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i ruolo della donna nella societa del novecento, Appunti di Storia Moderna

un viaggio nel lavoro della donna a cavallo fra due secoli.

Tipologia: Appunti

2017/2018

Caricato il 21/08/2018

genny511
genny511 🇮🇹

4.7

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11 documenti

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Scarica i ruolo della donna nella societa del novecento e più Appunti in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! LA DONNA E IL LAVORO NELLA SOCIETA’ DALLA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali …” (art. 3 Costituzione italiana) “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione …” (art. 37 Costituzione italiana). “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici ed alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra uomini e donne …” (art. 51 Costituzione italiana). È innegabile il fatto che le donne abbiano sempre lavorato all’interno e all’esterno della sfera domestica; basta osservare i dipinti a noi giunti fin dai secoli più lontani per vedere lavoratrici nei campi, nelle botteghe artigiane, nei primi opifici e poi nelle fabbriche, nelle case. Immagini di fiere di paese ci trasmettono memoria di ragazze che esibivano gli emblemi del proprio mestiere per attirare l’attenzione di possibili datori di lavoro: la cuoca esperta portava un mestolo nel grembiule, le ragazze di un caseificio uno sgabello. Olwen Hufton( 2) ci dice come Daniel Defoe, nel narrare dei mercati di paese del primo Settecento, descrivesse la forza lavoro femminile «altamente sfacciata» nel modo di attirare l’attenzione sul proprio talento. Ancora diari e documenti privati ci danno conto dei contatti tra le famiglie e i possibili datori di lavoro per garantire un impiego stabile e non temporaneo alle giovani fanciulle. Diversamente le fonti così dette ufficiali, pur non tacendo totalmente sul lavoro femminile, non ne hanno, almeno in passato, dato rilevanza, al punto che per l’età preindustriale mancano dati certi per quantificare la presenza lavorativa delle donne e la consistenza della manodopera femminili. Registri fiscali e parrocchiali non fanno cenno a mestieri e professioni femminili, perché le donne, al contrario degli uomini che venivano registrati in relazione al mestiere, erano indicate in base al loro stato civile (nubili, maritate, vedove) oppure per il ruolo all’interno della famiglia,(madre, moglie, figlia). 1. Ingresso della donna nel mondo del lavoro nel XIX secolo La rivoluzione industriale, alla fine del XIX secolo, ebbe tra i più significativi effetti sul piano della struttura e della organizzazione sociale il consistente ingresso delle donne in molti settori lavorativi. La donna divenne soggetto sociale visibile all’esterno della famiglia, quindi non più “nascosta o protetta“tra le mura domestiche, relegata secondo tradizione al ruolo di “angelo del focolare”. In concomitanza a ciò si cominciò a riflettere sul ruolo della donna in quanto il suo nuovo status sociale evidenziava contraddizioni e difficoltà legate a tale cambiamento,rivoluzionario sia per l’elaborazione di una nuova identità femminile che per le inevitabili ripercussioni su tutto il tessuto sociale e sui rapporti familiari. Soprattutto nella sensibilità della borghesia di fine secolo, la donna lavoratrice divenne un problema di nuova creazione; si discuteva infatti: -della moralità e legalità della sua attività come salariata (il salario la poteva rendere autonoma, cosa non contemplata dal suo tradizionale ruolo di dipendenza giuridica e sociale dal padre o dal marito) - della compatibilità tra salario e femminilità (fino ad allora l’essere donne escludeva una quantificazione dell’attività lavorativa svolta con un compenso monetario, il suo lavoro si giustificava solo all’interno di precisi rapporti familiari) - dell’impatto sul corpo della donna che quel tipo di lavoro poteva avere (vennero fatti degli studi che sembravano avvallare il rischio di sterilità…) - delle ripercussioni sulla organizzazione della famiglia nella quotidianità e nella cura dei figli Anche se non erano molti coloro che erano d’accordo con il legislatore francese Jules Simon che nel 1860 asserì “una donna che lavora non è più una donna”, tuttavia la maggior parte delle discussioni verteva intorno alla conciliabilità o meno tra famiglia, lavoro salariato e femminilità. Il problema si focalizzava principalmente sul fatto che il luogo di lavoro non corrispondeva più alla casa o luoghi affini come nel periodo preindustriale in cui la donna aveva ben conciliato l’attività produttiva e la cura dei figli, epoca in cui si era affermata l’immagine di una forza lavoro familiare che agiva in cooperazione (il padre intrecciava, le figlie filavano, i bambini preparavano il filo) e in cui il lavoro femminile era informale, spesso non remunerato; le nuove logiche di mercato imponevano che il luogo di lavoro nell’epoca della industrializzazione fosse lontano dalla casa, dai figli, spesso promiscuo (contatto con altre figure maschili diverse da quelle della famiglia) e oggetto di una visibilità sociale maggiore. Il problema non verteva sulla donna lavoratrice, in quanto esisteva già da molto tempo prima dell’avvento del capitalismo industriale, che si guadagnava da vivere come filatrice, sarta, orefice, merlettaia, fiammiferaia sia in campagna che in città; ma queste attività si svolgevano in un contesto in cui il lavoro veniva svolto prevalentemente nell’ambito domestico o anche quando la donna si spostava da casa lo faceva per breve tempo,spesso accompagnata dai figli più piccoli a cui era tradizionalmente affidata la cura. Tale attività era facilmente compatibile con il ruolo tradizionale della donna. A contrapporsi a ciò l’età della industrializzazione in cui, secondo una logica di mercato, era necessario distinguere il luogo della famiglia da quello del lavoro. La questione si poneva in questi termini: se il modello di sviluppo economico legato Nell’Ottocento si riconosceva ad alcuni lavori la loro adattabilità alla “natura femminile”: ad esempio le sarte furono idealizzate in quanto realizzavano la perfetta conciliabilità casa/lavoro senza riflettere sul fatto che spesso una camiciaia lavorava a cottimo dalle 4 del mattino alle 9 di sera e a stento produceva ciò che serviva alla famiglia che contemporaneamente doveva accudire; ciò non era conciliabile per cui questa attività rischiava di essere altrettanto distruttiva per la famiglia come quella svolta fuori casa). Interessante la prospettiva di Beatrice Potter figura di spicco della Fabian Society(3) una organizzazione socialista inglese fondata nel 1884, la quale affermava in una conferenza del 1896 che ”una delle cause dello sfruttamento del lavoro femminile era legato al fatto che ci sono donne sposate e capaci di prendere del lavoro a casa e di fare degli intervalli da un’altra professione, il lavoro domestico, si rimarrà invischiati da circolo vizioso per cui bassi salari portano a cattivo lavoro e cattivo lavoro costringe a bassi salari. Il solo rimedio per questa disastrosa concorrenza è l’estensione della legislazione di fabbrica a tutto il lavoro manifatturiero” (limitazione di orario). Non era una pura coincidenza che solo nella grande industria in cui le donne prendevano gli stessi salari degli uomini era la sola in cui vi era una precisa regolamentazione legale dell’orario di lavoro femminile. Nessuna donna poteva essere assunta in un cotonificio se non era pronta a svolgere l’intero orario di lavoro regolarmente. Era necessaria una scelta se si voleva rientrare nella legislazione di fabbrica. Questo fu possibile solo in poche industrie. 2. Nuove occupazioni : servizi e terziario Tra l’800 e il 900 si assiste all’espansione dei servizi e del terziario (burocratizzazione dello stato, ospedali, amministrazione pubblica…) e si richiede nuova forza lavoro ricercata anche tra le donne (giovani, indipendenti, nubili). Queste vennero assunte in uffici statali come dattilografe, telegrafiste, infermiere, insegnanti. I datori di lavoro al momento dell’assunzione specificavano limite di età e a volte imponevano le dimissioni in caso di matrimonio. Si verificò nel corso del XIX secolo un consistente spostamento dal lavoro domestico a quello impiegatizio: sempre nuovi impieghi si aprivano al mondo femminile fuori dalle mura domestiche, a partire dalle così dette occupazioni da ‘colletto bianco’, lavori divenuti disponibili con l’espandersi dei servizi e dei commerci. (9) Gli uffici statali e le compagnie di assicurazione assunsero segretarie e dattilografe; le compagnie telefoniche e del telegrafo impiegarono donne come operatrici,(10) i negozi e i grandi magazzini accolsero giovani commesse.(11) In genere i datori di lavoro fissavano un limite d’età per le loro dipendenti e non mancavano regolamenti in cui era previsto il licenziamento in caso di matrimonio: tutto ciò per mantenere una forza-lavoro modello costituita da giovani donne in genere al di sotto dei venticinque anni e non sposate. Anche se cambiava il luogo di lavoro si voleva continuare a mantenere, per le lavoratrici, il tipo di relazione tra la casa e il lavoro nella consapevolezza che il lavoro portava via le donne dalla casa e che ciò non era bene per la moglie e per la madre. Le donne salariate furono maggiormente associate con lavori di assistenza invece che produttivi. Interessante notare l’ingresso in queste attività di donne della classe media. Queste donne della classe media erano insegnanti, infermiere … mai nel passato avrebbero svolto una attività salariata. Interessante notare che forse furono loro (la minoranza tra le donne salariate nel XIX secolo) che diedero fondamento all’affermazione che ”la perdita del lavoro fondato sulla famiglia aveva compromesso le capacità domestiche delle donne e le loro responsabilità riproduttive”. Allora si ha l’idea che quando i riformatori parlano delle “donne lavoratrici” come di una unica categoria parlando dell’impiego della donna in fabbrica, in realtà possano aver general La donna nuova, la donna moderna, vedeva aprirsi dunque maggiori possibilità di ingresso nel mondo del lavoro, compreso quello delle professioni. Ostetriche, infermiere, maestre: ecco alcune delle professioni più squisitamente femminili, o ritenute tali da un’opinione pubblica che vedeva il mondo cambiare, ma cercava di rallentarne i ritmi o di contenerne gli effetti. La maestra è, a tal proposito, un esempio a tutto tondo. L’allargamento dell’istruzione alle donne di fatto generò un duplice risvolto: da un lato la maggior presenza di bambine a scuola richiedeva un numero sempre crescente di personale femminile, dall’altro si vide nella maestra il riprodursi all’esterno della famiglia del ruolo e della funzione materna, verso cui la donna doveva profondere ogni suo impegno e ogni suo sforzo. Per la formazione dei maestri nacquero, nella seconda metà del XIX secolo, le Scuole Normali che si riempirono rapidamente di fanciulle che cercavano nel lavoro di maestre una professione che consentisse loro di guadagnare e di rendersi indipendenti dalle famiglie, ma di poterne anche contribuire al mantenimento. Fu una vera e propria esplosione di presenza femminile nel mercato del lavoro: basti pensare che in Italia, a quindici anni dalla legge Casati emanata nel 1859 per il riordino del sistema scolastico, il numero delle maestre superava abbondantemente quello dei maestri.(13) Ciò pose il problema di dove collocarle: solo nelle sezioni femminili o anche in quelle maschili? È opportuno ricordare che per lungo tempo in città le classi elementari erano ben distinte tra maschili e femminili in nome di una rigida morale che ribadiva come non si potessero «lasciare insieme lupi e agnelli, nibbi e colombe»***.A ciò si aggiungeva il fatto che le donne mancavano di «quella forza morale che è pur indispensabile nel maestro per mantenere la scolaresca disciplinata» e spesso le maestre manifestavano «una snervante mollezza di carattere» dannoso per gli alunni.*** Insomma erano proprio quei tratti materni che tanto si volevano vedere emergere nelle donne a essere assunti, in questo caso, come limiti alla loro professionalità, mentre erano escluse da altre mansioni per analoghe considerazioni (non poteva svolgere ruoli dirigenziali). A partire dagli inizi del Novecento, comunque, il numero crescente di maestre negli istituti scolastici servì ad abbattere progressivamente gli antichi pregiudizi, creandone però in poco tempo uno nuovo, vale a dire l’idea che l’insegnamento fosse la professione più adatta per le donne La sempre più consistente presenza femminile nel lavoro ‘fuori di casa’ comportò anche il cambiamento di una mentalità diffusa circa il ruolo e le capacità delle donne. Alcune considerazioni di tipo morale ostacolavano all’inizio del 900 l’occupazione delle donne in certi settori: per esempio non erano opportuni quei lavori in cui c’era il rischio di promiscuità sessuale (bigliettaia nei tram …). Le necessità di usufruire della loro forza lavoro spinse ad attuare alcuni correttivi nella organizzazione del lavoro: ad esempio, il loro impiego nella telegrafia si ebbe quando vennero separate le stanze in cui lavoravano le donne da quelle degli uomini, furono introdotti turni diversi per ridurre i contatti e per rimarcare le differenti categorie (giustificando mansioni e salari diversi). Il servizio postale francese cominciò ad assumere donne nei centri urbani alla fine dell’Ottocento con categoria fissa e senza possibilità di avanzamento rendendo più facile il ricambio della forza lavoro costituita da nubili sottopagate. In altri stati invece rimase invece la perplessità della assunzione in tali ambiti perché la “curiosità” tipicamente femminile era considerata un rischio per la privacy! L’assunzione delle donne non fu quindi legata al livello di preparazione e studio ma a caratteristiche attribuite alla donna in quanto tale ! Nella telefonia, ad esempio, impiegate per la pazienza e la voce suadente. 3. La donna nel periodo della Grande Guerra Il Novecento non iniziò certo con l’emancipazione delle donne alle quali erano ancora interdette le professioni liberali e generalmente negata l’uguaglianza dei diritti civili, ma la meccanizzazione fortemente attuata in quel periodo rese meno pesante e qualificato il lavoro, valutato quindi più adatto alle donne. La Grande Guerra contribuì poi ad un cambiamento radicale del ruolo della donna che uscì dagli schemi tipicamente ottocenteschi e si fece sempre più visibile nella società. Allo scoppio della grande guerra ci si attendeva che le donne si attenessero al loro tradizionale ruolo (relegata in casa in casa per fare capi di abbigliamento, calze di lana per i soldati al fronte, scrivere lettere d’amore ai fidanzati e mariti, curare i feriti,… farsi belle per gli eroi che ritorneranno). Questo non avvenne: la prima guerra mondiale mobilitò tutta la popolazione, gli uomini al fronte e le donne spesso chiamate a sostenere economicamente da sole la famiglia e a contribuire alle necessità produttive dello stato. In Italia le operaie aumentarono del 60% nelle industrie tessili (commesse militari); negli uffici il 50% della manodopera era femminile, alla fine della guerra erano impegnate nelle industrie 1.240.000 lavoratrici rispetto all’inizio della guerra quando erano 650.000; nella produzione bellica la presenza femminile passò da 23.000 a 200.000. Rimanevano alcuni ostacoli nell’inserimento della donna in alcune attività: ”donna spazzino va anche bene, perche ramazzare è una incombenza femminile, ma la donna postino, la donna tranviere: la prima ti legge la posta, la seconda ti porta a morte sicura. E se fa il bigliettaio sparge lussuria tra i passeggeri, inoltre ponevano le donne a contatto diretto con molti uomini poco morale; si sceglievano allora donne dall’aspetto alquanto virile.” Un po’ alla volta furono superate queste perplessità (necessità di riempire i posti lasciati dagli uomini) anche se ci fu chi gridò alla catastrofe vedendo la prima donna guidatrice di tram o chi rimase perplesso nel vedere una bigliettaia alquanto mascolina. Ciò favorì il cambiamento: aumentarono le donne che frequentavano gli istituti superiori nell’anno accademico 1917 , nello stesso anno si laurearono 108 dottoresse in lettere, 4 in scienze economiche, 81 in matematica, 7 in farmacia, 6
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