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I problemi del dopoguerra e il fascismo, Appunti di Storia

Riassunti di storia con paragrafi quali: I PROBLEMI DEL DOPOGUERRA, IL BIENNIO ROSSO IN ITALIA, UN NUOVO PROTAGONISTA: IL FASCISMO, LA CONQUISTA DEL POTERE, VERSO LO STATO AUTORITARIO

Tipologia: Appunti

2015/2016

Caricato il 09/10/2016

Francesca13596
Francesca13596 🇮🇹

4.5

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Scarica I problemi del dopoguerra e il fascismo e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! I PROBLEMI DEL DOPOGUERRA Con la vittoria l'Italia aveva superato la prova più impegnativa della sua storia unitaria, ma restava alle prese con i mille problemi che la grande guerra aveva ovunque lasciato dietro di sé. L’economia presentava i tratti tipici della crisi postbellica: sviluppo abnorme di alcuni settori industriali, sconvolgimento dei flussi commerciali, deficit gravissimo del bilancio statale, inflazione galoppante. Tutti i settori della società erano in fermento. La classe operaia non solo chiedeva miglioramenti economici, ma reclamava maggior potere in fabbrica e manifestava tendenze rivoluzionarie. I contadini del Centro-Sud tornavano dal fronte con una accresciuta consapevolezza del loro diritti, insofferenti dei vecchi equilibri sociali, decisi a ottenere dalla classe dirigente l'attuazione delle promesse nel corso del conflitto. I ceti medi tendevano a organizzarsi e a mobilitarsi più che in passato per difendere i loro interessi e i loro ideali patriottici. Di fronte a questi problemi, la classe dirigente liberale si trovò sempre più contestata e isolata, non si mostrò in grado di dominare i fenomeni di mobilitazione di massa che il conflitto mondiale aveva suscitato e finì così col perdere l'egemonia indiscussa di cui aveva goduto fin allora. Risultarono invece favorite quelle forze, socialiste e cattoliche, che si consideravano estranee alla tradizione dello Stato liberale, che non erano compromesse con le responsabilità della guerra e che potevano meglio interpretare le nuove dimensioni assunte dalla lotta politica. Furono i cattolici a portare il primo e più importante fattore di novità, nel gennaio 1919, a una nuova formazione politica che prese il nome di PARTITO POPOLARE ITALIANO (Ppi). Il nuovo partito, che ebbe il suo primo segretario di don Luigi Sturzo, si presentava con un programma di impostazione democratica e si dichiarava laico e confessionale. In realtà il Ppi era strettamente legato alle strutture organizzative del mondo cattolico e in esso confluirono sia gli eredi della democrazia cristiana sia gli esponenti delle correnti clerico - moderate, preoccupati di opporre un argine alla minaccia socialista. L’altra grande novità fu la crescita del Partito socialista. Schiacciante, nel partito, era la presenza della corrente di sinistra, ora chiamata massimalista. I massimalisti si ponevano come obiettivo immediato l'instaurazione della repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletario e si dichiaravano ammiratori entusiasti della rivoluzione bolscevica. I massimalisti italiani avevano ben poco in comune coi bolscevichi russi. Più che preparare la rivoluzione, la aspettavano ritenendola inevitabile. Si formarono nel Psi gruppi di estrema sinistra che si battevano per un impegno rivoluzionario e per una più stretta adesione all’esempio dei russi. Tra questi emergeva Gramsci. All’indomani della guerra, il Partito socialista era schierato su posizioni apertamente rivoluzionarie. Ma questa radicalizzazione finì con l’isolare il movimento operario. Prospettando una soluzione alla russa i socialisti si preclusero ogni possibilità di collaborazione con le forze borghesi. Ferirono il patriottismo della piccola borghesia e fornirono argomenti all’oltranzismo nazionalista con lo scopo di difendere i valori della vittoria. Fra questi movimenti faceva spicco quello fondato a Milano il 23 marzo 1919 da Benito Mussolini con il nome di Fasci di combattimento. Il nuovo movimento si schierava a sinistra chiedeva audaci riforme sociali favorevole alla repubblica ma aveva avversione nei confronti dei socialisti. Ai suoi esordi il fascismo raccolse scarse adesioni (ex repubblicani, rivoluzionari, arditi di guerra). Ma si fece notare per il suo stile politico violento ed aggressivosi voleva incendiare la sede dell’Avanti. Dal punto di vista degli equilibri internazionali l’Italia era uscita dalla guerra rafforzata. Non solo aveva raggiunto i confini naturali ma aveva visto scomparire delle sue frontiere il nemico tradizionale, Impero asburgico. La dissoluzione dell’Austria-Ungheria poneva però una serie di problemi non previsti nel momento in cui era stato stipulato il Patto di Londra: in esso si stabiliva che la Dalmazia, abitata da slavi, fosse annessa all’Italia e che la città di Fiume restasse all’Impero austro-ungarico. La delegazione italiana alla conferenza di Versailles chiese l’annessione di Fiume sulla base del principio di nazionalità. Tale richiesta incontrò opposizione tra gli alleati. I delegati italiani abbandonarono Versailles e fecero ritorno in Italia accolti da manifestazioni patriottiche. Tornarono un mese dopo a Parigi senza aver ottenuto alcun risultato. Questi avvenimenti avevano suscitato un sentimento di ostilità verso gli ex alleati, accusati di voler defraudare l’Italia dei frutti della vittoria e verso la stessa classe dirigente ritenuta incapace di tutelare gli interessi nazionali. Si iniziò a parlare di vittoria mutilata. La manifestazione più clamorosa di questa protesta si ebbe nel 1919 quando alcuni reparti militari ribelli sotto il comando di D’Annunzio occuparono la città di Fiume. L’avventura fiumana si prolungò per 15 mesi e si trasformò in un’esperienza politica. Fiume venne considerata come una città aperta/libera. A Fiume, dove D’Annunzio istituì una provvisoria reggenza, furono sperimentati per la prima volta formule e rituali collettivi che sarebbero stati ripresi e applicati da Mussolini. IL BIENNIO ROSSO IN ITALIA Fra il 1919 e il 1920 l’Italia attraversò una fase di agitazioni sociali. Le principali città italiane divennero teatro di una serie di violenti tumulti contro il caro-viveri. Questo aumento del costo della vita determinò una continua rincorsa fra i salari e prezzi che si tradusse in una grande ondata di scioperi. Non meno intense furono le lotte dei lavoratori agricoli. Le agitazioni interessarono le aree del Centro-nord: zone in cui dominavano la mezzadria in cui erano attive le leghe bianche (organizzazioni di orientamento cattolico) e le leghe rosse (socializzazione della terra). Le leghe bianche e le leghe rosse avevano obiettivi divergenti: mentre le organizzazioni socialiste miravano alla socializzazione della terra, i cattolici si battevano per lo sviluppo della piccola proprietà contadina. Caratteristica delle agitazioni sociali fu la mancanza di un collegamento reciproco. Le molte piccole rivoluzioni che sconvolsero il paese nel dopoguerra procedettero per proprio conto o addirittura l’una contro l’altra seguendo le tradizionali linee di divisione della società italiana: laici-cattolici, operai-contadini, Nord- Sud, città-campagna. Le prime elezioni del dopo guerra (novembre del 1919) furono le prime elezioni tenute col nuovo metodo della rappresentanza proporzionale: metodo che prevedeva il confronto fra liste di partito anziché fra singoli candidati e contrariamente al vecchio sistema uninominale, assicurava alle forze politiche un numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti. L’esito fu disastroso per la vecchia classe dirigente. I gruppi liberal-democratici persero la maggioranza assoluta. Dal momento che il Psi rifiutava ogni collaborazione con i gruppi borghesi, l’unica maggioranza possibile era basata sull’accordo fra popolari e liberal-democratici. Nel giugno del 1920 fu chiamato al governo Giolitti. Era rientrato in scena con un programma molto avanzato in cui si proponeva la nominatività dei titoli azionari(intestare azioni al nome del possessore) e un’imposta straordinaria sui sovraprofitti. Dal punto di vista della politica estera Giolitti firmò il trattato di Rapallo. L’Italia conservò Trieste, Gorizia e l’Istria. La Jugoslavia ebbe la Dalmazia tranne Zara. Fiume fu dichiarata città libera. Il trattato fu avvolto con favore. A Fiume, D’Annunzio annunciò una resistenza ad oltranza. Molto più serie furono le difficoltà incontrate da Giolitti sul terreno della politica interna. Il governo impose la liberalizzazione del prezzo del pane e avviò il risanamento del bilancio statale. A fallire fu il disegno politico complessivo che consisteva nel ridimensionare le spinte rivoluzionarie del movimento operaio accogliendone le istanze di riforma, esperimento già tentato con successo prima della guerra. Quell’esperienza non era ripetibile. I liberali non avevano più la maggioranza; i socialisti erano su posizioni molto diverse; i popolari erano troppo forti. I conflitti sociali conobbero il loro episodio più drammatico: agitazione dei metalmeccanici culminata con l’occupazione delle fabbriche. Da un lato c’erano gli industriali del settore metalmeccanico, ingranditosi con la produzione bellica e minacciato dai segni di una crisi produttiva e dall’altro lato una categoria operaria compatta che era organizzata dalla Cgl che aveva visto anche svilupparsi l’esperimento rivoluzionario dei consigli di fabbrica: organismi eletti dai lavoratori. Fu il sindacato a dare inizio alla vertenza presentando una serie di richieste economiche cui gli industriali opposero rifiuto. In risposta alla serrata (chiusura degli stabilimenti), la Federazione italiana operai metallurgici ordinò di occupare le fabbriche. La maggior parte dei lavoratori visse questa esperienza come l’inizio di un moto rivoluzionario destinato ad allargarsi oltre le officine occupate. In realtà il movimento non era in grado di uscire dalle fabbriche, di collegarsi alle altre lotte sociali in corso. Prevalse così la linea dei dirigenti della Cgl che intendevano impostare lo scontro sul piano economico e proponevano come obiettivo il controllo sindacale sulle aziende. Tale esito fu favorito dall’iniziativa mediatrice di Giolitti che aveva mantenuto una linea di
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