Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

I personaggi femminili de i vicerè, Appunti di Letteratura

La biografia di Federico De Roberto ci restituisce un’immagine complessa del rapporto dell’autore con le donne. Il legame, per certi aspetti morboso, durato fino alla morte di lei, con la madre, donna Marianna degli Asmundo, la difficoltà ad individuare un amore duraturo ed importante sono tessere che concorrono a costruire il mosaico di una vita, in cui l’elemento femminile sembrerebbe, tutto sommato, poco rilevante, fatta eccezione per l’ingombrante presenza della poderosa figura materna.

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 05/06/2019

sabrina_zucco
sabrina_zucco 🇮🇹

4.6

(40)

22 documenti

1 / 88

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica I personaggi femminili de i vicerè e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! 1     I personaggi femminili de I Viceré La biografia di Federico De Roberto ci restituisce un’immagine complessa del rapporto dell’autore con le donne. Il legame, per certi aspetti morboso, durato fino alla morte di lei, con la madre, donna Marianna degli Asmundo, la difficoltà ad individuare un amore duraturo ed importante sono tessere che concorrono a costruire il mosaico di una vita, in cui l’elemento femminile sembrerebbe, tutto sommato, poco rilevante, fatta eccezione per l’ingombrante presenza della poderosa figura materna. In quell’affresco policromo di umanità che le pagine de I Viceré restituiscono al lettore, i personaggi femminili sono tanti. A nominarli, a passarli anche velocemente in rassegna, a contare le pagine dedicate loro, il lettore potrebbe desumerne che sono indispensabili o, almeno, fondamentali per lo svolgimento della vicenda. E lo sono, ognuno a suo modo, ma non in quanto donne1. Quello che colpisce in un romanzo come I Viceré è la sottomissione completa di ogni elemento narrativo alle leggi di ανάγχη: tutti i personaggi, che siano uomini o donne, e non per il fatto di essere uomini o donne, sono nudamente funzionali al compimento della vicenda collettiva, alla dimostrazione di quella idea «antistorica», che sta alla base del romanzo2. Intendo dire che i personaggi femminili del romanzo potrebbero anche essere uomini, o meglio: non importa che siano donne. Alcune indagini critiche sono state dedicate ai personaggi femminili del grande romanzo derobertiano. Per lo più questi contributi hanno preso in esame le donne come gruppo, all’interno del quale il critico ha, poi, individuato sottogruppi ai quali, in una logica sempre collettiva, sono state associate le singole, non tutte, donne de I Vicerè.3 In altri casi l’attenzione dei lettori, soprattutto donne in realtà, si è concentrata, quasi monograficamente, sui personaggi femminili “maggiori” del romanzo, quelli, cioè, che sembrano più evidentemente funzionali al progetto complessivo di costruzione di una sorta di etica a rovescio della Sicilia post-unitaria4.                                                                                                                           1 Giovanni Grana scrive: «De Roberto professa apertamente con insistenza martellante la convinzione della “superiorità” maschile, dell’inferiorità fisio-psichica e intellettuale, “sensuale” e perfino “sentimentale” della donna. E si rifà alla tradizione arcaica della Eva biblica nata non per “fare compagnia” all’uomo, un Adamo concepito come individuo asessuato, o al più ermafrodito. De Roberto confuta accanitamente “gli avvocati delle donne”, i sostenitori dell’uguaglianza dei sessi, della superiorità femminile, e ridicolizza gli argomenti femministi sulla originaria violenza dell’opperssione maschilista» (G. Grana, «I Viceré» e la patologia del reale. Discussione e analisi storica delle strutture del romanzo, Milano, Marzorati, 1982, p. 73). 2 Cfr. V. SPINAZZOLA, Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti, 1990;   G. Borri, I Viceré romanzo storico imperfetto, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, Atti del Congresso celebrativo del centenario dei Viceré, a cura di A. DI GRADO, Catania 23-26 novembre 1994, Catania, Fondazione Verga, 1998, pp. 71- 80. 3 È questa, ad esempio, la metodologia d’indagine di Ada Neiger (Tutte le donne dei «Viceré», in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., pp. 255-265). 4 Mi riferisco, ad esempio, ai contributi importanti di Alida D’Aquino (Tra «L’Illusione» e «I Viceré»: Teresa e Matilde, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., pp. 267-294), di Giovanna Finocchiaro 2     Questi lavori, a mio giudizio, se hanno il merito di consegnarci pagine interessanti sull’universo femminile de I Viceré, non riescono, tuttavia, ad affrancare il femminile da un’idea di subalternità narrativa rispetto all’universo maschile. Io credo che le donne de I Viceré abbiano di subalterno solo il retaggio della necessità narrativa di obbedienza, secondo i moduli del Naturalismo, alla tradizionale idea di donna della realtà siciliana post-unitaria5. Poi, nel fluire diegetico, smettono di essere donne ed obbediscono alle medesime leggi degli uomini, perché nel poderoso affresco del romanzo tutti i personaggi, senza distinzioni sessuali, giocano la loro parte, ad armi pari, nella lotta quotidiana per la sopraffazione6. 1. La principessa Teresa Uzeda di Francalanza Il romanzo, com’è noto, si apre con la morte della Principessa Teresa Uzeda di Francalanza, una donna che non ha nulla di femminile. La letteratura contemporanea è piena di femminilità: in Europa ci sono donne come Emma Bovary, in Italia le ‘femmine’ e le donne verghiane si contendono la scena con le femmes fatales dannunziane. La principessa derobertiana apre il romanzo da morta7, il lungo flashback sul suo passato non trova neanche lo spazio di una riga per descriverne l’aspetto fisico. È, sin dall’inizio, indicata come la fondatrice di una “razza”, lo rivelano le parole di un vecchio, sbucato, per un istante, fuori dall’anonima, ma rumorosa folla popolare:                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     Chimirri (Donna Ferdinanda non sapeva scrivere, ivi, pp. 295-308), di Mariella Muscariello (Un’‘intrusa’ nei «Viceré»: il romanzo di Matilde, ivi, pp. 309- 328). 5 Per chiarire ulteriormente la questione mi sembra interessante riproporre un luogo del contributo di Giovanna Finocchiaro Chimirri, in occasione della celebrazione del centenario dei Viceré: «Ma riaffiora nella memoria anche una lettera di Federico De Roberto alla madre, in cui l’autore dei Viceré esprime la sofferenza di sapere le nipotine, figlie del fratello Diego, alunne della scuola pubblica catanese, in mezzo a compagnette che egli definisce senza mezzi termini cenciose e pidocchiose. La madre delle bambine, la cognata e cugina Luisa Moncada, si duole, egli ammette, di aver bisogno di aiuto quelle volte in cui si trova nella necessità di dover scrivere una lettera, ma sottolinea con forza, di contro, che la congiunta deve ringraziare Dio per non avere nel suo vissuto esperienziale ricordi legati a quel tipo di istruzione pubblica che i genitori le risparmiarono. In buona sostanza vien fatto di chiedersi: quanto stava veramente a cuore, all’autore dei Viceré, l’istruzione delle due femminucce?Non si può non ripensare, anche, al Verga, che […] dichiara testualmente di non avere “molta fede nelle donne scrittrici, o meglio nel loro valore artistico, la Sand compresa”, e aggiunge “la Serao eccettuata, perch’è ermafrodita» (G. Finocchiaro Chimirri, Donna Ferdinanda non sapeva scrivere, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 306). 6 Si legga quanto scrive Madrignani: «Tutti i personaggi agiscono, ed interagiscono, su un piano di parità narrativa. Alla feudale insubordinazione endemica di una grande famiglia, i cui elementi vivono in uno stato di perenne bellicosità, intessuta di contrasti corporativi, di risentimenti pazzi e di astuzie barbariche, corrisponde un disporsi della materia narrativa in apparente ordine sparso, risultato di un aggregarsi di segmenti diversi, che fanno, quasi loro malgrado, un mosaico complessivo» (C.A. Madrignani, Introduzione a F. De Roberto, Romanzi, Novelle e Saggi, a cura di C.A. Madrignani, Milano, A. Mondadori Editore (I Meridiani), 1984, p. XXXI). 7 «Le figure dominanti […] piantate a reggere l’enorme equilibrato edificio, sono disegnate con mano maestra: dove non soccorre l’episodio, a rivelare un carattere o illuminare una situazione, basta alla sobrietà espressiva dello scrittore un solo tocco, uno scorcio, una precisa pennellata. Chi dimenticherà mai […] donna Teresa, una morta che campeggia in tutto il romanzo, col suo cipiglio duro, inesorabile e col suo testamento imperativo, non la vediamo noi balzare attraverso i commenti ironici del popolino, venuto a divertirsi ai funerali principeschi?» (O. Profeta, De Roberto e Pirandello, Catania, Studio Editoriale Moderno, 1939, pp. 23-24).   5     principessa concepisce la sua stessa vita come lavoro, impegno, abnegazione verso l’unica causa: la salvezza degli Uzeda. Non c’è alcuno spazio, in questa missione, per sentimenti positivi, non c’è ricerca della felicità, ma solo fatica quotidiana di difendere e attaccare. Le donne, anche se sono figlie, costituiscono l’intralcio più vistoso su questo cammino. Lo dimostra la vicenda della primogenita, Angiolina, cancellata dal mondo come dal romanzo, poiché colpevole d’esser nata femmina, al posto dell’erede, l’atteso principino di Mirabella: Verso le donne, invece, ella aveva nutrito un più profondo ed eguale sentimento di repulsione e quasi di sprezzo, lavorando a impedire che «rubassero» i fratelli. Angiolina, la maggiore, era stata condannata alla vita claustrale fin dalla nascita, per una colpa imperdonabile commessa nel venire al mondo. Dopo un anno di matrimonio, donna Teresa era vicina a partorire: aspettava un maschio, il primogenito, il principino di Mirabella, il futuro principe di Francalanza: ella non solo l’aspettava, ma non ammetteva che non venisse. Nacque invece una femmina: la madre non le perdonò più. Fin da quando le tolse le fasce la vestì da monachella; la bambina non parlava ancora che fu portata ogni giorno alla badia di San Placido; a sei anni fu chiusa lì dentro «per educazione», a sedici la mite e semplice creatura, ignara del mondo, soggiogata dalla volontà materna e dagli stessi impenetrabili muri del monastero, si sentì realmente chiamata a Dio: in tal modo morì Angiolina Uzeda e restò Suor Maria Crocifissa.18 La colpa di Angiolina è duplice. Non solo è nata femmina, ma è anche nata nel momento sbagliato. La principessa Teresa ne interpreta la nascita quasi come un insulto all’agognata perfezione verso la quale guida caparbiamente l’ordito della sua vita: da una donna del suo calibro, che comanda in casa dei Viceré, essendo la figlia d’un barone contadino, tutti si attendono la perfezione, cioè la nascita, come primogenito, di un maschio. Angiolina è, perciò, una macchia, una deviazione imprevista ed impertinente dalla strada maestra che Teresa Uzeda ha edificato per la sua discendenza. La vendetta della madre sembra trovare compimento anche nel nome con cui entrerà in clausura: Suor Crocifissa. La chiusa ironica d’intonazione manzoniana segna, dunque, la vittoria della matriarca Teresa, che, come accadeva spesso nelle nobili famiglie siciliane, ha “eliminato” la figlia nata nel momento sbagliato, riducendola alla clausura, ma ha anche ottenuto l’obiettivo di alimentare un’immagine devota di sé, in quanto madre di una pia figlia, sposa di Dio. Che la principessa sia uno dei personaggi chiave della vicenda lo dimostrano il suo spettacolare funerale e quel testamento imperioso che incombe su tutti i personaggi del romanzo, risvegliandone vizi e tare.19                                                                                                                           18 I Viceré, p. 481.   19 Cfr. «Nessuno, infatti, dei personaggi convocati sulla scena è esente da vizi e tare, a partire dalla matriarca Teresa, bigotta e calcolatrice, con la cui morte e conseguente grandioso funerale si apre il romanzo, inaugurando una tecnica della spettacolarizzazione, che ne segnerà gli eventi più significativi. La lettura del testamento da un lato offre il destro al narratore per ricapitolare la sua non certo esemplare biografia, fino alla finale ingiustizia di privare il primogenito Giacomo di una parte dell’eredità a favore del prediletto terzogenito Raimondo; dall’altro consente di riunire subito tutti 6     2. Donna Ferdinanda Donna Ferdinanda è forse il personaggio più icastico dei Viceré. Se De Roberto è, infatti, piuttosto parco di riferimenti alla fisicità dei suoi personaggi, il lettore dipinge, sin dalle prime pagine in cui si parla di lei, una immagine ben precisa di Ferdinanda, quasi un ritratto20. Sorella del principe di Francalanza, Ferdinanda è destinata sin dalla nascita al nubilato: sarà, inevitabilmente zitella o monaca, perché non deve intaccare le sostanze del principe ereditario. Se la questione del nubilato sta a cuore a tutti i personaggi femminili che in letteratura sono condannati, senza possibilità di scelta, a restare nella casa paterna o nel convento, a Ferdinanda la questione non sembra affatto stare a cuore21. La straordinaria bruttezza fisica («la zia Ferdinanda, sotto panni mascolini, sarebbe parsa qualcosa di mezzo tra l’ebreo e il sagrestano»22), l’assoluta indifferenza a tutto ciò che, nell’idea collettiva, è tipicamente “femminile” –gusto per gli abiti e per le cose belle, cuore disponibile a sussultare per amore e svenevolezze simili- fanno, sin dal suo esordio narrativo, di questo personaggio un unicum. La prima lunga descrizione della zitellona riassume, in maniera eloquente, in una perfetta congruenza fisiognomica l’intero personaggio: La zitellona contava allora trentotto anni, ma ne dimostrava cinquanta; né in età più fresca aveva mai posseduto le grazie del suo sesso. Destinata a restar nubile per non portar via nulla del patrimonio riserbato al fratello principe, ella sarebbe stata forse rinchiusa, per maggior precauzione, in un monastero, se la sua bruttezza e più la naturale sincera avversione allo stato maritale non avessero assicurato i suoi parenti meglio della clausura contro i pericoli della tentazione. Non era parsa mai donna, né di corpo né d’anima. Quando bambina, le sue compagne parlavano di vesti e di svaghi, ella enumerava i feudi di casa Francalanza; non comprendeva il valore delle stoffe, dei nastri, degli oggetti di moda, ma sapeva, come un sensale, il prezzo dei frumenti, dei vini e dei legumi; aveva sulla punta delle dita tutto il complicato sistema di misurazione dei solidi, dei liquidi e delle monete; sapeva quanti tarì, quanti carlini e quanti grani entrano in un’onza; in quanti tumoli si divide una salma di frumento o di terreno, quanti rotoli e quanti coppi formano un cafisso d’olio…23                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     i personaggi principali, presentandoli in una situazione in grado di scatenare i loro peggiori istinti di rapacità ed egoismo» (A. Cavalli Pasini, De Roberto, cit., p. 62). 20 Cfr.: «A rendere più icastica la rappresentazione di questa figura, il De Roberto fa ricorso anche all’assimilazione zoom orfica, istituendo numerosi paragoni tra la zitellona e diversi animali: ora con l’aspide e con la vipera; ora col gallinaccio; ora con la gallina nell’atto di essere spennata. Nella pagina derobertiana il linguaggio non verbale di donna Ferdinanda è veramente notevole, per l’ampiezza e l’efficacia con cui si dispiega. Il suo corpo ha una grande capacità espressiva e un linguaggio dalla gamma ampia e variegata, di cui l’autore si serve esplicitamente: le sue mani parlavano per lei; raccontavano in sua vece» (G. Finocchiaro Chimirri, Donna Ferdinanda non sapeva scrivere, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 298). 21 Si legga Sipala: «Zia Ferdinanda […] destinata a restare nubile e con una misera rendita appena sufficiente per sopravvivere, non rimpiange il matrimonio perché “non è parsa mai donna, né di corpo né d’anima” e si adopera per costruire una sua ricchezza personale praticando l’usura su pegno o ipoteca, facendo fruttare gli interessi, sino ad ottenere in proprio casa e campagne. Il genio degli affari adoperato, con spietata dutrezza, convive in Ferdinanda con un culto fanatico della “vanità” nobiliare» (P. M. Sipala, Introduzione a De Roberto, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 56). 22 I Viceré, p. 502. 23 Ivi, pp. 508-509. 7     Intanto “zitellona” è l’appellativo più frequente con cui è denominata nel romanzo, ma l’appellativo non è un’offesa, piuttosto un titolo. Intendo dire che “zitella” è semplicemente sinonimo di Ferdinanda in questo romanzo. Tutte le caratteristiche negative di cui è ornato il personaggio sono connesse alla sua condizione di “zitella”. L’indefinibile età (se De Roberto scrive che a trentotto anni ne dimostra cinquanta, aggiungerà anche che, con l’avanzare degli anni, sembrerà essere sempre uguale, icasticamente prigioniera di un’età indefinibile appunto), l’aspetto asessuato, i modi ruvidi e quasi maschili la rendono insopportabile ai più. Nonostante la follia collettiva da cui gli Uzeda sono travolti, ognuno di essi, almeno per lo spazio di qualche pagina associa la propria lotta per la sopravvivenza a quella di qualcun altro, Ferdinanda, invece, è sempre sola. È sola, sin da quando, bambina, preferisce ai discorsi stucchevoli delle sue coetanee la concretezza dell’economia domestica e della gestione patrimoniale; è sola tra i fratelli, ai quali non la lega alcun sentimento di affetto: se De Roberto non chiarisse che è la sorella di don Blasco e del duca d’Oragua il lettore non ne avrebbe sospetto alcuno24. La solitudine è lo strumento di difesa che ha precocemente messo a punto per non soccombere in una realtà familiare che non è disposta a darle nulla, non affetto, non denaro. Impara, perciò, a guardarsi da tutti, ma sembra accettare la propria condizione come l’unica possibile; ha piena consapevolezza di essere donna in una realtà in cui contano gli uomini. Davanti a lei ci sono due strade: l’accettazione passiva della propria condizione di povertà e “zitellaggine”, la presa d’atto della propria situazione di partenza come sprone per la conquista di un diverso ruolo sociale. E donna Ferdinanda sceglierà chiaramente la seconda strada. Dimostrerà una straordinaria intelligenza economica e pratica, al punto da riuscire a soddisfare la monomania di cui è vittima, l’avidità: Costei aveva avuto dal padre una miseria, il così detto piatto, cioè tanto da assicurare il vitto quotidiano, la magra provvisione, durante il fedecommesso, dei cadetti e delle donne. Con quella miseria, donna Ferdinanda s’era proposta d’arrivare alla ricchezza. Tutti i suoi pensieri d’ogni giorno e d’ogni notte furono diretti a tradurre in atto il suo sogno. Appena in possesso di quelle miserabili sessant’onze mensili, ella cominciò a negoziarle, a darle in prestito contro pegno od ipoteca, secondo la solvibilità del debitore […]25 È evidente che il successo di donna Ferdinanda stia tutto nel suo non essere esattamente una donna. I sogni delle altre donne del romanzo sono sogni femminili: Lucrezia vuole sposarsi, Chiara vuole un figlio, Margherita vuole godere in disparte le gioie della maternità, Matilde sogna di essere                                                                                                                           24 Cfr.: «I Viceré sono una spietata sacra rappresentazione dove Dio è scomparso, ma dove è rimasto un vuoto nel posto da lui occupato, e in questo vuoto rifluisce una scena di esemplare indegnità cristiana. Tutti i personaggi hanno perso la carità e vivono in una dimensione in cui la carità o è morta o è ridotta a una ambigua irrisoria manifestazione. I Viceré sono il libro del disamore» (G. Giudice, Introduzione a F. De Roberto, «I Viceré» e altre opere, a cura di G. Giudice, Torino, Utet, 1982, p. 17). 25 I Viceré, p. 509. 10     piuttosto la considera come un ulteriore emblema della propria nobiltà34. In quanto donna e nobile non ha, infatti, diritto ad un’istruzione, che considera una «porcheria» ed il suo percorso da autodidatta è esclusivamente funzionale alle sue esigenze: impara a far di conto per tutelare i propri interessi, impara a leggere il Mugnòs perché deve guardarsi dalla “gramigna” indegna di entrare in contatto con una discendente dei Viceré35. È ignorante perché vuole esserlo e questo è presto evidente anche al lettore, altrettanto consapevole che se Ferdinanda decidesse di procurarsi un’istruzione potrebbe essere il personaggio più colto dei Viceré. Va da sé che in questo personaggio si concentri una cospicua dose di presunzione, che, con l’ignoranza -De Roberto ne è convinto-, è intimamente connessa. Dal momento in cui è riuscita a costruire la propria fortuna economica pretende, infatti, di essere consultata su ogni questione familiare36, considerandosi come una sorta di oracolo di saggezza, l’unica che osa, del resto, criticare apertamente le follie di donna Teresa: Non solamente quella bestia della cognata proteggeva il terzogenito in odio all’erede del titolo, non solamente si metteva sotto i piedi la legge» che voleva la continuazione del solo ramo diretto; ma gli dava in moglie, chi? Chi, Signore Iddio? Una Palmi di Milazzo! …Palmi? Donna Ferdinanda non la chiamò mai con questo nome; ma ora Palma, ora Palmo, e le diede come arma parlante ora la mezza-canna, che conta appunto quattro palmi, con la quale i rivenduglioli misurano la cotonina; ora due palme di piedi, che tra quella gente dovevano esser villosi, da quei contadini che erano.37 La cognata ha la duplice colpa di prediligere il secondogenito, ignorando le leggi del maggiorasco, e di dargli in moglie una donna di discutibile nobiltà. Ferdinanda sarà l’unica, in tutto il romanzo, a non avere mai alcun sentimento di pietà nei confronti della povera Matilde, che non chiamerà mai per nome, ma sottoponendone, in sua assenza, il cognome a continue storpiature. Anche quando Raimondo fuggirà con la Fersa, macchiando il nome degli Uzeda e destando scalpore nell’intera famiglia, almeno in una primissima fase, donna Ferdinanda non mostrerà preoccupazioni moralistiche e giungerà a sostenere l’adulterio e difendere il nipote, verso il quale non ha mai nutrito grandi simpatie, perché più grande è l’odio per Matilde, l’intrusa:                                                                                                                           34 «Questo stile era d’una suprema eleganza, d’una straordinaria magnificenza per donna Ferdinanda, la quale leggeva effettivamente uolgato, peruenne e faceva già troppo; poiché essendo una «porcheria» per le donne della sua casta, al principio del secolo, sapere di lettere, ella aveva appreso a legger da sé, pei bisogni delle sue speculazioni» (I Viceré, pp. 513-514). 35 È anche l’opinione di Giovanna Finocchiaro Chimirri: «Ma non è da pensare minimamente che Ferdinanda si dolga della sua mancanza d’istruzione. Ferdinanda afferma, si può ben dire, con orgoglio, che la madre non era in grado di scrivere nemmeno il proprio nome e cognome […] L’ignoranza della principessa e delle donne in genere è ammessa con noncuranza, perché le qualità donnesche sono ben altre» (G. Finocchiaro Chimirri, Donna Ferdinanda non sapeva scrivere, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 305). 36 «Ricca com’era di quattrini e come si credeva di senno, donna Ferdinanda pretendeva che le facessero la corte e la tenessero da conto; mentre prima, stando insieme coi parenti, era rimasta indifferente ai loro affari, voleva ora, lontana, ficcare anche lei il naso in tutte le quistioni di famiglia» (I Viceré, pp. 514-515). 37 Ivi, p. 515. 11     […] la Palmo macchiava la casa degli Uzeda: ella non voleva che ci rimettesse piede. E difendeva donna Isabella contro le accuse di cui l’udiva fare oggetto: anche lei era stata sacrificata con quell’ignobile Farsa, farsa tutta da ridere: niente di più naturale che quel matrimonio tanto male assortito fosse finito peggio; se avessero dato la Pinto a Raimondo, allora sì!38 Prigioniera della propria vanagloria non prenderà mai in considerazione i sentimenti di Matilde, ed in generale gli altri esseri umani, in quanto persone39. Il blasone, il titolo, l’inclusione nella genealogia del Mugnòs sono il discrimen per ogni suo rapporto con il mondo. Per questo la sua opposizione al matrimonio di Lucrezia con l’avvocato Giulente sarà anche più netta. Giulente, infatti, non è nobile e lavora per vivere. Inoltre è avvocato, come tutti i vili plebei che tentano di conquistare il potere ed il prestigio, che, secondo donna Ferdinanda, spettano unicamente ai nobili di nascita. Ulteriore difetto di Benedetto è, poi, la fede politica liberale. Ferdinanda è ovviamente borbonica convinta, non perché si intenda o si interessi di politica, ma perché per un discendente dei Viceré non è possibile avere altra posizione politica. L’Unità d’Italia per lei è una ferita insanabile e coloro che hanno concorso e concorrono ad attuarne il progetto sono nemici e traditori; l’Italia offre alla “gramigna”, la borghesia e la falsa nobiltà cioè, quel potere che spetta di diritto all’aristocrazia. Dunque, la sua opposizione ed il suo disprezzo per la nipote Lucrezia sono incontenibili: «Anche tu, scioccona e bestiaccia? Sentite chi parla adesso! E non lo sai il nome che porti, pazza bestiona? Credi anche tu agli eroismi di questi rifiuti di galera? O dei bardassa sguaiati e ciarloni?»40 Quando Giacomo, avendo ottenuto il proprio tornaconto, darà a Lucrezia il consenso per le nozze con Giulente, donna Ferdinanda, con don Blasco, suo fratello e personaggio maschile speculare, non parteciperà alle nozze ed interromperà le sue visite nella casa vicereale, salvo poi disattendere la decisione che sembra presa coi toni dell’irrevocabilità, e farvi ritorno per esercitare sui nipoti la tirannia che essi sopportano nella speranza di avere una fetta più corposa di eredità: Ella pretendeva che i nipoti le portassero obbedienza e le stessero sottomessi per via dei quattrini che, non avendo figliuoli, avrebbe loro lasciati; la distruzione del testamento, in presenza della servitù, era la pena della loro ribellione.. […] E a poco a poco, pel bisogno di sentirsi far la corte, per non poter rinunziare a ingerirsi nelle faccende dei nipoti, ella s’era venuta placando, ma senza andar da loro: la casa dei suoi                                                                                                                           38 Ivi, p. 710. 39 Mi sembra che possano riferirsi particolarmente a donna Ferdinanda le osservazioni di Madrignani: «Gli Uzeda sono una famiglia di “pazzi” e stravaganti, non tanto perché convivono con fissazioni patologiche, ma perché si muovono tutti sulla spinta di un’ostinazione gratuita, esagerata e perniciosa. I loro odi si fondano su un accanimento così assoluto da apparire demotivato, quasi delle pulsioni irrefrenabili scatenate fatalmente da un ambiente saturo di rivalità endogene. Per quanto la lotta per sopraffarsi, che regola il comportamento di ogni esponente della famiglia, si presenti con motivazioni materiali, rimane il dubbio che nessun trofeo riuscirà mai a placare questa guerra intestina, niente avrà la forza di porre fine a questo ribollire di ostilità» (C.A. Madrignani, Introduzione a F. De Roberto, Romanzi, Novelle e Saggi, a cura di C.A. Madrignani, cit., pp. XXXV-XXXVI). 40 I Viceré, p. 672. 12     maggiori era profanata, contaminata dalla presenza di quel pezzente, di quel bandito, di quell’assassino che chiamavasi Benedetto Giulente, avvocato, AVVOCATO!41 Se l’odio per Matilde Palmi non conoscerà attenuanti, l’atteggiamento nei riguardi di Benedetto muterà presto. In occasione di una delle prime visite nella casa degli Uzeda, dopo la tempesta causata dalle nozze di Lucrezia, donna Ferdinanda sarà, infatti, vittima delle arti retoriche di Benedetto, personaggio molto scaltro ed ambizioso, deciso a diventare un Uzeda, abdicando, colpevolmente per De Roberto e per il suo lettore, da quegli ideali di democrazia e giustizia che lo avevano inizialmente fatto collocare tra i personaggi, assai rari, positivi del romanzo. Benedetto conquisterà la benevolenza, mai apertamente palesata, della zitellona, che si servirà dei suoi servigi, a titolo ovviamente gratuito, per la cura dei propri affari più spinosi e diventerà assidua, invadente frequentatrice di casa Giulente, quasi come se i nipoti fossero una sua proprietà: [...] e donna Ferdinanda, dopo aver discorso del proprio credito, cominciava a fare le sue osservazioni sulle faccende dei nipoti: se desinavano troppo tardi per seguire la moda italiana portata da quella bestia del duca; se il venerdì compravano il pesce troppo caro, quando avrebbero potuto contentarsi, come lei, del baccalà; se davano alla cameriera tutto il trattamento invece della sola minestra come usava lei stessa in casa propria. E a poco a poco ficcava il naso in tutte le cose più minute, più intime: rivedeva i conti, esaminava la nota della lavandaia, criticava la compera degli strofinacci, dettava sentenze di economia domestica, biasimava il largo spendere di Benedetto dopo essersi opposta al matrimonio perché i Giulente erano pezzenti.42 Il mutato atteggiamento della zitellona nei confronti di Benedetto non è, ovviamente, una vittoria di quest’ultimo, né una debàcle di Ferdinanda, che, conservando tutto il suo disprezzo per Benedetto, se ne serve come di un cameriere, che, però, ha il pregio di non chiedere salario. La sua invadenza negli affari e nel ménage quotidiano della coppia è un’ulteriore conferma della bassa considerazione in cui la donna continua ad avere Giulente: poiché lo considera inferiore sente di avere tutto il diritto di immischiarsi dei suoi affari, della cui gestione, tacitamente, lo ritiene incapace, in quanto parvenue. Ancora una volta, in questo rapporto, come negli altri, Ferdinanda dimostra il suo egoismo innato ed incurabile, così totalizzante da sembrare quasi inverisimile in un essere umano. Di umano, del resto, Ferdinanda sembra avere solo un assai variopinto bouquet di difetti43 e l’interesse, che non credo, francamente, possa definirsi amore, per il nipotino Consalvo, terra vergine, ai suoi occhi, nella quale gettare il seme per la continuazione degna della casta. Di Consalvo, che, secondo la sua opinione, dovrebbe restare ignorante come i più illustri avi spagnoli,                                                                                                                           41 Ivi, pp. 709-710. 42 Ivi, p. 732. 43 Cfr.: «A donna Ferdinanda era toccato, sia nell’aspetto fisico che nel suo rapporto col denaro, il côté peggiore. […] La verità è che Ferdinanda, dal punto di vista personologico, apparteneva a quella categoria degli Uzeda composta da persone interessate, avare, spilorce, capaci di vender l’anima per pochi centesimi» (G. Finocchiaro Chimirri, Donna Ferdinanda non sapeva scrivere, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., pp. 296-297). 15     felice perché il nipote, una volta suo protetto è tornato da lei, ma perché Consalvo, che ora è il principe di Francalanza, «il capo della casa» si è umiliato recandosi in casa sua. Per questo la visita del nipote non è la riconciliazione di Ferdinanda con il mondo nuovo che ormai vive fuori dalla sua casa, ma l’ultima occasione di affermare ancora una volta il suo odio, il disprezzo innato per tutti coloro che hanno vissuto e vivono una vita diversa da quella che, nella sua maniacale idea di controllo, ella aveva ritenuto adeguata ai suoi Uzeda: Quando calmossi, ella disse con voce affannata, ma con accento di amaro disprezzo: «Tempi obbrobriosi!... Razza degenere!»48 3. Lucrezia Il primo personaggio femminile di cui De Roberto si occupa dopo la morte della principessa Teresa, affrancandolo dal gruppo indistinto delle donne presenti in casa Uzeda49, è Lucrezia, la figlia destinata a restare nubile, per non sottrarre ai fratelli una fetta di quel piatto che la matriarca aveva faticosamente rimpinguato. Sin dalla prima diffusione della notizia della morte della madre, Lucrezia appare più guardinga che addolorata. Quando giunge lo zio don Blasco e chiede, maliziosamente, perché Giacomo sia andato da solo al capezzale della defunta madre, Lucrezia protesta di essersi invano offerta di accompagnarlo: «Io volevo accompagnarlo…» disse Lucrezia; ma allora il Benedettino saltò su: «Tu? Per fare che cosa? Sempre voialtre femmine tra i piedi? Vi pare che sappiate solo aggiustare il mondo?... […]»50 Tralasciando la risposta di don Blasco, che, in linea con l’idea generalmente diffusa nel romanzo di una generica e tradizionale superiorità maschile, disprezza l’attitudine pragmatica delle donne, mi sembra che nell’affermazione della ragazza si possa leggere una lucidità atipica in chi ha perso da qualche ora un genitore. Più avanti, infatti, di fronte alle esclamazioni compassionevoli dei primi accorsi a “confortare” gli Uzeda, Lucrezia sembra quasi stupirsi di tanta “preoccupazione” nei suoi riguardi: «Povera Lucrezia! Che disgrazia!...Avete ragione!...Ma fatevi animo!...Coraggio!» Ella che se ne stava a guardare per terra, battendo un piede, levò la testa con aria di stupore, quasi non comprendendo.51                                                                                                                           48 Ivi, p. 1098. 49 Dopo i funerali, nella ricostruzione del salone degli Uzeda, le donne sono tutte da una parte, in una raffigurazione di gruppo, come se nessuna di esse fosse degna di un’attenzione particolare: «Dalla parte delle donne la principessa se ne stava in un angolo, un po’ alla larga, per evitar contatti. Donna Ferdinanda, seduta vicino al principe di Roccasciano, parlava con lui d’affari: del raccolto, del prezzo delle derrate, mentre la principessa di Roccasciano raccontava alla baronessa Curcuma un suo sogno, la madre che le era apparsa con tre numeri in mano: 6, 39 e 70, sui quali aveva giocato dodici tarì di nascosto del marito. Le ragazze Mortara e Costante, amiche di Lucrezia, parlavano d’abiti a quest’ultima, per divagarla, quantunque ella non desse loro ascolto e rispondesse a sproposito, com’era sua abitudine […]» (I Viceré, pp. 449-450). 50 Ivi, p. 424. 16     Il “dolore” per la perdita della madre sembra risvegliarsi in lei solo all’arrivo della sorella Chiara e del fratello Lodovico, proprio come se rispondesse ad una indicazione di scena: la sofferenza deve essere mostrata quando gli altri possono vederla. Parlando della principessa Teresa si è già detto, credo, in maniera piuttosto esplicita, che l’amore, materno o filiale, sembra essere un’affezione da cui gran parte dei Viceré è immune52. Lucrezia, infatti, non è capace di amare. Non ha amato la madre, perché non ne ha ricevuto amore; non ama i suoi fratelli, perché da tutti, ad eccezione di Ferdinando, è considerata un’intrusa ed una stupida53: Come Chiara e Ferdinando, Lucrezia non ricordava una carezza della madre; […] Sotto la sferza di donna Teresa, trattata con particolare durezza per esser nata quando costei non aspettava più altri figli, considerata come un’intrusa venuta a rubare parte della roba già destinata ai due maschi, Lucrezia era cresciuta come «una marmotta», diceva il Benedettino: tarda, taciturna e selvatica come Ferdinando, e sempre così distratta che le sue risposte erano oggetto di risa per tutti fuorché per lo zio Blasco che se la mangiava viva.54 È evidente già da queste prime notazioni che Lucrezia non brilli per intelligenza55, ma anche che abbia imparato presto a difendere il proprio posto, sebbene di modestissimo rilievo, all’interno della famiglia. La sua venuta al mondo, che non risponde, ancora una volta, ai desideri della prolifica quanto odiosa madre, ha già insito il destino di lotta che attenderà Lucrezia, una lotta per la sopravvivenza, in cui, dotata di armi ben modeste –è brutta e tarda, come De Roberto non manca più volte di sottolineare-, dovrà scontrarsi con fratelli e sorelle meglio armati. Prima di affrontare lo scontro con i fratelli, che non la amano, ad eccezione del babbeo Ferdinando, Lucrezia deve sopravvivere alla madre, che, con certosina pazienza, tenta di convincerla dell’ineluttabilità di un destino ben triste: Asservendo e maltrattando la figlia, la principessa non dimenticava tuttavia lo scopo principale da raggiungere: cioè di lasciarla zitellona in casa. Per questo ella dimostrava assiduamente, quotidianamente                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     51 Ivi, p. 421. 52 Nota, a ragione, Silvia Dai Prà: «Non possiamo dimenticare che I Viceré è anche un romanzo familiare: ma gli Uzeda sono la negazione dell’idea comune che identifica nella famiglia il nido dell’affetto e della solidarietà. Non solo fratelli e parenti lottano continuamente tra loro, ma non esiste nemmeno l’idea di amore paterno a materno. […] L’amore, fin dalle prime pagine, non è un sentimento globale e onnicomprensivo, ma una fissazione, uno stadio maniacale che rende il soggetto incapace di vedere qualunque cosa che non sia l’oggetto su cui si è bloccata la sua monomania» (S. Dai Prà, Federico De Roberto. Tra Naturalismo ed Espressionismo. Lo stile della provocazione, cit., pp. 69-70). 53 Cfr.: «Il criticismo derobertiano si avvia al culmine della presa in giro sadica. Le forme della canzonatura più spietata appaiono dedicate a coloro che incontrano la sconfitta esistenziale più miseranda per il solo e buon motivo che sono degli sprovveduti, dei pasticcioni, intellettualmente deboli anzi un po’ mentecatti. Si pensi a Lucrezia, una vera stupida, smaniosa soltanto di comparire […]» (V. SPINAZZOLA, Il romanzo antistorico, cit., p. 108). 54 I Viceré, p. 493. 55 « Ma la gioia invece di scemare accresceva l’abituale distrazione della ragazza: ella chiedeva notizie ai vedovi della salute delle mogli defunte, scambiava le persone; non rammentava nulla; una sera fece ridere tutta la società domandando allo speziale del Belvedere che aveva una sorella in convento: «E vostra sorella monaca con chi è maritata?» (Ivi, p. 563). 17     a Lucrezia che il matrimonio non era fatto per lei; prima di tutto per la cattiva salute – e invece la ragazza stava benissimo- poi perché così voleva il bene della casa – e le additava l’esempio di donna Ferdinanda; - poi perché, senza quattrini, non avrebbe potuto mai trovare un partito conveniente- e l’eccezione del marchese Federico confermava la regola;- finalmente perché, quasi tutto questo no bastasse, era anche brutta- e qui diceva la verità. […] Così era cresciuta Lucrezia: costantemente mortificata e umiliata, segregata dal mondo meglio che se fosse nella badia, perché sotto la mano di ferro della madre; invisa ai fratelli maggiori ed agli stessi zii, tiranneggiata un poco anche da Chiara che per avere cinque anni più di lei faceva la grande; unicamente voluta bene e protetta da Ferdinando, col carattere del quale s’accordava molto il suo.56 Il personaggio di cui sentiamo parlare nelle prime pagine del romanzo, per bocca di un lavapiatti57, sembra essersi arreso al destino impostole dalla madre. De Roberto ce la descrive inizialmente pallida, incline ad arrossire, taciturna, con gli occhi bassi, quasi stralunata, niente di più di un polveroso soprammobile della casa58. Fino alla morte della principessa non sembra prevedibile in lei alcuna variazione di stato o sentimento. L’essere divenuta, a suo modo e nel suo piccolo, erede, risveglia in lei il desiderio di potere che accomuna tutti gli Uzeda, in modi e toni differenti. È forse tra i primi personaggi ad intuire la portata “rivoluzionaria” della morte di Teresa Uzeda e quando lo zio Blasco, che normalmente non ha alcuna considerazione di lei, le conferma il nuovo potere di cui dispone grazie all’eredità materna, Lucrezia ha la certezza che il suo tempo da vittima si sia concluso. Ora, che non è più vittima della volontà materna, non vuole esserlo di nessuno e se la famiglia si oppone alle sue nozze con Benedetto Giulente, l’opposizione rafforza il suo convincimento dell’ineluttabilità di quel matrimonio59: Lucrezia, che all’opposizione dei parenti s’era impennata, come ogni Uzeda dinanzi alla contraddizione, ed aveva giurato a donna Vanna che avrebbe sposato Giulente a qualunque costo; udendo adesso il monaco parlarle dei suoi diritti, dimostrarle che ella era più ricca di quanto credeva, istigarla a far valere la propria volontà, gli dava ascolto, diffidente tuttavia, sospettosa di qualche raggiro.60 Questo non significa che il personaggio Lucrezia subisca un mutamento: è uguale a se stesso sempre, come tutti gli altri personaggi femminili del romanzo. Per ottenere il nuovo obiettivo                                                                                                                           56 Ivi, pp. 494-495. 57 «La ragazza Lucrezia non fa la liberale per amore di quello sciocco di Benedetto Giulente?» (Ivi, p. 444). 58 Ad esempio si legge: «Lucrezia, impallidita, teneva gli occhi bassi, strappando la frangia della poltrona…. » (Ivi, p. 457); e poi, ancora: «”Io credo che i Giulente sono nobili” disse Lucrezia, prima che la zia finisse e senza alzare gli occhi» (Ivi, p. 458). Più avanti, vittima, questa volta, delle adulazioni interessate della cameriera: «E Lucrezia l’ascoltava a bocca aperta, cercando di comprendere. Ella comprendeva più facilmente le adulazioni della cameriera che trovava recondite bellezze nella persona della padroncina, quando la vestiva o la pettinava» (Ivi, p. 496); ed ancora: «Lucrezia si fece rossa più di un papavero, e da quel giorno i suoi occhi andarono spesso al balcone del giovanotto. Però, finché la principessa ebbe buona salute, la cosa non uscì da questi termini e nessuno la sospettò» (Ibidem). 59  «Non capivano che più s’accanivano contro Giulente più ella pensava a lui, che ogni discorso diretto a distoglierla dal suo proposito glielo ribadiva in capo più saldo. “Sposerò Benedetto, o nessuno” diceva alla cameriera, dopo quelle sfuriate. “Hanno voglia di gridare; quando sarà l’ora, lo sposerò”» (Ivi, pp. 632-633). 60 Ivi, p. 498. 20     così, il proprio isolamento e l’ossessione “amorosa” per Benedetto si tramuta progressivamente in odio: La pazzia di costei era andata tutt’al rovescio: dopo aver fatto cose dell’altro mondo per sposare Giulente, adesso, a poco a poco, era arrivata quasi a disprezzarlo, gli dava dell’asino a tutto pasto, non poteva soffrire la sua politica che prima l’aveva accesa, gli diceva sul muso: «Ha pur da tornare Francesco II che vi legherà tutti quanti!...»66 In maniera inversamente proporzionale ai successi del cursus honorum di Benedetto, che diviene sindaco di Catania e sembra destinato, anche grazie all’appoggio del deputato Uzeda, al Parlamento italiano, diminuisce il rispetto che Lucrezia ha nei suoi confronti. L’eroe del Volturno, l’amministratore attento ai bisogni della città, l’uomo che tutti, tranne i Viceré e l’aristocrazia retriva ed ignorante a loro legata, osannano, è agli occhi di Lucrezia un vile, indegno di attenzione, di considerazione, di stima. De Roberto descrive in maniera alacre le impertinenze e i maltrattamenti di Lucrezia, le sue bizzarrie, la cattiveria, la testardaggine, l’ignoranza cocciuta, caratteristiche alle quali si oppone, in maniera del tutto speculare, la dedizione completa di Benedetto. Nella dinamica di coppia Lucrezia sembrerebbe essere il male e Benedetto il bene, se il narratore, distaccato ed ironico, non ci suggerisse di guardare oltre. Se, infatti, Lucrezia incarna la follia cattiva della razza dei Viceré, Benedetto è perversamente attratto da ciò che la moglie rappresenta. Tollera le sue bizze, si affanna a coprirla di soldi, non mostra alcuna insofferenza per le cattiverie e le offese da lei continuamente lanciategli contro. È chiaro, come è stato ben osservato67, che se Lucrezia esprime la visione negativa che l’autore ha dell’aristocrazia feudale siciliana, Benedetto è, invece, il campione negativo di una borghesia affarista, che vuole sottrarre all’aristocrazia il dominio, perché non può sottrarle il privilegio della nobiltà di nascita68. Ed è la mancata nobiltà di Benedetto l’origine dei tormenti della folle Lucrezia69:                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     entrare nella casa dei Viceré, di sentirsi quasi posta al bando dai parenti, l’aveva occupata a poco a poco, mentre ella continuava a prendersela con loro» (Ivi, p. 755). 66 Ivi, p. 795. 67  Cfr. N. CACCIAGLIA, Il ‘ne varietur’ nella politica di Consalvo Uzeda, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 216. 68 Cfr.: «Grande goloppino elettorale è l’avvocato Benedetto Giulente, un homo novus che ha abbracciato la causa risorgimentale e democratica ma che a sua volta aspira a imparentarsi con la schiatta aristocratica dei Viceré sposando Lucrezia. […] Un effetto della rivoluzione è questo: i ceti emergenti della borghesia riescono, nei casi più frequenti d’intraprendenza e di spregiudicatezza, a entrare nell’olimpo della nobiltà la quale si adegua ai tempi nuovi adottando una politica trasformistica» (S. Campailla, Le figure mostruose del potere, Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 82). 69 «La vera, la prima origine della durezza con la quale ella lo trattava da un pezzo era la persuasione finalmente radicatasi nel suo cervello che egli non fosse abbastanza nobile per lei. A poco a poco, giorno per giorno, aveva riconosciuto che i suoi parenti dicevano giusto quando denigravano i Giulente; e nonostante le accuse rivolte al principe, aveva fatto la pace con lui, cedendo per la prima affinché non si dicesse che gli Uzeda sdegnavano in trattarla. E quanto più Benedetto le stava dinanzi sommesso, tanto più ella riconosceva di avergli accordato una grazia speciale, sposandolo. Le opinioni liberali di lui, un tempo ammirate, adesso l’esasperavano come una prova di volgarità» (I Viceré, p. 826). 21     A misura che le dimostravano il suo torto, l’affezione e il rispetto di cui Benedetto la circondava, la sua avversione cresceva: ella immaginavasi d’esser maltrattata, attribuiva al marito ogni specie di torti. Giacché i Giulente non avevano avuto concessione di feudi, lo giudicava miserabile; ma non potendo ragionevolmente dare a intender questo, l’accusava d’avarizia. Egli la lasciava libera di spendere ciò che voleva; ma fittosi in capo che fosse avaro, la fissazione prendeva nel cervello di lei più consistenza di un fatto; e con l’aria d’una vittima rassegnata al suo destino, quasi quasi piangendo, rifiutava di comperar nulla per sé, rinunziava agli abiti, ai cappelli, ai gioielli, andava attorno come una cameriera. Suo marito non riusciva a strapparle la spiegazione di quella sciatteria; ma a palazzo ella si nettava la bocca contro di lui, e se il principe o donna Ferdinanda le rammentavano che smania aveva avuto di sposarlo, se la prendeva con loro […]70 Mi sembra evidente che Lucrezia sia matta, perché, come i matti, è priva di freni inibitori, non ha alcun senso della decenza, mostra repentini sbalzi d’umore, non è in grado di servirsi del proprio odio come strumento per ottenere un personale tornaconto. Odia perché non sa che si può anche amare. Il mondo che la circonda è, nel suo immaginario, un mondo di nemici da combattere, di persone che non la amano71. Sono nemici i suoi fratelli e la famiglia tutta; è un nemico Benedetto perché l’ha costretta a degradarsi sposando un uomo privo di titoli nobiliari, ma dotato di un’ambizione che lo guida in alto, più in alto di lei, discendente dei Viceré, ridotta ad essere la moglie di un liberale. Non è trasformismo, ma labilità mentale a spingere Lucrezia a lamentarsi della sua famiglia con gli estranei e a lamentarsi degli estranei, del marito, in primis, con la sua famiglia72. Accusare gli altri è il modo più semplice di evitare ogni assunzione di responsabilità, perché Lucrezia è rimasta, in fondo, la figlia destinata a restare in casa, come uno dei tanti polverosi oggetti del palazzo avito. La sua abitudine di dire sciocchezze, di trastullarsi in casa discinta per ore, di non pensare ad ordinare il pranzo o la cena non è un atteggiamento dettato dalla volontà di                                                                                                                           70 Ivi, pp. 847-848. 71 Cfr.: «Il sistema dei personaggi si costituisce dunque in base a un doppio criterio, di analogia stretta e di opposizione irriducibile fra i suoi componenti. Ognuno fa parte per se stesso; ma a legarli indissolubilmente fra loro è un vincolo di complicazione sadomasochista. La rete dei loro rapporti è mobilissima, giacché non prevede patti di solidarietà stabile ma solo di opportunità e convenienza; non solo, ma lo scambio delle parti è continuo in quanto ciascuno è al tempo stesso soggetto e oggetto di pulsioni onnipervasive. I Viceré sceneggia una guerra o guerriglia permanente di tutti contro tutti, in cui ognuno cerca di approfittare della debolezza degli avversari, che d’altronde si adoperano per ribaltare la loro condizione di inferiorità passando da oppressi a oppressori» (V. SPINAZZOLA, Il romanzo antistorico, cit., p. 117). 72 «“Che ne sapevo! Colpa vostra che non v’ostinaste a impedirmi di commettere una pazzia!” E questa nuova idea le s’inchiodava talmente in testa, che sfogandosi coi primi venuti, lagnandosi della propria infelicità con gente a cui aveva parlato appena una volta, ella l’adduceva a propria discolpa: “La mia famiglia m’ha fatto un tradimento. Questo marito non faceva per me: me l’hanno dato per forza… sono stata sacrificata!...” Poi denigrava in altro modo Giulente, metteva in ridicolo il suo patriottismo, lo attribuiva all’ambizione o lo negava del tutto. “Cotesto sciocco ha fatto il liberale per essere qualche cosa. Ma non è divenuto niente, ed ha fatto meno che niente. Il ferito del Volturno? Guardategli la coscia: l’ha più sana delle mie!...”» (I Viceré, p. 848). 22     angustiare Benedetto: ella agisce in questo modo perché così agisce una discendente dei Viceré, senza curarsi delle reazioni degli altri, perché quegli altri sono inferiori: Diceva spesso cose più enormi, senza pudore, un poco perché non ne comprendeva la sconvenienza, un poco perché credeva le fosse lecito tutto. Non si levava mai prima di mezzogiorno, e per due buone ore restava discinta, con una gonna sulla camicia, il collo e le braccia nude, i piedi nudi nelle pantofole; si mostrava così al cameriere ed al cuoco, era capace di ricevere anche qualche visita; e se Benedetto, presente, esclamava, giungendo le mani: «Ma Lucrezia! Per carità!...» ella lo guardava stupita, spalancando tanto d’occhi: «Che c’è? Sono visite di confidenza! Ho da mettermi gli abiti da ballo? Quelli che m’hai fatto venire da Parigi?...». E s’egli le diceva di ordinarli pure, di spendere tutto quel che voleva, ella si stringeva nelle spalle: «Io? A che pro? Per qual Santo? Non vado più a nessuna parte; non conosco più nessuno della mia società! Risparmia, risparmia i tuoi quattrini!...»73. L’atteggiamento da vittima sacrificale sarà dismesso solo quando vi sarà una nuova grande occasione di attrito con gli Uzeda; Consalvo, che si è servito di Benedetto per compiere il proprio apprendistato politico, mostrandosi degno della propria famiglia, sottrarrà, in maniera subdola, allo zio il seggio elettorale, quel sogno che le nozze con Lucrezia e le promesse del duca d’Oragua gli avevano quasi fatto toccare con mano. Solo quando Benedetto rientrerà a casa ed oserà alzare le mani su di lei, quasi per vendicarsi di tutti gli Uzeda, Lucrezia tornerà ragazza, vedrà, come per la prima volta, l’uomo per cui aveva sfidato i Viceré, e gli sarà di nuovo compagna: «Non t’angustiare» tornò a dire al marito. «Deputati non se n’ha da fare uno solo. Ti presenterai anche tu. Vedremo chi è più forte, o lui o noi!»74 Ancora una volta, dunque, non c’è alcuno spazio, nel cuore di Lucrezia, per l’amore. È l’odio contro il nemico comune ad unirla a Benedetto, ad insegnarle a pronunciare, anche se solo per il tempo della lotta, la parola “noi”75. 4. Chiara Le due sorelle Uzeda, Lucrezia e Chiara appaiono sin dall’inizio personaggi assai simili. Anche quando alla fine del romanzo, nel lungo monologo, tenuto al cospetto della vecchissima donna Ferdinanda, Consalvo passa in rassegna la famiglia Uzeda per dimostrarne le maniacali follie e la progressiva degenerazione della razza, accomunerà le due sorelle:                                                                                                                           73 Ivi, pp. 848-849. 74 Ivi, p. 1059. 75 Su Lucrezia mi sembrano interessanti le osservazioni di Ada Neiger: «Un cupo e diffuso risentimento informa le azioni della donna che ritiene di aver subito un torto cui si sente incapace di rimediare. Lucrezia ricorre allora all’arma subdola e ambigua dell’inganno, nel tentativo di riscattarsi da una sfavorevole situazione esistenziale. L’inganno è un tipo di comportamento al quale tutte le donne dei Viceré indistintamente fanno prima o poi ricorso. Il repertorio delle modalità fraudolenti registra più frequentemente bugie, ipocrisie, falsità, omissioni, pratiche adulatorie» (A. Neiger, Tutte le donne dei «Viceré», in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 261). 25     La previsione della madre è esatta. Chiara Uzeda muterà repentinamente e senza alcuna logica i suoi sentimenti nei riguardi del marito84. Si potrebbe pensare alla comparsa di Amore nel romanzo, ma la suggestione attraverserà solo per qualche istante la mente del lettore, poiché l’ironia compiaciuta di De Roberto chiarirà presto che Chiara non ama, esattamente come tutti i Viceré. Il legame con Federico è un vincolo, nell’ambito del quale esercitare la sua ambizione di possesso e controllo, ma è anche la sua arma di difesa, inizialmente contro la volontà materna di prevaricazione, poi contro il mondo esterno, nel quale ella, come erede dei Viceré, ritiene di dover occupare quel posto di riguardo, che proprio l’unione con il marchese di Villardita le ha conferito. Perché per le donne, per quanto eredi di una grande famiglia, non c’è alcuna considerazione sociale, quando restano nubili. Il desiderio ossessivo di diventare madre, del resto, potrebbe apparire, inizialmente, come la legittima ambizione di una donna innamorata di coronare ulteriormente il proprio sogno d’amore. E nel corso del romanzo, più volte, il lettore sembrerebbe indotto a credere che per Chiara De Roberto abbia fatto un’eccezione, che in lei abbia voluto “salvare” il concetto di maternità e di famiglia85, che nell’Italia di fine Ottocento, come in quella odierna, anche se in modi differenti, sembrano essere alla base dell’etica sociale. Per buona parte del romanzo, infatti, sembrano scevre di biasimo le parole che De Roberto sceglie per raccontarne le ansie. La vediamo colpevolizzarsi per la maternità mancata86, esaltarsi quando la speranza sembra farsi certezza: Sopravvennero in quel momento Chiara e il marchese. Lucrezia, ancora imbronciata, salutò freddamente la sorella; ma questa non s’accorgeva di nulla, nervosa com’era, tutta piena d’una secreta idea. «Margherita» sussurrò alla cognata, in confidenza «questa volta credo sia per davvero!…» Erano quelli i sintomi? Poteva ingannarsi? Tante volte aveva sperato d’apporsi e festeggiato invan l’avvenimento, che adesso non ardiva più annunziare apertamente la gravidanza se non prima la vedeva confermata. Poi, lasciata la principessa, prese a parte Matilde, ricominciò a dirle: «La levatrice n’è certa! Tu che cosa provi?... Com’è cominciato?...»87                                                                                                                           84 «La gente di servizio, i famigliari, gli amici, scherzarono un pezzo tra loro sul mezzo che il marchese aveva adoperato per addomesticar la moglie, fatto sta che da quel giorno fu tutt’una cosa col marito, fino al punto che egli non poté tardare un quarto d’ora a rincasare senza che ella gli mandasse dietro tutta la servitù, fino ad esser gelosa dei suoi pensieri. E non ebbe più, in tutte le circostanze piccole e grandi, altra opinione che quella del marito; prima di dare una risposta, se le domandavano qualcosa, lo interrogava cogli occhi quasi temendo di non dire ciò che egli stesso pensava; il suo unico e grande dolore era quello di non avere un figliuolo da lui, dopo tre anni di matrimonio, dopo aver annunziato quattro o cinque volte, per troppa fretta, la propria gravidanza; ma anche questo dimostrava il bene che voleva al suo Federico» (Ibidem). 85 Cfr.«Chiara, anche nella sua smania di maternità, a tratti riesce ad apparire toccante: pur nella degradazione comico- grottesca a cui il narratore la sottopone» (S. Dai Prà, Federico De Roberto. Tra Naturalismo ed Espressionismo. Lo stile della provocazione, cit., p. 71) 86 «La marchesa, per suo conto particolare, non poteva rassegnarsi alla mancata maternità, se n’accusava come d’una colpa e per farsi perdonare dal marito, se prima aspettava ogni sua parola come quella d’un oracolo, adesso preveniva i suoi giudizii, intuiva le sue volontà» (I Viceré, p. 627). 87 Ivi, p. 549. 26     Il mondo esterno non ha alcuna importanza per Chiara, completamente concentrata su se stessa, nei periodi nei quali crede di esser finalmente madre; per questo non fa alcuna differenza tra le interlocutrici, parla a Margherita, come a Matilde, per la quale, come tutti gli Uzeda, non ha normalmente nessuna considerazione. Le interessa solo raccontare, condividere, domandare88, cercando nelle parole delle interlocutrici conferma alle sue aspettative. Qualcosa cambierà quando la gravidanza sarà reale e sotto gli occhi di tutti. Come è stato osservato89, infatti, in quel corredo composto da «sei grandi ceste piene di tanta roba da bastare a un intero ospizio di lattanti»90 esiste una sproporzione, che è, chiaramente, indizio della natura ossessiva e non naturale, in un certo senso, del desiderio di maternità. Per Chiara diventare madre significa anche consumare, a distanza, un’ulteriore vendetta sulla sua madre-padrona. A ben vedere, dunque, questo desiderio di maternità, lungi dall’essere desiderio di amare, è una manifestazione d’egoismo. Al centro di tutto c’è sempre Chiara: Chiara che vuole essere una buona moglie, Chiara che vuole essere una buona madre, Chiara che vuole sovvertire il concetto di famiglia che ha imparato in casa Uzeda. Neanche il travaglio di quel parto doloroso, quanto mostruoso, farà venir meno la sua necessità di essere felice: avrà l’aria beata di chi ha raggiunto il suo scopo91. Ma eccolo il frutto delle sue preghiere e dei suoi desideri: A un tratto le levatrici impallidirono, vedendo disperse le speranze di ricchi regali: dall’alvo sanguinoso veniva fuori un pezzo di carne informe, una cosa innominabile, un pesce col becco, un uccello spiumato; quel mostro senza sesso aveva un occhio solo, tre specie di zampe, ed era ancor vivo.92 Al di là del gusto macabro della descrizione, mi sembra interessante notare che, tra i sentimenti che aleggiano nella stanza –quelli delle levatrici, di Margherita e Graziella- sembra non esserci il dolore, piuttosto l’orrore93. Le levatrici impallidiscono non perché si trovano di fronte ad un aborto, ma perché vedono svanire la speranza di ricchi doni; Margherita, che non vorrebbe trovarsi lì, è terrorizzata e disgustata e la cugina Graziella sembra più preoccupata degli aspetti                                                                                                                           88 «Ogni mese, in un certo periodo, Chiara pareva proprio nelle nuvole: non rispondeva alle domande che le facevano, o rispondeva a vanvera; poi traeva in disparte tutte le signore una dopo l’altra, e sottoponeva loro all’orecchio certi suoi quesiti» (Ivi, p. 624). 89 Cfr: «L’entusiasmo traduce in termini di quantità e di spreco l’intensità del desiderio e dell’aspettativa. E a ben vedere, la sproporzione rivela un indizio polemico. Chiara, in cui serpeggia la volubile follia della razza a cui appartiene attraversa ora una fase di assoluta dedizione all’amore coniugale e materno» (S. Campailla, Le figure mostruose del potere, Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 82). 90 I Viceré, p. 673, 91 «Nonostante il travaglio del parto, questa aveva un’aria beata, sorrideva tra due contorcimenti, raccomandava che rassicurassero il marito» (Ivi, p. 690). 92 Ivi, p. 691. 93 Cfr.:« È una festa in grottesco, il rovescio della bellezza invocata ed enfatizzata all’inizio del capitolo. De Roberto si esibisce con un frammento di alto repertorio: a suo modo, c’è dell’euforia in quell’enumerazione irrefrenabile, nel gioco inventivo dei paragoni. Quel feto mostruoso è meno immaginabile in anatomia che in pittura: è gioiosamente composito come in un’allegoria dell’Arcimboldo, come in un quadro di un De Chirico» (S. Campailla, Le figure mostruose del potere, Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 83). 27     pratici e mondani della situazione che del dolore di Chiara e Federico, le cui mani nei capelli sono l’unico gesto naturale in queste pagine. La reazione di Chiara è, sin dall’inizio, alterata: «E’ morta?» domandò ella, impallidendo. «No.. è nata morta… Coraggio, poveretta!.. Purché tu stia bene.. il resto è nulla: sia fatta la volontà di Dio.» «Voglio vederla.» […] Bisognò contentarla. Non pianse, non provò raccapriccio nell’esaminare quell’abominio; disse al marito: «Era tuo figlio!...» E ordinò che non lo portassero via, pel momento.94 Chiara non piange, non prova orrore, non vuole disfarsi dell’aborto. Nega la realtà, come può accadere in circostanze del genere, ma la sua reazione diventa “folle” quando, andati via i parenti, resta a contemplare “soddisfatta” il feto ormai privo di vita. È in quella soddisfazione, che non è amore, e non nella determinazione a conservare il feto in “una boccia”, abitudine non rara nel secondo Ottocento95, che sta la follia di Chiara, suggellata dall’ironia irriverente di De Roberto, che si lascia prendere un po’ morbosamente la mano dall’interesse scientifico, con quella definizione del «pezzo anatomico» come «il prodotto più fresco della razza dei Viceré»96. Chiara, che è una perfetta Uzeda, volubile ed egoista, mette al mondo l’unica cosa che può nascere da una famiglia unita solo dal senso di appartenenza ad una razza superiore: un mostro. La nascita dell’aborto mostruoso è concomitante, poi, non può essere dimenticato, con il trionfo politico del duca d’Oragua, che ha trionfato solo perché ha tradito le sue origini, abbracciando la causa liberale ed offrendo così, specularmente, il modello vincente agli Uzeda per evitare di soccombere alla modernità97. Tuttavia la mostruosità di quello che Chiara si ostina a chiamare figlio non le impedisce di desistere dal tentativo di diventare madre. Ne è talmente ossessionata che giunge ad abbandonare ogni sanità mentale quando è convinta di essere di nuovo incinta:                                                                                                                           94 I Viceré, p. 693. 95 Sergio Campailla (Le figure mostruose del potere, Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., pp. 84-85) riporta, per dimostrare l’uso ottocentesco di conservare il feto nell’alcool per scopi medici, un episodio poco noto della biografia manzoniana, rintracciato nelle pagine della biografia manzoniana redatta da Emilio Radius, che credo sia interessante riproporre: «Dopo il parto Alessandro se ne stava presso il camino, dietro un paravento che nascondeva il lume e il fuoco a Teresa. Il dottor e professor Billi, l’ostetrico, gli si avvicinò e gli chiese, sotto voce, se gli consentiva di portarsi a casa la bambina morta: l’avrebbe messa, per dir le cose come stavano, nella sua collezione di feti» (E. Radius, Vita di Alessandro Manzoni, Milano, Rizzoli, 1959, pp. 151- 153). 96 I Viceré, p. 694. 97 Si legga ciò che scrive Antonio Di Grado: «Come quel “mostro” ripugnante, quel “pezzo di carne informe” partorito dall’”utero fradicio” di Chiara, che sinistramente suggella una marcescente genealogia, figurandovi come “il prodotto più fresco della razza dei Viceré”. In quel grumo di raccapriccio si rapprende lo spietato giudizio dell’autore, o meglio l’oggettiva indecenza d’una vicenda che sembra farsi e narrarsi e perpetuarsi da sé; in quel monstrum deflagra l’inaudita violenza figurale spiegata in tutto l’arco d’una narrazione astiosa e ricca d’oltranze. Tanto più che esso vi campeggia, nei consueti moduli del contrappunto, a fronte del trionfo trasformistico del duca d’Oragua e della riassuntiva dichiarazione del principe, abusatissimo leit-motiv ideologico del romanzo» (A. Di Grado, Presentazione, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., pp. 8-9). 30     non riconosce loro nessun tratto umano, svilendone e mortificandone il ruolo di madri, di cui non sa comprendere la straordinarietà, svuotando di senso il loro ruolo nella società degli uomini, rappresentandole, in linea con i più usurati tòpoi, essenzialmente o come belle e maledette o come brutte ed inutili, quando non dannose. Per questo solo dalla sua penna poteva nascere un personaggio come Chiara, inutile, perché incapace di procreare, di dare la vita ad un erede e generosa nei confronti di una donna inferiore solo perché matta107. Insomma l’ansiosa protezione nei riguardi della donna che porta in grembo il figlio di Federico è un atteggiamento che De Roberto non riconosce come “naturalmente” femminile. Chiara protegge una donna, tra l’altro inferiore, solo perché non è sana di mente ed amerà il bambino di Federico e Rosa, solo perché non è sana di mente: la sua monomania è la maternità, che trasferisce dentro il corpo di Rosa, pur sentendosi madre del bambino che la serva porta in grembo108. La follia di Chiara cresce quando il piccolo, che avrà il nome del padre, nascerà. Il figlio di Rosa è «bianco e rosso, grosso e grasso»109, è il figlio di una donna della Piana, volgare e sana; è, dunque, un bambino «paffuto» in netta antitesi con «l’orribile aborto giallo» partorito da Chiara, nobile e malata. La nascita dell’erede è avvenuta, Chiara sembra quasi aver completamente trascurato il particolare di non essere la madre del bambino. Durante la gravidanza di Rosa si occupata della sua salute, come se quello della cameriera fosse un utero in affitto, come se il figlio nel grembo di lei avesse anche sangue Uzeda nelle vene. Perciò è naturale che alla nascita del bambino la marchesa consideri Rosa una sorta di balia e se stessa come la madre del piccolo Federico: Chiara, fuori dei panni dal piacere, riprese vicino a sé la cameriera, le cercò una balia, diede al piccolino tutto il corredo preparato un tempo pei suoi propri figli. Lo teneva mattina e sera in braccio, lo dava a baciare al marito dicendogli: «Guarda com’è bello!... Ti somiglia, eh?...» ma quand’era sola, faceva calare dall’alto dell’armadio la boccia polverosa col mostriciattolo partorito da lei, abbracciava con un solo sguardo l’orribile aborto giallo come di sego e il bambino paffuto che tirava pugni, e due lacrime le spuntavano sulle ciglia. «Sia fatta la volontà di Dio!...» Riposta la boccia, tutte le sue cure e tutti i suoi pensieri si rivolgevano al figlio di Rosa, al quale aveva persino messo in nome Federico…110                                                                                                                           107 Cfr.: «Il narratore, invece, ama attaccarla in modo particolarmente feroce: sia nel caso del primo parto, con l’indugio sui particolari raccapriccianti del feto, sia nel secondo, con lo spunto umoristico della gigantesca cisti ovarica. Anche chiara si accanisce per puntiglio: anche lei, come donna impotente, ha bisogno di un compenso alla sua posizione sottomessa, e pur di fare questo si ostina contro la stessa natura. Nei confronti del figlio adottivo ella proverà tutti i sentimenti di una madre alla ricerca di compensi narcisistici: lo colmerà di un amore stucchevole, allontanandosi da tutti e perdendo ogni capacità critica, fino a finire, nella solita logica vittime-carnefici, brutalizzata dal figlio viziato ed arrogante» (S. Dai Prà, Federico De Roberto. Tra Naturalismo ed Espressionismo. Lo stile della provocazione, cit., p. 71). 108 Cfr. «[Chiara] ostenta la sua maternità differita, trasposta, trasferita nel grembo della cameriera, quasi come per una modernissima operazione ginecologica, di “trapianto” del seme in un utero in affitto» (P.M. Sipala, Il romanzo “ostetrico” da d’Annunzio a De Roberto, in Maternità trasgressiva e letteratura, cit., p. 78). 109 I Viceré, p. 802. 110 Ivi, p. 803. 31     La descrizione è di una incredibile ferocia. Chiara si autoconvince della necessità di essere felice, di amare il piccolo bastardo, di considerarlo figlio suo e di Federico. La gioia ostentata in pubblico rivela la sua natura bifronte nella dimensione privata, in cui trova spazio l’unico tipo di amore di cui è veramente capace, quello perverso per la boccia gialla del suo mostruoso aborto111. 5. Margherita Uzeda Personaggio decisamente secondario nel romanzo è Margherita Uzeda, la moglie del principe Giacomo, erede dei Viceré. La sua quasi irrilevanza nella vicenda è, credo, desumibile, già dal fatto che è una moglie destinata all’erede Uzeda dalla caparbietà e determinazione della principessa madre, alla quale interessa soprattutto vendicarsi della sorella, impedendo il coronamento dell’amore tra Giacomo e la figlia di lei, Graziella. Il matrimonio, com’è naturale, è contratto per ragioni puramente economiche ed accettato dai due predestinati come un fatto ineluttabile e prevedibile, al quale, infatti, se nessuno dei due si oppone esplicitamente, nessuno dei due partecipa con entusiasmo. È evidente sin dall’inizio che Margherita contrae nulla più che un contratto con Giacomo, che di lei non avrà mai considerazione alcuna, ritenendola preposta alla sola procreazione di un erede: Dal primo giorno del matrimonio questa fu trattata peggio d’una serva; non che volontà, non poté esprimere neppure opinioni; il principe l’addestrò ad obbedirgli a un semplice muover di sguardi; quando ella ebbe bisogno di comperare una matassa di cotone o un palmo di nastro, le convenne chiedere a lui i baiocchi occorrenti- e in dote gli aveva portato centomila onze. La sua missione fu quella di dare un erede al marito, di perpetuare la razza dei Viceré; compitala, ella fu considerata come una bocca inutile, peggio d’un lavapiatti; perché i lavapiatti facevano almeno la corte alla famiglia, all’occorrenza davano una mano al maestro di casa; mentre donna Margherita, non sapeva far nulla e non pensava ad altro fuorché ad evitar contatti e vicinanze, con la mania della nettezza e l’incubo dei contagi. Era del resto una creatura mite, senza volontà, cera molle che il principe plasmò a suo talento.112 In quell’addestramento all’obbedienza mi sembra evidente che De Roberto voglia suggerire che Margherita è, agli occhi di tutti e, dunque, nell’idea comune che sarà poi quella del lettore, considerata alla stregua di un animale domestico; viene da pensare ad uno di quei cagnolini poco interessanti, adagiati su morbidi cuscini di seta che stanno tutto il giorno a sonnecchiare fino a quando il padrone non li caccia via. Meno importante, nell’economia familiare, di una “vergine cuccia”, a Margherita non sono consentiti desideri, velleità, pensieri, ma non è questo l’elemento                                                                                                                           111 Cfr.: «[…] d’altronde, pur nel suo sapore grottesco, anche la conservazione come una reliquia del mostriciattolo partorito da Chiara è la prova di un dolore materno pateticamente inconsolabile» (V. SPINAZZOLA, Il romanzo antistorico, cit., p. 79). 112 I Viceré, pp. 504-505. 32     sorprendente del personaggio derobertiano113. L’autore ci ha abituato, in questo romanzo, ad una scarsa considerazione dell’universo femminile, ma, in altri casi, la donna vittima sviluppa una sorta di desiderio di vendetta nei riguardi del suo carnefice o quantomeno si mostra recalcitrante di fronte a maltrattamenti e soprusi. In Margherita non c’è nulla di tutto questo. Giacomo è da lei temuto, ma rispettato114. Non immagina neanche che sia possibile instaurare con lui un rapporto se non paritario, almeno non lesivo dei suoi diritti umani. Sancisce con lui, senza bisogno di trattative, un tacito patto di non belligeranza, per poter vivere serenamente la monomania da cui anche lei è affetta: l’afefobia. Dalle sue manie è immune solo nei rapporti con i figli, unici esseri umani nei riguardi dei quali è capace di nutrire sentimenti115. L’indifferenza, connessa alla paura del contatto, è anche l’unico sentimento che riesce a provare nei riguardi di tutti gli altri esseri umani, persino nei riguardi di quella cugina Graziella, che, nonostante il mancato matrimonio con Giacomo, continua a frequentarne la casa, circostanza che avrebbe impensierito qualsiasi donna: La principessa non solo non aveva ragione di esserne gelosa, giacché Giacomo dimostrava tanta indifferenza verso la cugina che certe volte neppure le rivolgeva la parola e smesso il tu, le dava del freddo voi; ma era perfino incapace di provare gelosia e qualunque altro sentimento per lei come per ogni persona, tanto la naturale indolenza e il bisogno d’isolamento e la soggezione in cui la teneva il marito la rendevano indifferente a tutto ed a tutti fuorché a i propri figli.116 Ovviamente nelle questioni di famiglia Margherita non ha alcun ruolo, non le competono neanche i pettegolezzi tipici delle donne. Quando la cugina Graziella andrà ad informarla della sbandata di Raimondo per Isabella Fersa, non esprimerà alcun parere, preoccupata di eventuali reazioni del marito: La principessa scrollava il capo, sinceramente addolorata, tanto più che non poteva far nulla. Suo marito non le aveva ingiunto di badare ai casi proprii, sotto pena di averla a far con lui?117 Vorrebbe scomparire quando Giacomo incontrerà freddamente Raimondo, venuto a stare in campagna con la Fersa: La principessa che si teneva accanto Teresina intenta a ricamare, rispose a monosillabi alle domande del cognato, sentendo pesarsi addosso lo sguardo del marito.118                                                                                                                           113 Cfr.: «Una intesa paritaria fra uomo e donna, come frutto d’un incontro di desideri mutui d’amore, non trova luogo nell’universo romanzesco» (V. SPINAZZOLA, Il romanzo antistorico, cit., p. 125). 114 «La principessa era più tranquilla che mai, sempre piena d’obbedienza verso il marito, sempre aspettando gli ordini che egli le impartisse spesso con una sola guardata» (I Viceré, p. 802). 115 Scrive Spinazzola: «In effetti, dal buiore di un orizzonte sommerso dalle passioni egocentriche si staccano alcuni episodi isolati, che testimoniano la sopravvivenza precaria di rapporti interpersonali improntati al codice naturale degli affetti disinteressati. Ciò si verifica sia sul piano dei sentimenti privati, sia pubblici. […] Altrettanto e più sentito può essere il rapporto fra madre e figlio, come quello che congiunge la timida Margherita al piccolo Consalvo, ricambiato con slancio e prolungato nella memoria oltre la morte […]» (V. SPINAZZOLA, Il romanzo antistorico, cit., pp. 78-79). 116 I Viceré, pp. 546-547. 117 Ivi, p. 637. 118 Ivi, pp.767-768. 35     Graziella sembra aver superato se stesso. Sin dalle prime righe del romanzo, nel leggere della premurosa e lacrimevole cugina che prorompe sulla scena di una famiglia in verità più in attesa degli eventi che addolorata per la perdita della principessa Teresa, non si può non sorridere pensando alla tipologia umana, assai copiosa purtroppo, cui la cugina appartiene. Qualcuno, e forse lo stesso De Roberto, avrà dato a Graziella nomi familiari: Arrivarono la marchesa Chiara col marito e la cugina Graziella: «Lucrezia, la mamma!...Sorella!...Cugina!...» Subito dopo entrò la zia Ferdinanda, a cui le donne baciarono le mani, mormorando: «Eccellenza! Ha sentito?...» La zitellona, asciutta asciutta, scrollava il capo; Chiara abbracciava Lucrezia piangendo; il marchese salutava mestamente i lavapiatti; ma la più commossa era donna Graziella: «Non mi par vero!...Non volevo crederci!...Che si muore così?...E il povero Giacomo? […]» Udendo Chiara singhiozzare, in seno alla sorella Lucrezia, esclamò: «Hai ragione, sfogati, poveretta! Mamma ce n’è una sola!...». Ella pareva tanto addolorata della disgrazia dei cugini da dimenticare perfino che la morta era sorella della sua propria madre. Si profferiva alla principessa; le diceva, traendola in disparte: «Hai bisogno di nulla?...Vuoi che ti dia una mano?...Come sta la mia figlioccia?...Che ha lasciato detto il cugino?...»126 In questa scena c’è già tutto il personaggio. La morte della principessa, di cui Graziella quasi non ricorda di essere nipote, è per lei una grande occasione. Innamorata di Giacomo e della sua condizione di erede dei Viceré, da ragazza Graziella ha quasi toccato con mano la possibilità di diventare principessa, di essere la padrona e non “la cugina” in casa Uzeda. L’opposizione della principessa Teresa aveva guastato le sue ambizioni, costringendola, con la sua magra dote, a sposare un gentiluomo di discutibile nobiltà di lignaggio. La morte dell’odiata zia, che aveva cambiato il corso della sua vita, è l’alba di una rivincita127. Sin da questo iniziale ingresso, in cui conforta i cugini e le cugine, si occupa di quelle incombenze pratiche e di quei doveri d’ospitalità, cui il dolore impedisce ai padroni di casa di assolvere128, si ha l’impressione che al trasferimento di Graziella in casa Uzeda si oppongano solo l’esistenza di suo marito e di Margherita, destinati, ovviamente, a togliere presto il disturbo: Infatti, ella [Margherita] soffriva d’una specie di malattia nervosa per la quale non tollerava di star pigiata tra la gente, di toccar cose maneggiate da altri: fortunatamente la cugina era lì ad aiutarla. E alcuni facevano riflessioni filosofiche: “Se invece d’oggi la madre del principe fosse morta sei anni addietro, la cugina, adesso, invece di aiutar la padrona, sarebbe lei la padrona qui dentro”. Non era stato permesso                                                                                                                           126 Ivi, p. 421. 127Cfr.: «Quella dell’impicciona cugina Graziella è una storia che fa riflettere, perché sembra che questa insipiente voltagabbana venga alla fine premiata» (A. Neiger, Tutte le donne dei «Viceré», in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 262). 128 «La cugina Graziella, con le chiavi delle credenze alla cintola, faceva da padrona di casa, per risparmiare la principessa […]» (I Viceré, p. 427). 36     dalla principessa vecchia quel matrimonio; e il padrone aveva obbedito alla madre, sposando donna Margherita Grazzeri; però, bisognava dire la verità, la cugina s’era diportata benissimo: maritata al cavaliere Carvano, era rimasta affezionatissima alla zia che non l’aveva voluta per nuora, e aveva trattato come una vera sorella la moglie dell’antico suo innamorato.129 Sono le parole di altri a fotografare per il lettore la storia di Graziella, del suo antico amore per Giacomo, dell’improvviso mutamento dei suoi sentimenti, della familiarità con la donna che aveva preso il posto che spettava a lei. Nell’intonazione di queste voci fuori campo si avverte una voluta intenzione di prendere le distanze da questa donna, in cui De Roberto ben riesce a rappresentare il potere dell’ambizione. Graziella ha un obiettivo: diventare una Uzeda130. Conosce la storia di sua madre, sa che le magre fortune a lei destinate dal padre sono le briciole della ricca mensa imbandita per la zia Teresa, che comprava con la dote il titolo di principessa Uzeda di Francalanza. L’indole di Graziella, i suoi successivi comportamenti sono volti a ribaltare la cattiva sorte di cui è ingiustamente stata vittima, dopo sua madre. Perciò impara a diventare amica dei nemici, dapprima dissimulando e poi calandosi così bene nella parte da dimenticare ella stessa le motivazioni iniziali. Per raggiungere il suo obiettivo impara l’arte dell’adulazione, che distribuisce a tutti in momenti ovviamente diversi, impara a dissimulare idee e convinzioni al punto da essere incapace di averne, in assenza di un pubblico verso il quale ostentarle per compiacere131: Era arrivata la cugina Graziella, la quale cicalava con la principessa, con Lucrezia e con donna Ferdinanda; meno con Matilde, per mostrar di partecipare ai sentimenti degli Uzeda verso l’intrusa. Aveva creduto di poter entrare anche lei in casa Francalanza, la cugina; di prendersi anzi il primo posto, come moglie del principe Giacomo, ma l’opposizione della zia Teresa aveva trionfato di lei e del giovane. Invece che principessa, s’era chiamata semplicemente la signora Carvano; ma quantunque il cugino, presa la moglie che la madre gli destinava, si fosse posto il cuore in pace e paresse perfino aver dimenticato che fra loro due c’erano state un tempo parole tenere, ella aveva continuato a fare l’amore, se non con lui, con la sua casa. C’era venuta assiduamente, aveva stretto amicizia con la principessa Margherita e indotto il marito a fare anche lui la corte agli Uzeda, e tenuto a battesimo Teresina e dimostrato in ogni modo e in tutte le occasioni che le antiche fallite speranze non potevano intiepidire in lei l’affezione verso tutti i cugini. Durante la malattia e dopo la morte di donna Teresa, specialmente, donna Graziella era quasi                                                                                                                           129 Ivi, p. 428. 130 Fanno pensare a Graziella le osservazioni di Spinazzola: «Così il determinismo positivista viene in apparenza conservato, ma in sostanza ribaltato, per far campeggiare l’assunzione di responsabilità che l’io è chiamato a compiere di fronte alla situazione in cui versa. La carta vincente nella lotta per la vita consiste nell’accettar di limitare, incanalare, condizionare il proprio desiderio di libertà vitale, allo scopo di rafforzare la tensione energetica verso gli obiettivi più proficuamente perseguibili» (V. SPINAZZOLA, Il romanzo antistorico, cit., p. 133). 131 « […] ma la cugina Graziella teneva da sola animata la conversazione, rivolgendosi a tutti ed a ciascuno, passando da una sala all’altra, chiacchierando d’abiti, di sarte, della Crimea, del Piemonte, della guerra, del colera» (I Viceré, p. 450). 37     diventata una persona della famiglia; tutti i giorni e tutte le sere a prender notizie, a prodigar conforti, a suggerir consigli, a rendersi utile con le parole e con le opere.132 È il ritratto perfetto della stupidità, del qualunquismo e del pressapochismo. In lei De Roberto concentra, con un «criticismo ironico»133, un elevato numero di difetti, senza, tuttavia, indicarne esplicitamente nessuno: i suoi comportamenti sono eloquenti. Ma gli Uzeda, sebbene l’autore voglia celebrarne la decadenza e la progressiva degenerazione morale, non sono stupidi; tutti mostrano di avere la cugina Graziella nella giusta considerazione e ne tollerano la presenza perché, sbagliando questa volta, la considerano in fondo innocua ed ovviamente inferiore ed estranea, quindi non coinvolta nelle intestine lotte di potere che minano inesorabilmente la famiglia. L’unica a credere nella bontà di Graziella, l’unica a non vedere in lei la connaturata abitudine al trasformismo utilitaristico è Margherita, la sua inconsapevole rivale. Alla principessa è di conforto la presenza di Graziella perché la cugina di fatto la sostituisce in ogni incombenza sociale e familiare, la aiuta a sedare la sua afefobia e la tranquillizza, negando, se necessario anche l’evidenza, come quando, dopo la lettura del testamento in cui Giacomo è stato “derubato” dal fratello Raimondo, ella la conforta, dicendole che nulla di terribile è poi avvenuto: E la cugina Graziella alla principessa: «Le male lingue volevano dire che la zia avrebbe diseredato tuo marito! Come se il bene che voleva a Raimondo potesse impedirle di riconoscere in Giacomo il capo della casa, l’erede del titolo!»134 Per poi, un attimo dopo, rivelare tutta la sua perfidia, nei riguardi di Matilde Palmi, la moglie di Raimondo: «Dev’essere contenta la Palmi!» diceva ora la cugina Graziella alla duchessa. «Suo marito coerede!... Il povero Giacomo costretto a dividere col fratello!... A me dispiace per quest’intrusa, che metterà ancora un altro poco di superbia…»135 Credo che, a prescindere da ogni altra considerazione, la cosa meno tollerabile nel comportamento di Graziella sia l’avversione per Matilde, che definisce «intrusa». A rigore l’intrusa, nei discorsi testamentari, nella stessa assidua presenza in casa Uzeda, è proprio Graziella, la signora Carvano. Matilde è la moglie legittima di Raimondo ed è, dunque, la contessa di Lumera. Poiché per gli Uzeda Matilde è un’«intrusa», lo è anche per Graziella, cui sta a cuore solo compiacere chi                                                                                                                           132 Ivi, p. 546. 133 Scrive Spinazzola: «In tutti questi casi il criticismo ironico si attesta sulla reiterazione modulare degli effetti di divertimento insiti nella spudoratezza tetragona con cui questi personaggi vuivono un ruolo fisso, mai infirmato dai turbamenti della coscienza. In ognuno di loro c’è un divario abissale tra essere e dover essere; ma De Roberto non lo drammatizza, anzi ne alleggerisce la portata, come se non avesse nulla di straordinario. Siamo in un clima da commedia,dove le figure più spavalde o più infinte fanno ridere piuttosto che indignare» (V. SPINAZZOLA, Il romanzo antistorico, cit., p. 106). 134 I Viceré, p. 469. 135 Ivi, p. 471. 40     personaggi143. La teatralità della scena magistralmente interpretata dalla cugina Graziella, cui, per volontà dell’autore, il lettore non crede affatto144, ben si intona alla fastidiosa rumorosità del personaggio. Il lutto è vissuto in pubblico, in maniera così ostentatamente dolorosa da render chiaro al lettore che il dolore esiste solo fino a quando c’è qualcuno che possa diffondere la notizia della sua intensità. Ed infatti, il pubblico di Graziella è la famiglia Uzeda, che ella considera la sua famiglia. Proprio la famiglia l’aiuterà ad uscire dal terribile lutto; infatti, la sua prima visita sarà in casa del cugino Giacomo, dove riceverà i conforti di tutti e soprattutto di Teresina, di cui è madrina, ma vorrebbe esser madre. La morte del povero cavalier Carvano offre alla vedova la possibilità che stava aspettando di “riconquistare” il cugino Giacomo. A svelare le sue bieche ambizioni sono le distaccate, ma pungenti affermazioni della voce narrante, che dapprima si limita ad una costatazione: La cugina a poco per volta quasi domiciliava a palazzo, dava ordini alle persone di servizio quasi le pagasse lei, esprimeva su tutti gli affari della casa la propria opinione, della quale il principe teneva più conto che non di quella della moglie […]145 Poi il tono si fa più allusivo: La cugina, affezionatissima, veniva giorno, sera e notte a tenere compagnia e a dare una mano ala principessa, che le era gratissima di tante attenzioni […]146 Ed ancora, dopo qualche pagina: Donna Graziella, in verità, più che da ospite, si diportava da padrona: bisognava vederla la sera, quando veniva gente, come faceva gli onori di casa, specialmente se la principessa sentivasi indisposta.147 Solo pochi mesi dopo la morte del marito, la cugina è di fatto la padrona in casa Uzeda ed è, come è chiaro a tutti, l’amante di Giacomo, che, abbandonato il voi, le dà ora del tu e trascorre con lei moltissimo tempo anche in presenza della piccola Teresa, ormai dodicenne, che, per mettere a tacere i mormorii della famiglia disgustata dalla tresca tra il principe e la cugina, viene mandata in collegio a Firenze, contro la volontà della madre, vittima ora non solo di Giacomo, ma anche di Graziella. Il colera aiuterà l’antipatica cugina a portare a compimento il suo piano, consumando Margherita; il matrimonio tra i cugini sarà celebrato solo tre mesi dopo la cessazione dell’epidemia. Consalvo non vorrà esserci e Teresina ne sarà informata con una lettera, così come da una lettera                                                                                                                           143 Cfr.: «E qui emerge la fictional irony del romanzo. Cioè il distacco non visibile ma ben operante fra la materia della narrazione e il metodo narrativo, così come è esclusa ogni possibile identificazione fra autore e personaggi» ((C.A. Madrignani, Introduzione a F. De Roberto, Romanzi, Novelle e Saggi, cit., p. XXXIV). 144 Cfr.: «Il flusso degli avvenimenti è rigorosamente trascritto sulla scia di un’inventiva cattiva, risentita e sgradevole, cosicché il lettore è costretto a collaborare all’operazione critica interna al romanzo ed il potenziale di negatività e di demitizzazione risulta tanto più decisivo quanto più rimane implicitamente operante» (Ivi, p. XXXV). 145 I Viceré, p. 802. 146 Ivi, p. 809. 147 Ivi, p. 818. 41     della madrina aveva appreso della morte della mamma. Ovviamente tutti approveranno questo matrimonio, celebrato senza sfarzo e senza festeggiamenti, perché tutti consideravano già da mesi Graziella la nuova principessa Uzeda, l’avevano vista far da madre, contro la loro volontà il più delle volte, ai figli di Giacomo, l’avevano vista dare ordini in casa, metter bocca in tutte le faccende di famiglia, come la povera Margherita non aveva mai fatto. In realtà Graziella è la degna compagna di Giacomo. Entrambi sono avidi, falsi, egoisti e manipolatori; ad entrambi la penna di De Roberto dona solo caratteristiche negative e talvolta, dal punto di vista stilistico, è nei loro riguardi che possiamo vedere magistralmente esercitata la “cattiveria” dell’autore. Anche quando, celebrato il matrimonio, la “cattiveria” nei riguardi di Graziella potrebbe scemare, l’autore continua a renderla protagonista di episodi che la rendono ulteriormente invisa al lettore. Si consideri, ad esempio, l’insopportabile lettera indirizzata, dopo il trionfo, a Teresina: “Mia cara figlia, da quel che t’ha detto tuo padre, tu comprendi che da ora innanzi ho più diritto di chiamarti con questo nome che il mio cuore t’ha sempre dato. La mia più grande ambizione è quella di renderti meno sensibile la mancanza della nostra santa, non di fartela dimenticare, che sarà sempre impossibile non solo a te ma a noi tutti. Stringendo ancora più i vincoli che già ci uniscono, io ti starò sempre a fianco per vegliare su te e tuo fratello, come quella benedetta raccomandò al letto di morte. Sono impaziente di stringerti al mio cuore: se i tuoi studii non ti permetteranno di tornare a casa per ora, verremo noi a trovarti al più presto..”148 Non solo subdolamente si è insinuata nella vita della famiglia da cui, per volere della vecchia principessa Teresa, era stata allontanata, ma Graziella ha ingannato, tramato, spettegolato, offeso, usato per raggiungere i suoi scopi. L’obiettivo, anche questa volta, non è stato perseguito per amore, perché né Giacomo, né la cugina sono capaci di provare questo sentimento, ma per obbedire a quella ossessione di potere, monomania di tutti gli Uzeda, che fa di lei un membro a tutti gli effetti della folle razza dei Viceré. Persino le parole affettuose usate da sempre nei riguardi di Teresina sono da sempre funzionali all’obiettivo finale: conquistare la piccola e ostentare il suo smodato affetto per lei la aiuterà, dopo aver sposato Giacomo, a consolidare più velocemente e saldamente la sua posizione. Dopo aver ottenuto, in seguito all’edulcorata e melliflua lettera, il consenso di Teresina, si dedicherà a godere i frutti del suo lavoro. Rinuncerà, poiché è intelligente, all’approvazione impossibile di Consalvo, che vede in lei l’assassina morale della madre, e comincerà a comportarsi da principessa. Guiderà Giacomo, sempre più preda di manie e fobie, nelle più importanti decisioni, ma conserverà, in pubblico, l’atteggiamento remissivo di chi sa che occupa un posto non suo, e questo toglierà la parola ai suoi ferventi denigratori. Sempre recitando una parte, sarà la madre premurosa ed ansiosa di Teresina:                                                                                                                           148 Ivi, p. 838. 42     La lodava specialmente per la dolcezza del carattere e la bontà del cuore; la baciava e l’abbracciava dinanzi a tutti, anche in conversazione; vegliava su lei come una vera mamma. Era gelosa e scrupolosissima; non permetteva che oltre i libri di religione la figliastra leggesse cose capaci di guastarle la testa; né che, dinanzi alla ragazza, tenessero certi discorsi, per paura che le stesse parole le contaminassero il pensiero.149 Si ha quasi l’impressione che, nel recitare la parte della moglie e madre dimessa ed amorevole, Graziella sia cambiata. Ma il lettore ha appena il tempo di lasciarsi attraversare la mente da questa idea, che la cugina dimostra ancora una volta la sua insincerità e la sua incapacità di amare. Un unico gesto potrebbe riscattarla e fare di lei un personaggio positivo. Dopo la confessione di Teresina che rivela alla nuova mamma la natura dei suoi sentimenti per Giovannino Radalì, De Roberto le offre la possibilità di riscatto. Se fosse capace di amare, se fosse la madre che millanta di essere, Graziella saprebbe persuadere Giacomo a non rovinare il destino di Teresa. Ma i piani di questa donna cattiva sono diversi. Il suo egoismo è un habitus permanente, non conosce deroghe. Userà, per convincere Teresa a sposare il cugino a lei destinato, le solite armi subdole e meschine. Toglierà a Teresa ciò di cui ha bisogno per vivere, che costituisce poi la monomania del personaggio: amore e lodi. Vincerà anche questa sfida, consolidando, però, inesorabilmente la negatività assoluta del suo personaggio. 7. Matilde Palmi Matilde Palmi è la protagonista di un romanzo dentro il romanzo150. La storia infelice di questo personaggio attraversa, infatti, sin dalle prime battute, I Viceré, per occupare una cospicua e centrale parte dell’opera, in modo sostanzialmente monografico. È ovvio, perciò, che anche il lettore meno accorto debba desumere che a questo personaggio De Roberto sia particolarmente legato151. Insieme a sua figlia Teresa, protagonista dell’Illusione, ma personaggio inconsistente ne I Viceré, a Teresina Uzeda ed Isabella Fersa, Matilde rappresenta un’idea del femminile che sembra,                                                                                                                           149 Ivi, p. 909. 150 Cfr.: «Si tratta quasi di un romanzo nel romanzo; a stabilire la continuità, tra un capitolo e l’altro vengono instaurate delle juncturae appariscenti, con una tecnica di ripresa quasi per anadiplosi» (V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, cit., p. 135). 151 Nella sua Introduzione a I Viceré Sergio Campailla osserva: «È legittimo, peraltro, porsi la domanda: che cosa si salva dal naufragio? La fascinazione esercitata dai Viceré su De Roberto è di tipo maligno, il regista o il burattinaio conosce troppo bene i vizi dei suoi personaggi, e buona parte dello spettacolo consiste nello sconfessarli. Sull’altro versante, il popolo nella sua rappresentazione non è più che massa di manovra, il luogo privilegiato del processo verbale. De Roberto sta al di fuori o al di sopra della sua materia, ma se provvisoriamente vi si cala dentro, si schiera con l’elegiaca Matilde, la sposa del conte Raimondo, l’intrusa della famiglia e la vittima» (S. Campailla, Introduzione a F. De Roberto, I Viceré, Roma, Grandi tascabili economici Newton Compton editori, 2010, p. 11).   45     Pesavano sulla contessa Matilde gli sguardi irosi o severi di don Blasco, della cugina, del principe. Tutte le volte che Baldassarre s’era diretto a lei per servirla, qualcuno aveva fatto cenno al maestro di casa di servire un’ altra o un altro. E adesso rimaneva lei soltanto; ma donna Ferdinanda, fatto venire il principino Consalvo, se lo mise a sedere sulle ginocchia e chiamò: «Qui, Baldassarre…»159 Altrettanto pervicace è la determinazione che gli Uzeda mostrano nell’odiarla e, soprattutto, nel palesarle disprezzo ed intolleranza160. Matilde ha un’unica ineludibile colpa: non è una Uzeda. Oltre agli appellativi dispregiativi comunemente usati per definirla, derivanti dalle storpiature cui donna Ferdinanda sottopone il suo cognome -la Palmo o la Palma per lo più-, a lei è riferito comunemente da tutti l’appellativo di “intrusa”161, ma l’odio nei suoi riguardi non trova un corrispettivo nei sentimenti provati dagli Uzeda nei confronti di altri membri acquisiti o accoliti della famiglia162. Viene da pensare, tout court, alla insopportabile cugina Graziella, più intrusa e certamente più impicciona di Matilde, tollerata, però, da tutti e persino premiata con il titolo di principessa alla fine del romanzo163. Le ragioni di questa inveterata opposizione al personaggio non sono, perciò, unicamente da ricercare nelle origini poco nobili di Matilde164, che sono, invece, la subdola ragione per cui le nozze sono combinate dalla principessa Teresa e rappresentano una                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     fisica di Matilde è il segnale, nonché di una sofferenza amorosa, del contagio avvenuto tra “l’istinto del potere” e “l’istinto del piacere” che accomuna, sotto il segno della “monomania”, “carnefici e vittime, colpevoli e innocenti” […] le degenerazioni del suo soma […] la apparenta tanto più alla nobile famiglia ed alle sue brutture, quanto più questa è sul punto di vincerla» (M. Muscariello, Un’’Intrusa’ nei «Viceré»: il romanzo di Matilde, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., pp.323-324). 159 I Viceré, p. 471. 160 Si legga Spinazzola: «In effetti la famiglia Uzeda appare rappresentata come un microcosmo compatto, molto diffidente nei confronti degli estranei che pure lo penetrano per via matrimoniale. I suoi membri vi trovano protezione e ne attingono alimento energetico; ma la sua stessa indole di entità chiusa, per non dire concentrazionaria, fa sì che al suo iunterno tutte le tensioni interpersonali si arroventino» (V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, cit., p. 118). 161 Il motivo dell’intrusione è ovviamente connesso, come è stato da molti notato, a quello dell’esclusione, uno dei leit- motiv della letteratura siciliana tra Otto e Novecento. Anche la Duchessa di Leyra, nei cartoni preparatori allestiti da Verga per il Ciclo, era definita così: «Essa è come un’intrusa nella società palermitana, ove pure ha le sue relazioni e parentele» (G. Verga, La duchessa di Leyra, in Appendice III a Id., Tutti i romanzi, III, a cura di E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1983, p. 725). Il pensiero va anche alla Giacinta di Capuana ed all’Esclusa di Pirandello, le cui protagoniste hanno, però, in comune con Matilde Palmi, il solo motivo dell’esclusione dall’ambiente in cui si trovano a vivere. Sull’argomento si vedano almeno: P.M. Sipala, Da «Giacinta» a «L’Esclusa», in Id., Capuana e Pirandello, Catania, Bonanno, 1974, pp. 17-28; M. Muscariello, Un’’Intrusa’ nei «Viceré»: il romanzo di Matilde, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., pp. 310-311. 162 Cfr.: «Non era bastato farsi da parte, non esprimer mai volontà, né desiderii, né opinioni: l’odio aveva trovato sempre ragioni di sfogarsi» (I Viceré, p. 539). 163 Persino la cugina Graziella, intrusa lei stessa, considera Matilde un’intrusa, una sorta di usurpatrice: «”Dev’esser contenta la Palmi!” diceva ora la cugina Graziella alla duchessa. “Suo marito coerede!... Il povero Giacomo costretto a dividere col fratello!... A me dispiace per quest’intrusa, che metterà ancora un altro poco di superbia…”» (Ivi, p. 471). 164 Scrive Mariella Muscariello: «Ma non è solo, però, la sua mappa cromosomica a condannarla ad un destino di esclusa. La sua silhouette prelevata dall’imagerie romantica, contiene, in forza dell’emotività e della disponibilità sentimentale implicite al modello di afferenza, un potenziale eversivo troppo pericoloso per un sistema familiare, come quello degli Uzeda, regolato sull’arida razionalità delle pulsioni egocentriche. Di qui la necessità di renderla inoffensiva fino a disfarsene» (M. Muscariello, Un’’Intrusa’ nei «Viceré»: il romanzo di Matilde, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 319). 46     macchia indelebile per la sola donna Ferdinanda165. Se l’autore attribuisce alla stessa Matilde dei dubbi sulle motivazioni reali di questa opposizione, sta in fondo suggerendo, con quell’ironico, talvolta, cinico distacco che ne contraddistingue la scrittura, al suo lettore di guardare oltre166. Ed il lettore guarderà oltre proprio inseguendo i pensieri di Matilde, che si distendono tra le righe sulle ali di un indiretto libero167, di cui l’amico e Maestro Verga gli ha insegnato l’efficacia: Non le facevano festa, in quella casa. Il principe, donna Ferdinanda, don Blasco, un po’ anche la cugina Graziella, dovevano trovare in lei colpe imperdonabili, se la punzecchiavano assiduamente, se la trattavano senza riguardi; ma ella perdonava le mancanze di riguardo e gli sgarbi fatti a lei; non soffriva quelli che toccavano a suo marito. Forse era questa la sua grande colpa: l’amore che portava a Raimondo!... 168 All’ingenua contessa, la cui vicenda è singolarmente narrata secondo il punto di vista dello stesso personaggio169, il motivo dell’odio dei Viceré appare l’amore che ella nutre nei confronti del marito. Ed, in realtà, questo amore la rende sostanzialmente diversa da tutti gli altri personaggi, nella cui vita non c’è amore, inteso come il sentimento disinteressato ed illimitato nei riguardi di un altro essere umano170. Gli Uzeda di vecchia generazione non conoscono questo amore: la principessa Teresa non ama neanche i suoi figli; don Blasco e don Ludovico, che, in quanto religiosi, dovrebbero praticare questo sentimento, per motivi differenti, amano solo se stessi; donna Ferdinanda non conosce che l’amore per il denaro e per la razza; don Eugenio ed il duca d’Oragua                                                                                                                           165 Cfr.: «Una Palmi di Milazzo, la figliuola d’un barone «da dieci scudi» del quale il Mugnòs non faceva e non poteva fare la più lontana menzione! […] La principessa, a cui la nobiltà stava a cuore, se non quanto a donna Ferdinanda, certo moltissimo, aveva giudicato invece sufficienti e fors’anche soverchi quei centocinquant’anni dei Palmi, giusto perché, volendo che la moglie del suo Raimondo fosse sottomessa dinanzi al beniamino come una schiava dinanzi al padrone, e che egli potesse trattarla d’alto in basso e farne quel che gli piaceva, aveva perfino pensato un momento di sceglier per lui l’umile figliuola di qualche ricco fattore…» (I Viceré, p. 514). 166 Nel suo contributo, Tra «L’Illusione» e «I Viceré»: Teresa e Matilde, Alida D’Aquino suggerisce che con Matilde non si eserciti la penna dissacrante ed ironica di De Roberto. Secondo la sua lettura del personaggio, insomma, Matilde sarebbe immune dalla condanna radicale che l’autore fa abbattere su tutta l’umanità del suo romanzo, perché in lei, in un certo senso, De Roberto si identificherebbe. Pur condividendo lo spirito sostanziale di questo contributo, non credo all’identificazione dell’autore con il suo personaggio, poiché Matilde è solo apparentemente vittima degna di pietas e comprensione; in realtà la sua colpevolezza ne determinerà il destino di morte. (Cfr. A. D’Aquino, Tra «L’Illusione» e «I Viceré»: Teresa e Matilde, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., pp. 267- 293). 167 Spinazzola scrive opportunamente: «Il discorso indiretto libero diviene lo strumento deputato perché ogni dramatis persona si qualifichi come una componente interna alla coralità protagonista che conduce il racconto in forma non dialogica ma monologante. Il verbo in cui l’essere collettivo si incarna assume un carattere di sovranità conchiusa in se stessa: nessuna possibilità di eloquio può entrarne a far parte, se non accetta di plasmarsi nei termini della sua univocità metaindividuale» (V. Spinazzola, Verismo e positivismo artistico, Firenze, Olschki, 1970, p. 271). 168 I Viceré, pp. 530-531. 169 Cfr.: «La controprova dello scacco di De Roberto appena fuori dalla poetica del punto di vista oggettivo, può essere data, negli stessi Viceré, dall’intrusione nel romanzo di una vicenda che deriva da un codice narrativo diverso, quello psicologico soggettivistico, che riguarda il personaggio di Matilde, che è visto dall’interno (pensieri e sentimenti) ed è narrato secondo il suo stesso punto di vista» (G. Giudice, Introduzione a F. De Roberto, I Viceré e altre opere, a cura di G. Giudice, Torino, UTET, 1982, p. 13). 170 Cfr.: «Così ella s’era vista bersaglio di quei parenti ai quali era venuta con animo confidente e cuore affezionato; e lo scoprire che il loro astio era tanto acre contro di lei quanto contro Raimondo, invece di attenuare aveva inacerbito la sua pena; poiché perduta d’amore pel marito, ella soffriva e gioiva in lui e per lui…» (I Viceré, p. 532). 47     sono così grami da non accorgersi neppure della presenza dell’amore nella gamma delle manifestazioni umane. Gli Uzeda dell’ultima generazione sono loro degni eredi: Giacomo e Raimondo, proprio come la loro madre, non amano neanche i figli; Lucrezia, pur essendosi sposata, sembra seguire le stesse orme della zia Ferdinanda; l’amore di Chiara per Federico, per il suo aborto e per il figlio bastardo è solo una perversione ossessiva; Ferdinando prova sentimenti di fratellanza nei confronti della sola Lucrezia, tonta come lui; i più giovani Consalvo e Teresa rappresentano, in modi diversi, un’ulteriore degenerazione della razza. L’amore di Matilde per Raimondo è, a ben vedere, una delle manifestazioni più naturali del romanzo, come naturali a De Roberto dovevano apparirne gli esiti disastrosi, perché l’amore, quello cantato dai poeti, è destinato al disastro171. In lei si incarna perfettamente la tipologia femminile della signorina di buona famiglia dell’Italia post-unitaria, educata alle arti femminili finalizzate alla celebrazione di un buon matrimonio. La letteratura italiana ed europea coeve ed immediatamente successive, -pensiamo alle donne sognanti dei nostri crepuscolari172-, pullula di figure come Matilde, aristocratiche o alto-borghesi, intente a sognare il principe azzurro mentre leggono le avventure di Tancredi o di Orlando: Lo amava fin da quando lo aveva visto, da prima ancora; fin da quando, fidanzata per lettera a quel conte di Lumera del quale suo padre, superbo d’imparentarsi coi Viceré, le faceva lodi senza fine, ella aveva lavorato con la fantasia a rappresentarselo bello, nobile, generoso, cavalleresco come un eroe del Tasso o dell’Ariosto. E la realtà aveva superato le sue stesse immaginazioni; tanto era fine, lo sposo suo, e leggiadro, ed elegante, e splendido; ed ella che non aveva conosciuto da vicino altri uomini, che s’era nutrita unicamente di sogni, di poesia, di fantasia alta e pura, gli aveva dato tutta l’anima, per sempre; lo aveva amato ancora nei suoi cari e idolatrato nella figlia natale da lui.173 Ne I Viceré la sola Teresina avrà sogni e turbamenti simili a quelli di Matilde, ma l’epilogo sarà sostanzialmente diverso174. Infatti, la ragione dell’odio degli Uzeda nei suoi confronti, non è, come il personaggio vorrebbe credere e far credere al lettore, nell’intensità o meglio nell’infinità                                                                                                                           171 In Una pagina sulla Storia dell’Amore (Milano, Treves, 1900), De Roberto scriveva:«Accettare l’amore come è naturalmente e dargli quell’importanza che realmente ha, dovrebbe esser consiglio della saggezza; lavorare a farlo credere cosa straordinaria e tutta sublime, è il più sicuro mezzo di farne una cosa sciaguratissima. I poeti, gli artisti, se hanno realmente maggiori capacità mentali ed intellettuali degli uomini medii, pagano la loro superiorità snaturando e avvelenando il sentimento con l’esorbitanza delle loro aspettazioni e con la sottigliezza della loro analisi» (F. De Roberto, Una pagina sulla storia dell’amore, in Id., Romanzi, Novelle e Saggi, a cura di C.A. Madrignani, cit., p. 1665).   172 Penso, ad esempio, alle giovanissime Carlotta e Speranza di Guido Gozzano, che più o meno un decennio dopo la pubblicazione de I Viceré incarneranno una tipologia femminile molto affine a quella di Matilde Palmi. Mi sia consentito di rinviare per l’analisi di questo tipo femminile a D. De Liso, Donne in versi. Di Giacomo, Gozzano, Ungaretti, Quasimodo, Pavese, Napoli, Loffredo, 2008, pp. 43-70. 173 I Viceré, p. 531. 174 Cfr.: «Più ancora che nell’Illusione, nei Viceré le vite di alcuni protagonisti si modellano e si modificano a contatto con l’immaginario libresco. Matilde, come la figlia Teresa facile preda delle fantasticherie romantiche, immagina il futuro sposo come un cavaliere uscito dalle pagine dell’Ariosto o del Tasso. Quanto poi si incaricherà di deluderla la vita abbiamo appreso, ma la sua autocondanna è già in questo abbandono preliminare alla vacuità di un sogno “letterario”» (A. Cavalli Pasini, De Roberto, cit., p. 65). 50     nessuno al mondo poteva consolarla, ella doveva perfino nascondere le proprie torture al padre, scrivergli che era contenta e felice, perché egli non venisse a chieder conto a Raimondo di quella condotta, perché tra quei due uomini non scoppiasse la guerra!183 In questo stralcio dei pensieri di Matilde è possibile rintracciare le ragioni che ne fanno un personaggio negativo. Anzitutto il suo amore per Raimondo è una sorta di malattia; Matilde fa parte della schiera di eroine malate alla inconsapevole eppure sistematica ricerca della morte. In lei il rifiuto di corresponsione dell’amore da parte del marito è motivo di dolore fisico, è una monomania184. Matilde è cieca per quasi tutto il romanzo, vive con gli occhi volontariamente chiusi, ma lo sguardo dell’anima è esclusivamente concentrato intorno ad un fulcro imprescindibile, Raimondo. Di lui le basta uno sguardo, una parola non scortese o annoiata185; non ha altro desiderio che vederlo accanto a sé. Anche il suo amore di madre è posto, innaturalmente, in secondo piano, quando arriva quasi a giustificare il disamore paterno verso la piccola Teresa: Che non amasse la figlia, che fosse ingiusto verso il suocero e prepotente, capriccioso, sgraziato, non le faceva nulla: ella non voleva che fosse d’altri! A Firenze, la gelosia di lei non aveva avuto oggetto determinato, o aveva continuamente mutato d’oggetto, poiché egli faceva la corte a quante donne vedeva; ella stessa poi s’era fino ad un certo punto assicurata, giacché, galante a parole con le signore, la mutabilità e l’impazienza dei suoi desideri gli facevano preferire quell’altre, le donne che si pagano… Che vergognoso dolore era stato il suo, nel vedersi ridotta al punto di doversene rallegrare!186 È ancora una volta messo in discussione, nell’universo femminile derobertiano, il ruolo quasi precipuo della donna nella società del tempo, quello di madre. Pur di restare accanto al marito, Matilde accetta anche di rinunciare a questo ruolo. Dopo la morte della principessa, cioè nel tempo raccontato dal romanzo, l’apolide Raimondo è sempre più attratto da Catania, la città non della sua famiglia, ma di Isabella Fersa, che egli vuole a tutti i costi far sua; quindi impone alla moglie soggiorni sempre più lunghi e frequenti in casa Uzeda. Allo scoppio di una epidemia di colera, che minaccia di estendersi in tutta la Sicilia, dopo aver timidamente tentato di convincere il marito a tornare a Milazzo, dove la piccola Teresa è affidata alle cure del nonno e della zia, Matilde si rassegna pacificamente alla lontananza dalla figlia, pur essendo ben cosciente del pericolo mortale                                                                                                                           183 I Viceré, p. 539. 184 Cfr.:«Prigioniero della sua solitudine narcisista, l’individuo è condannato a vedere ribaltarsi crucciosamente i suoi sogni di sopraffazione universale in incubi funerari: […] per non parlare della vera voluttà di struggimento suicida di Matilde. D’altronde, appunto il caso della moglie di Raimondo, torturata dalla gelosia, testimonia come in questo mondo sorretto solo dal principio dell’affermazione di sé, anche le idealità affettive più gentili si distorcano: un sentimento amoroso romanticissimo si realizza come desiderio di imporre il proprio amore a chi non ne vuol sapere. L’umanità altrui viene sempre assunta come mezzo, mai come fine rispetto al rafforzamento della prorpria personalità» (V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, cit., p. 58). 185 Cfr.: «Era così fatta che una parola, un nulla la turbavano e la rassicuravano: e chiedeva tanto poco per esser felice! Se egli fosse stato sempre così, se avesse dedicato una parte del suo tempo alla famiglia, se avesse prodigato alla sua bambina le carezze che quella sera faceva al principino!» (I Viceré, p. 547). 186 Ivi, p. 566. 51     connesso al colera. Seguirà gli Uzeda, che la odiano, al Belvedere, dove, nonostante l’assenza della Fersa, che lei, però, ancora ignora, Raimondo trascorre le sue giornate lontano da casa, lasciandola insieme ai nemici. Le lunghe, interminabili giornate al Belvedere sono interamente riempite da Matilde con i pensieri di una penosa ed incurabile gelosia che Raimondo non tenta affatto di placare, anzi ne è irritato, poiché si sente limitato nella propria libertà. Il contino non è sfiorato dal pensiero di dovere rispetto alla moglie e la sua gelosia non lo lusinga come accade di solito quando si ama, ma lo irrita, perché disturba la frivolezza di una vita che egli continua a condurre come se fosse celibe187. Di fronte alla quasi certezza dell’ennesimo tradimento, Matilde si sente smarrita. All’improvviso ricorda di essere madre di Teresa e di avere in grembo un’altra bambina: Improvvisamente, ella ebbe la conferma dei proprii sospetti: rispondeva così quand’era colto in fallo, replicava con le violenze alla ragione; troncava la discussione coi gridi… Appoggiata la fronte a un vetro sul quale la nuova pioggia fine fine tirava umide righe, ella si mise a piangere silenziosamente. Il bene che gli voleva, l’obbedienza che gli prestava, la devozione sommessa di cui gli dava prova ogni giorno non bastavano, dunque: tutto era inutile! Egli la sfuggiva, la tradiva, per chi?... E l’aveva costretta ad abbandonare la sua bambina, e l’aveva esposta ai rimproveri di suo padre, per questo! Per questo!... Un dolore sopra l’altro, sempre, sempre, anche adesso che ella avrebbe dovuto esser sacra per lui, giacché i dolori che le procurava potevano uccidere la creatura che stava per nascere!...188 La maternità è, per Matilde, una sorta di arma. Nelle pagine dei Viceré che raccontano la sua storia, riproducendone, nella maggior parte dei casi, i pensieri, si ha l’impressione che i suoi sentimenti verso le figlie siano sempre, in qualche modo, mediati da quelli nei riguardi di Raimondo189. Teresa e la piccola Lauretta sono, dal suo punto di vista, la garanzia del suo matrimonio con il conte; per quanto egli non sia prodigo di attenzioni e d’amore per le figlie, Matilde spera che i legami “di sangue” possano far astenere suo marito da tradimenti e maltrattamenti. La più grande delusione ed il senso di totale smarrimento arrivano in lei, infatti, quando, nonostante sia incinta, Raimondo la tradisce e la trascura. Ma proprio perché le sue figlie rappresentano il legame in fondo più saldo che possa avere con il loro padre, ella soffre                                                                                                                           187 De Roberto descrive, in realtà, in Raimondo l’uomo sui generis: «È vero, sì, che nella coppia tipica l’uomo ardente, forte, operoso, e la donna fredda, debole, pigra, male riescono a intendersi; ma appunto perché intendersi è necessario a conseguire i fini della natura, noi vediamo ciascuno dei due individui diversi tentar di adattare la propria indole a quella dell’altro; oppure, riuscendo ciò troppo difficile, accettar l’altro così com’è. Allora l’uomo non si sdegna tanto della ottusità, della freddezza, dell’inerzia femminile, quanto la compatisce; ed ammira anche la calma, la rassegnazione, la grazia, le virtù che accompagnano o per meglio dire che sono come il rovescio ed il compenso di quei difetti; allora la donna non si offende della supremazia maschile, ma si abbandona, si affida al forte amante, le cui energie nopn sono tanto spese ad opprimerla quanto a proteggerla. Questo è l’amore […]» (F. De Roberto, Una pagina sulla storia dell’amore, in Id., Romanzi, Novelle e Saggi, a cura di C.A. Madrignani, cit., p. 1669). 188 I Viceré, pp. 584-585. 189 Cfr.: «Il suo bel sogno d’amore e di felicità s’era a poco a poco, di giorno in giorno, dileguato; adesso, rassegnata alle tristezze della realtà, ella non chiedeva che la quiete. Purché Raimondo volesse bene alle sue creature, purché non le abbandonasse un’altra volta, ella era disposta a sopportare ogni cosa…» (Ivi, p. 725). 52     profondamente per il disamore, per il risentimento di cui anche le bimbe sono oggetto in casa Uzeda: Non era parso vero a Matilde di vedere Raimondo premuroso per le figlie, ed ella aveva quasi benedetto le sue sofferenze, se per esse godeva di quella tregua; ma appena arrivata in casa degli Uzeda, ella aveva visto ricadere la figliuolina e Raimondo trascurarla, lasciarla sola in mezzo a quei «parenti» che la guardavano come prima di traverso e, cosa più dura al suo cuore di madre, la ferivano nelle sue bambine. Della più piccola deridevano le sofferenze e predicevano la morte; ma le maggiori ostilità erano contro Teresina.190 Gli Uzeda maltrattano le bambine di Matilde perché sono figlie sue, a nessuno viene in mente che sono anche figlie di Raimondo, di un Uzeda. Ovviamente questo accade perché si tratta di due femmine. Non solo Matilde è un’intrusa, ma non è stata neanche in grado di generare figli maschi. Delle sue piccole, Teresa è il ritratto della madre a giudicare dalle opinioni espresse dai parenti di Raimondo, e, per questo, degna di ogni biasimo; la seconda, Lauretta, è così debole da far pensare ad un frutto destinato a non diventare maturo. Eppure nelle numerose pagine del romanzo a lei dedicate, raramente Matilde è presentata come madre. Non è mai con le sue figlie. Teresa e Lauretta sono sempre altrove, anche quando sono in casa Uzeda non sono affidate alla madre. Le scene di tenerezza che ci presentano la fobica principessa Margherita circondata dai suoi figli, in quadretti rassicuranti di amore materno e filiale non hanno un corrispettivo in Matilde e le sue figlie. Nonostante la dolcezza remissiva di questo personaggio renda più prevedibili scene d’affetto e di intimità familiare. In realtà Margherita è madre e moglie, Matilde è moglie e madre. La sua mania investe Raimondo, non le figlie, che ella cresce non con l’ansia di Margherita, ma con un’ampia disponibilità a demandare ad altri le incombenze materne, come se non avesse mai smesso di essere figlia lei stessa e non si sentisse, dunque, capace d’esser madre191. Quando il sospetto della relazione adulterina con la Fersa comincia a diventare più acuto, attraverso il solito indiretto libero192, che ha il compito di contenere il dilagante stream of consciousness del personaggio, il pensiero delle figlie, indifferenti al marito, attraversa solo fugacemente la sua mente, per essere                                                                                                                           190 Ivi, p. 612. 191 Quando la cugina Graziella le rivelerà la relazione tra Raimondo e Isabella, Matilde ammetterà candidamente di non esser più madre: «”Io!.. Io!..” balbettava Matilde, con le labbra amaramente contorte dall’ambascia. “Io che piango da due anni… Io che non ho più figlie…Io che l’ho pregato come si prega Gesù!...”» (Ivi, p. 638). 192 Su questa tecnica narrativa, ampiamente impiegata per raccontare Matilde si legga:«Pure l’uso imperante dell’indiretto libero e talora del monologo interiore, esteso anche ai personaggi secondari, contribuisce a isolare ciascuno nella propria interpretazione del mondo, mentre la propagazione corale del discorso vissuto ribadisce il senso di immeschinimento cui soggiace ogni evento storico, filtrato da un’ottica capace di convertire il particolare in universale, atta solo a cogliere il versante inglorioso della vita, l’aura di disagio che la circonda, la sua degenerazione» (A. Cavalli Pasini, De Roberto, cit., p. 55). 55     maggiori di quelle degli Uzeda, la cui negatività è intrinseca nell’ineludibile degenerazione della loro razza. Matilde può salvarsi e salvare le sue figlie ed è colpevole perché non lo fa. Pur essendo dotata di caratteristiche positive, sceglie di annullarsi, appropriandosi delle medesime strutture mentali deviate degli Uzeda, imitando maldestramente la loro caparbia e folle determinazione nel rivendicare la supremazia di un ego ben consapevole che nel mondo homo homini lupus. Il suo personaggio è stato anche avvicinato a quello di Giovannino Radalì, il figlio del pazzo, poi “pazzo” anche lui per amore di Teresa Uzeda. Ma Matilde non ha la purezza di Giovannino. De Roberto rende esplicita la distanza tra i due personaggi proprio attraverso il racconto della loro morte. Quella di Giovannino, avvenuta per suicidio, sarà, in un certo senso, eroica; avrà, infatti, su chi resta, il peso intollerabile della morte dei giusti; alla morte di Matilde, invece, l’autore, che pure l’ha resa protagonista di un romanzo nel romanzo, non dedicherà che le poche righe, quasi casuali, di un racconto indiretto, affidato alla sprezzante e partigiana lingua di Pasqualino Riso, un servo, proprio come lei: Che c’entrava la malattia della signora donna Matilde col silenzio del barone? Forse che a sentire sciolto il matrimonio, la signora Matilde sarebbe guarita dalla contentezza? Era morta, invece –salut’a noi!- qualche mese dopo il matrimonio del conte e di donna Isabella!202 8. Isabella Fersa Quando sulla scena de I Viceré fa il suo ingresso Isabella Fersa, da quel «Tutti s’alzarono», con cui il narratore la introduce nel salone degli Uzeda, seguita dal marito e non al seguito del marito, al lettore è subito chiaro che Isabella non sarà, per quanto estranea alla famiglia, un personaggio secondario nella vicenda. Accompagnata da un religioso, Padre Gerbini, assai sensibile al fascino muliebre, ma al contempo garanzia di rispettabilità della dama, Isabella, come d’abitudine nei salotti nobiliari, deve dirigersi verso la zona della sala occupata dalle donne, per porgere loro, per prime, le sue condoglianze. L’afefobia di Margherita ne favorisce l’immediato incontro con la rivale, la contessa Matilde, sulla quale, alla fine del romanzo, sarà vittoriosa: Donna Isabella strinse forte la mano alla contessa e le si mise a sedere a fianco, sospirando: «Che grande disgrazia! Ma bisogna fare la volontà di Dio!..Siete stati a Firenze?...Anche noi ci fummo l’anno scorso; ma voialtri allora eravate a Milazzo…Una sola bambina finora?...Il conte aspetta un maschietto, naturalmente. Felice voi che avete una bambina: v’invidio, contessa, sapete…»203 L’approccio di Isabella è chiaramente da leader. Abituata a stare in società ed a catalizzare l’attenzione generale204, per una bellezza che le sarà unanimemente riconosciuta anche dagli Uzeda,                                                                                                                           202 I Viceré, p. 791. 203 Ivi, p. 450. 204 «Vedendo rientrare il principe col fratello, lasciò le dame per condurre Raimondo dinanzi alla Fersa. 56     la Fersa mostra di conoscere le arti retoriche che garantiscono il successo sociale: alla contessa, proveniente da Firenze parlerà della città che anche lei conosce e, quando, qualche minuto dopo, sarà presentata al conte di Lumera, condividerà anche con lui, con maggior gusto che con la contessa, il medesimo argomento. Ritroveremo la Fersa, dopo un centinaio di pagine, dedicate all’apertura del testamento della defunta principessa ed al lungo flashback sugli Uzeda di vecchia generazione. Ancora una volta il suo ingresso nel palazzo vicereale determinerà scompiglio negli astanti: L’entrata di quest’ultima mise sottosopra la società; il principe che ordinariamente non era molto galante con le signore, le andò incontro fino nell’anticamera; Raimondo anche lui l’ossequiò tra i primi. Ella portava, come sempre, un abito nuovo fiammante che Lucrezia esaminava ora con la coda dell’occhio, e la principessa, Chiara, tutte le altre, giudicavano a una voce elegantissimo.205 Gli uomini, compreso Giacomo, poco incline a manifestazioni di interesse nei riguardi di altri esseri umani e certamente poco sensibile, di norma, al fascino muliebre, le prodigano attenzioni; tra loro si distingue già ora il conte Raimondo, che preferirà la sua compagnia a quella degli uomini normalmente intenti a parlare di politica e denaro206. Le donne, anche le Uzeda, sono affascinate dalla sua eleganza. Queste reazioni, che potrebbero essere naturali in un contesto sociale normale, non lo sono in questo romanzo. Si è più volte evidenziata l’indisponibilità dei discendenti dei Viceré all’accoglienza di estranei all’interno del loro clan, ma questo atteggiamento non si registra nei confronti di Isabella207. Sin dall’inizio uomini e donne, fatta eccezione per la contessa Matilde, forse proprio insospettita dall’accoglienza riservata a donna Isabella dai suoi nemici, provano nei riguardi di questo personaggio una certa ammirazione. Le donne non provano per lei invidia, perché sono consapevoli che appartiene ad una categoria del femminile, assai distante; è una femme fatale:                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     “Il conte di Lumera… donn’Isabella Fersa, la più bella dama del Regno…”» (Ivi, p. 450). 205 Ivi, p. 550. 206 Cfr.: «Fersa, che era stato sempre lieto e superbo di venire al palazzo Francalanza, adesso godeva nell’esservi ricevuto con segni di particolare gradimento; non solo Raimondo, ma anche e forse più Giacomo dimostrava molto piacere in compagnia di lui e di donna Isabella: quando sua mogli andò fuori la prima volta, dopo il lutto, egli volle che facesse loro una visita; la contessa, per desiderio del marito, accompagnò la cognata» (Ivi, p. 554). 207 Mi sembra che possano bene riferirsi a Isabella le osservazioni di Ada Neiger: «Tra le protagoniste del romanzo di De Roberto molte ve ne sono che si possono agevolmente classificare come personalità autoritarie, per gli atteggiamenti che abitualmente assumono. Si tratta di persone aggressive con una forte propensione a dominare gli individui che ritengono deboli e a sottomettersi a chi considerano gerarchicamente superiore. Nelle relazioni interpersonali si muovono con rigidità, accettando acriticamente i valori espressi dalla loro classe di appartenenza e dando prova di scarsa tolleranza. La loro mente è ingombra di stereotipi e il loro cuore trabocca di ostilità e disprezzo per tutti gli esseri umani. Teresa Uzeda, donna Ferdinanda, Lucrezia, Isabella, la duchessa Caterina Radalì appartengono a questa specie di individui che pur di raggiungere i propri obiettivi si adoperano per assoggettare gli altri influenzandone idee e valori e soprattutto manipolandone il comportamento» (A. Neiger, Tutte le donne dei «Viceré», in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., pp. 255-256). 57     Ella agitava con moto graziosamente indolente il ventaglio di madreperla e merletti, dando ragione a Raimondo contro il paese nativo; e la contessa Matilde non sapeva perché la vista di quella donna, le sue parole, i suoi gesti, le ispirassero una secreta antipatia.208 De Roberto, niente affatto parco di aggettivi e talvolta prolisso nelle descrizioni degli altri personaggi femminili, fissa Isabella Fersa in poche, seppure icastiche, immagini. Questo non accade perché siamo di fronte ad un personaggio secondario, visto che, invece, il suo ruolo, all’interno della vicenda, è fondamentale: è lei il motivo per cui Raimondo lascerà moglie e figlie, lei il motivo, per cui, Giacomo riuscirà a rientrare subdolamente in possesso dell’eredità materna, di cui è stato “derubato” dal fratello. Isabella, come Teresina e Consalvo, è tra i personaggi dinamici del romanzo, motore di un’azione inimmaginabile senza di lei. La ragione della reticenza del narratore è forse proprio funzionale a distinguere da tutti gli altri personaggi femminili Isabella; se delle altre conosceremo la storia pregressa, di Isabella sapremo solo che era «nobilissima», «ma senza dote» ed aveva però «ricevuto un’educazione oltremodo signorile in casa dello zio facoltoso»209, riconosceremo in lei gesti e movenze tipicamente femminili, sguardi eloquenti ed allusivi, che sono completamente estranei a tutte le altre donne dei Viceré210; persino Matilde e Teresina, alla cui bellezza muliebre il narratore fa a volte riferimento, non possono competere con donna Isabella, che non è forse più bella di loro – De Roberto non dice mai che è bella-, ma conosce l’arte della seduzione, come dimostra anche il dialogo che segue: […] e a donna Isabella sorrideva quel partito, nonostante che sua suocera preferisse rifugiarsi a Leonforte, come l’altr’anno. «Voi dove andrete?» domandava a Raimondo; e il giovane che le si trovava sempre a fianco: «Dove andrete voi stessa!» Ella chinava gli occhi, con una severa espressione di biasimo, quasi offesa. «E vostra moglie? Vostra figlia?» «Parliamo d’altro!»211 L’interlocutore è Raimondo, l’oggetto della sua conquista, ben disponibile ad esser conquistato. Il gioco della seduzione tra i due è pericoloso: entrambi sono sposati, Raimondo ha anche una figlia piccola ed una in arrivo, tra le famiglie c’è quella intrinsichezza che potrebbe                                                                                                                           208 I Viceré, p. 552. 209 Ivi, p. 555. 210 L’arte della seduzione esercitata da Isabella Pinto è svelata dai pensieri di Matilde: «Forse perché l’udiva approvare il sentimento di Raimondo che ella perdonava al marito ma biasimava negli altri? Forse perché scorgeva in tutta la persona di lei, nella ricchezza immodesta degli abiti, nell’eleganza affettata degli atteggiamenti, qualcosa di studiato e d’infinito? Forse perché tutti gli uomini le si mettevano intorno, perché ella li guardava in un certo modo, troppo ardito, quasi provocante? O perché, una volta al suo fianco, Raimondo non si moveva più, pareva non volesse più andar fuori, non aspettar più nessuno?...» (Ivi, p. 552). 211 Ibidem. 60     carpita. Come è prevedibile, il tradimento sarà smascherato dalla stessa Mara Fersa, che caccerà via la nuora adultera. A questo punto la narrazione delle vicende di Isabella e Raimondo, entrambi, separatamente partiti, in brevissimo tempo, per Firenze, continuerà attraverso le dicerie di quella invisibile folla, che spesso, nel corso del romanzo, assurge al ruolo di voce narrante, per supplire all’improvviso ritrarsi del narratore, impegnato a conservare il proprio disinteresse alle vicende dei suoi personaggi, attraverso una tecnica completamente straniante217: Dicevano alcuni che ella era andata nel continente per divertirsi, senza pensare più all’Uzeda; ma perché sceglier proprio la città dove egli stava? Lei come lei aveva oramai ben poco da perdere. […] Donna Isabella, dunque, non arrischiava più nulla; anzi, non potendo resistere alle tentazioni, così giovane com’era, piuttosto che procurarsi nuovi amici le conveniva tornare col primo: l’unico errore le sarebbe stato così più facilmente rimesso…218 Chiaramente l’invisibile vox populi, diversamente dallo scrittore, può immedesimarsi nelle vicende e parteggiare per un personaggio piuttosto che per un altro219; Isabella non ha le caratteristiche della beniamina del comune dicitur, poiché, con l’adulterio, ha infranto le leggi che regolano il vivere civile. È in fondo l’imparziale De Roberto ad attribuirle le maggiori responsabilità, poiché l’ha presentata come la femme fatale, in grado di spingere Raimondo in un’avventura in cui, per la sua naturale ignavia, non si sarebbe mai volontariamente cimentato. Col procedere del romanzo che racconta, nel frattempo, delle vicende politiche del duca d’Oragua e di Benedetto Giulente, dei casi di Chiara e Lucrezia e delle beghe di Giacomo, il narratore continua a seguire la vicenda di Raimondo, Matilde ed Isabella, lasciandola sullo sfondo, fino a quando ritroviamo il conte di Lumera in casa Francalanza, convocato dallo zio perché si ricongiunga con Matilde, che ha abbandonato a Firenze, in seguito all’ennesimo litigio. Con la solita tecnica del flashback apprendiamo così le sorti di donna Isabella, che a Firenze aveva continuato a frequentare il suo amante, sfidando la decenza, ma cospargendosi sempre il capo di cenere:                                                                                                                           217 Se tutta la prosa de I Viceré offre saggi eloquenti della tecnica narrativa dello straniamento, cara anche a Flaubert e Verga, mi sembra che essa possa trovare più ampia applicazione nella ricostruzione della vicenda amorosa tra Isabella e Raimondo, in cui l’autore introduce spesso la folla indistinta come voce narrante, straniandosi dalla sua narrazione. In relazione all’impiego di questa tecnica narrativa è stato scritto molto, ma per il nostro discorso mi sembrano importanti anzitutto le riflessioni di Silvia Dai Prà (Federico De Roberto. Tra Naturalismo ed Espressionismo. Lo stile della provocazione, cit., pp.63-69) ed alcuni strumenti sempre validi: V. Sklovskij, Una teoria della prosa, Milano, Garzanti, 1966; C. Ginzburg, Straniamento. Preistoria di un procedimento letterario, in Id., Occhiacci di legno, Torino, Einaudi, 1998. 218 I Viceré, p. 698. 219 Cfr.: «Personaggio anonimo ma nondimeno funzionale all’intrigo dei Viceré, la folla funge da spettatore interno degli accidenti domestici dei Francalanza, non ch da attore coinvolto nei processi della Storia. Attraverso una lente bifocale che le consente di osservare nitidamente ciò che è vicino –gli affari di cuore degli Uzeda- e ciò che è lontano – gli affari della politica sabauda- essa finisce per sovrapporli e per confonderli dopo che, sottoposti a ingrandimento i primi e a riduzione i secondi, le due immagini finiscono necessariamente per coincidere» (M. Muscariello, Un’’Intrusa’ nei «Viceré»: il romanzo di Matilde, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 322). 61     Quest’idea si conficcava tanto più saldamente nella sua testa, quanto che donna Isabella, da suo canto, non gli diceva mezza parola contro la contessa; e si lagnava appena, discretamente, dell’odio che si vedeva portato. «Quando m’incontra, mi volta le spalle… Sparla di me… Che cosa le ho fatto?» Oppure gli proponeva di rompere e di lasciarsi, si offeriva in sacrificio per assicurargli la pace della famiglia: «Non t’inquietare di me!... Me ne andrò, vivrò sola, come vorrà Dio… Andrò a buttarmi ai piedi di mio marito; forse mi perdonerà…»220 Isabella è spudorata, come gli Uzeda, per questo sarà alla fine accolta fra loro. È un’adultera, ma riesce a manipolare la realtà con tale destrezza da assumere l’atteggiamento di vittima incolpevole; il compito le è notevolmente facilitato dall’assoluta ignoranza da parte di Matilde delle più elementari regole della conquista. In questa battaglia Isabella è vincente, perché si comporta come l’amante paziente e comprensiva. La sua arte sta tutta nell’aver perfettamente compreso le caratteristiche del suo uomo: ai lamenti di Matilde contrappone la spensieratezza gioiosa, alle accuse della contessa, lungi dal ripagarla della stessa moneta, risponde fingendo di esser disposta a fare un passo indietro per il bene di tutti. Isabella ha ben compreso che perderà Raimondo nel momento in cui comincerà a comportarsi da moglie. Tutte le sue mosse sono così studiate da indurre il lettore a credere che ella non ami Raimondo, ma sia inebriata dalla soddisfazione di una conquista impossibile e dall’inconfessata ambizione di diventare, spazzando via Matilde, la contessa di Lumera. Così attende paziente, assiste al ritorno obbligato di Raimondo con Matilde ed intanto affila le sue armi per infliggere alla Palmi il colpo letale: le basterà, al ritorno di Raimondo a Firenze, in famiglia, schermirsi ancora una volta, fingere di volersi fare da parte, alludere al presunto timore di Raimondo per le reazioni degli Uzeda o del barone Palmi, per indurre lo stupido conte a fare «ciò che non voleva»221, ad abbandonare cioè definitivamente Matilde e le bambine per tornare, spudoratamente, a Catania, al fianco di Isabella Pinto: Ella vedeva che Raimondo voleva condurla al suo paese per rompere clamorosamente e definitivamente coi Palmi; ma comprendeva pure che soltanto l’eccitazione dei contrasti sofferti e l’impeto dell’odio provocato dalla tempestosa spiegazione determinavano l’amico suo a quel passo, e non l’amore di lei; e sentiva anche che l’ostentazione della loro amicizia, laggiù, in una piccola città, le avrebbe fatto torto, che la morale più o meno sincera della provincia si sarebbe ribellata. Pure, essendo ormai tardi, non riuscendo del resto con le sue osservazioni che ad eccitare maggiormente Raimondo, non le restando per trarlo a sé                                                                                                                           220 I Viceré, pp. 721-722. 221 «L’ideale del suo padrone era di liberarsi della moglie e dell’amica ad un tempo; ma il conto era fatto senza l’oste, cioè senza donna Isabella. […] Per ricondurre a sé quel tiepido amante, del quale aveva imparato a conoscere a proprie spese la conformazione, le era bastato addebitare la freddezza di lui all’opposizione dei parenti, alla volontà della moglie. Ognuna di queste allusioni era un colpo di sprone nei fianchi del giovane; impegnato a dimostrarle che era libero di fare ciò che voleva egli faceva ciò che non voleva…» (Ivi, p. 762). 62     che fare assegnamento su queste eccitazioni, ella era venuta. Gli Uzeda, a ogni modo, sarebbero stati per lei.222 Le previsioni di Isabella sono, ovviamente, giuste. All’arrivo dei due adulteri «all’albergo, sempre insieme, come fossero marito e moglie», la famiglia Uzeda è attonita. Ancora una volta il narratore affida ad un personaggio popolare, promosso dalla mischia indistinta ad un ruolo individuale, Pasqualino Riso, il servo di Raimondo, il racconto delle vicende precedenti ed il giudizio sui personaggi. In questo modo conserverà quella imparzialità, qualche volta tradita da un cinico senso di disgusto per la vittoria del male che si traveste da bene, grazie allo splendore di un cognome223. Nessuno attendeva da Raimondo un gesto tanto clamoroso, ma nessuno è minimamente preoccupato dai rumores che il gesto accenderà224. Gli Uzeda hanno solo bisogno del tempo necessario per capire da quale parte sia più fruttuoso schierarsi. Le simpatie dei più vanno istintivamente tutte a Isabella, che rappresenta lo strumento attraverso il quale potersi sbarazzare dell’intrusa; tuttavia Giacomo, a cui non interessa nulla del suo prossimo se non può guadagnarne qualcosa, è costretto a non palesare immediatamente il suo gradimento per la compagna del fratello, perché, mascherando il suo atteggiamento con preoccupazioni moralistiche –Giacomo ha una figlia adolescente, uno zio monaco (che fa “l’arte di Michelasso”), un fratello che vorrebbe diventar papa ed una sorella in odore di santità-, vuole in realtà alzare il prezzo che il fratello Raimondo sarà disposto a pagare per ottenerne il consenso. Donna Isabella, dapprima schiva, come si conviene ad una donna nella sua situazione, comincia progressivamente la sua opera di conquista degli Uzeda, partendo, con arguzia maliziosa, dalle prede più facili, la sua sostenitrice donna Ferdinanda, Lucrezia, poi don Blasco e il babbeo Ferdinando. In pochissimi mesi sarà una Uzeda e come gli Uzeda brigherà contro i parenti, sobillando l’insofferente marito, stanco di lei già pochi mesi dopo il matrimonio. A tre anni dal suo arrivo quasi clandestino in una volgare camera d’albergo era                                                                                                                           222 Ivi, p. 765. 223 Credo che in particolar modo in questo caso siano opportune le riflessioni d’intonazione più generale di Carlo Alberto Madrignani: «Come voleva il Verga teorico, la grandezza dell’artista moderno sta nel suo eclissarsi, nel suo confondersi e sparire nell’opera senza lasciare traccia. È un controllo a distanza, fatto di distacco passionale e di mediazioni raffinatamente occultate; un’opera insomma, di altissima e latente vigilanza. “Quando l’artista appare più indifferente, allora è più vigile” scriverà, incidentalmente, nel suo volume L’Arte, l’autore, condensando in un inciso il canone segreto del suo naturalismo» (C.A. Madrignani, Introduzione a F. De Roberto, Romanzi, Novelle e Saggi, cit., p. XXVIII). 224 Cfr.: «I più, senza accogliere né rifiutare le scuse e le accuse relative al secondo e decisivo abbandono della famiglia, biasimavano Raimondo pel viaggio fatto insieme con l’amica, il soggiorno nell’albergo, l’unione apertamente confessata, quasi sfidando l’opinione pubblica. Egli poteva aver torto o ragione di lagnarsi della moglie; la passione per donna Isabella poteva scusarsi; però i moralisti, i padri di famiglia, le signore più o meno timorate volevano salve le apparenze […] Molti dichiaravano che avrebbero troncato ogni rapporto; altri, più intimi, perciò più imbarazzati, facevano dipendere la loro risoluzione dal modo col quale si sarebbe comportata la famiglia» (I Viceré, p. 767). 65     zie con un senso di paura negli occhi spalancati; ma la principessa che aveva gli ordini del marito, pel quale la bambina era una specie di muta ambasciatrice incaricata di sedare il malcontento della Badessa e della sorella Crocifissa, persuadeva la figlia a star buona, a non temere, e la piccina diceva di sì, di sì, mandando baci alla sua mamma mentre la ruota girava, la chiudeva nello spessore del muro, la passava dall’altra parte, nello stanzone freddo e grigio con un grande Cristo nero e sanguinante che prendeva tutta una parete. La mamma, le monache, tutte e tutti lodavano la saggezza di cui dava prova; per meritare quelle lodi, per non dispiacere al suo babbo, ella faceva quel che volevano.230 Credo sia interessante non perdere di vista la scelta derobertiana di affidare la presentazione di Teresina a sua zia Matilde. Raccontata da chi porta con sé il pesante fardello di vittima predestinata e conosce il dolore, l’infanzia di Teresa non ha l’aridità narrativa, quasi documentaria dei flashback che raccontano all’interno del romanzo la storia individuale dei membri del clan Uzeda. C’è umanità, in questo racconto, un’umanità che il narratore impersonale non può provare nei riguardi del suo personaggio. C’è la sensibilità di chi comprende le paure e le prove della bambina sottoposta al rito quasi macabro e, senza dubbio, sadico, del passaggio attraverso la ruota, dell’approdo in un ambiente altrettanto cupo ed adulto, fatto di silenzio e di assenza di felicità. La docilità innaturale, agli occhi di Matilde, con cui la bambina accetta di sottoporsi alle prove, cui la destina la volontà paterna, è, in realtà, il primo vero indizio della sua appartenenza al clan Uzeda, la prima manifestazione della sua monomania, che potremmo definire come il desiderio ossessivo di essere lodata da tutti231. Ormai dodicenne, sebbene il narratore la descriva più incline alle «belle passeggiate all’aria aperta», la ritroviamo impegnata ad affrontare prove macabre, nell’ambito di un percorso di formazione evidentemente finalizzato ad azzerarne la volontà e cancellarne i desideri: La vigilia dei Defunti, tutti gli anni, la famiglia recavasi nelle catacombe dei Cappuccini, a visitare gli avanzi della principessa Teresa, per ordine del principe, il quale da canto suo restava in casa per paura che la vista dei morti gli portasse jettatura. La bambina tremava da capo a piedi. Che spavento, tutti quei morti pendenti dalle pareti, chiusi nelle casse, vestiti come in vita, con le scarpe ai piedi e i guanti alle mani; certuni con la bocca contorta come se urlassero dallo spasimo, altri che ridevano d’un riso sgangherato; la nonna, tutta nera in viso, nella bara di vetro, vestita da monaca, con la testa sopra una tegola e le mano aggrappate disperatamente a un crocefisso d’avorio!... Tremava tutta, la bambina, dallo spavento, dall’orrore, e la notte sognava tutti quei morti che le danzavano intorno; ma nascondeva il proprio spavento perché il confessore le aveva detto che i poveri morti non possono far male, che è dovere                                                                                                                           230 Ivi, p. 726. 231 La cifra individuale del personaggio Teresa mi sembra che possa essere ben riassunta dalle osservazioni, generali, di Spinazzola: «Per De Roberto l’essere individuale obbedisce a uno e un solo istinto basilare, quello dell’affermazione di sé: potremmo anche chiamarlo, freudianamente, principio del piacere, incline a espandersi senza limiti sino alla meta irraggiungibile dell’onnipotenza. Nell’incontro con la realtà, se questa istanza primaria non è sorretta da risorse adeguate, fallisce lo scopo: e la frustrazione genera un senso di impotenza intollerabile, che trova riparo solo nell’autodifesa estrema fornita dalla pazzia» (V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, cit., p. 58). 66     visitarli, che bisogna continuamente pensare ad essi perché un giorno anche noi moriremo e andremo dinanzi al Giudice eterno.232 Si è detto, molto e bene, della Sicilia di De Roberto, così cupa e distante da quel ritratto en plein air che ne fa il maestro Verga, ed in questa pagina, quasi al centro del romanzo che ormai ci ha abituati a cupe scene d’interni, diventa cupa anche la “sicilianità”233. Lo sguardo straniante del narratore, attraverso l’occhio vergine di Teresina, mette a nudo la superstizione insita nella pratica religiosa devozionale comune e può sconfessarla, pur restandone al di sopra ed al di fuori, in tutta la sua gratuita crudeltà. Queste immagini sono veramente lontane dalla Sicilia assolata e marinara, come da quella campestre arsa dal sole implacabile, cui ci ha abituato tutta la letteratura verista siciliana, e ci offrono il ritratto di un popolo –le abitudini devozionali degli Uzeda non sono diverse da quelle del popolo siciliano234- che stabilisce con la morte un rapporto molto stretto in funzione chiaramente apotropaica. Nell’ambito delle tradizioni di famiglia, il culto dei defunti è particolarmente importante per gli Uzeda, che, ovviamente, lo compiono non per ragioni sentimentali o religiose, ma per celebrare il fasto della propria stirpe, onorando quei morti Viceré cui essi devono il potere. Durante le visite ai morti Teresa è l’unica a provare terrore, il punto di vista dei suoi accompagnatori non è assolutamente preso in considerazione, perché il narratore intende rendere più stridente la distanza tra l’animo sentimentale e naturalmente incline alle emozioni della bambina e quello esacerbato e desertificato degli Uzeda adulti, che, probabilmente, non sono molto diversi, benché vivi, dalle terrificanti maschere mortuarie dei loro avi. Teresa supererà, comunque, tutte queste prove solo per il piacere di essere lodata: E queste lodi, sì, l’inorgoglivano; per guadagnarsele sopportava tutto in pace. Anch’ella, come tante altre sue piccole amiche, desiderava le belle vesti nuove, dai colori gai, dalle ricche guarnizioni: o le prime buccole, un anellino; ma suo padre diceva che queste cose guastano le ragazze; e invece di piangere e di gridare, come facevan tante, ella chinava il capo confortata dalla sua mamma che le prometteva all’orecchio: «Vedrai, amorino mio, quando sarai grande!...»235 Neanche a Matilde, protagonista di un romanzo nel romanzo, De Roberto aveva dedicato una tale attenzione documentaria. Se tutti i personaggi femminili sono calati nella storia, quasi ex abrupto, in una condizione di immobilità da quel deus ex machina che ce ne racconta il passato quel                                                                                                                           232 I Viceré, pp. 804-805. 233 Cfr. anche N. Tedesco, La norma del negativo: De Roberto e il realismo analitico, Palermo, Sellerio, 1989. 234 La “festa dei morti” in Sicilia è una ricorrenza particolarmente sentita, a partire dal X secolo. La tradizione, con alcune differenze tra i diversi centri cultuali dell’isola, vuole che alla vigilia di Ognissanti, escano i morti dalle tombe e percorrano le vie dei borghi, secondo percorsi antichi, coperti da un lenzuolo funebre. I devoti seguono la processione, portando con sé i bambini, cui i morti doneranno dolci tipici, simbolo ed augurio di fertilità. Vd. sull’argomento: C.C. Canta, La religiosità in Sicilia: indagine sulle tipologie religiose e cultuali, Caltanissetta, Sciascia, 1995; R. Petrarca, La festa dei morti, Palermo, Regione siciliana: Assessorato dei beni culturali ed ambientali e della pubblica istruzione, 2006. 235 I Viceré, p. 805. 67     tanto che consenta al lettore di riconoscere in esso le radici del loro hinc et nunc – la piccola Ferdinanda, la piccola Chiara o Lucrezia hanno in nuce tutte le caratteristiche delle donne mature- De Roberto racconta di Teresa anche le naturali inclinazioni, la determinazione infantile alla gioia, la propensione per i colori e gli ornamenti ed i sorrisi, perché sia, agli occhi del lettore, più gravoso il compito di questa bambina, cui si richiede esattamente il contrario di ciò che normalmente compete ad un bambino: la ragionevolezza, l’obbedienza, la comprensione. Quando, all’improvviso, per quella che si chiarirà presto essere una precisa macchinazione in seno alla sistematica architettura messa in piedi dalla cugina Graziella per portare a termine indisturbata la sua conquista di Giacomo, Teresa dovrà andare in collegio a Firenze, la vedremo per l’ultima volta bambina236, ma le parole, con cui si congederà dai parenti e da noi, riveleranno già la direzione in cui sta procedendo il suo bildungsroman: La bambina allora chinò il capo, s’asciugò gli occhi, e disse alla sua mamma, seria e composta com’era sempre stata: «Non t’angustiare, mamma mia bella: ci scriveremo ogni giorno, ci rivedremo presto… Vedi che sono ragionevole?...» Un amore di figliuola, quella lì; vera razza dei Viceré!237 Durante l’assenza di Teresa accadono molte cose: scoppia il colera, il convento di San Nicola è requisito con tutti i suoi beni dallo Stato italiano, Consalvo torna a casa dal convento, in cui anche lui era stato sistemato per volontà paterna, la cugina Graziella è ormai evidentemente quasi la padrona del palazzo Francalanza e muore, colpita violentemente dal colera, la principessa Margherita. Sarà Graziella, madrina di Teresa, a darle la notizia della morte della sua mamma e ad inviarle una ciocca di capelli «della sant’anima», insieme alla raccomandazione di cessare lacrime e lamenti, per non acuire, con la sua disperazione, il dolore del «povero babbo». La quattordicenne Teresa, di cui si fa sapere, questa volta attraverso le parole di Baldassarre, che aveva ricevuto, in quegli anni, alla Santissima Annunziata «un’istruzione comi fo» ed ottenuto «sempre i primi premii, tanto era svegliata e studiosa», scriverà al padre un’assennatissima lettera consolatoria, alla quale il principe risponderà con l’annuncio della decisione di sposare la cugina Graziella, che dovrà essere per lei una seconda mamma.238 Alla lettera del lieto annuncio seguirà un anomalo silenzio, registrato anche questa volta dalle parole di Baldassarre, e giustificato poi dalla stessa Teresa con l’impedimento dovuto ad una presunta malattia. Il silenzio di Teresa è, in un certo senso, l’indizio eloquente, della sopravvivenza in lei dell’irruenza dell’infanzia. Sottoposta ad un dolore improvviso                                                                                                                           236 Cfr.: «La bambina, nel congedarsi, piangeva dirottamente dal dolore di lasciare la sua casa, di entrare nel collegio di Firenze, tanto lontano, dove neppure la domenica, neppur dietro a una grata, come a san Placido, avrebbe potuto vedere la sua cara mamma. La comare però le diceva: «Non piangere così; non vedi che fai male a tua madre?...» e allora ella inghiottiva le sue lacrime, si ricomponeva» (Ivi, p. 808). 237 Ivi, p. 809. 238 Cfr. Ivi, pp. 837-838. 70     epopea del male che dilaga è necessario, secondo il demiurgo, seguire l’evoluzione del suo personaggio, disseminarne il percorso di indizi del male a cui soccomberà. Così Teresa diventerà lentamente la bigotta «macchina da far figliuoli» che apparirà a suo fratello Consalvo, alla fine del libro. Il lettore dovrà prima conoscerla nel trionfo della sua giovinezza, quando è ancora aperta la lotta tra ragioni del cuore e senso masochistico di responsabilità. In lei ci sono tutte le doti che si possano richiedere ad una donna, secondo l’idea di inferiorità femminile sottesa alla logica derobertiana: non ha curiosità sconvenienti, rispetta gli adulti, vanta la migliore istruzione consentita alle donne, sa, cioè, suonare, cantare, comporre musica e versi, è timorata di Dio, ordinata, umile, remissiva, felice di render felici gli altri244. Nella sua educazione Giacomo e la cugina Graziella sembrano aver pensato ad ogni cosa per renderla degna del nome che porta245, solleticando la sua vanagloria246, che diverrà presto monomania, ne hanno indirizzato le scelte e le emozioni, ma non hanno considerato la variabile più infida per una giovane e bella fanciulla, l’amore. Ad alimentare il segreto desiderio d’amore nella giovane Teresa sono i libri: Divorava i pochi libri di versi e i romanzi che la principessa le consentiva di leggere, dipingeva quadretti dove si vedevano castelli merlati sorgenti in mezzo a laghi di cobalto, trovatori con la chitarra ad armacollo, o più spesso castellane inginocchiate ed oranti, Madonne col divino Figliuolo tra le braccia. […] Le finzioni poetiche dei libri le accendevano la fantasia e le facevano battere il cuore, ma se la principessa giudicava troppo lungo il tempo da lei dedicato alle letture frivole, le smetteva addirittura. Spesso udiva lodare un romanzo, un dramma, un volume di versi, e si struggeva di comperarli, pensando quanto dovevano essere belli, che piacere le avrebbero procurato […]247                                                                                                                           244 Cfr.: «Ella non aveva curiosità sconvenienti, e quando comprendeva che le più grandi avevano da dirsi qualcosa, s’allontanava, andava ad ordinare la sua cameretta o a badare alle sue cosucce. Non era soltanto bella da far strabiliare, ma piena d’ingegno, istruita da dar punti a tanti uomini. Disegnava e dipingeva, parlava il francese e l’inglese come la sua propria lingua, sapeva far versi e comporre musica; e modesta, con questo, semplice, buona, affettuosa da non si dire. Rientrando nella casa dove, bambina, aveva lasciata la sua mamma, e adesso non la trovava più, avevano dovuto sorreggerla e i suoi occhi eran parsi due vive fonti, dal tanto pianto: ma il culto per la santa memoria non le impediva di rispettare e di amare il padre e la madrigna. E timorata di Dio, sempre con qualche libro di preghiera tra le mani, quando non lavorava ai suoi ricami, ai suoi disegni, alla sua musica: certi libri dorati, ricoperti di velluto o di pelle odorosa: mesi di Maria, coroncine della Beata Vergine, vite di santi, pieni ad ogni pagina d’immagini divine, tutti premii riportati quand’era all’Annunziata. Ma questi sentimenti pii, questo timor di Dio non le impedivano di amare, come conveniva ad una fanciulla della sua età, gli svaghi mondani, le eleganze della moda» (I Viceré, pp. 908-909). 245 De Roberto è particolarmente sensibile all’educazione femminile, come si può desumere da una lettera del 1908, indirizzata alla madre, in cui con decisione esprime la sua opinione in relazione all’istruzione delle nipotine:«Ti dissi mille volte, l’anno scorso, nei giorni in cui non parlavo con lui, che non volevo che le bambine andassero alle scuole comunali, con le figlie dei ciabattini e dei macellai. Tu mi assicurasti di aver ripetuto la cosa a lui e a Lisa, e che entrambi non avevano voluto ascoltarti. Ora ti ripeto che non voglio che le bambine vadano a quelle scuole, che è pericoloso per la loro salute e per la loro educazione (non dico istruzione), che è compromettente per la dignità della casa, che non è giusto, e che insomma se fossero figlie mie non vi andrebbero. Ora siccome, finché non avrò figli miei propri –cioè, con tutta probabilità, per sempre – io le considero come figlie mie, così non voglio che vi vadano» (F. De Roberto, Lettere, in Id., Romanzi, Novelle e Saggi, a cura di C.A. Madrignani, cit., p. 1749). 246 Cfr.:«Come quando era bambina, l’idea delle lodi e del premio da ottenere, l’ambizione di vedersi additata come esempio alle altre vincevano le tentazioni della curiosità, non le facevano sentire le privazioni che s’infliggeva» (I Viceré, p. 939). 247Ivi, p. 938. 71     La letteratura e la cultura rappresentano, in questo romanzo, un male, per gli uomini e per le donne248. All’inizio del romanzo, donna Ferdinanda, che non sa scrivere, esprime apertamente il parere degli Uzeda, dunque dell’aristocrazia siciliana, in merito alla cultura ed all’istruzione, sostenendo che non sia necessario «rompere il capo» al piccolo Consalvo con questa storia dell’istruzione, visto che i suoi avi, ignoranti, avevano dominato per secoli ed aggiunge a suffragio delle sue convinzioni che la madre «non sapeva fare la propria firma». Più avanti proprio la zitellona sbraiterà a lungo contro Giacomo, che, per disfarsi della figlia e godersi la tresca con la cugina, la chiuderà in collegio, a Firenze, dove le avrebbero messo in testa tutte quelle idee moderne e «italiane». Lo zio don Eugenio, del resto, unico sostenitore, tra gli Uzeda, dell’istruzione e della cultura, è un fallito nullatenente. A leggere libri e a studiare, in questo romanzo, saranno solo, ancora una volta, Matilde, Consalvo, Teresa e Giovannino. Matilde desumerà dai libri il suo sogno d’amore romantico, causa ultima della fine infelice; Consalvo, tornato dal suo viaggio italiano ed europeo, studierà in maniera forsennata per costruire le basi del velocissimo cursus honorum che ne cambierà la vita; Teresa, come Matilde desume, dai pochi libri sfuggiti al controllo della scrupolosa e morigerata matrigna, la sua fallace idea della vita cui è destinata; Giovannino leggerà i libri suggeritigli dalla moglie di suo fratello, in una situazione che non può non ricordare l’amore maledetto di Paolo e Francesca. In tutti questi casi, ovviamente, ad eccezione di Consalvo, le cui letture sono funzionali alla creazione della carriera politica, i libri sono fonte di illusione, allontanano da una realtà che non lascia spazio alla speranza e al futuro e, dunque, chi legge, nel romanzo, è sistematicamente esposto alla delusione del reale249. Saranno i libri ad insinuare nuova passione in Teresa, ormai duchessa di Radalì250, ridestando in lei il mai sopito amore per Giovannino, ora suo cognato: Lo spirito della tentazione si serviva di arti molto sottili per turbarla in quella serenità. Forse erano i libri, le poesie, i romanzi, quelli che, certe volte, quando ella si sentiva più tranquilla e sicura e sorrideva di                                                                                                                           248 Cfr.: «De Roberto si serve della letteratura, oltre come di mezzo di protezione, anche come di strumento, ora parodistico ora no, di rivelazione del non senso della letteratura» (G. Giudice, Introduzione a F. De Roberto, «I Viceré» e altre opere, Torino, UTET, 1982, p. 28). 249 Cfr.: «I libri, dunque, come possibili salvatori o come grandi imputati nel processo di formazione dell’individuo? Dati gli esiti cui approda la vita di Teresa parrebbe più appropriata la seconda ipotesi, senza scordare però che, se dal testo esce la condanna per un certo tipo di letteratura, non è da meno quello per un certo tipo di lettura. […] Si vedrà allora che la condanna è nei confronti, da una parte, di una letterarietà che gioca le sue carte sul tavolo del romanticismo più convenzionale, dall’altra, di una cultura positivistica, ambiguamente à la page (quella al cui studio matto e disperatissimo si dedica il carrierista Consalvo), che rivela il suo valore meramente strumentale, senza essere in grado di fornire alcuna risposta ai reali quesiti esistenziali. A sua volta, la lettura che questi personaggi operano non è un processo soggettivamente forte di appropriazione, ma è ricezione o passivamente acquiescente o aggressivamente edonistica» (A. Cavalli Pasini, De Roberto, cit., pp. 66-67). 250 Cfr.: «Adesso era libera di leggere i libri che più le piacevano; e quando non aveva nulla da fare, divorava romanzi, drammi e poesie. L’eccitazione di quelle letture non le impediva però di attendere alle pratiche religiose con zelo e fervore: in casa Radalì venivano lo stesso monsignor vescovo, lo stesso Vicario, gli stessi prelati che frequentavano la casa del principe: essi additavano a tutti la duchessa come modello di domestiche e cristiane virtù» (I Viceré, p. 1000). 72     maggior beatitudine, facevano sorgere a un tratto una specie di nebbia che offuscava il suo bel cielo, e le davano un senso di sgominante tristezza e il rancore d’un bene perduto prima ancora che ella avesse potuto raggiungerlo.251 Il ruolo che i romanzi, le letture “romantiche” hanno nella vita di Teresa non può non far pensare al ruolo che quella stessa letteratura ha nella vita di un’altra Teresa Uzeda, protagonista di un altro romanzo derobertiano, L’Illusione, del 1891. La Teresa del primo romanzo del ciclo degli Uzeda è la figlia di Raimondo Uzeda e Matilde Palmi e la cugina della protagonista della parte conclusiva de I Viceré. Anche nel suo caso sono i libri e le fantasticherie romantiche della sua educazione sentimentale ad orientarne le scelte ed i desideri ed a condurla ad essere inesorabile vittima di una lunga illusione: Sulla fede di quei libri ella sognava fatalità inesorabili, avventure inaudite, strazii ineffabili, gioie celesti; imparava che gli uomini lottano invano contro il destino, che le predizioni si avverano, che l’amore infiora la vita ed è il compenso di tutte le pene. Che importavano le ricchezze? V’erano giovani che sotto le vesti lacere avevano un cuore da eroe; e poi essi arrivavano alla ricchezza e alle posizioni altissime, perché ne erano degni!252 Del resto Emma Bovary aveva preceduto le cugine Uzeda nella costruzione di una romantica, quanto rovinosa educazione sentimentale, appresa dai romanzi: Si trattava sempre di amori, di amate, di amanti, di dame perseguitate che svenivano in edifici solitari; di foreste, di postiglioni uccisi a ogni tappa; di cavalli scoppiati a ogni pagina del libro, di fosche foreste, di cuori in tormento, giuramenti, singhiozzi, lacrime e baci; di barchette naviganti al chiaro di luna, di usignoli nei boschetti, di cavalieri coraggiosi come leoni, dolci come agnelli, virtuosi come non lo è nessuno, sempre ben vestiti, e lacrimosi come fontane. A quindici anni, e per sei mesi di fila, Emma s’imbrattò, dunque, le mani con questa polvere di vecchie sale di lettura. Poi venne Walter Scott a farla innamorare di soggetti storici, ed ella sognò forzieri, corpi di guardia e menestrelli.253 È evidente che De Roberto abbia desunto dal suo Flaubert l’idea dei “pericoli” della letteratura ed è altrettanto evidente che la letteratura pericolosa è, per il nostro scrittore, quella amorosa254. Per la protagonista de L’Illusione le letture hanno una funzione determinante nella formazione culturale della fanciulla, per Teresa Uzeda, invece, la lettura dei romanzi è proibita nella fase della formazione ed influenzerà, invece, la sua vita di donna sposata. Non sarà, perciò, mediata dalla lettura dei romanzi la sua scoperta dell’amore. Involontariamente sarà proprio la accorta matrigna a procurare a Teresa la consapevolezza del primo turbamento d’amore: quando, per far mostra delle doti di “sua” figlia, la spingerà a comporre la Storia mesta, Teresa conoscerà il giovane                                                                                                                           251 Ivi, p. 1012. 252 F. De Roberto, L’Illusione, in Id., Romanzi Novelle e Saggi, a cura di C.A. Madrignani, cit., p. 74. 253 G. Flaubert, Madame Bovary, introduzione di G. Bogliolo, Milano, Bur, 2010, pp. 48-49. 254 Per il valore della letteratura nella narrativa derobertiana è importante la lettura di F. Spera, Il vaniloquio dei «Viceré», in La realtà e la differenza. Studi sul secondo Ottocento, Torino, Genesi, 1994, pp. 57-74. 75     è, infatti, il romanzo stesso che ha, fino a questo punto, raccontato solo di unioni regolate da interessi meramente economici ed ha costruito il personaggio di Giacomo in maniera monotonale, risolvendolo nella cupidigia e nell’avarizia che regolano tutti i suoi rapporti. Così, quando l’insopportabile matrigna coinvolge Teresa nella scelta del corredo, la ragazza è l’unica a credere che «il giorno della sua felicità era vicino»: «Vieni qui!...» e attiratala sul cuore, donna Graziella cominciò:«Si tratta di te, del tuo matrimonio…. E’ venuto il momento di farti felice…Credevi che tuo padre non pensasse a te? Tanti affari, tante cure!...ma adesso faremo tutto presto, vedrai!...». Stampatole un bacio in fronte mentre le reggeva il capo con tutt’e due le mani, esclamò: «Sei contenta di divenir duchessa?». Un momento Teresa credé d’aver udito male. Batté le palpebre guardando negli occhi la madre, e ripetè, come un’eco: «Duchessa?...» «Duchessa di Radalì, sicuro, ed anche baronessa di Filici, perché il tuo secondogenito porterà questo titolo! Duchessa, e con molti ducati! Una delle più ricche! Tuo padre, perché Consalvo s’è portato male con lui, ti tratterà bene… Ha già stabilito tutto con la zia… E il mio non sarà poi tuo?... E che?... Fingi di non sapere?... Perché mi guardi così?... Che hai?...» «Mamma, mamma…» Sempre più pallida come la madre veniva dicendo quelle parole e più smarrita e tremante, quasi vedesse una cosa di spavento, ella adesso portava una mano alla tempia e afferrava con l’altra la mano della madre. «Mamma, no… io non credevo…»260 In questo dialogo emerge tutta la distanza tra le due donne; Graziella, fedele alla sua natura infingarda ed adulatrice, si veste di falso amore materno per annunciare a Teresa che sposerà Michele ed, alla sorpresa di lei, si schermisce dicendole che è dispiaciuta che abbia frainteso, che abbia creduto di poter sposare un «oscuro secondogenito, come una qualunque». La sorpresa di Graziella di fronte alla reazione di Teresa è assolutamente falsa, a rivelarcelo è il narratore che le fa subito pronunciare il nome di Giovannino («E la principessa parve cercare; a un tratto, quasi rammentandosi: “Giovannino, forse?”»), svelando che il piano di Giacomo e Graziella è stato portato a compimento, benché fossero consapevoli dell’amore che nasceva e cresceva tra la ragazza ed il Radalì sbagliato. Teresa è incredula, all’improvviso vede svanire i suoi sogni e sopraggiungere la consapevolezza terribile di non avere altra scelta che obbedire, come sempre, al volere paterno. Ma, neanche in questa circostanza riesce a vedere la realtà che ha di fronte, resta veramente sorpresa dal fatto che i suoi genitori le impongano un uomo che non ama261. Si è esercitata a tal                                                                                                                           260 Ivi, pp. 974-975. 261 Cfr.: «Parlare? A chi, ed a che scopo? Se in quella casa non c’era confidenza, se tutti stavano in guerra, unicamente curanti del proprio tornaconto? Se l’avevano prima abituata a cedere in tutto e poi cullata nella fiducia che l’avrebbero fatta contenta? Poteva ella supporre che avrebbero scelto da loro, senza consultarla, e che un giorno sarebbero venuti a dirle: «Sai, bisogna che tu sposi chi non ti piace?...» E perché, poi, perché volevano darle quell’altro e non chi aveva il 76     punto alla docilità, all’obbedienza, che non crede possibile che qualcuno si impegni a farla soffrire. Ha sempre creduto ai premi promessi, alle concessioni millantate come ricompensa della sua infinità obbedienza e bontà. È convinta che, non avendo fatto del male a nessuno, nessuno possa avere motivi per farne a lei. Quando la matrigna, dopo aver raccolto il rifiuto di Teresa, l’accuserà di aver dato un dispiacere al padre ed anche a lei, lamentando di non essere amata e rispettata come una mamma, la ragazza comprende che le sue speranze di cambiare i progetti per il suo futuro sono del tutto vane. L’ingenuità di questa Uzeda è un unicum nella famiglia e nel romanzo, per questo il narratore abdica dal suo ruolo e lascia che a parlare siano i dialoghi e poi il monologo interiore di Teresa, che, forse, per la prima volta, comprende la vera natura di Graziella: No, ella non diceva questo, non diceva nulla di ciò che pensava; perché, dovendo manifestare tutto l’animo suo, avrebbe dovuto dire che suo padre voleva sacrificarla ad uno sciocco pregiudizio, che la madrigna fingeva quell’affetto per indurla a fare ciò che voleva il marito; avrebbe dovuto dire che in nessun’altra famiglia la malattia del padre è stata cagione di ordire l’infelicità delle figlie; e avrebbe dovuto dire ancora che la ribellione di Consalvo si dimostrava ora giustificata, avrebbe dovuto ribellarsi ella stessa… Ma questo era peccato!262 La conclusione di Teresa è definitiva. Tutto ciò che farà sarà cedere alla volontà dei parenti, così tutti riprenderanno a lodarla ed il suo animo pago delle lodi dimenticherà l’amore per Giovannino, tutti saranno più felici263. Lo ripete a se stessa, senza più lacrime; lo ripeterà al fratello Consalvo, l’unico che le chiederà retoricamente se sia felice264 ed una forma di felicità la raggiungerà davvero nella sua nuova casa di duchessa: La tranquillità che regnava nella sua nuova casa, la pace che ristabilivasi nell’antica, l’affezione del marito, i trionfi di Consalvo, le lodi che raccoglieva ella stessa- poiché, tra le giovani signore, aveva occupato subito il primo posto- facevano fiorire sulle sue labbra sorrisi a grado a grado più schietti.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     suo cuore?» Parlare? A chi, ed a che scopo? Se in quella casa non c’era confidenza, se tutti stavano in guerra, unicamente curanti del proprio tornaconto? Se l’avevano prima abituata a cedere in tutto e poi cullata nella fiducia che l’avrebbero fatta contenta? Poteva ella supporre che avrebbero scelto da loro, senza consultarla, e che un giorno sarebbero venuti a dirle: «Sai, bisogna che tu sposi chi non ti piace?...» E perché, poi, perché volevano darle quell’altro e non chi aveva il suo cuore?» (Ivi, p. 976). 262 Ivi, p. 981. 263 Cfr.: «Teresa, agli occhi di un cultore del vero qual era De Roberto, commette un errore imperdonabile: posta in condizioni che le permettono di conoscere e denunciare l’orrore che la circonda, ella decide di non vedere. Dovendo scegliere, preferisce l’amore per suo padre a quello per Giovannino. Ma, di fronte al dissacrante autore de I Viceré, non c’è dogma che tenga: amare e onorare il padre e la madre, quando il padre è un mostro di cattiveria e la matrigna una falsa opportunista, non è un dovere. Invece, Teresa china la testa di fronte a dogmi intoccabili quali la famiglia, la pace, la religione, la bontà. Teresa è la rappresentazione esatta della retorica che copre i sentimenti cristiani: degna erede della sua stirpe, ella strumentalizza la fede e l’autosacrificio per primeggiare, per essere portata ad esempio di virtù ed essere venerata “come una santa”» (S. Dai Prà, Federico De Roberto. Tra Naturalismo ed Espressionismo. Lo stile della provocazione, cit., p. 75). 264 Cfr.: «”Sei contenta?” non poté fare a meno di domandarle, a quattr’occhi. “Sì” ella rispose; e la tristezza del sacrificio che le velava la fronte si diradò per dar luogo alla serenità del dovere compito…» (I Viceré, p. 992). 77     Veramente, ella non sentiva più l’anima disposta a comporre musiche o poesie, ma sedeva ancora spesso al pianoforte per esercitarsi, e nel farsi bella spendeva forse maggiori cure di prima. 265 Credo che le riflessioni della nuova duchessa di Radalì siano l’indizio più esplicito della follia Uzeda che ha ormai contagiato anche quella Teresa, in cui il vecchio Baldassarre aveva creduto perché “salvasse” dal baratro la folle razza dei Viceré. Ora Teresa è proprio come tutti gli Uzeda. Sottomessa alla volontà della famiglia, coltiva nella sua nuova casa la passione per il potere che anima tutti i parenti ed ottiene i suoi medicamina cordis attraverso il balsamo delle lodi che all’unisono tutto il pubblico del romanzo le tributa, riconoscendo in lei l’esempio vivente dell’integrità morale e della devozione religiosa266. Il solo Consalvo, cui più volte nel romanzo, a partire dalle osservazioni del fanciullo innocente in relazione al “tradimento” politico dello zio duca o al feto mostruoso di Chiara, si attribuisce il ruolo di “coscienza” scomoda ed irriverente, osserverà che la giovane duchessa non è più la sua bella ed ingenua sorella Teresa. Con Giovannino, l’amore che le aveva procurato la tempesta dell’animo, Teresa convive serenamente in casa Radalì, come ignara dei sentimenti nutriti dal cognato nei suoi confronti. All’inizio del romanzo, quando la “folla” anonima racconta dell’amore giovanile di Giacomo e Graziella, il narratore ed il lettore apprendono con un certo stupore che, subito dopo il matrimonio imposto a Giacomo dalla madre, egli sembrerà non essere mai stato in intimità con la cugina Graziella e passerà addirittura dal tu al voi, come se nulla fosse mai accaduto. Nessuna sopravvivenza di quel turbamento giovanile sopravvivrà in lui. Teresa si comporterà esattamente come suo padre. Tutta compresa nel ruolo di moglie e presto di madre perfetta, accorderà a Giovannino un’innocente simpatia, senza immaginare minimamente che un uomo innamorato può fraintendere anche l’intensità di uno sguardo complice. Dal punto di vista banalmente narrativo viene qui ribaltato il tòpos della fanciulla innamorata, che porterà sempre in cuore l’amore della sua vita e questo ruolo topico apparterrà, invece, a Giovannino, incapace di accettare la realtà e di fingere indifferenza nei confronti della cugina, ora cognata. Quando, dopo la nascita del primogenito di Teresa e Michele, Giovannino partirà irrevocabilmente per la campagna, dove si sforzerà di sfuggire alla malia dell’amore per la cognata, la nostra Uzeda ne sarà dispiaciuta, quasi offesa, come se non immaginasse di avere la responsabilità di quella scelta. Rinsavirà e comprenderà ogni cosa all’improvviso e solo allora sarà                                                                                                                           265 Ivi, p. 1000. 266 Cfr: «Ma nel mondo ruvidamente provinciale dei Viceré la letteratura sentimentale (seducente corrispettivo dell’amore-passione) non può avere che breve ed osteggiata cittadinanza; ed alla fine essa viene soppiantata dalle letture devote, che avviano Teresa al culto della Beata Ximena, l’antica antenata, la cui “leggende santa” ha tuttavia movenze romanzesche, d’ordine amoroso: quelle relative alle sue vicissitudini coniugali. […] Ma un altro vantaggio si poteva ricavare da questa riduzione dell’irrequietezza dell’amore a paradigma di una storia devota: la possibilità di riportare nell’alveo della storia di famiglia, e, quindi, all’osservanza delle regole sociali, un elemento perturbante come la passione innalzata sopra il reale dalla letteratura» (R. Contarino, Gli inganni della Letteratura dall’«Illusione» ai «Viceré», in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., pp. 100-101). 80     maniera opportuna, perché nel povero Giovannino, dopo la malattia, albergava il seme familiare della follia, che aveva condotto il duca Radalì, suo padre, al suicidio. Al racconto delle stranezze, note in città, di Giovannino, Teresa trasalirà per non essersene mai resa conto. Cercando in cuore i motivi della sua cecità, comprenderà di non aver notato stranezze nel cognato solo perché con lei Giovannino non è strano, ma felice. Questo le darà la certezza della propria colpa e la indurrà a sfuggirlo nel tentativo di allontanare da sé le tentazioni273. Ma tutto si rivelerà vano, quando, afflitta e provata per le gravissime condizioni di Giacomo, troverà conforto, senza più difese, tra le braccia del cognato: Ed il suo braccio la cinse, la sua tempia sfiorò la tempia di lei. Ella piangeva ancora, ma di tenerezza, non di dolore: dopo l’orrore che aveva visto, dopo le tristezze che aveva pensato, l’anima sua aveva bisogno di conforti, e le confortanti parole le scendevano soavi all’anima come un balsamo. Avendo pensato d’esser sola al mondo, di non aver nessuno che l’intendesse, abbandona vasi ora, con la trepida voluttà della debolezza, a quella forza, a quella simpatia. Egli le asciugava gli occhi, le divideva sulla fronte i capelli, scomposti. La sua mano tremava. […] Le passò nuovamente il braccio attorno alla vita, le prese una mano. I singhiozzi che le sollevavano il seno ambasciato facevano più stretto l’abbraccio. La baciò in fronte. […] Da quel momento entrambi lessero il pensiero della colpa nei loro sguardi. Evitavano di guardarsi, ma il pensiero persisteva, come se qualcuno, le stesse mute cose lo esprimessero. Se la mano, se l’abito dell’una sfiorava quello dell’altro, le fonti arrossivano, le menti si turbavano.274 Non esistono nel romanzo altri luoghi di analoga sensualità. La penna di De Roberto si cimenta, nel descrivere la καταστρωφή dell’amore tra i due cognati, in uno stile personale, quasi vibrante, che non gli appartiene e che sembra essere preso a prestito da uno di quei romanzetti per signorine, cui fa riferimento Tedesco quando parla del romanzo nel romanzo di Matilde275. Questa variatio è necessaria e funzionale alla “specialità” della vicenda di Teresa e Giovannino nell’ambito di questo romanzo. Il tono impersonale, distaccato, talvolta cinico che costituisce la cifra stilistica più vera di De Roberto non c’è in questo luogo del romanzo, perché, se come accade ad ogni narratore, egli ama diversamente tutti i propri personaggi, solo per Giovannino Radalì sembra provare dei sentimenti. Egli è l’unico personaggio riconosciuto come “pazzo” nel romanzo, ma il lettore non ha alcun saggio diretto di questa follia. Nella comédie di questo caleidoscopio umano che affolla le pagine dei Viceré, tutti i personaggi appaiono chiaramente monomaniaci al lettore, tutti, tranne il presunto pazzo, Giovannino. È lui l’eroe autentico del romanzo, il personaggio puro                                                                                                                           273 Cfr.: «Tutte le volte che Giovannino le stava vicino, ella tremava come dinanzi al testimonio ed al complice della propria colpa. Lo evitava, non lo guardava più in viso, smaniava quand’egli teneva in braccio i nipotini, baciandoli lungamente, avidamente, quasi baciasse lei stessa, una parte della sua carne…» (I Viceré, p. 1025). 274 Ivi, pp. 1030-1031. 275 Cfr. N. Tedesco, La norma del negativo, cit., p. 92. 81     che al contatto con il male soccombe, invece di essere fagocitato dalla sua logica, cui tutti gli altri personaggi del romanzo soccombono276. Teresa, infatti, brilla di luce riflessa solo fino a quando egli è vivo. Lo sguardo distaccato ed impietoso di De Roberto la risparmia solo fino a quando ella è combattuta tra il bene -l’amore per Giovannino- ed il male –l’asservimento alla logica del potere e della convenienza egoistica che la indurrà a scegliere Michele-. Nel momento in cui la sua scelta sarà definitivamente compiuta, alla morte di Giovannino, di cui ella è responsabile agli occhi del narratore, Teresa apparirà al lettore per ciò che è, una Uzeda, folle e priva di fascino: Dov’era la fanciulla d’una volta, graziosa, gentile, poetica, pietosa ma non bigotta, credente ma non accecata? Anche al fisico, aveva perduta l’eleganza del portamento, ingrassava, era irriconoscibile. La pazzia soggiogava anche lei, prendeva la forma religiosa, diventava misticismo isterico!277 Quando, nelle pagine conclusive del romanzo, Consalvo terrà al cospetto della vecchia ed ammalata zia Ferdinanda il lungo monologo che restituisce al lettore il senso esatto di questo polimorfico romanzo, passando in rassegna la follia di tutta la sua famiglia, affrancherà il personaggio di Teresa da ogni possibile alibi e la penna cinica di De Roberto fisserà anche lei in un giudizio senza appello278, omologandola a tutti gli altri Uzeda. 10. Donna Mara Fersa e la Duchessa Radalì Alla costruzione di questo mosaico al femminile, che ha tentato di restituire ai personaggi femminili una dignità letteraria individuale, espungendoli dalla folla di personaggi di questo romanzo corale, mancano ancora due donne, secondarie eppure, per motivi antitetici, importanti ed interessanti, Donna Mara Fersa e la duchessa Caterina Radalì, tra le quali non intercorrono rapporti di parentela, coinvolte in due diverse vicende collaterali de I Viceré. La ragione, perciò, per cui sono affiancate in questa analisi, non è meramente narrativa. Mi sembra che, nella loro qualità di personaggi marginali, possano offrire entrambe nuove occasioni di riflessione sul ruolo della maternità nel capolavoro derobertiano. Donna Mara Fersa è la madre di Mario, il marito di Isabella. La duchessa Radalì è madre di Michele e Giovannino. La storia delle due donne si risolve unicamente nella dimensione della loro maternità. Al narratore non interessa presentarle come donne, perché è nel ruolo di madri che hanno                                                                                                                           276 Cfr.: «Nel ritratto di Giovannino convergono le lodi più belle della nobiltà di coscienza: proprio ciò lo condanna alla sconfitta più radicale, sia nella dimensione pubblica sia nella privata. Come in uno Jacopo Ortis redivivo, la delusione politica si affianca alla frustrazione sentimentale: ma il dramma del personaggio derobertiano è più tormentoso, perché Teresa ricambia il suo amore, non solo, ma perché ad averla in moglie è il fratello primogenito, cui egli è legatissimo» (V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, cit., p. 80). 277 I Viceré, pp. 1071-1072. 278 «Guardiamo, in un altro senso, la stessa Teresa. Per obbedienza filiale, per farsi dar della santa, sposò chi non amava, affrettò la pazzia ed il suicidio del povero Giovannino; e adesso va ad inginocchiarsi tutti i giorni nella cappella della Beata Ximena, dove arde la lampada accesa per la salute del povero cugino!» (Ivi, pp. 1102-1103). 82     una funzione all’interno del suo universo narrativo. Non sapremo, perciò, quale aspetto abbiano. Non ne conosceremo, se non attraverso, rapidissimi incisi, le storie pregresse. Appariranno sulla scena ex-abrupto, al seguito dei loro figli maschi, che costituiscono l’obiettivo di tutta la loro vita. La prima apparizione nel romanzo di donna Mara è al seguito di suo figlio e di Isabella, in casa Francalanza. Diversamente dai suoi congiunti, inebriati dalla sempre maggiore familiarità con la famiglia più importante e nobile della città, è esente da ogni vanagloriosa suggestione. Si schermisce, anzi, dalle eventuali attenzioni che le vengono riservate in quella casa. A parlarci di lei è, non certo per caso, Matilde, in occasione della visita che è obbligata a fare a donna Isabella insieme alla cognata Margherita, dopo il periodo di lutto per la morte della principessa Teresa: Donna Mara Fersa era una donna un po’ all’antica, senza ombra d’istruzione, poco fine d’educazione anche; ma molto accorta, e semplice, alla mano come una buona massaia. Aveva sperato d’ammogliare il figliuolo a modo suo; ma questi, andato una volta a Palermo e vista l’Isabella Pinto, orfana di padre e di madre, l’aveva chiesta su due piedi, innamoratissimo, allo zio materno dal quale era stata educata. […] Donna Mara, sulle prime, aveva tentato di opporsi a quel matrimonio; ma poiché suo figlio era cotto dell’Isabella, e questa pareva più cotta di lui, aveva finalmente consentito. Così la nuora palermitana, elegante, istruita e nobile, venne a mettere nella sua casa una rivoluzione, che ella sopportò con molta buona grazia, per amore del figlio279 Donna Mara esiste come personaggio grazie alle parole di Matilde, il personaggio immune dall’ironia, anche se non dal cinismo derobertiano. Questa immunità è trasfusa anche a lei. L’immagine che se ne desume è aliena rispetto all’universo dei Viceré. Prima di tutto è un personaggio che sembra aver abdicato da ogni individualismo, la sua vita è finalizzata solo al compimento della realizzazione di quella di suo figlio Mario. Intuiamo dalla semplicità di cui De Roberto la adorna, che i progetti matrimoniali per il figlio sarebbero stati circoscritti all’ambiente catanese. Fino a questo punto non appare, perciò, diversa dalle altre protagoniste del romanzo, i cui orizzonti, anche matrimoniali, sono interamente circoscritti negli orizzonti cittadini, al punto che Matilde Palmi, che è di Milazzo, è considerata una straniera alla stregua di un’italiana. La distanza di questa madre dalle altre del romanzo sembra perciò consistere in altro: donna Mara ha come reale obiettivo la felicità del figlio. Per questo accetta di buon grado le nozze con la bellissima Isabella, che accoglie nella sua casa, consentendole di portarvi “la rivoluzione”. Ma proprio perché ha a cuore la felicità del suo Mario non potrà tollerare l’adulterio di Isabella, che vede, da sola, costruirsi lentamente davanti ai suoi occhi. La limpidezza del suo sguardo di madre ha ovviamente come immagine speculare la cecità forzosa di chi non vede, perché non sta guardando con gli occhi del cuore o non è affrancato dalla malattia generale che contamina il romanzo, la sete di potere e di                                                                                                                           279 Ivi, p. 555. 85     Lodovico, il Priore di San Nicola, il religioso pio e misericordioso che rappresenta l’antitesi del miscredente don Blasco. La duchessa Radalì, però, diversamente da donna Mara Fersa, è nobile, la sua nobiltà è inferiore solo a quella dei Viceré, per questo il suo amore di madre non è incondizionato. Dei suoi due figli, Michele e Giovannino, solo il primo è da lei predestinato alla felicità. Subito dopo la morte del marito, il pazzo, la duchessa deciderà di destinare Giovannino, in quanto secondogenito, al convento, per preservare la ricchezza dell’amato primogenito Michele. Ovviamente, come accade anche nella realtà, Michele è un inetto. Il narratore, pur senza disprezzarlo mai apertamente, ne evidenzia la bruttezza fisica, l’ingordigia, la grossolanità, l’ignavia, la mancanza di acume. Ovviamente il lettore comprenderà presto che a Michele è toccata l’immeritata fortuna di essere primogenito e, di conseguenza, prenderà chiaramente le parti di Giovannino, delineato, quasi per antitesi, come l’eroe ideale, giovane, bello, intelligente, coraggioso e generoso. Il solito lettore, messo in guardia dal solito narratore, solo apparentemente extradiegetico, comprenderà presto che la duchessa Radalì ha risolto e finalizzato il suo ruolo di madre unicamente al compimento della felicità del primogenito285. Ne abbiamo numerose tracce all’interno del romanzo, né la sua determinazione sembra destare sconcerto nel mondo dei Viceré, visto che risponde alle leggi in uso nella maggiore nobiltà cittadina la scelta di “sacrificare” il secondogenito, colpevole d’esser nato, alla felicità del primogenito che da solo dovrà sposarsi, con una donna anche più ricca di lui, e perpetuare il buon nome della famiglia attraverso un figlio maschio286. Singolare, solo per un lettore moderno, è il dolore della duchessa, in seguito alla morte, per colera, d’un facoltoso zio: […] alla duchessa Radalì era morto uno zio, il cavaliere Giovanni Artuso; ma questa disgrazia non era stata causa di grande dolore, poiché il cavaliere, ricchissimo e senza figli, aveva lasciato in casa Radalì tutta la sua sostanza: l’usufrutto alla duchessa, la proprietà a Giovannino che aveva tenuto a battesimo. Doleva piuttosto alla madre che la eredità non fosse andata al primogenito, per amor del quale ella aveva sacrificato la propria vita. La soppressione dei conventi aveva già sconvolto tutti i suoi disegni, non potendo Giovannino professarsi più, e tornando al secolo; adesso l’eredità veniva a pareggiare la condizione dei due fratelli, cioè a diminuire quella del primogenito.287 L’unico dispiacere per la duchessa è determinato dalla scelta del ricco zio dell’erede sbagliato. Le grandi ricchezze, in questo modo acquisite da Giovannino, rendono il secondogenito                                                                                                                           285 Cfr. Ivi, p. 741. 286 Cfr. «Teresa Uzeda, donna Ferdinanda, Lucrezia, Isabella, la duchessa Caterina Radalì appartengono a questa specie di individui che pur di raggiungere i propri obiettivi si adoperano per assoggettare gli altri influenzandone idee e valori e soprattutto manipolandone il comportamento. […] sono pronte alla competizione anche sleale pur di migliorare la loro posizione sociale e presentano tratti psicologici e comportamentali di tipo acquisitivo in quanto sono dominate da forti impulsi che le predispongono ad affermarsi in ambito sociale» (A. Neiger, Tutte le donne dei «Viceré», in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 256). 287 I Viceré, pp. 836-837. 86     troppo ricco e sminuiscono l’importanza del primogenito. Le preoccupazioni in tal senso sono però unicamente appannaggio della duchessa; i suoi due figli, infatti, circostanza ancora una volta insolita in questo romanzo di odi familiari, si amano e si aiutano reciprocamente. Questo accade forse perché Giovannino è “pazzo”, come suo padre; dunque, incapace di odio diversamente da tutti i “sani di mente” del romanzo. O fors i due fratelli Radalì si amano perché sono stati entrambi amati dalla madre fino al momento in cui ella, a loro insaputa, ha deciso di costruire la fortuna di Michele attraverso il sacrificio della felicità di Giovannino: Ella voleva bene ad entrambi, ma al duca, oltreché bene, portava anche una specie d’istintivo rispetto, come capo della casa, come erede e continuatore del nome e della potestà ducale. Perché la chiusura dei conventi e l’errore dello zio non disturbassero i piani di lei, bisognava che Giovannino non prendesse moglie: ella lavorava a questo scopo, lasciandolo padrone di spendere e di sbizzarrirsi a suo modo, secondando tutti i suoi gusti per la caccia, pei cavalli, per tutti i diporti, in modo che il giovane non fosse tentato di mutar vita.288 I progetti della duchessa, che neanche la storia sembra in grado di fermare, non hanno fatto i conti con l’amore, che ha il nome di Teresa Uzeda. Proprio quando sembra vicina a realizzare il sogno per il quale si era prodigata tutta la vita, il secondogenito si innamora, coltiva il sogno di sposare la cugina che è, invece, destinata al fratello Michele: La duchessa, infatti, s’era poste le mani in capo. Dopo aver sacrificato tutta la sua vita per amore di quel primogenito, per assicurare una grande ricchezza a lui ed alla sua discendenza, dopo aver tanto aspettato a dargli moglie perché nessuna, a suo giudizio, lo meritava; ora che gli aveva trovato la cugina Teresa, che era alla vigilia di coronar l’opera di trenta lunghi anni, l’amoretto di Giovannino distruggeva a un tratto tutti i suoi piani. Ella non aveva sospettato una cosa simile, tanto le pareva che Giovannino dovesse sentir l’obbligo di restar scapolo affinché solo il primogenito continuasse la casa. «Quando Michele prenderà moglie… quando Michele avrà figli…» ella, lo stesso Giovannino non aveva parlato d’altro che del matrimonio di Michele, del duca.289 Il lettore moderno ha qualche difficoltà a credere nello stupore della duchessa. Il narratore ha speso molte pagine per sottolineare, in maniera assolutamente funzionale allo spannung della vicenda, le attenzioni di Giovannino per Teresa e lo speculare disinteresse di suo fratello per la cugina. Baldassarre, a capo della servitù delle due case, la più attenta agli amori ed agli intrighi passionali dei padroni, è sicuro del matrimonio tra i cugini Teresa e Giovannino, la stessa principessa Graziella non riesce a nascondere il sospetto di un “amoretto” tra i due. La duchessa Radalì è l’unica a porsi «le mani in capo». La sua cecità di fronte all’evidenza di un’intesa tra i due                                                                                                                           288 Ivi, p. 837. 289 Ivi, pp. 978-979. 87     cugini deriva unicamente dalla determinazione con cui ella persegue i suoi fini290. È come un atleta vicino alla linea d’arrivo, unicamente concentrato sul traguardo, incapace di vedere ciò che accade intorno. Ovviamente questo atteggiamento è atipico in una madre. In letteratura anche più che nella vita la madre è la prima ad accorgersi dei sentimenti dei figli, concentrata com’è sulla loro felicità. La duchessa Radalì non è, perciò, una madre, ma una nobildonna, schiacciata dal peso della sua autorità e del suo nome, al quale sacrifica, senza neanche accorgersene, quei sentimenti che le avevano dato un tocco di umanità nella prima parte del romanzo. Probabilmente, solo quando la principessa Graziella la informa della difficoltà sorta per il compimento dei loro piani, si rende conto di aver sbagliato qualcosa e fa un bilancio della sua vita: I due fratelli si volevano bene, erano andati sempre d’accordo; se dunque Giovannino pareva voler mettere i bastoni fra le ruote, la colpa era di lei che non lo aveva avvertito del matrimonio disegnato. La colpa era anche di Michele. Indifferente a tutto, incapace di riscaldarsi per niente, solo amante della bella caccia e della buona tavola, quando la madre aveva lasciato passar gli anni senza dargli moglie, egli non aveva chiesto di prenderla; adesso che gli proponeva la cugina Teresa, si disponeva a sposarla, senza volontà, senza desiderio, come avrebbe fatto una cosa qualunque.291 La riflessione non la induce, tuttavia, a desistere dai suoi propositi292. Il matrimonio tra Michele e Teresa deve essere celebrato. Riuscirà a realizzare il suo progetto, però, non per merito suo, ma per l’amore ed il rispetto che Giovannino, vero eroe senza macchia, nutre per la madre ed il fratello293. L’esilio volontario ad Augusta che Giovannino sceglie è il lasciapassare per la celebrazione del matrimonio tra i due cugini indifferenti l’uno all’altra. La duchessa accoglierà in casa sua la nuora esemplare che presto darà a Michele, che non ama e verso il quale nutre anche un certo disgusto, un primogenito maschio. L’autoisolamento di Giovannino consentirà a tutti di condurre una vita serena. La duchessa Teresa non ricorderà quasi più di aver amato il cognato che ora è solo il padrino del figlio, la duchessa Caterina penserà di aver avuto alla fine ragione delle capricciose passioni dei giovani ed aver aiutato i due figli a compiere il miglior destino possibile per                                                                                                                           290 Cfr.: «Sembra quasi che un virus mentale, per dirla con McClelland, le abbia colpite e le spinga a una attività frenetica mirata all’accumulo di beni materiali che rafforzino il loro potere e diano prestigio al loro nome» (A. Neiger, Tutte le donne dei «Viceré», in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 256). 291 I Viceré, p. 979. 292 Sono senza dubbio opportunamente riferibili alla duchessa Radalì le riflessioni generali di Spinazzola: «La coscienza non è quindi mai smossa da alcun vero dibattito, che le consenta di evolversi e irrobustirsi con gli apporti di umanità derivati da una partecipazione disinteressata ai problemi altrui. Per conseguenza, nessuno è in grado di incarnare una superiorità etica, che lo atteggi quel portatore d’una idea di progresso morale» (V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, cit., p. 60). 293 Scrive Spinazzola: «Abbiamo già notato come Giovannino sia il personaggio più integralmente sconfitto, e d’altronde colui che trae le conseguenze autopunitive più drastiche della sua frustrazione. […] Attratto e respinto, lusingato e mortificato dalla realtà esterna, il giovane Radalì non sa e non può assumere né un atteggiamento di agonismo risoluto né di acquiescenza sconsolata. Cerca sì rifugio in se stesso, ma è proprio la sua soggettività a tradirlo, minata com’è da pulsioni sadomasochistiche in componibili. Infine, il superio ha partita vinta: nella perdita del dominio di sé i sensi di colpa si scatenano e inducono all’autoannientamento» (Ivi, p. 85).
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved