarnato dall’imperatore e rappresentato in tutto il paese da una classe di potenti funzionari. Anche l’agricoltura, basata su un complesso sistema di irrigazione, era in qualche modo legata alla burocrazia imperiale, dal momento che era lo Stato a farsi carico della sistemazione idraulica dei terreni. L’Impero cinese era rimasto, fino all’inizio del secolo, pressoché inaccessibile ai viaggiatori e ai commercianti occidentali; inoltre, non aveva relazioni diplomatiche con l’esterno. Questo orgoglioso isolamento mascherava in realtà una profonda debolezza, il risultato fu che, al primo traumatico scontro con l’Occidente, la Cina imperiale entrò in una crisi irreversibile. Occasione dello scontro fu il contrasto scoppiato alla fine degli anni Trenta fra il governo imperiale e la Gran Bretagna a proposito del commercio dell’oppio. La droga, prodotta in grande quantità nelle piantagioni indiane, veniva esportata clandestinamente in Cina, dove il suo consumo era largamente diffuso, benché ufficialmente proibito. Ne era derivata un’acuta tensione fra il governo cinese e la Gran Bretagna, ritenuta non a torto la principale responsabile e beneficiaria del traffico. Quando, alla fine del 1839, un funzionario imperiale fece sequestrare il carico di tutte le navi straniere nel porto di Canton, il governo inglese decise di intervenire militarmente. Col trattato di Nanchino del 1842,
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