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I quattro secoli della pittura veneziana - riassunto, Sintesi del corso di Storia Dell'arte

L'arrivo del Rinascimento a Venezia e l'influenza degli artisti nordici sulla cultura pittorica veneziana. In particolare, si parla di Jacopo Bellini, allievo di Gentile da Fabriano, che introdusse la prospettiva e l'invenzione della storia in chiave umana ed espressiva. alcune opere di Jacopo Bellini, come l'Annunciazione della chiesa bresciana di Sant'Alessandro e la Madonna con il ritratto di Lionello d'Este, e le confronta con quelle di altri artisti contemporanei come Michele Giambono e Antonio Vivarini.

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

In vendita dal 18/01/2022

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Scarica I quattro secoli della pittura veneziana - riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! 1. Il 400 tra Gotico, antiquaria e influssi nordici (1440-1500): da Jacopo a Giovanni Bellini Il rinascimento a Venezia fatica in un primo tempo ad affermarsi e la città sarà sempre restia ad accettare stimoli artistici provenienti da tradizioni diverse dalla propria. Con l’avvio del 400 la cultura pittorica veneziana non mancò di arricchire le proprie conoscenze esterne con la chiamata in città di Gentile da Fabriano. All’inizio del secondo decennio fu incaricato degli affreschi con le storie di papa Alessandro III nel salone del maggior consiglio in palazzo ducale, terminati intorno al 1422. Allievo di Gentile è Jacopo Bellini, attivo anche lui a Firenze e conosceva Donatello e Raffaello: riscoperta del classicismo, invenzione della prospettiva e avvio verso la nuova interpretazione della storia in chiave umana ed espressiva della consequenzialità dei fatti. Fu il primo a mettere in circolo queste novità a Venezia. Annunciazione della chiesa bresciana di Sant’Alessandro, compiuta sul finire degli anni 30, in cui i due scomparti nei quali sono allogati l’angelo e la Vergine sono connessi spazialmente con una tettoia lignea dipinta in prospettiva in entrambi i pannelli, con un arazzo prezioso che fa da sfondo alle due figure. Ricchezza materica dei corposi panneggi dalle trame dorate e policrome. Ormai assente ogni retaggio bizantino. La colonnina della cornice al centro definisce lo spazio dove avviene l’incontro, e la vicenda sacra assume una credibilità puntuale e freschezza teatrale che richiama l’Annunciazione Cavalcanti di Donatello in Santa Croce a Firenze, eseguita poco prima. 1445, 5 tavolette inserite più tardi nella predella della cornice: storie mariane rese con una scorrevolezza narrativa tutta nuova che si avvale di un repertorio di edifici in prospettiva, connessi a un gusto per il paesaggio ispirato alla miniatura del tempo. Madonna con il ritratto di Lionello d’Este in cui la figura della Vergine troneggia al centro di un paesaggio rigoglioso, avvolta da ricchi panneggi: tridimensionalità plastica, 1440-45, Jacopo Bellini. Il paesaggio è invece assente nella Madonna col Bambino di Lovere / Madonna Tadini, 1450, ancora influenzata dallo stile di Gentile, in cui l’eleganza della Vergine adorna di un luminoso diadema è modernizzata dalla balaustra in prospettiva sulla quale si appoggia il Bambino, che con il segno di benedizione avanza distaccandosi dal corpo della madre con fare drammatico e risoluto. Opere che testimoniano il coinvolgimento di Jacopo nella sperimentazione di nuove formule rappresentative basate su un uso disinvolto della prospettiva e sulla riproposta di iconografie antiche. Uno dei disegni del libro del Louvre, 1440-45, mostra la scena del Banchetto di Erode: composizione ambientata in uno spazio cittadino realistico e complesso. La venezianità di Jacopo si rivela nella ripresa di uno sfondo architettonico ispirato alla mole di Palazzo Ducale, fiancheggiato dalla fuga prospettica di due ali in cui si aprono portici e loggiati con archi a tutto sesto commisti a balconcini tipici del passato medievale. La fontana al centro è inserita a fianco di altri luoghi comuni della vita cittadina: cavallo che si abbevera, cagnolino legato alla colonna,… Disegno album di Louvre, Morte della Vergine: la drammaticità dell’evento qui è esaltata dalla pesante imponenza del voltone in prospettiva, sotto il quale il letto di morte diventa il centro della rappresentazione. Questa volontà di serrare tra loro narrazione e spazialità prospettica è il segno che lo distingue dagli artisti a lui contemporanei come Michele Giambono e Antonio Vivarini. Giambono: scene a mosaico nella cappella dei Mascoli in San Marco, con Visitazione e Morte della Vergine, post1451, compiute con Jacopo e quelle attribuite solo a Giambono e risalenti a un decennio prima, con l’Annunciazione, Nascita della Vergine e presentazione vergine al tempio. Qui è assente la centralità prospettica dei mosaici più tardi: strumento per indicare la gerarchia della scansione della storia. Vivarini: polittici dedicati a Santa Sabina, Redentore, Madonna del Rosario: mutazione della pittura veneziana di metà secolo: se alla cornice è ancora assegnato un valore formale di grande rilievo secondo la tradizione ornamentale gotica, le figure dimostrano una nuova gravità espressiva dovuta alla ricezione del plasticismo prospettico degli affreschi della volta di mano del Castagno. Trittico con la Madonna col Bambino e 4 padri della chiesa per la sala dell’albergo della Scuola di Santa Maria della carità, 1446: espediente dell’annunciazione bresciana —> sola visione prospettica che lega le tre tele. Decorazione gotica e ispirata al preziosismo della tradizione veneziana 300/400esca, l’impianto spaziale denota una nuova attenzione per un uso della prospettiva mirato a collocare I vari personaggi con maggior coerenza, conferendo loro la posizione più appropriata per renderli storicamente credibili. Un episodio che si rivelerà determinante per un aggiornamento del linguaggio figurativo in senso rinascimentale in Veneto è il trasferimento di Donatello da Firenze a Padova nel 1444. Prima di passare a Padova, aveva realizzato il David in bronzo, primo esempio di nudo maschile del Rinascimento con il quale aveva riaffermato il ruolo della scultura come arte autonoma libera da ogni dipendenza dall’architettura. Da lì realizzò varie opere in bronzo: monumento equestre del Gattamelata (1453), Erasmo da Narni. Sceglie di presentare il condottiero meditabondo su un destriero che con passo misurato pare partecipare i dubbi del cavaliere: primo esempio di monumento equestre rinascimentale ideato sul modello del Marco Aurelio romano. Alla forte umanità dell’espressione del volto, si accompagna il gusto elegante e prezioso dell’armatura con i rilievi classicheggianti. Crocefisso per il Santo, la cui forza muscolare è resa con un espressionismo che contrasta con i caratteri delle altre statue a figura intera poste a ornamento dell’altare maggiore della basilica (1450). Novità dell’altare di Sant’Antonio: serie di figure intere + bassorilievi —> capacità di infondere pathos e sentimento nei diversi personaggi, ma anche per la resa di un linguaggio Vincenzo Ferrer, 1468-70. Se comparata con il Polittico di Sant’Antonio abate di Vivarini per Pesaro, in cui l’elegante distacco dei santi che paiono tanti gentiluomini ripresi nelle loro vesti migliori, non ha niente a che vedere con la composizione di Giovanni. Il pittore denuda San Cristoforo e San Sebastiano, rappresentandoli nel pieno della loro emotività, sullo sfondo di vedute paesistiche in cui la linea bassa dell’orizzonte mette in evidenza le figure alte e muscolose dei due santi. Sensibile all’uso della luce fiamminga, se ne serve per enfatizzare i moti dell’Angelo annunciante, della Vergine inginocchiata in preghiera e del Cristo morto sorretto dagli angeli. Se la si compara con i 4 Trittici della carità (1464-70), cosiddetti della Natività, di san Sebastiano, di San Lorenzo e della Madonna che furono ordinati per ornare in sequenza il bardo della chiesa di Santa Maria della carità, ossia lo spazio della chiesa riservato ai religiosi. L’intimismo con cui Giovanni pare smussare certe durezze di Mantegna trova la sua massima espressione nella Pietà (1465-70) della Pinacoteca —> muto colloquio tra il Cristo morto e la Vergine. Risalta la volontà di umanizzare la storia sacra con il fine di renderci partecipi. Il toccante abbraccio è l’espediente con cui il pittore non si limita solo a sviluppare le novità formali dell’arte padovana di metà secolo ma ne ripropone le caratteristiche stilistiche per infondervi quella partecipazione emotiva che mancava alla pittura giovanile di Mantegna. Il cartiglio sotto la mano di Cristo: parafrasando un verso del poeta latino Properzio, esalta la commozione fino alle lacrime che ispirava la sua pittura. Prima ancora del 1475 quando l’arrivo in laguna di Antonello da Messina suggerì all’artista nuovi orizzonti formali, Giovanni dipinse una seconda grande pala d’altare per la di san Francesco a Pesaro. I pannelli sono fusi in una sola scena centrale, occupata dal trono della Vergine incoronata da Cristo, ornato di rilievi all’antica e aperto in scorcio sull’ampio paesaggio circostante. Abolizione dei singoli pannelli e numerose scene ai lati della predella che li sostituiscono. Nel 1474 l’arrivo in laguna del pittore siciliano Antonello da Messina, pala di San Cassiano, Vienna: abbandona l’antiquato schema del polittico per proiettare su una tavola centinata un’unica scena sacra con la Madonna col Bambino in trono attorniata dai santi. L’Unità e la stringatezza espressiva del dipinto erano avvalorate dalla presenza di un interno di chiesa in prospettiva, nella quale si trovava il gruppo delle figure poi andato perduto. Uso dell’olio come legante dei vari colori. Preziosità di tutti i dettagli, ricco risvolto damascato del manto blu della Vergine, il luccichio dell’oro della pianeta di san Nicola, il riflesso vitreo del bicchiere tenuto in mano dalla Maddalena e la delicatissima luminosità dei diafani incarnati dei volti. Rimase a Venezia solo fino al 1477 ed ebbe modo di consolidare il suo successo anche in altre città con dipinti di committenza privata come il san Girolamo nello studio e il Cristo alla Colonna. Nel primo vediamo tutti gli elementi del suo fiamminghismo: raffinatissima disposizione delle fonti di luce, connesse a varie aperture su un paesaggio retrostante. Finezza miniatoria nel rendere tutti i dettagli. Nel cristo morto del museo del Prado (1476-78), dimostra come la dolcezza malinconica del paesaggio, nel quale figura un teschio, assecondi il pianto sommesso dell’angelo alle sue spalle. Al contrario, un dolore urlato, che scuote gli astanti, è quello del Cristo di Londra (1476-78): volto implorante, rigato di lacrime e sangue: violento espressionismo sentimentale. Porta in laguna una nuova visione palpitante della natura, un’intima resa degli stati d’animo e una conseguente scioltezza narrativa scandita da dettagli affascinanti. Caposaldo dell’opera Belliniana e forse primo momento del rinnovamento di Giovanni sulla scia dell’esempio di Antonello è il san Francesco in estasi (1475-80), Frick Collection NY: paesaggio è il vero protagonista. Influsso nordico, luce dorata che si accende in modo particolare sul saio del santo che pare quasi subissato dal colorismo di una natura piena di sublime bellezza. La spiritualità di Francesco sembra riflettersi nella vitalità del paesaggio, ormai privo di quella fissità immota riscontrabile nelle campagne dell’orazione dell’orto di Mantegna. Resurrezione di Cristo che Giovanni compì tra il 1475 e il 1479 per l’altare della cappella Zorzi in San Michele in Isola. Qui la dolcezza del modellato del corpo di Cristo, i borghi lontani, lo stupore dei soldati di guardia al sepolcro, rendono il dipinto una commovente meditazione sulla vita eterna, con una religiosità amorevole che richiama un altro celebre esempio della pittura di Antonello, il san Sebastiano (1478-79). Quest’ultimo faceva parte di un trittico con altri due pannelli in cui erano raffigurati san Cristoforo e san rocco. Nel suo san Sebastiano Antonello fornì una versione idealizzata del martirio, dove il nudo ispirato alla statuaria classica acquista vita nel tenue contrapposto tra la direzione dello sguardo languido e la rotazione delle spalle. Le ombre delicate ma nette di una luce diffusa proveniente da destra conferiscono al giovane un’umanità struggente che induce a dimenticare la situazione dolorosa e a ricollegare la bellezza virginea del santo alla piacevolezza tranquilla dei gruppi di figure sul fondo, abbigliate con ricche vesti alla moda del tempo, intente a conversare. Un impiego sicuro della prospettiva centrale, con punto di vista e orizzonte in corrispondenza dei piedi del santo, doveva essere funzionale alla visione che i fedeli avevano del dipinto nella chiesa, con gli occhi alla stessa altezza della fuga del pavimento diretti oltre le due grandi arcate aperte sull’azzurra luminosità del cielo. La perizia prospettica di Antonello colpisce anche per gli scorci audaci delle figure, come quella maschile sdraiata sulla sinistra e tocca il vertice nella divaricazione dei piedi del santo anche per il sottile gioco di ombre. 1478-80 Pala con la Madonna in trono col Bambino e santi per la chiesa di san giobbe —> influenza di Antonello su Bellini. Ideò un dipinto che completava la stessa architettura della chiesa in cui fu posto. La presenza di san domenico può essere spiegata in omaggio alla Vergine: conciliazione tra i due ordini sul problema della santità della Madonna. Madonna qui come personificazione di Venezia: ombrella dogale. (Venezia fondata il giorno dell’Ascensione) La tavola di san Giobbe doveva costituire il principale altare pubblico della chiesa e come tale il suo impressionante impianto scenico viene ideato in netta sintonia con il linguaggio architettonico dell’interno della chiesa, a cui si ricollega attraverso eleganti paraste con capitelli con delfini identiche a quelle dipinte. Giovanni finse in prospettiva un’intera cappella laterale che non avrebbe mai potuto essere costruita per mancanza di spazio all’esterno. Inoltre, come l’oro del sfondo senza mediazioni come il trono o la balaustra, al colloquio tranquillo e informale tra la Vergine e il donatore. I quadri di devozione privata a Venezia venivano poi esposti pubblicamente nelle chiese. E’ nella ritrattistica che il rinnovamento della pittura veneziana seguito alla conoscenza dell’arte fiamminga di Antonello si manifesta nei dipinti religiosi. A Venezia fino all’inizio degli anni 70, di ritratti si potevano osservare solo quelli dei dogi dipinti a fresco nel fregio soprastante le scene di storia della Repubblica nel salone del maggior consiglio. L’arcaismo che caratterizzava i volti, ripresi di profilo o di 3/4, si può immaginare guardando il ritratto del doge Giovanni Mocenigo di Gentile Bellini, 1478. Descrizione degli accessori che dichiaravano la sua autorità, come il corno dogale e l’ampio mantello con la gorgiera e i bottoni dorati. Esito diverso dei ritratti di Antonello. Quell’umanità palpitante la ritroviamo nei ritratti di Giovanni Bellini, Ritratto di giovane, 1500. sia Giovanni che gentile bellini, come anche Alvise Vivarini o Jacometto Veneziano, non abbandoneranno mai nei loro ritratti quel velo di lontananza dall’osservatore che conferisce loro un’espressione un po’ assente e trasognata di grande suggestione, rispetto, invece, alla presenza più immediata degli sguardi resi dai pittori fiamminghi e nordici in generale. Gli sviluppi del ritratto a Venezia saranno molto più significativi nel secolo successivo, grazie anche alla presa in considerazione molto più frequente delle donne da parte degli artisti. Nel 1500 Giovanni Bellini fu in grado di mediare nel ritratto del doge Leonardo Loredan, le nuove esigenze di somiglianza espressiva al modello che nel frattempo si erano fatte largo nella committenza più altolocata con la tradizione della ritrattistica aulica veneziana. L’umanità del doge è tanto più reale a causa del leggerissimo sfumato che ne vela gli occhi stanchi di uomo anziano e gravato dalla responsabilità degli affari di Stato. La luminosità del robone, quasi metallico per la sua preziosità, contrasta con la concentrazione del doge, mettendoci in grado d’intenderne la profonda riservatezza e la dignità interiore. La struttura laica del potere politico veneziano si rifletteva in alcune istituzioni come le scuole che all’epoca erano confraternite di cittadini che si riunivano ufficialmente per scopi di beneficenza. I membri delle diverse scuole erano accomunati da precisi interessi come le attività svolte o le regioni di provenienza. La direzione di esse era organizzata sul modello degli organi di governo dello stato. I soggetti dei teleri erano legati alla storie delle istituzioni, con vedute su Venezia per legare la storia narrata al contesto. Con un largo dispiego di ornamenti architettonici come ampi palazzi, interni fastosi, scorci sul Canal grande in festa, Carpaccio si segnala, insieme a Gentile Bellini, come il principale interprete di questa imprenditorialità pittorica. I due pittori lavorarono insieme per la sala dell’albergo della scuola di san Giovanni evangelista, in cui erano rappresentati diversi miracoli compiuti dalla reliquia della Croce di Cristo posseduta dalla Scuola. Questo genere pittorico inoltre era adatto per far comparire numerosi ritratti di personaggi contemporanei. Nel miracolo al ponte di San Lorenzo del 1500 di Gentile Bellini, tra dignitari e notabili del tempo compare uno dei personaggi femminili più in vista dell’aristocrazia, Caterina Cornaro, regina di Cipro, devotamente inginocchiata di fronte al salvataggio di un annegato. Ma i dipinti più emblematici sono la Processione in Piazza San Marco e la Predica di San Marco ad Alessandria. In questo dipinto, ambientato in una città orientale in cui palesi sono i riferimenti dell’edificio di fondo alla basilica marciana, si ha un’idea estremamente efficace di come veniva intesa la realtà di Venezia, città di mare e di commerci sospesa tra oriente e occidente, luogo di contatto di popoli e religioni diverse. In primo piano, patrizi veneziani mischiati a uomini e donne abbigliati in sontuose fogge orientali, sono la riprova della coscienza dei veneziani di come la loro città costituisse il punto d’incontro privilegiato di due civiltà. Quanto a Carpaccio, con il ciclo interamente dedicato al racconto della vita di sant’Orsola per la scuola omonima, il pittore dimostra come tale genere di narrazione lungo città dalle architetture fantastiche ispirate ora all’antico ora ai castelli medievali, gremite di figure maschili e femminili in abiti dai tessuti preziosi, gli fosse congeniale, molto più della stringatezza sentimentale e individualistica innestata da Antonello nella pittura religiosa e nella ritrattistica di Giovanni Bellini. Pur adottando complessi schemi prospettici, dispiega le diverse riprese privilegiando una visione in superficie piuttosto che in profondità, come se le tele fossero grandi arazzi, non si lascia turbare dall’interiorità crescente della pittura veneziana di fine secolo. 2. IL PIENO RINASCIMENTO (1500-1540): GIORGIONE, TIZIANO E LA GENESI DELLA PITTURA MODERNA Una pittura finalmente moderna, liberata dalle durezze del secolo precedente e tesa a divenire specchio di una realtà naturale ispirata al classicismo di fine 400, è quella di Giorgione. Produzione di opere di piccolo formato, di soggetto profano, probabilmente dovute alla frequentazione che l’artista dovette avere all’inizio della sua carriera con la piccola corte di Caterina Cornaro. Un nuovo interesse per il paesaggio, ispirato anche alle preferenze dei pittori tedeschi di frequente a Venezia (Albrecht Durer). Forme e colori palesano una condizione mentale del pittore inquieta e volta a sceverare le relazioni più segrete tra uomo e natura. Pala per il duomo di Castelfranco, 1498-1500: non più un consueto interno di chiesa a prospettiva centrale, entrato ormai tra le formule più comuni di rappresentazione sacra, ma un insolito trono issato su un podio isolato, dietro il quale si estende un paesaggio di ampio respiro proiettato su un orizzonte nebuloso. Per l’ottenimento di un risultato tanto innovativo, non vale il solo schema di progetto dell’opera: conta anche un diverso modo di dipingere, non più meticoloso nella stesura di lucide cromie, secondo la tradizione tardo400esca, ma alla ricerca di effetti atmosferici, di rapidi passaggi dalla luce all’ombra, come per effetto delle fronde mosse dal vento. Giorgione rende la mutevolezza dei corpi immersi nell’aria con un gusto per i contrasti attenuati dei toni, fino a giungere a una sonorità cupa del colore: fascinoso oro antico del damasco sullo schienale del trono della Vergine. Novità rispetto alla tradizione: effetti di sfumato atmosferico che si ritengono conseguenza del breve soggiorno di Leonardo a Venezia nel 1500 ma anche dell’attività in laguna di altri pittori lombardi come Boccaccio Boccaccino, Giovanni Agostino da Lodi, Cristoforo Solario —> pittura realistica e oggettiva. 1505-06: Tempesta —> forse un’allegoria di Padova sottomessa da Venezia, o dei progenitori Adamo ed Eva o di Cerere e Giasone sorpresi da Giove in forma di fulmine. Sviluppo di quel tonalismo, di quella pittura priva di un disegno particolareggiato sottostante, che fanno di quest’opera un caposaldo della modernità dell’artista, in grado di coniugare a una sfera sentimentale d’interiorità poetica, la ripresa degli agenti naturali tipici della pittura del nord. Il pittore quindi con una tecnica basata sull’uso dei colori a olio su tela, che gli consentiva rapidi pentimenti e mutamenti in corso d’opera, ci presenta la sua fede nel divenire continuo della natura con un mezzo pittorico che quindi doveva necessariamente perdere ogni rigidità. Lo scopo era trasmettere i sensi della scena. Dimostra che la pittura è in grado di commuovere anche quando non tratta di storia ma si concentra sui più intimi stati d’animo dell’uomo. Temi metafisici: esistenza umana sulla terra —> nascita a destra, maturità sulla sinistra, e la morte (colonna spezzata). Nell’ultimo periodo della sua breve vita, Giorgione dimostra di prendere in considerazione modelli statuari e monumentali per le sue figure, una novità stilistica che si può mettere in connessione con la crescita, anche a Venezia, di un gusto per la statuaria classica. Affreschi compiuti sulla facciata verso il Canal rinascimentale. Tiziano affronta il tema di San Marco in trono nella piccola pala per la Chiesa di Santo Spirito, oggi nella Sacrestia della chiesa della salute (1512): tanto l’architettura che il paesaggio lasciano spazio alle figure dei 5 santi che, con le masse dei corpi scorciati con forza, danno un impulso vitale alla scena, un’aria drammatica giocata sull’accentuata caratterizzazione dei volti e degli atteggiamenti. Tutti i personaggi sembrano reali e credibili. In pochi anni, tra il 1516 e il 1518 Tiziano giungerà a una versione talmente rivoluzionaria della pala d’altare da lasciare interdetti gli stessi francescani della basilica dei Frari i quali gliene avevano commissionato una per l’altare maggiore. La pala dei Frari doveva essere esposta al centro dell’altissimo coro della basilica, in posizione molto elevata. Tiziano non poteva adottare vecchi schemi prospettici a fuga centrale che, considerata l’altezza e il vastissimo spazio in cui sarebbe stata posta l’opera, si sarebbero rivelati del tutto inefficaci. Dà un seguito alla Madonna Sistina di Raffaello del 1512. Se questi aveva mostrato la Vergine in piedi sospesa tra le nuvole dietro una tenda tirata all’improvviso, Tiziano, ampliando la composizione, la fece lievitare a mezz’aria ruotando su se stessa, sostenuta da una corona di angeli. Il gruppo degli apostoli in basso, come Dio Padre in alto, con i loro movimenti ampi e avvolgenti creano uno spazio reale, i cui valori atmosferici sono esaltati dall’uso straordinario della luce cangiante che ci dà il senso del miracolo —> piena formazione in senso rinascimentale. Offerta a Venere, Andri, Bacco e Arianna. Nel 1514 era arrivato il Festino degli dei di Giovanni Bellini. Per comprendere la differenza, basterà ricordare che il duca Alfonso, circa 10 anni dopo la consegna del quadro, incaricò Tiziano di ridipingere la parte sinistra del paesaggio, in modo molto più enfatico di come l’aveva prevista Bellini. Il suo linearismo d’impostazione doveva apparire antiquato rispetto alla vitalità della natura interpretata dal cadorino. Modelli romani nel Bacco e Arianna di Tiziano (1520-23). Basta mettere a confronto l’Amor sacro e profano della Galleria Borghese del 1515 per notare le differenze della pittura di Tiziano tra un decennio e l’altro. Se il primo dipinto appare ancora concepito in maniera prevalentemente statica, con le due donne al lato del malinconico sepolcro antico mutato in fontana, nel dipinto del 1523, colpiscono i moti sincopati e le contorsioni di fauni e baccanti, ebbri nella festosa marcia di accompagnamento del dio del vino e dell’oblio. Colori accesi. Presenta anche una serie di splendidi ritratti, tutti molto personalizzati e veritieri, che mettono in luce le sue grandi capacità. Ritratto di uomo col guanto, ritratto di uomo dal capello rosso, giovane inglese. Dà vita ai suoi modelli, ripresi in azione, con sguardi decisi e volitivi, generalmente belli e al vertice della scala sociale, come dimostra lo sfarzo degli abiti, degli accessori, e la disinvoltura sprezzante degli atteggiamenti. Il pittore formulò le soluzioni tipologiche più diverse nella ritrattistica, dando sempre più spazio al busto, ripreso nelle posizioni più varie e altamente espressive, come nel ritratto di Pietro aretino della Galleria Palatina di Palazzo Pitti, nel quale la stesura cromatica sintetica e rapida, nella sua luminosità, testimonia la sua momentanea adesione agli stimoli della Maniera. Con il ritratto a figura intera e a cavallo realizzato per l’imperatore Carlo V (1548), Tiziano giunge anche a un’innovazione talmente riuscita e gradita dal committente che ne ricevette onori e ricompense che sancirono la sua celebrità internazionale. Una sintesi efficace per comprendere infine la maturazione pittorica dell’artista alla metà degli anni 30, è il grande telero con la presentazione della Vergine al tempio per la Scuola della Carità a Venezia. Qui ha modo di riunire i generi più vari, dalla grande scenografia architettonica all’antica ispirata all’architettura romana di Bramante e Raffaello, al paesaggio aperto sui monti lontani proprio della tradizione giorgionesca e belliniana, fino alle figure imponenti che nel loro disporsi in fila, con i tratti marcati dei volti, rimandano ancora alla tradizione veneziana dei grandi teleri di Gentile Bellini. In parallelo, a Venezia operavano altri artisti che, se da un lato furono molto influenzati da Tiziano, dall’altro avevano maturato una sensibilità artistica individuale che consentì loro di continuare la propria carriera in maniera più che dignitosa, sviluppando le proprie inclinazioni più spiccate. Tra i primi Sebastiano del Piombo, che dovette avere strette relazioni con Giovanni Bellini e Giorgione nel suo apprendistato, e che ebbe una disposizione per la resa di figure in scorcio connesse a impegnativi schemi prospettici —> tele di copertura interne ed esterne delle ante d’organo della chiesa di San Bartolomeo a Rialto, del 1512, oggi alle Galleria dell’Accademia di Venezia. Quelle esterne sono infatti concepite in maniera tale da presentare un solo grande arco antico in muratura fiancheggiato da due colonne libere con i santi Bartolomeo e Sebastiano nel mezzo. Quest’ultimo, nudo e legato alla colonna, dimostra la sua dipendenza da modelli statuari classici, come l’Apollo del belvedere. Le tele interne invece, che recano i santi Ludovico e Sinibaldo, sono ideate per essere viste disgiunte in seguito all’apertura dell’organo. Occupate da una nicchia alta e profonda, coperta alla sommità da un catino ornato da un mosaico dorato, le due tele dimostrano come Sebastiano proceda nell’elaborazione della pittura di Giovanni Bellini, il cui ricordo è palese nella luce calda e avvolgente delle ante interne, tanto da mettere nel dovuto rilievo la sontuosità delle vesti, come il damasco rosso scuro tramato d’oro del manto di San Ludovico o il blu intenso delle calze di San Sinibaldo. Ma la modernità del pittore rispetto a Bellini si ritrova nella diversità con cui l’artista delinea l’architettura in prospettiva, specialmente nelle ante esterne, nelle quali appare un’essenzialità progettuale tutta 500esca. La stessa propensione a un uso della prospettiva non superficiale, ma teso a rendere al meglio, accompagnandola in profondità, la massa plastica dei corpi, si nota in un dipinto lasciato incompiuto come il Giudizio di Salomone, 1505-10. La scena, ambientata in una grande sala spartita da tre file di colonne, rappresenta il fare concitato delle due madri che pretendono ognuna il figlioletto. Nel 1511 poi abbandonò Venezia per trasferirsi a Roma. Un altro pittore che seguì le novità del classicismo tizianesco fu il bergamasco Jacopo Palma il Vecchio. All’inizio del 500, la Serenissima comprendeva anche i territori di Brescia e Bergamo. Il candore rosato degli incarnati è acceso da una luce più bianca che in Tiziano, i colori sono più stridenti e meno sfumati, cosicché l’immagine che ne deriva risulta più convincente a soddisfare gli stessi istinti sensuali dei committenti, i quali, molto probabilmente, destinavano quei dipinti alle loro camere da letto come auspicio di una prole numerosa. Nei dipinti religiosi, dopo un avvio sulle tracce di Bellini che si nota nell’Assunzione della Vergine (1513) delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, modulato sullo schema giorgionesca con il realismo anche rustico, della sua formazione lombarda. Come si può vedere nei dipinti citati, dà forma a vari contesti in cui la luce assume un ruolo primario. Chiara e forte anche all’alba o al crepuscolo, diretta a investigare persone e cose se diffusa dal lume di una candela, il pittore se ne serve per rendere convincenti le sue sacre rappresentazioni nelle quali i personaggi sono descritti puntualmente nelle loro fattezze fisiche. I volti, le mani, le gambe, i piedi, sono resi evidenziandone la pelle spessa, le rughe, le callosità e gli indurimenti dovuti all’età, secondo una tradizione tutta lombarda: l’influenza veneziana si rivela però nell’uso di colori insolitamente brillanti, esaltati dai toni spesso argentei della luminosità di fondo. I panneggi, ampi ma metallici, le figure, assorte ma presenti e ben consce della storia sacra di cui fanno parte i paesaggi, lirici ma non ideali ed eroici come quelli di Giorgione e Tiziano, sono le caratteristiche ricorrenti della pittura di Savoldo, in cui troviamo anche ritratti di grande pregio, come il Gaston de Foix del 1527-30. Qui la posa dell’uomo, rivolto di lato, con due specchi sul retro che arricchiscono il gioco di luci che fa brillare la corazza in primo piano, pare debitrice di analoghe sperimentazioni già di molto tempo prima, come la Donna allo Specchio di Giovanni Bellini. Proprio a Tiziano, Savoldo dovette guardare soprattutto nel terzo decennio: disinvoltura del ritratto parigino concepito addirittura a taglio orizzontale e che ricorda la scioltezza naturale e immediata che Tiziano scelse per i suoi ritratti dello stesso periodo. Pala per la chiesa di san domenico a Pesaro (1524-25), oggi alla Pinacoteca, con la Vergine sospesa tra le nuvole al di sopra dei santi in adorazione, è una citazione dell’Assunta dei Frari. Il percorso artistico di Savoldo dimostra come la vena tonale del giorgionismo prima e il suo susseguente sviluppo amplificato nel Tiziano maturo, ne siano stati alla base, mutando il realismo di partenza del pittore in una poetica di sottile raffinatezza, ma forte e decisa nei sentimenti umani. Antagonisti del Vecellio, per stile il primo e nella professione il secondo, furono invece Lorenzo Lotto e il Pordenone. Attivi nel primo trentennio del 500 e oltre, rimasero più fedeli di altri alla propria indole artistica, rifiutando una facile presa a modello della pittura tizianesca anche a scapito degli inconvenienti che questa volontà di non allinearsi poteva creare. Lorenzo Lotto sviluppò una pittura ancorata a modelli nordici, caratterizzata da un naturalismo più freddo e conciso rispetto all’intimismo dolce e accattivante dell’ultimo Bellini. Giorgione e il suo amore per una natura idillica sembrano alla base di due raffigurazioni come le cosiddette coperte dei ritratti del vescovo di Treviso Bernardo de’ Rossi (1505) e di quello femminile. Nel primo, oggi alla National Gallery di Washington, dà un saggio interpretativo del paesaggio ispirato non a una ripresa realistica, ma dettato da una fede nella resa dell’emozione che può causare la natura nell’uomo. Il verde, ora tenero, ora più oscuro, dilaga a formare colline e vallate, ma l’irrazionalità della visione naturale concorre a manifestare il vero significato del quadro, l’allegoria del vizio, rappresentato dal satiro, e della virtù, impersonata dal putto che raccoglie strumenti di studio e lavoro. La tendenza di Lotto verso l’irrazionale, l’inusitato in genere, lo porterà in un primo tempo a prediligere l’inquietudine poco rassicurante della pittura del nord. Il placido equilibrio di Bellini non sembra conquistarlo, come si vede nella pala di Santa Cristina al Tiverone (1504-06) presso Treviso, in cui, sebbene la figura del San Girolamo sia mutuata dalla pala belliniana di San Zaccaria, l’opera è suddivisa in due parti, in maniera arcaica rispetto agli ultimi risultati di Bellini nel genere. Nella cimasa superiore, con il Cristo morto sorretto dagli angeli, l’intimo contatto delle braccia degli angeli con quelle di Cristo, ricorda opere molto precedenti come la Pietà di Rimini di Bellini, a cui sembra guardare quasi polemicamente come in seguito di rifiuto di una temperie artistica capeggiata da Tiziano che avvertiva farsi largo verso un trionfalismo a lui estraneo. Un viaggio a Roma nel 1509 in cui vide Raffaello e Michelangelo in azione, una lunga permanenza nelle Marche e soprattutto a Bergamo (1516-1525) lo spinsero verso un individualismo espressivo dettato da un rifiuto sostanziale per la pittura della maturità di Tiziano che avvertiva, nella sua sfacciata carnalità, lontana dai suoi interessi legati all’indagine degli angoli più reconditi dell’animo umano. Lo si vede comparando i ritratti. Ritratto del Kunsthistorisches Museum di Vienna, ritratto di giovane con Lucerna (1506), in cui la tenda bianca di fondo acuisce in un candore disorientante la sofferta perplessità dell’uomo, quasi in atto d’interrogare lo spettatore sulla sua stessa identità. Se Tiziano celebrava la certezza della storia sacra, l’alta dignità dei ruoli sociali, Lotto era attratto da una spiritualità sempre attiva e vigile, atta a veicolare una critica puntuale attraverso la sua pittura. Non solo la storia sacra viene resa come una rappresentazione organizzata là per là da gruppi di attori adusi a recitare tra persone semplici, come nella Deposizione di Jesi o nell’Annunciazione di Recanati, ma la stessa società contemporanea venne irrisa con spietata ironia, per esempio, nella pala veneziana di sant’Antonino per la chiesa dei santi Giovanni e Paolo (1540-42) in cui viene criticata la consuetudine dei pagamenti alle comunità religiose per l’ottenimento di grazie e indulgenze. Non più madonne regine, ma sono le donne umili quelle dipinte da Lotto, come la Santa Lucia di Jesi condotta al martirio (1532), non tanto spaventata quanto incredula, nella sua ingenuità, per tanta malvagità, del genere umano. Lotto non ebbe successo a Venezia: la dirompente monumentalità della pittura rinascimentale di Tiziano era per il pubblico del tempo di gran lunga più attraente di un orientamento ispirato alla meditazione sulla caducità delle cose umane, privo di fede nelle capacità infinite dell’uomo cui si credeva nell’Italia del primo quarto del secolo. Lotto preferì ritrarsi dalla scena principale, divenendo il pittore di comunità religiose di provincia con le quali aveva modo di dare libera espressione ai moti più intimi e spontanei della sua pittura. Si ritirò a Loreto, dove morì nel 1556. Lotto però non arrivò mai a mettere in discussione il dominio di Tiziano, come tentò di fare il Pordenone dalla fine degli anni 20. Formatosi in Friuli con maestri locali fece coincidere il suo avvio alla modernità con la conoscenza di pittori come Giorgione e Tiziano nella prima metà degli anni dieci, dai quali trasse spunti per individuare una sua specificità artistica che si rivela soprattutto nell’affresco. Anche lui a Roma probabilmente nel 1518, con Lotto fu tra i primi artisti veneziani a conoscere direttamente le opere di Michelangelo e di Raffaello. La magistrale regia narrativa dei due maestri, un gusto spiccato per forme colossali e per un disegno virtuoso, lo condussero rapidamente a un perfezionamento delle sue possibilità, di cui ebbe modo di dare un saggio avvincente in alcune scene della passione di Cristo affrescate lungo la nave centrale del duomo di Cremona nel 1520-22. Nel suo stile realismo lombardo e scioltezza narrativa di ascendenza romana paiono tenere conto dell’eleganza cromatica di Tiziano degli anni 10 e 20. Per la sua naturale tendenza verso la definizione di forme con un chiaroscuro accentuato, Pordenone conferì forza e irruenza alle figure delle opere della sua maturità, perfezionando vedute fortemente scorciate che divennero un suo segno d’immediato riconoscimento. Per Tiziano contava di più la sonorità del colore con cui dare vita e respiro e alle forme; per Pordenone la padronanza dello scorcio prospettico in vaste opere decorative. 3. IL TARDO RINASCIMENTO (1540-1600): TINTORETTO, VERONESE E IL MANIERISMO Con la fine degli anni 30, anche a Venezia comincia a farsi sentire la necessità di prendere atto degli sviluppi dell’arte centro italiana nel primo trentennio del 500. S’interrompe quel generale disinteresse di molti pittori della generazione di Tiziano, nel corso dei primi decenni del secolo, a fare proprie alcune formule di rappresentazione di Maniera, adottate da molti degli artisti attivi tra Roma e Firenze dal 1520 in poi, a partire dalla morte improvvisa di Raffaello. Tiziano e un suo grande amico, lo scultore e architetto fiorentino Jacopo Sansovino, stabilitosi a Venezia dal 1527, avendo raggiunto la maturità nel primo decennio del secolo, continuavano a essere fedeli ai presupposti della loro formazione, l’uno con la fede incrollabile nella potenza costruttiva del colore tonale, e l’altro convinto della validità immutata della tradizione scultorea fiorentina del 400, lontano da un amore sviscerato per le forme lambiccate e il complesso intellettualismo della scultura di Michelangelo. Sarà solo più tardi, soprattutto con l’arrivo in laguna di esponenti di rango della Maniera centroitaliana, come Francesco Salviati e Giorgio Vasari, che in città si vedranno opere concepite con uno spirito diverso dalla tradizione pittorica lagunare ma con un peso notevole sulla formazione degli artisti più giovani, come Tintoretto o Veronese. L’arrivo in laguna di Sansovino e i prestigiosi incarichi che gli furono conferiti dalla Serenissima per la costruzione della nuova Libreria Marciana, della Loggetta del campanile di San Marco, e per la trasformazione generale del foro marciano all’insegna del classicismo romano, testimoniavano una sensibilità nuova verso inedite formule figurative, in cui il disegno e le forme assumessero quella raffinata dipendenza dai modelli antichi e dai maestri moderni. Vasari considerava una certa artificiosità nei modi delle figure come un segno di distinzione del pittore, una prova della sua abilità nel padroneggiare il disegno di soggetti resi nelle pose più insolite, e quindi difficili da rendere convincenti e credibili. Una pratica tanto speciale e sofisticata del disegno preliminare dell’opera era naturalmente estranea alla tradizione pittorica lagunare, come anche i toni acidi dei colori primari, blu, verde, rosso, giallo, tipici della pittura di Maniera dell’Italia centrale. Dal 1539 Francesco Salviati, fiorentino, a lungo attivo a Roma, passò quasi due anni a Venezia. Oltre a un incarico per la decorazione di due delle sale del Palazzo Grimani di Santa Maria Formosa, dedicate ad Apollo e Psiche, realizzò almeno due dipinti: la Lamentazione sul corpo di Cristo per le monache del Convento del santo sepolcro e la Madonna per la chiesa bolognese di Santa Cristina della Fondazza. Per i veneziani fu possibile vedere dal vivo i Lavanda dei piedi, 1548-49, Prado: un formalismo all’antica che integra con accenni di grande intimismo sentimentale, come si nota nel cane sdraiato al centro. Si avvicinò a Tiziano ma si guardarono entrambi con diffidenza e il maestro lo escluse dal cantiere della Libreria Marciana. Quando il Consiglio dei Dieci nel 1551 decise di ristrutturare alcune sale governative di Palazzo Ducale, prese un giovane pittore di Verona, Paolo Caliari, con ampie conoscenze di architettura perché proveniente da una bottega di scalpellini in ottimi rapporti con Michele Sanmicheli, architetto veronese. Nelle tre sale dell’Udienza, della Bussola e dei tre capi, Paolo con l’esperienza prospettica ed esecutiva maturata nella bottega paterna, progettò sontuosi soffitti lignei. Lo scopo era conferire ai soffitti piani lo stesso aspetto intradosso delle volte all’antica, al fine di configurare in modo classicista tutti gli ambienti. Nuovo modo di dipingere: scorci esasperati. La grande invenzione di Paolo fu una pittura timbrica, basata sul contrasto tra i colori primari giustapposti senza soluzione di continuità e che riduceva le ombre abolendo quasi del tutto il chiaroscuro a favore di una luminosità diffusa atta ad esaltare la brillantezza delle tinte. Il più importante dei soffitti è quello della Sala dell’Udienza. L’allegoria centrale, sostituita da una copia 800esca, rappresenta Giove che scaccia i vizi, 1554-56 è reso con una visione di sotto in su. La luce, diffusa e riflessa dal cielo azzurro di fondo, illumina ugualmente ogni parte della superficie dipinta. Le stesse qualità si ritrovano in San Sebastiano, una chiesa ornata da tele e affreschi di Paolo (anni 50 e 60). Incoronazione di Ester: preziosità cromatica e luce diurna. Unì il colore veneto e il rigore del disegno centro italiano : decorazione all’antica con colori sgargianti. A partire dagli anni 50, Tiziano abbandonò rapidamente quelle poche concessioni alla Maniera per tornare all’elaborazione della sua poetica più intima, basata sul dominio della luce sulla materia e sul colore. Danae del 1545 per Alessandro Farnese e quella del 1549-50 per Filippo II. Nella prima la giovane donna riceve la pioggia dorata sotto le cui spoglie Giove la possiede è resa con un’armonia tonale che mette in rilievo il classicismo della posa della giovane, che appare come una variante più erotica e sensuale della precedente Venere di Urbino. Diversa è la versione del Prado, in cui la cura più attenta non è alla definizione delle figure ma protagonista è l’oro della pioggia, un vero e proprio scoppio di luce che irradia di bagliori sulfurei Danae e la serva protesa nella sua avidità di raccoglierlo. Le tinte fosche del cielo di fondo contrastano con la luce fulminea in primo piano. Tiziano dà prova di rinnovarsi ancora nel corso degli anni 50: la luce diventa l’elemento principale dei suoi dipinti. Martirio di San Lorenzo per la chiesa dei gesuiti, 1555: visione di scorcio in una notte fonda e scura. Annunciazione per la Chiesa di San Salvador: la luce manifesta da sola il dolore universale per l’imminenza del sacrificio di Cristo per la redenzione del genere umano. Il grande successo ottenuto da Paolo Veronese all’inizio degli anni 50 non passò inosservata a Tintoretto, che ne intuì subito le nuove potenzialità espressive. Susanna (1557): dimostra di aver abbandonato le forzature della Maniera del decennio precedente in favore di una ripresa del modo veronesiano di trattare forme, luce e colori. Con il passare degli anni, Jacopo si specializzò sempre di più nei temi religiosi. San rocco in gloria, 1564: al centro del soffitto, chiaro riferimento ai dipinti da soffitto di Veronese. Gli scorci moderati delle figure e i colori brillanti e luminosi nelle loro tonalità primarie di azzurro e di rosso risaltano sulla nuvola abbagliante che fa da sfondo alla figura di Dio Padre. Pennellate concise, tocchi rapidi e decisi atti a connotare la tensione dei moti e dei gesti. Le ombre arrivano a essere scurissime, i colori brillanti in alcuni punti, sono poi uniformati in tonalità più omogenee che consentono d’individuare le linee guida del progetto della grande crocifissione. Il definitivo allontanamento dai giovanili schemi di Maniera si ritrova nella nuova monumentalità di tali scene religiose nelle quali le figure riacquistano una gravità di massa in linea con il ritorno generale della pittura veneziana ai suoi basilari valori di colore e luce. Se Tiziano alla fine della sua carriera dipinge con larghe pennellate di luce fosca che sfibrano materia e colore, Tintoretto sceglie di mantenere una saldezza d’impianto in primo piano, sfumando gli sfondi in profondità grazie a una luce filamentosa, che con bagliori improvvisi e salti di tensione conferisce alle scene un inedito pathos drammatico. Già nelle grandi scene centrali della Sala Grande della Scuola di San rocco con Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia, il serpente di bronzo e La caduta della manna, Tintoretto intona il racconto in chiave altamente drammatica, con scorci tali da dare ampio respiro alla narrazione, e non alla logica visuale, come faceva Veronese. Per rendersi conto della singolarità spirituale della pittura tintorettesca, basterà confrontare l’Ultima cena (1592-94) San Giorgio Maggiore, con le Nozze di Cana di Veronese (1562-63) oggi al Louvre. Tintoretto punta sulla resa della sacralità dell’evento, senza concessione ai lussi, estranei al cattolicesimo veneziano di fine 500. Con la morte di Tiziano nel 1576, Tintoretto, Veronese e Jacopo Bassano dimostrano di aver recepito il suo richiamo ai fondamenti tonali della tradizione veneziana. I 3 pittori optano per una pittura di suggestivi effetti di luce notturna, fatta di colori liquidi e vivi, di paesaggi solenni screziati di luce spumosa in cui la natura è celebrata nella sua mistica partecipazione alle sorti degli uomini, come nella Fuga in Egitto di Tintoretto per la sala inferiore della Scuola di San Rocco (1583-87). Jacopo Bassano si forma presso Bonifacio de’ Pitati —> stile legato a un tardo giorgionismo, a una concezione bucolica del paesaggio in cui i vari personaggi apparivano parte di una natura solare e rassicurante, ripresa dalla serena campagna collinare veneta che si estendeva intorno a lui. Attraverso la conoscenza di Schiavone e di stampe da Raffaello e Parmigianino, produce una serie di capolavori come l’Adorazione, il 1621: arriva a Venezia Domenico Fetti da Mantova. Stile rubensiano, ha studiato Caravaggio e Borgianni. Fetti modificò la sua pittura sotto la suggestione del colorismo dei veneti che seppe reinterpretare in modo originale, con pennellate larghe alla Rubens, ma grondanti di luce e colore. Commissioni private, di soggetto sacro. Parabola del figliol prodigo: riconduce la storia sacra al livello di scena di genere; pennellate rapide, sommarie ma intrise di luce e colore puro al punto da individuare con pochi tratti il punto focale della vicenda, come si vede anche nella Fuga in Egitto: brillantezza dei colori —> influenza di Tintoretto nella scuola di San Rocco. Fetti tratta il tema con un’enfasi grandiosa per il paesaggio assolato e verdeggiante, realistico e toccante per i molteplici toni del verde, che vanno dal tenero allo smeraldo più cupo. Storia, umana e reale. La modernità della pittura fettiana, aperta sul cangiantismo barocco per un innato gusto nella resa di luci e ombre che si dileguano nel paesaggio in maniera repentina, quasi per magia, è legata all’esperienza dell’artista di tanta pittura nordeuropea vista a Roma e Mantova, ma la sua peculiarità consiste nel presentare una resa cromatica ispirata profondamente alla tradizione veneziana del 500, con la quale il pittore accresce le sue potenzialità nell’espressione di sentimenti e stati d’animo. Melanconia (1618): teschio contemplato. Ebbe un seguito anche in un tedesco giunto per la seconda volta a Venezia nel 1623: Johann Liss —> pittura vaporosa, enfatica e stupefacente nella narrazione, di matrice rubensiana e barocca. Sacrificio d’Isacco e Adamo ed Eva piangono la morte di Abele (1630): equilibrio di respiro più ampio e grandioso in cui è maggiore lo spazio per una riflessione. Natura partecipe del dolore umano, non più semplice sfondo di contorno. Ottenne la commissione di una pala con San Girolamo ispirato dall’angelo, 1627: pittura barocca nordeuropea ispirata da Rubens. Toni accesi di molti colori. Il 1633 è la data di arrivo in laguna di Bernardo Strozzi da Genova. Cesura tra periodo genovese e veneziano: Cuoca di Palazzo Rosso a Genova (1625): espressività che connota il personaggio nella sua realtà di popolana. Fedeltà sottilmente caricaturale della resa dei tratti fisici, unita al gusto enfatico per la descrizione. Verismo di pittori fiamminghi attivi a Genova (Rubens e De Wael) + rigore grafico della maniera centroitaliana. Soffitto della Libreria Marciana con l’allegoria della Scultura. Negli anni veneziani il pittore sembra voler trasfigurare il suo stile con la luce del colore veronesiano, scegliendo di farlo brillare anche nelle ombre di scorci audaci. Parabola dell’invitato a nozze. La scena ha come modello le cene veronesiane. Colori chiari e ombre non troppo marcate. 1640: Elemosina di San Lorenzo Giustiniani: pennellate dense di colore e spumeggianti di luce nei bianchi che rialzano i toni. Nicolò Renieri, dopo un lungo soggiorno a Roma, nel 1625 si stabilisce a Venezia e costituì una voce in controcanto alla pittura barocca di Strozzi proponendo un modo di dipingere che recuperava il classicismo. Il classicismo che prende forma a Venezia diverge molto dal contemporaneo classicismo romano per i modelli veneti cui faceva riferimento, ma all’epoca venne inteso in opposizione alla pittura barocca. Pietro della Vecchia, fece di Tiziano e Giorgione i suoi modelli preferiti, ma avviò un’attività di falsario. Crocifissione per la chiesa di Ognissanti del 1650: richiama il precedente di Tintoretto in San Rocco. Ritratti, tra cui ritratto virile. Se il modello di partenza sono i ritratti di Tiziano degli anni dieci e venti, alcuni particolari manifestano l’identità 500esca del dipinto. Tizianesco è il volto barbuto dell’uomo, come anche il cappello piumato e la stessa posizione nel suo volgersi di 3/4 verso l’osservatore in maniera tale da essere ripreso fino alla vita, con la destra in atto di sfoderare la spada, colori caldi e luminosi che fanno da contrasto al mantello nero. Il falso si riconosce per una demarcazione più netta delle parti di colore diverso, che in Tiziano trapassano l’una nell’altra. Un altro allievo di Padovanino fu Girolamo Forabosco: Salvataggio miracoloso di una gondola, 1646. Luce cangiante tipica del sole dopo la tempesta. Le tinte brillanti, i moti vivaci delle donne e dei bambini, sono un chiaro sintomo di come coniughi la pittura di un Tiziano più maturo di quello preso a modello da Padovanino e Vecchia, con le possibilità della pittura barocca di Strozzi. Le vesti dai colori accesi, i volti altamente espressivi, e una grazia gestuale nel ritratto di gruppo che rimanda ai precedenti di Veronese, come la Clemenza di Alessandro verso la famiglia di Dario. Altro allievo di Padovanino fu Pietro Liberi, che viaggiò molto tra Spagna, Tunisi, Malta, Sicilia, Roma. Partito da un classicismo ispirato al 500 veneto, seppe modificare la sua pittura alla luce della fantasiosa narrativa di Pietro da Cortona, specializzandosi in dipinti profani in cui le storie mitologiche divengono occasione per mostrare il suo virtuosismo nella resa di nudi femminili attraenti e compiacenti. Venere e le grazie del 1658-59. Richiama grazie e amori di Padovanino per le ardite contorsioni delle figure femminili. Se Padovanino propone un nitore astratto di forme e colori puri, Liberi sembra invece divertito da un’allegra contaminazione di stili e trasfigura l’innegabile riferimento a Tiziano in un’atmosfera vaporosa e lievitante in cui i corpi, spesso nudi porcellanati, sono immersi in una natura fantastica e fumigante: Diana e Callisto, Betsabea. Da Rubens trae spunto nella stesura delle cromie con velature dilavate con improvvisi rialzi di colore denso e puro, da Pietro da Cortona deriva un approccio all’idea di decorazione barocca: serpente di bronzo del 1659. Rappresentativa di un forte abbandono emotivo al fascino della pittura barocca più onirica e visionaria è invece l’opera di Sebastiano Mazzoni, fiorentino, che giunse a Venezia nel corso degli anni 40. Traduce in pittura la vis polemica dei suoi versi ironici e graffianti. I modelli veneziani sono due: Tintoretto e Strozzi, che rimodula in pale d’altare come San in su, memore dell’ovale di Veronese al centro della Sala dell’udienza di Palazzo Ducale con Giove che scaccia i vizi, lumeggiando tuttavia i corpi con forti contrasti tra luce e ombra che richiamano i modi dei tenebrosi e di Luca Giordano. Ricci si reca anche a Vienna e torna poi a Venezia nel 1704 dove compie le tele per il soffitto della chiesa di San Marziale: Angeli che scolpiscono la statua della Madonna —> abbandona gli scorci più accentuati del Meriggio. Deciso ritorno alla tradizione più alta del 500 veneziano mirato ad attenuare le esagerazioni tematiche e stilistiche dell’arte barocca, ormai considerata poco elegante nella sua scarsa considerazione dei canoni classicisti. Veronese e Palladio saranno i modelli che guideranno questa rinascita e Ricci sarà colui che, seguito poi da altri pittori veneziani della generazione rococò, darà forma ai nuovi ideali di una pittura depurata dalle fosche aure 600esche. 5. IL SETTECENTO. LA FINE DI UNA GRANDE STAGIONE Arrivo di Napoleone nel 1796-97 che cede Venezia all’Austria, scrivendo la parola fine nella storia della gloriosa Serenissima repubblica. Grazie ai viaggi di Sebastiano Ricci a Roma, Vienna e Inghilterra, Venezia recepisce le novità della cultura artistica europea che, in un clima di condanna del tardo barocco, era disposta a riscoprire la chiarezza formale del 500 (Tiziano e Veronese). Ricci voleva fondere il colorismo veneto 500esca con la vitalità più spigliata dei migliori esempi della pittura 600esca. Il pittore rinunciò alle forzature dei tenebrosi o agli sdilinquimenti eccessivi degli allievi di Padovanino, come Liberi o Carpioni e scelse di riprendere la semplicità discorsiva e la sobrietà di modi di Paolo Veronese. Dalla pala con la Madonna col Bambino in trono e nove santi per la chiesa di san Giorgio Maggiore del 1708, Veronese diviene l’ispiratore diretto della pittura di Ricci, assurta a nuova luminosità radiosa e vivificata dalla netta padronanza che il pittore dimostra di possedere nella narrazione degli episodi più vari di storia sacra e profana —> pala di San Zaccaria. Pose disinvolte dei personaggi resi con un colorismo vivo e cangiante che squarcia quel velo cinereo che pareva aver definitivamente coperto la pittura veneziana da Palma il Giovane in poi. Nel 1711 partì per Londra dove fu attivo soprattutto per Burlington House. Ebbe il merito d’indicare ai molti pittori formatisi nel 700 in laguna la via migliore per ristabilire un primato effettivo della pittura veneziana in Europa mediante la riscoperta dei suoi valori fondamentali, come la luce e i colori. Ripresi in continue vibrazioni tonali, risultano atti a dare alla pittura di storia, quel grado di maturità narrativa che aveva raggiunto nel pieno rinascimento. Due sue opere tarde (1733), le pale con San Francesco di Paola resuscita un fanciullo, e Sant’Elena ritrova la croce per la chiesa di San Rocco, testimoniano la sua vitalità in un momento prossimo alla morte. La spontaneità degli atteggiamenti delle figure, l’immediatezza delle espressioni e i toni accesi dei colori crepitanti ne fanno due capolavori che attestano l’identità rococò dell’artista. Un pittore della generazione seguente a Ricci, il padovano Antonio Pellegrini elabora in maniera originale la poetica dell’artista più anziano, giungendo a risultati di un grande effetto. Affresco del soffitto della Biblioteca Antoniana di Padova (1702): personaggi che appaiono schizzati con tratti rapidi e campiture cromatiche stringate e inchiostrate che, se da un lato conferiscono vivacità e brio alla rappresentazione, dall’altro ne testimoniano la derivazione dalle tenebre seicentesche per il forte contrasto tra luce e ombra. A breve adotterà uno stile più luminoso sull’onda di Sebastiano Ricci e dell’esperienza romana di Cortona. I colori diventano lucenti, colati sulla tela piuttosto che stesi a pennello: decorazione soffitto Banque Royale a Parigi, 1722. Un altro pittore emblematico del trapasso dal tardo barocco al Rococò è Jacopo Amigoni, anch’egli attivo per lo più all’estero: affreschi palazzo Schleissheim in Baviera. Tra le numerose scene, Achille riconosciuto da Ulisse tra le figlie di Licomede (vedi tavola 28): rispetto ai modi di Pellegrini, notiamo una compattezza del colore che assicura maggiore stabilità alle forme. Colorismo a tinte fredde che ha punti di contatto con quello napoletano, ma che ha una luminosità più intensa. Esempio insuperato tra i ritratti del tempo è quello di taglio orizzontale con Farinelli con un gruppo di Amici (1750-52). Evitato ogni formalismo a favore di un’immagine veritiera e rilassata dei rapporti tra persone appassionate. Marco Ricci, nipote dello zio Sebastiano, che diede il meglio di sé nella pittura di paesaggi e Rosalba Carriera, vicina a Pellegrini per stretti vincoli familiari e di amicizia e abilissima ritrattista che scelse il pastello come tecnica preferita di lavoro. Marco ricci rivoluziona la pittura di paesaggio, genere fino ad allora estraneo alla tradizione veneziana che vi aveva anteposto la pittura di storia. Paesaggio con cavalli che si abbeverano, 1715. Natura ampia con luminosità forti e diffuse, ombre profonde ed estese, colori compresi tra i rossi spenti e i bruni scuri con rialzi argentini per indicare le acque. Le figure, piccole e quasi indistinte, sono inserite con una loro individualità, ma di fatto sono solo parte di un insieme affascinante per la modernità della resa pittorica, avanguardistica rispetto a come, fino ad allora, il paesaggio era stato reso nella pittura veneta. Abolendo ogni rimando alla tradizione classicista e bolognese, trattò la natura con una libertà d’interpretazione che aprì la strada ad altri artisti che ne fecero la loro fonte d’ispirazione come Francesco Guardi. Si rivolse anche al tema delle rovine. Rosalba iniziò verso la fine del XVII a dipingere ritratti su avorio come coperchi di tabacchiere. 1705, miniatura con la fanciulla con colomba. Specializzatasi in seguito nell’uso del pastello, inventò un genere che ebbe moltissima fortuna tra la nobiltà europea, per gli effetti di immediatezza. Pastello su carta: ritratto quasi effimero ma di grande impatto emotivo per l’inedita spontaneità di modi. Nel suo autoritratto (Uffizi), in cui espone il ritratto appena finito della sorella Giovanna, 1715, si presenta vestita molto diversamente dalle aristocratiche. Abito dimesso, capelli corti ed acconciati alla meglio, il viso largo e dai tratti realistici. Nell’autoritratto delle Gallerie dell’Accademia, seconda metà anni 40 del 700, si ritrae ormai anziana, con una metà del volto illuminato da una luce impietosa. Antonio Canal, detto Canaletto. Non si occuparono mai di decorazione ma scelsero un genere specifico in cui eccelsero. Se per la Carriera fu il ritratto a pastello, in Canaletto furono le vedute di Venezia, genere inedito. La pittura di Canaletto deriva dalle opere del pittore friulano Luca Carlevariis che pubblicò una raccolta di incisioni che illustravano i principali edifici veneziani. Come possiamo osservare nella Piazza San Marco e nel Canal Grande da San Vio, 1723-24, la veduta diviene occasione per dar luogo a una pittura di forme, colori, luci e ombre che creano celebre ritraendo se stesso in atto di eseguire il ritratto della moglie, Cecilia Guardi. Chiamato a Udine nel 1724 per gli affreschi della galleria e delle sale del Palazzo Patriarcale: salto di stile. Ripresa veronesiana: Giudizio di Salomone (1729): lontananza da precedenti interventi decorativi a villa Baglioni o Palazzo Sandi. Non compaiono più effetti luministici esasperati, ma domina una chiarezza d’impianto prospettico e architettonico nel quale l’artista può illustrare liberamente le sue storie sotto una trionfante luce diurna che ravviva gesti ed espressioni dei personaggi. Qui vivacità dei toni a differenza dell’inizio tenebroso nella chiesa dell’ospedaletto. Rispetto ai decoratori precedenti, Tiepolo fu in grado di proporre una sintesi pittorica che del 500 non si limitava a riprendere solo alcuni spunti ma ne risollevava i problemi primari, come quello del rapporto fondante tra pittura e architettura, arte e natura. Nel 1762 Tiepolo accettò di trasferirsi in Spagna presso la corte per una serie di affreschi nel Palazzo Reale di Madrid. Nella Gloria della Spagna, dipinta nella volta della sala del trono, riprende le allegorie con una grazia di tocco ancora più leggera e raffinata. Sull’esempio del pittore neoclassico Mengs osannato a Roma, Tiepolo nell’ultimo periodo sembra raffreddare la sua tavolozza, contenere la sua inesauribile gioia pittorica in un disegno più curato accompagnato da colori più tersi e decisi, dalla sonorità più cupa. Immacolata concezione del Museo del Prado, 1768 in cui i movimenti rallentati della vergine esaltano la sua sacralità. Ma il neoclassicismo, inteso come culto nascente di quella spiritualità che nell’uno sarà incanalata nei sistemi filosofici del Romanticismo, non poteva accettare la validità di una riforma pittorica neo500esca, anche se del valore della pittura di Tiepolo. Postosi come avanguardia, scopo primario del neoclassicismo europeo era proprio l’azzeramento di ogni tradizione, non solo quella delle belle arti, e la rivoluzione francese lo dimostra. Tornato a Venezia dopo la morte del padre, nel 1770, Giandomenico Tiepolo farà in tempo a morire nel 1804. In lui si osserva il lento ma inesorabile mutare da una pittura di macchia e di effetto, sulla scia dell’esempio paterno, verso un uso più oggettivo e disincantato del colore e del segno, usati entrambi non più con enfasi rococò ma mirandone gli effetti per una migliore comprensione dei contenuti delle opere. Villa di Zianigo: scene di vita quotidiana come il Mondo nuovo svelano la triste realtà del momento di trapasso da un mondo all’altro, da cui il pittore già nel 1791, data dell’affresco, sembra sentirsi escluso. Fila di persone di ogni ceto, mentre fanno al fila per osservare le immagini proiettate da una lanterna magica in un casotto di legno. Venezia è ormai assente, al suo posto una folla sparuta, impaurita, per la propria inesperienza e per un futuro imprevedibile. Saltimbanchi e Pulcinella sull’altalena, 1793-97: uso sprezzante del colorismo di tocco del padre. Giandomenico, con le sue maschere grottesche, con i suoi Pulcinella screanzati e irridenti alla folla di popolani distratti e inconsapevoli dei rivolgimenti sociali cui di lì a poco sarebbero andati incontro. Francesco Guardi: negli ultimi anni della sua vita, che terminò nel 1793, si abbandonò a un vedutismo ispirato dalla familiarità con i suoi capricci, vedute nelle quali paesaggio e architetture d’invenzione divenivano spunto per assemblaggi di grande suggestione sentimentale. Alcune vedute reali di Venezia come lo splendido Bucintoro a San Nicolò del Lido del Louvre, 1775-80, manifestano la sua presa in considerazione di una Venezia minore per andare a fondo, emotivamente, nella ricerca dell’essenza più profonda della vita cittadina. Domina la dimensione acquatica della città, l’architettura è ridotta a un esile profilo sull’alto orizzonte, come fosse in procinto di sparire, inghiottita tra la linea di confine tra cielo e acqua. La vita non si svolge a terra ma in laguna. Non più solenni scene cittadine memori dello splendore canalettiano, ma riprese di una Venezia povera, in cui affiora la fatica della vita di tutti i giorni, funestata da incidenti gravi, allusivi a catastrofi anche peggiori. L’incendio a san Marcuola. Gondola sulla laguna, 1761-70 (Poldi Pezzoli): ultimo residuo della città. Di Venezia resta visibile un tenue profilo biancheggiante di sole, fantastica apparizione di un luogo della mente, astratto dalle vicende della storia che sarà. La città sarà testimone della nascita e dello sviluppo di una cultura figurativa, pittorica e scultorea, che, sull’esempio di Hayez e Canova, troverà nuovi sbocchi originali in ambito romantico, ad opera di pittori quali Ippolito caffi, Guglielmo Ciardi e Giacomo Favretto, fino al robusto gusto estroverso di Ettore Tito per la descrizione della vita quotidiana di una Venezia sempre brulicante di attività, incontri e situazioni legate a un contesto urbano in profonda trasformazione. La fine della serenissima non implica la fine della vita spirituale della città che anzi diviene un luogo mentale di capitale importanza per gli artisti e soprattutto per i poeti e gli scrittori che fino ad oggi hanno scelto di dare un ruolo principe a Venezia nelle loro opere.
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