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La formazione dei Regni Barbarici: Oriente e Occidente alle Soglie del Medioevo, Sintesi del corso di Storia Medievale

La formazione dei regni barbarici attraverso la narrazione delle loro origini e lo sviluppo, mostrando come bisanzio coordinò la loro insediamento nel mondo romano. Anche dell'assassinio di re barbarici, il rafforzamento del potere regio, l'atteggiamento verso le gerarchie ecclesiastiche e la tarda età merovingia. Importanti informazioni sulla storia dei longobardi, franchi e altri popoli barbarici.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 04/02/2024

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noemi-masi 🇮🇹

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Scarica La formazione dei Regni Barbarici: Oriente e Occidente alle Soglie del Medioevo e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Tempi barbarici- L’Europa occidentale tra antichità e medioevo (300-900) Cap.1: Società, religione e politica nell’impero tardoantico “Premessa: l’impero assediato? Una fine controversa” -Un trattato sull’arte militare, il De rebus bellicis, composto all’età di Costanzo II, fra il 353 e il 360 suggerisce quali fossero, agli occhi di un contemporaneo i più drammatici nodi che lo stato romano era chiamato a risolvere verso la fine del IV sec., dopo che le grandi riforme dioclezianee e soprattutto costantiniane avevano salvato l’impero che usciva dalla crisi dell’anarchia militare (235‐284). -L’anonimo sottolinea che l’impero era una fortezza assediata, dai barbari orientali però, Persiani, gli Arabi, i Berberi. Il mondo civile e la barbarie sono presentati come due realtà opposte e inconciliabili. -La fonte individua nella difesa dei confini il problema principale dello stato romano. La questione militare si legava però alle difficoltà nel mantenimento dell’ordine interno, minacciato dalla mancanza di giustizia sociale. -La società del tardo impero era ingiusta per l’anonimo, schiacciava le masse, specialmente quelle contadine. La conseguenza era un distacco della popolazione più umile, rovinata dalla politica imperiale. -Tuttavia dobbiamo guardarci dallo sposare la tesi catastrofista, da “psicologia dell’assedio”, che è espressa dall’anonimo. Infatti si deve distinguere tra la fine dello stato romano occidentale, un fenomeno che si verificò nel corso del V sec., e la fine, o trasformazione, della civiltà antica, che invece è un processo lungo, plurisecolare. -Per cogliere la differenza tra i 2 fenomeni può essere illuminante la lettura di una lettera inviata dal re ostrogoto Teoderico ad Agapito, prefetto dell’Urbe, ossia di Roma, l’anno è il 508/509. -La politica edilizia di cui si parla nel testo è quella del re, la sua impronta è totalmente romana, nella promozione e costruzione di edifici pubblici all’interno delle città, in questo caso di Ravenna. -Questa affermazione della legittimità sovrana attraverso la politica edilizia, l’imitazione delle forme romane, si riscontra anche negli altri regni barbarici. -Questi ultimi si caratterizzano quindi, più che come regresso a condizioni di vita primitive, come dei regni postromani. Il re stesso è chiamato al modo romano Princeps per esempio: e sua è la cura per la res puplica (cosa pubblica) ossia per lo stato, anch’esso definito quindi in termini romani. -La distanza nel tempo fra il De rebus bellicis e la lettera di Teoderioco è utile per cogliere la lentezza con cui si avviavano i cambiamenti profondi del mondo romano. -La fine del mondo antico non è definibile semplicemente nei termini di una “caduta dell’impero romano”, ma piuttosto in quelli di una “trasformazione del mondo romano”. Una trasformazione lunga che tiene conto non soltanto dei fattori bellici ma anche di quelli sociali, culturali ed economici che erano in gioco. “1.Lo stato” -Un dato saliente della storia del tardo impero romano è il progressivo allontanamento l’una dall’altra, a partire dalle riforme amministrative di Diocleziano (284‐305), delle due parti, l’occidentale e l’orientale, di cui l’impero stesso si componeva. -Non nacquero mai due imperi distinti, giacché la res publica Romanorum rimase sempre una, ma le sedi imperiali e gli stessi imperatori furono quasi sempre due (o più), innanzitutto per le necessità legate alla difesa dell'impero contro le minacce esterne. -Il senso profondo dell'unità dell'impero spiega come mai, una volta crollata nel V sec. la pars occidentis, la parte orientale abbia potuto rivendicare per sé l'eredità politica di Roma. Pur priva della vecchia capitale, essa era ancora l'impero. -Tra le due parti dell’impero vi erano elementi di differenziazione:  mutamenti nella struttura economica, legati al diverso peso che le città e l’economia monetaria avevano in oriente rispetto ad un occidente urbano in forte difficoltà;  differenze culturali, tra occidente latino e oriente greco;  differenze religiose, tra l’occidente ancora poco cristianizzato e l’oriente culla del messaggio cristiano;  la presenza barbarica in occidente era sempre più importante, nell’esercito, nel Senato, nella società stessa, fino ad arrivare alla penetrazione di interi popoli barbarici all’interno dei suoi confini. -Con Diocleziano, il primo restauratore dell’ordine dopo la crisi dell’anarchia militare (235‐284), la carica imperiale divenne collegiale, nella forma dell’ordinamento tetrarchico. -La tetrarchia (governo dei 4), prevedeva un “augusto”, con un “cesare” a lui subordinato in occidente, e due omologhi in oriente. -Dopo varie lotte la tetrarchia si semplificò alla morte di Teodosio (395), in una più stabile divisione in 2 sedi e figure imperiali tra oriente e occidente, che perdurò fino all’estinzione della carica imperiale in occidente nel 476. -Le trasformazioni di Diocleziano furono profonde, moltiplicò il numero delle provincie, riducendo l’estensione di quelle già esistenti e assoggettando anche l’Italia a tale ordinamento: ossia la suddivise in province e di conseguenza la sottomise a tributi dai quali era esente, in primo luogo all’annona (tassa più pesante di tutte). Tali provvedimenti segnarono la fine del ruolo dominante della penisola. -Le nuove e più piccole provincie furono raggruppate in diocesi e queste ultime in unità più grandi, le prefetture al pretorio. Dal 396 le prefetture furono 4: Gallia, Italia‐Africa, che formarono la pars occidentis, Oriente, Illirico la pars orientis. -I prefetti al pretorio costituivano il vertice dell’amministrazione burocratica. Erano funzionari civili, così come i vicari capi delle diocesi e i presidi capi delle provincie. -Un principio cardine del basso impero è la rigida distinzione tra carriere civili e carriere militari. -Il Senato (organo supremo della Repubblica) del tardo impero aveva perso il grande ruolo politico ricoperto in passato, anche se l’ordine senatorio manteneva la sua posizione privilegiata come classe sociale ed economica. -L’esercito, invece, conservò una funzione politica importante. In mancanza di precise norme di successione al trono imperiale le truppe si riservarono sempre il diritto di riconoscere il nuovo imperatore, tramite la sua acclamazione, oppure, talvolta, quello di eleggerlo esse stesse. -Il superamento della struttura repubblicana fu favorito anche dalla trasformazione dell’imperatore in una figura sacra. L’imperatore fu identificato con il dio sole, il sol invictus, ormai fuso con il dio Mitra. Si trattava di un culto monoteistico, di origine orientale. Lo stesso Costantino, pur dopo aver emanato l’editto di Milano, continuò, talvolta, a farsi rappresentare in veste di divinità solare. -Sotto Costantino (312‐337) conobbe un forte sviluppo la corte, come centro coordinatore della vasta rete burocratica dell’impero. -Il funzionario principale era il magister officiorum, che presiedeva agli officia (ministeri), dai quali dipendeva tutta l’amministrazione dell’impero. Roma conservò un’amministrazione autonoma, ma era minacciata dalla nascita di Costantinopoli (Bisanzio), fondata da Costantino tra il 324 e il 330. -La scelta di Costantino sanzionò lo spostamento del baricentro dell’impero verso l’oriente (più ricco). dell’uguaglianza giuridica dei cives romani. La popolazione dell’impero non si distingueva più tra cittadini e non cittadini, giacché tutti avevano la cittadinanza; la divisione sempre più netta era fra ricchi e poveri. -Gli humiliores talvolta reagirono. Fu il caso, per esempio, della baucada gallica, un’endemica serie di rivolte di contadini celtici che sconvolse la Gallia e la Spagna tra il III e il V sec. In Africa e in oriente, altri movimenti di protesta delle classi inferiori ebbero invece una coloritura religiosa. “3.L’esercito” -La necessità di una riorganizzazione dell’esercito si pose assai presto per i Romani, e precisamente da quando, venne meno la struttura dello stato cittadino basata sui contadini‐soldati. -Nel tardo impero il problema divenne gravissimo a causa dei mutamenti sociali in corso nelle campagne. I piccoli proprietari contadini, divenuti coloni, sfuggirono infatti al servizio militare grazie all’intervento interessato dei loro nuovi patroni, che non volevano di privarsi di forza‐lavoro nelle campagne. -Questi ultimi, preferivano pagare allo stato una tassa, la cosiddetta “tassa del sangue” in sostituzione della leva: la ferma durava 20‐24 anni. Ma ciò significava la fine definitiva della coscrizione obbligatoria per la popolazione dell’impero. Con l’oro così incassato lo stato arruolava mercenari fra i barbari. -Nel cuore della crisi del III sec., si era verificato un altro mutamento decisivo: l’esclusione dei senatori dal comando militare, così quest’ultimo fu gravemente indebolito. La distinzione tra la carriera civile e quella militare, che prese le mosse dal provvedimento di Gallieno (260‐268), un imperatore ostile al senato, aveva provocato l’ascesa ai massimi gradi dell’esercito di comandanti venuti dalla truppa, cioè, a questo punto, di barbari. Questi generali al culmine della carriera entravano a far parte dello stesso Senato. -In totale l’esercito tardo romano contava circa mezzo milione di uomini, ben si comprende quindi il grande sforzo economico compiuto dallo stato per mantenerlo. Il ruolo crescente dell’esercito stimolò le ambizioni di crescita sociale di molti a intraprendere la carriera militare, e ciò portò alla formazione di nuove élite, definite in senso militare. -L’esercito in età repubblicana/imperiale era veicolo di romanizzazione, nel tardo impero sarà invece veicolo di una “barbarizzazione”, nei suoi componenti, nell’abbigliamento, nei comportamenti in battaglia. “4.Cristianesimo, cristianesimi, chiese” -La trasformazione del mondo romano è visibile anche sotto il profilo culturale e religioso, in primo luogo per il ruolo determinate rivestito dalla diffusione del cristianesimo e dalla sua adozione come religione di stato. -La diffidenza ufficiale verso i cristiani aveva radici molto antiche:  Poiché il cristianesimo fu considerato a lungo dalle autorità romane una delle numerose sette fra le quali si dividevano gli Ebrei, il movimento cristiano subì i contraccolpi delle pericolose rivolte ebraiche antiromane del I e II sec. d.C., tutte sanguinosamente represse.  I cristiani rifiutavano di osservare il culto dovuto agli imperatori.  Inoltre, i cristiani esprimevano perplessità nei confronti del servizio militare: le posizioni del cristianesimo originario, basate dul precetto biblico “tu non ucciderai”, rendevano incompatibile la professione del soldato e la fede cristiana. E invece l’impero andava difeso. -Per tutti questi motivi, la religione cristiana era vista con un sospetto sempre pronto a sconfinare nella repressione. -In realtà, rispetto ai primi tempi il cristianesimo era molto cambiato. I cristiani non contestavano più in modo radicale l’assetto sociale e la legittimità dello stato: essi proclamavano invece la necessità di un perfezionamento individuale, politicamente neutrale, nell’attesa della vicina fine del mondo, quando infine la giustizia avrebbe trionfato. -Inizialmente il cristianesimo fu un fenomeno soprattutto urbano, con la parziale eccezione dell’Africa occidentale romana e l’Egitto, ma procedeva vittoriosa la sua lotta contro le altre religioni concorrenti, tutte di origine orientale, che, come il cristianesimo, tentavano di dare delle risposte alla crescente inquietudine spirituale del mondo greco‐romano. -Il veicolo dell’evangelizzazione fu il greco, che costituì la prima lingua religiosa condivisa dalle comunità cristiane, ben presto poi affiancata e sostituita, in occidente, dal latino. -I nuclei ellenizzati delle città fornirono i primi quadri alla struttura ecclesiastica. Le comunità cristiane delle varie città erano chiamate “chiese” (dal greco ekklesìa, adunanza), ed erano inquadrate in un preciso ordine gerarchico. -Alla loro testa c’era un epìskopos (sorvegliante), affiancato dai presbyteroi (anziani), coadiuvati dai diàkonoi (aiutanti). Questi ultimi si occupavano di amministrare i beni (donati da ricchi alle proprie comunità) delle chiese. -Le ricchezze delle comunità, derivanti da una vera e propria “economia delle elemosine”, che erano impiegate per aiutare i fedeli poveri, e questa struttura di assistenza costituì un potente strumento di attrazione del cristianesimo, in un mondo che invece schiacciava gli humiliores senza pietà. -Il cristianesimo, che aveva ormai preso piede anche nelle classi alte, era ormai impossibile da sradicare. Al contrario, esso poteva essere trasformato in un puntello dell’autorità imperiale e dello stato, e questa fu precisamente la rivoluzionaria intuizione di Costantino. -Nel 313 l’editto di Milano concesse infatti la libertà di culto a tutte le religioni professate nell’impero. Il suo fu un atto politico, non una conversione individuale. -I progressi maggiori per il cristianesimo si ebbero dopo che Costantino, sconfitto Licinio (324), rimase unico imperatore, i privilegi che dopo quella data, l’imperatore elargì alle chiese rivelano il suo progetto di inglobare il movimento cristiano nello stato romano. -Costantino restituì alle chiese tutti i beni confiscati durante le persecuzioni e concesse loro la capacità di ricevere donazioni; permise il ricorso a un tribunale ecclesiastico, in alternativa a quello pubblico; concesse al clero l’esenzione delle tasse. Emanò poi tutta un’altra serie di provvedimenti che cristianizzarono la legislazione romana, come la santificazione della domenica o la revoca delle leggi contro il celibato. -Quest’ultima norma era importante. Grazie a essa si posero le basi istituzionali per la nascita di un gruppo privilegiato di sacerdoti, che si distinsero sempre più nettamente dal resto della comunità cristiana, formata da laici. -L’elemento più chiaro di distinzione fu quello della purezza del corpo: nel corso del IV sec. si impose il principio che i candidati agli ordini maggiori, dal diaconato all’episcopato, dovessero essere vergini o, se sposati, dovessero praticare la continenza dal momento della loro entrata in carica. Si trattava di un rivolgimento all’interno dell’ordine gerarchico della società romana, che aveva, fino a quel momento, considerato gli uomini sposati come elementi cardine per la riproduzione della società e come naturali candidati a ricoprire i ruoli di vertice (gli uomini celibi erano considerati socialmente inutili). -All’interno di ogni singola chiesa il potere del vescovo era divenuto molto forte e si esercitava su un territorio, la diocesi, che dalla città sede del vescovo si allargava al territorio urbano circostante, modellandosi cioè sul territorio istituzionalmente iscritto alla cicitas. -I privilegi concessi da Costantino andarono alla chiesa episcopale, detta cattolica (dal greco katholikòs, universale). Il rapporto con l’istituzione politica accelerò il progresso verso forme di collegamento più solide fra le diverse chiese. -La nuova organizzazione si sviluppò adattandosi alla struttura dello stato: nacquero così province ecclesiastiche, che coincidevano con le province dal punto di vista amministrativo, al cui interno fu riconosciuto un ruolo dominante verso il vescovo (chiamato metropolita, in seguito arcivescovo) della chiesa più antica e importante. -La collaborazione con lo stato rese necessario un momento di unione fra le varie chiese diffuse in tutto l’impero. Si ebbe così il 1° concilio ecumenico, cioè universale, che riunì i rappresentanti di tutte le chiese cristiane a Nicea nel 325. -All’esterno dell’organizzazione gerarchica della chiesa episcopale si era intanto andato affermando il fenomeno monastico. Le sue prime testimonianze si ebbero in Egitto nel III sec.; il 1° esponente fu l’egiziano Antonio (251‐356). -Il monachesimo incarnava il rifiuto estremistico del mondo, al quale si era invece adattata la struttura ufficiale della chiesa. La fuga dal mondo era materialmente realizzata con un trasferimento in luoghi inaccessibili, dove si combatteva la battaglia contro le tentazioni del mondo e del corpo. -Con Pacomio e Basilio di Cesarea (IV sec.) nasce il cenobitismo, una forma più regolata di monachesimo che prevedeva anche limitati momenti di vita comune. Con la loro scelta di vita i monaci divennero modello per le masse più umili dell’impero. -In una forma meno estrema, il monachesimo si diffuse anche in occidente, tra IV e V sec., per opera di personaggi come Agostino di Ippona in Nordafrica, Martino di Tours, Cesario di Arles, Benedetto da Norcia per citarne alcuni. -Il cristianesimo monastico, per la natura estremistica del suo messaggio religioso, non era certamente adatto a svolgere la funzione di mediazione fra le masse e il potere che le autorità imperiali assegnavano alla nuova religione. -Fu questo il motivo per il quale a volte il cristianesimo monastico si pose in antitesi con quello episcopale, politicamente orientato all’amministrazione delle strutture di inquadramento territoriale e certo meno intransigente sotto il profilo della valutazione dei comportamenti individuali, rivendicando la purezza della propria tradizione come l’unico modello corretto di vita cristiana e non esitando a definire corrotti i modelli di comportamento del clero secolare. “5.I grandi concili” - Il concilio di Nicea servì a reprimere una grande divisione dottrinale che si era creata all’interno delle comunità cristiane. Fu Costantino a convocare il concilio. -Al centro del dibattito era il problema sollevato dalla dottrina di Ario, un prete di Alessandria, il quale sosteneva che Cristo era creato dal padre, quindi non eterno e subordinato al suo creatore, mentre i suoi avversari, guidati da Anastasio (futuro vescovo di Alessandria), sostenevano che il Cristo era coeterno e fatto della stessa materia divina del padre, generato e non creato. Le decisioni di Nicea condannarono l’arianesimo. -Lo stato intervenne con la forza quindi per reprimere una dottrina cristiana ritenuta erronea, che fu allora definita eresia (“scelta particolare”). -Nell’impero l’arianesimo era vinto. Ma esso, nel frattempo, aveva messo radici al di fuori dei confini romani: tra i Visigoti, grazie all’azione del vescovo goto Ulfila. -In Africa si sviluppò il Donatismo, dal vescovo di Numidia Donato, i cui seguaci sostenevano una posizione di rigorismo totale e si rifiutavano di riconoscere in quanto indegni i sacerdoti che si erano macchiati di abiura durante l’ultima persecuzione, cioè coloro che avevano consegnato i libri sacri, i traditores. -Nacque così uno scisma, all’interno della sede vescovile di Cartagine, fra donatisti e cattolici. I primi divennero sempre più critici verso la chiesa ufficiale e il suo compromesso con lo stato romano, fino ad arrivare a formare gruppi armati, costituiti prevalentemente da indigeni berberi – i un’occasione per legittimare il potere di alcuni di loro, in forme del tutto romane, e di permettere l’ascesa di alcuni romani all’interno di quel rinnovato quadro sociale. 1.All’interno dell’impero - La prima fase di insediamento dei barbari è scarsamente testimoniata da fonti scritte contemporanee agli eventi. Fu oggetto invece di scritti successivi, come le Storie di Gregorio di Tours che scrisse nel VI sec., che tesero a presentare lo stanziamento dei barbari come frutto di un unico e massiccio spostamento di popoli. -I dati archeologici mostrano al contrario, si trattò di un fenomeno più simile a un costante flusso migratorio dilatato nel tempo. -Nella seconda metà del IV sec. il barbaricum entrò in una fase di grande movimento. Intorno al 370 gli Unni sottomisero gli Alani nella regione caucasica, poi, passato il Don, investirono il popolo dei Goti, allora divisi in 2 grandi gruppi: gli Ostrogoti e i Visigoti. -Gli Ostrogoti furono inglobati nella dominazione unna, i Visigoti, forti del loro legame con l’impero, rifluirono verso il confine danubiano, ottenendo il permesso di passare i confini nel 375. Era la prima volta che un intero popolo barbarico si stanziava sul suolo romano. -Nel patto di alleanza tra Visigoti e Romani, era previsto che i primi venisse assegnata la Tracia con fini difensivi e di popolamento. Privi di mezzi di sostentamento e avversi alla popolazione, i Visigoti devastarono i Balcani. -La risposta romana portò alla battaglia di Adrianopoli (378), che si risolse in una disastrosa sconfitta dell’esercito imperiale; l’imperatore valente trovò la morte sul campo. -La politica di contrapposizione frontale con i barbari non era dunque praticabile, di conseguenza durante l’impero di Teodosio (378‐395), successo in oriente a Valente, i Romani perseguirono costantemente una politica di accordo con le popolazioni barbariche. -Sconfitto Arbogaste, magister militum praesentalis, ossia comandante delle forze armate della parte occidentale, che eliminò l’imperatore Valentiniano II facendo proclamare Flavio Eugenio, Teodosio riunì nelle sue mani, per l’ultima volta, le due parti dell’impero. -Alla sua morte lasciò i figli, Arcadio, augusto per l’oriente, e Onorio, augusto per l’occidente, sotto la tutela del sovrano vandalo Stilicone, comandante in capo delle truppe imperiali. -Ancora una volta furono gli Unni a spezzare il precario equilibrio del mondo romano. Nel 396 invasero la Tracia e fu allora che, guidati da Alarico, i Visigoti si ribellarono di nuovo. A Costantinopoli la reazione fu durissima: la politica conciliante verso i barbari fu abbandonata. -Alarico così si spinse verso l’occidente, l’Italia, che sembrava l’anello debole della difesa imperiale. -Vinto da Stilicone a Pollenzo e Verona (402). Stilicone respinse poi un altro composito esercito barbarico, quello di Radagaiso, che era giunto sino a Fiesole (406). -Per vincere ancora una volta Stilicone aveva dovuto sguarnire il confine del Reno; approfittando di questa situazione, la notte del 31 dicembre del 406, numerosi gruppi barbarici (Vandali, Svevi, Burgundi, Alani), attraversarono il fiume ghiacciato, superando il confine romano e penetrando in Gallia. -Più che dall’attivismo dei barbari che avevano passato il Reno nel 406, la sorte della prefettura gallica fu condizionata da altri 2 fatti: l’arrivo nella Gallia meridionale dei Visigoti e la crescita della presenza franca. -I Franchi erano un popolo nuovo nel nome, risultante dalla fusione, dietro pressione delle stesse autorità romane, di diversi gruppi barbarici più antichi (Amsivarii, Chatti ecc.). -Dopo lo sfondamento del confine renano, i Franchi, mantennero lo status di federati, e combattendo nelle guerre civili di inizio V sec. tra i vari pretendenti all’impero, costruirono una loro dominazione nella Gallia Belgica secunda (regioni del Belgio). -Un altro fatto importante; alla metà del V sec., alla testa dei Franchi appare Clodio, il 1° esponente storicamente accertato della famiglia dei Merovingi. -Stilicone non sopravvisse alla crisi del 406. Accusato di tradimento fu ucciso a Ravenna. Ma Onorio non era in grado di difendere l’Italia, che divenne facile preda dei Visigoti di Alarico, i quali nel 410 giunsero a Roma e la misero a sacco. Morto Alarico in Calabria, sulla via dell’Africa, il suo successore Ataulfo guidò i Visigoti verso nord, fino in Gallia meridionale e in Spagna. -Nel 418, con il re Vallia, i Visigoti tornarono federati dell’impero, che concesse loro di stabilirsi nella Gallia meridionale; e al servizio di Onorio (395‐423) combatterono gli altri gruppi barbarici penetrati in Spagna (Svevi, Alani, Vandali) e repressero anche rivolte dei gruppi subalterni rurali chiamati dalle fonti come bacaudae. -La posta principale in occidente, era senza dubbio il controllo della prefettura gallica, funestata dai barbari e dai ceti inferiori e da comandanti locali dell’esercito romano che aspiravano all’impero. -I generali romani riuscirono per parecchi decenni dopo il 406 a mantenere una sorta di controllo su Gallia e Spagna. Uno di questi fu il Generale Ezio che sconfisse gli Unni ai Campi Catalaunici (451), risparmiando all’occidente romano l’invasione dei nomadi. Il suo esercito, segno dei tempi, era formato in gran parte da federati barbarici. -La morte improvvisa di Attila, avvenuta nel 453, segnò il declino della potenza degli Unni. -Dopo la morte di Ezio nel 454, seguita dalla morte anche dell’imperatore Valentiniano III oltre che da un nuovo sacco di Roma a opera dei Vandali (455), gli ultimi 20 anni dell’impero occidentale videro succedersi ben 9 imperatori senza importanza, fantocci nelle mani dei generali di stirpe barbarica. -Nel 476 uno di questi generali, lo sciro Odoacre, deposto l’ennesimo imperatore, Romolo Augustolo, rinunciò a dargli un successore inviando invece le insegne imperiali all’imperatore d’oriente Zenone. Le truppe di Odoacre, lo riconobbero come Rex. Il 476 non segnò alcuna rottura traumatica, ma qualcosa era successo. -In Italia Odoacre esercitò un potere privo di qualsiasi riconoscimento istituzionale da parte dell’imperatore di Costantinopoli. Nonostante ciò, egli assicurò all’Italia 13 anni di pace e stabilità politica (476‐489). -Rinunciò alla pretesa di nominare imperatori, di conseguenza il nuovo regime abbandonò ogni tentativo di esercitare una qualche forma di autorità sulla Gallia. Accettato il confine con i Visigoti di Provenza, rioccupata la Dalmazia e ottenuta indietro la Sicilia, granaio di Roma, dai Vandali, Odoacre estese la sua autorità sul Norico, verso il Danubio, in uno scacchiere vitale. -Ma la grande carta giocata da Odoacre fu quella della politica interna. Qui cercò e trovò l’accordo con la classe dirigente romana, il ceto dei senatori, i ricchi latifondisti che inquadravano nelle loro proprietà grandi masse di contadini ed esercitavano diverse forme di patronato sulla restante popolazione rurale e urbana. Garantendo ai senatori la prosecuzione del loro dominio sociale, economico e politico, Odoacre ne ottenne la piena collaborazione. -Il mantenimento delle sue milizie barbariche del resto, non era più oneroso per i senatori, di quello delle normali truppe romane. Essi continuarono a ricoprire i loro tradizionali incarichi pubblici e l’amministrazione romana rimase integralmente in piedi, così i modi di vita, la cultura e la vita economica di sempre. -La deposizione di Romolo Augustolo non aveva dunque rappresentato nessuna cesura particolare; per l’Italia; del resto, un imperatore ancora esisteva, anche se risiedeva a Costantinopoli. -La società tardoantica della penisola, abbandonate le aspirazioni imperiali, parve trovare un nuovo equilibrio. -Il futuro dell’occidente era rappresentato dai nuovi stati successori dell’impero, creati, ancora precariamente da invasori o ex alleati barbarici: Visigoti in Gallia meridionale, Vandali nell’Africa romana, Sardegna, Corsica e Sicilia; i Franchi nel resto della Gallia; Angli, Sassoni in Britannia; e così via. -La fine dell’impero d’occidente dette dunque il via a una serie, spesso scomposta, sia di riemersioni di gruppi locali, sia di riorganizzazioni politiche sotto la guida di leader militari, la cui funzione e identità era stata fino a quel momento, anche per via indiretta, controllata e pattuita con l’impero romano tramite le alleanze militari e i rapporti commerciali. -Nel corso del VI sec. tali e incerte precarie formazioni, i cosiddetti regni barbarici, cercarono la propria stabilità interna e la loro legittimazione formale guardando verso la “nuova Roma” Costantinopoli: imitandone modelli, stili di vita e gerarchie sociali. 2.I barbari e la guerra -Il barbaricum, il territorio al di là dei confini territoriali dell’impero (il limes), non era un mondo alieno, ma piuttosto la periferia povera dell’impero, a esso collegata da mille fili, economici, culturali, militari. -Anche se lo stanziamento di popoli o gruppi barbarici all’interno del mondo romano non fu certo un fenomeno indolore, è sbagliato considerare la guerra come il fattore prevalente della trasformazione. -Il primo dato da considerare è che i barbari che fondarono regni entro i confini imperiali a partire dal V sec. non rappresentarono un fronte comune antiromano e non avevano alcuna unità di intenti, ossia una qualche volontà comune di distruggere l’impero. Scuole di pensiero sul ruolo dei barbari dopo l’impero:  Peter Heather: Il carattere universalmente distruttivo dell’ingresso dei barbari in territorio romano è stato riproposto qualche anno fa da uno storio anglosassone, Peter Heater, secondo il quale la causa prima che avrebbe innescato la crisi sarebbe stata l’arrivo degli Unni dall’Asia centrale nel IV sec. e la continua pressione da essi esercitata per un secolo, fino alla morte di Attila nel 453, sul mondo barbarico e, direttamente o indirettamente sulle frontiere romane. I gruppi di barbari entrati nell’impero avrebbero inflitto catastrofiche sconfitte ai Romani, la prima ad Adrianopoli nel 378 e, stanziandosi in modo violento nei territori romani, avrebbero progressivamente ridotto la base di tassazione, sottraendo terra ai proprietari fondiari, che erano quelli che pagavano le tasse. In tal modo essi avrebbero indebolito l’esercito che era mantenuto dall’imposta fondiaria, e con esso tutta la macchina pubblica, provocando la catastrofe dell’impero in occidente. Un meccanismo infernale si sarebbe dunque messo in moto all’indomani della prima apparizione degli Unni nel 375. L’occidente romano, stretto fra gli attacchi al nord e la perdita del grano africano, era condannato. -Il ragionamento di Heater è serrato, ma le fonti non confortano la monocausa militare per la fine del mondo romano. Semmai più importante appare la conquista vandala dell’Africa, per i suoi riflessi sulla tassazione: ma qui la guerra gioca un ruolo solo indiretto. -Dal punto di vista militare, invece, di scontri fra Romani e barbari non se ne conoscono molti, a parte l’esempio sempre citato di Adrianopoli. L’occidente romano insomma non cadde nelle mani dei barbari per via strettamente militare. -Nel lavoro di Peter Heater c’è molta nostalgia per i tradizionali e venerabili modelli storiografici che presentavano l’impero sotto le ondate dei barbari germanici, a loro volta sospinti dagli Unni. La stessa nostalgia si può trovare in Perkins. affermando in modo convincente che le gentes del periodo della tarda antichità erano popoli di origine recente, che si formarono per aggregazioni e suddivisioni continue che avvennero in conseguenza dei loro movimenti e delle loro azioni politiche. -Walter Phol: capofila della scuola di Vienna, la quale ha messo in luce proprio la profonda integrazione culturale fra Romani e barbari, cambiando così radicalmente il nostro quadro interpretativo. -Emerge con sempre maggiore chiarezza che il crogiuolo dove si formarono le identità barbariche delle gentes che invasero l’occidente romano si trovava nell’ambito stesso dell’esercito tardoromano. Quindi il luogo privilegiato di formazione di questi gruppi si collocava al di qua e al di là dei confini stessi dell’impero, dove il potere romano era più fievole. -È su questo punto che l’archeologia può essere importante, individuando in queste regioni l’emergere di nuove élite, che possono aver rappresentato i gruppi dirigenti dei movimenti di invasione del IV, V e anche VI sec. -È importante registrare, proprio tramite l’evidenza archeologica, il valore assunto all’interno delle nuove compagini barbariche dall’investimento funerario, inteso come strumento di rivendicazione da parte dei parenti delle caratteristiche sociali dei propri defunti. -Nell’area di Metz, nel cuore del regno dei Franchi, compaiono necropoli con tombe corredate di armi e simboli riferiti allo status di soldato dell’esercito romano: in quel nuovo contesto esse servivano a ribadire l’efficacia del potere militare, anche se esercitato a titolo personale dalle nuove élite emergenti. -Queste erano formate in gran parte dai barbari che, al momento delle invasioni, condividevano con il mondo romano valori di classe e simboli di prestigio, acquisiti per il tramite soprattutto dell’esercizio della funzione militare. -I processi erano processi aperti, non opera di nuclei chiusi. Radici barbariche e radici romane entravano entrambe nella formazione dell’identità etniche delle gentes tardoantiche e altomedievali. -Come sostiene Phol, ogni tradizione è una tradizione inventata. Le antiche storie delle origini dei popoli barbarici non sono vere in senso positivista, ma non per questo sono false: testi e memorie, di origini diverse, possono contribuire in vari modi alla costruzione di identità comuni. -Materiali antichi, di origine non romana, assemblati assieme a materiale etnografico romano formarono tutti insieme un patrimonio di miti che aiutò a costruire l’etnicità dei gruppi dirigenti barbarici. -Inventate in tutto o in parte, le antiche narrazioni delle origini delle gentes barbariche ebbero il ruolo di costruire un’identità con la quale i nuovi popoli poterono affrontare le sfide che portava loro il nuovo mondo romano nel quale si erano insediati. -La sorte differente degli eserciti di Stilicone, Ezio o Odoacre, che si dissolsero alla morte dei loro capi, rispetto a quelli di Alarico, Teoderico, Alboino, o Clodoveo che invece sopravvissero, elessero altri re e rimasero uniti, indica che le “strategie di distinzione” messe in atto dalle élite gotiche, franche, longobarde avevano trasmesso ai loro guerrieri un senso di appartenenza comune. -Se i barbari erano eserciti polietnici e federati dell’impero, che organizzarono dei regni postromani nelle ex provincie occidentali di Roma, non siamo dunque davanti alla distruzione dell’impero per mano di gruppi ostili e distruttori, ma a una trasformazione, spesso anche violenta certo, ma caratterizzata comunque da forti elementi di continuità. -Il lungo processo di trasformazione del mondo romano, di cui l’insediamento dei barbari sul suolo dell’impero costituì un momento fondamentale, non fu certo l’esito di un processo indolore, ma il risultato di una tormentata evoluzione che scosse quel mondo dalle fondamenta. Cap.3: Oriente e occidente alle soglie del medioevo Premessa: i barbari e Bisanzio -Il processo di insediamento dei barbari all’interno del mondo romano si realizzò attraverso la formazione di nuovi regni, per lo più coordinati da Bisanzio. -Parafrasando l’affermazione dello storico americano Patrick Geary, si può sostenere che questi regni furono la più grande invenzione del mondo romano, poiché attraverso di essi l’imperatore d’oriente manteneva il controllo dei territori imperiali tenendo così, almeno sotto il profilo ideale, l’unità del controllo dell’occidente. -In questa prima fase le fonti scritte e archeologiche testimoniano infatti il successo del modello romano nei confronti dei nuovi re barbarici, soprattutto per ciò che riguarda le pratiche di manifestazione pubblica della regalità, ampiamente ispirate a simboli e rituali romani. -L’esaltazione della politica edilizia all’interno delle città, e di Roma e di Ravenna in particolare, fu uno degli aspetti che costituirono il nucleo della fama del re goto Teoderico, per il quale il vescovo di Pavia, Ennodio, costruì nel 507 un elaborato panegirico, sulla scorta di quelli dedicati agli imperatori tardoantichi. -Lo splendore edilizio delle città esprime al contempo sia la preoccupazione regia nei confronti dei sudditi sia il buon governo esercitato da Teoderico, riprendendo uno dei temi più tipici della politica antica. -D’altra parte sarebbe, però, riduttivo ritenere che il modello romano risultasse a tal punto condizionante da garantire una sorta di immobilità atemporale. -Uno degli elementi più significativi di trasformazione rispetto al passato era dovuto al fatto che la stabilità della figura regia necessitava del continuo supporto dell’aristocrazia. -Dal canto loro gli stessi re barbarici tentarono, per lo più senza successo, di tramutare il loro titolo in una carica ereditaria, che potesse portare all’emergere di una famiglia regia. -Per fare ciò da un lato furono incrementati i rituali di scambio – quali il banchetto e le offerte di donativi – attraverso i quali il re manifestava ciclicamente la sua generosità ricevendo la solidarietà aristocratica, dall’altro si stipularono alleanze matrimoniali con i regni vicini, così da rinsaldare la fama di un singolo re all’esterno del proprio ambito territoriale. -Non a caso il panegirico di Ennodio per Teoderico si concluse con l’augurio di fertilità. -Più ancora che gli elementi esterni, erano le correnti di opposizione interna che potevano minare la stabilità regia e, a questo proposito, non erano sufficienti i successi militari o l’appoggio politico dell’episcopato di tradizione romana, come è evidente nel caso del regno dei Franchi: anche per quest’ultimo infatti il raccordo con la lontana autorità imperiale rimane un elemento legittimante di grande forza, come dimostra il comportamento pubblico del re dei Franchi Clodoveo, che, dopo la grande vittoria contro i Visigoti nel 507, si atteggiò ambiguamente sia a rappresentante (console) dell’imperatore, sia a suo alter ego (augusto), come ci racconta qualche decennio più tardi Gregorio di Tours. -La narrazione delle origini e dello sviluppo dei regni barbarici è stata utilizzata dagli storici, sin dall’800, per rintracciare nella progressiva scomparsa di Roma e nell’impianto dei nuovi regni barbarici, le radici etniche territoriali e linguistiche delle nazioni del loro presente. -L’impianto narrativo delle vicende e dei temi attraverso i quali le caratteristiche di ogni regno furono individuate e studiate, risentiva – e talvolta risente ancora oggi – di questo metodo attualizzante. -Così gli storici francesi tesero a identificare nella conversione di Clodoveo il processo di completa fusione tra Franchi e Romani, presentando i Franchi come gli autentici interpreti della cattolicità e il regno dei Franchi come antico antenato della nazione francese. -All’opposto gli storici anglosassoni si sono indirizzati a evidenziare il carattere di totale rottura col passato romano, ricercando nella migrazione degli Anglosassoni il momento di nuova origine – anche etnica – del regno inglese. -Un terzo caso è rappresentato dalle narrative ottocentesche relative all’età longobarda, la quale invece non fu interpretata come momento di emersione della nazione italiana, bensì come momento di oppressione degli italiani da parte di una dominazione straniera: nel contesto dell’unificazione d’Italia, il periodo longobardo veniva ad essere rievocato per esprimere la necessità di liberarsi dalla dominazione austriaca, equiparando i “vinti Romani” agli Italiani. 1.Gli inizi di Bisanzio e i regni barbarici nel Mediterraneo -In oriente la dinastia dei Teodosidi non fu prosperosa: sia Arcadio (395‐408) sia Teodosio II (408‐450) furono personaggi mediocri. All’interno del palazzo andò sempre più rinchiudendosi la figura dell’imperatore, perdendo così, la funzione di comandante dell’esercito. -L’oriente superò le crisi politiche e militari del V sec. per la solidità economica e sociale, la sua maggiore ricchezza rispetto all’occidente, la maggiore densità demografica, la maggiore ampiezza e antichità della sua rete urbana, e per il suo commercio. -Le crisi in oriente furono dovute essenzialmente alla pressione barbarica. Anche la barbarizzazione dell’esercito, era molto forte, così il ruolo barbarico a corte, finché nel 471 il potere del generale alano Aspar fu abbattuto dal partito antibarbarico grazie al ricorso degli Isaurici, una popolazione dell’Asia Minore. -Il principe isaurico Tarassicodissa, assunse il nome greco di Zenone e salì sul trono imperiale (471‐491), interrompendo un processo che avrebbe portato come in occidente allo svuotamento del contenuto della figura imperiale. -Per l’oriente rimaneva il problema religioso, il monofismo. Zenone cercò di porvi rimedio emanando l’Henotikòn (editto di unione), che smussava le differenze tra ortodossi e monofisti. Ma l’unico risultato fu quello di provocare uno scisma con la chiesa di Roma (484-519), fedele al concilio di Calcedonia. -Nei 40 anni che vanno dalla morte di Zenone all’ascesa di Giustiniano, l’impero bizantino fu scosso da lotte interne. -Gli Isaurici, allontanati dal potere dall’imperatore Anastasio, alimentarono una guerriglia nelle regioni natali, le montagne del Tauro. -Agli inizi del VI sec. riprese poi la guerra con la Persia per il controllo dell’Armenia, importante per il reclutamento dei soldati. -I Balcani poi furono invasi da nuove popolazioni barbariche: Slavi, Bulgari, Avari. -Anastasio per risanare le finanze, cosa che gli riuscì certamente, inasprì il carico fiscale, e l’opposizione trovò un supporto organizzativo nelle fazioni dell’ippodromo, i “demi”, che erano 4: Azzurri, Verdi, Rossi, Bianchi. Erano semplici organizzazioni di tifosi, ma assunsero il ruolo di fazioni politiche. -I demi erano responsabili di violenze di strada e rivolte di natura politica, che assumevano anche una fisionomia religiosa, in quanto i rivoltosi erano cattolici e avversi all’imperatore monofista, Anastasio. -Fu invitabile che sul trono gli succedesse un sovrano cattolico Giustino I (518‐527), al cui fianco si coglie fin dall’inizio l’influsso potente del nipote Giustiniano. Con la chiesa di Roma si giunse così alla fine dello scisma (519), si ritesserono i rapporti con l’antica capitale, Roma, tra la corte imperiale e l’aristocrazia senatoria italica. -Tutto ciò era sintomo di una rinnovata volontà di intervento di Bisanzio nella faccende in occidente. L’ultimo intervento era stato l’invio degli Ostrogoti di Teoderico in Italia da Zenone, per dirottare l’avanzata orientale, in quanto erano già arrivati nei Balcani. -La ripresa di contatti tra senatori italici e l’impero fece dunque temere al re Teoderico, la anche il processo di allontanamento da Bisanzio. Riassumendo ciò che abbiamo detto si può affermare che nell’occidente postromano è possibile identificare una serie di situazioni coerenti che avevano tutte come fondamento il riconoscimento della suprema autorità imperiale di Costantinopoli. -Il raccordo tra l’impero e i regni barbarici del Mediterraneo subì però una svolta quando sul trono imperiale salì Giustiniano, la cui azione tese a riaffermare la superiorità dell’impero rispetto ai re barbarici, contrastando con forza le spinte interne alle élite locali, che ambivano a poter scegliere il proprio re, fondando tale scelta sulla competizione aristocratica e non su base dinastica. -Tutta l’opera di Giustiniano succeduto allo zio Giustino nel 527 sul trono di Bisanzio, fu dominata dal progetto della restauratio imperii. Giustiniano si trovò a dover fronteggiare l’opposizione interna. -La durezza dell’azione repressiva dell’imperatore e del suo prefetto Giovanni di Cappadocia sfociò nella drammatica rivolta del 532 dei demi di Bisanzio, detta Nika, ossia “Vinci”. La capitale fu devastata, lo stesso Giustiniano fu sul punto di essere rovesciato e fu salvato in estremis dall’intervento del generale Belisario. Alla base della rivolta c’erano motivi concreti, legati al continuo inasprimento fiscale. -Anche da questo punto di vista Giustiniano si inseriva nel solco dell’eredità tardoromana, vista la necessità di mantenere in piedi la poderosa macchina amministrativa e burocratica dell’impero. -Non solo i ceti subalterni, ma anche i grandi proprietari risentirono della politica fiscale di Giustiniano, che cercò di limitare anche gli effetti socialmente rovinosi del patronato esercitato dai latifondisti sui contadini. -Un posto di privilegio nel disegno di restaurazione di Giustiniano fu l’opera di codificazione del diritto romano. In 5 anni (528‐533), sotto la guida del grande giurista Triboniano, venne redatto il Corpus iuris civilis, che comprendeva:  il Codex Iustinianus (la raccolta degli editti imperiali in vigore a partire dai tempi dell’imperatore Adriano);  il Digestum (la raccolta delle sentenze dei giuristi classici romani);  le Institutiones (una sorta di manuale per lo studio del diritto);  le Novellae (la raccolta di tutte le leggi promulgate dopo la redazione del Codex). -La parte più spettacolare della politica di Giustiniano è la sua politica militare verso l’occidente barbarico: la premessa necessaria di tale politica fu la pace “eterna” stipulata nel 532, con il re Cosroe I, per tenere a freno il fronte orientale, la Persia sasanide. L’anno seguente aveva luogo la campagna lampo contro i Vandali, guidata da Belisario. -Ripreso il Nordafrica, dalla Sicilia, presa nel 535 praticamente senza combattere, i Bizantini si affacciarono all’Italia (guerra greco‐gotica). -Grazie alle lotte di potere alla corte ostrogota e sfruttando l’assassinio di Amalasunta, Belisario poté iniziare la conquista della penisola. Stavolta la lotta fu durissima e si protrasse per quasi 20 anni. Le città e le campagne risentirono degli abusi dei due eserciti che bisognavano di vettovagliamento. -In questa lotta i Goti, liberatisi del debole re Teodato, elessero alla loro testa un abile comandante, Vitige, che resistette fino al 540, quando si arrese in Ravenna assediata. La sua resa non segnò la fine della guerra, gli errori e le durezze dell’amministrazione bizantina provocarono un malcontento generale e favorirono la reazione dei Goti, guidati dal nuovo re, Totila, che rovesciò le sorti della guerra, tanto che per ben 11 anni, dal 541 al 552, la maggior parte dell’Italia fu nelle sue mani. -Solo l’intervento di un altro esercito bizantino guidato da Narsete, riuscì alla fine ad avere ragione dei Goti. Totila fu sconfitto e ucciso a Tagina nel 552; l’anno successivo anche l’estrema resistenza gota fu annientata al Vesuvio, dove morì anche l’ultimo re goto, Teia. -Lo stesso anno di Tagina, la flotta bizantina aveva creato la sua testa di ponte in Spagna, occupando la zona mediterranea delle antiche province della Betica e della Cartaginensis. Il trionfo di Giustiniano sembrava completo. -Nel 554 l’imperatore estese all’Italia, con Prammatica sanzione la validità del codice giustinianeo, delle leggi e degli editti già in vigore in oriente. Giustiniano pretendeva poi la riscossione delle imposte arretrate, che unita alla durezza dei funzionari bizantini, trasformò le forze imperiali in rappresentanti di un potere ostile e oppressivo. -Un errore fu il non tener conto del fatto che il paese era fortemente provato dalla guerra, che si sovrapponeva poi al declino definitivo delle strutture economiche tardoantiche: il sistema delle villae era ormai in crisi, la stessa popolazione diminuita, come testimoniato dal numero di centri abitati che furono abbandonati, pari alla metà circa dei siti esistenti. -Per quanto riguarda il destino dei goti, rispondere a tale quesito ci porta a stabilire il senso dell’aggettivo “goto”, il quale, seguendo gli studi di Patrick Amory, ha un valore più funzionale che etnico, legato soprattutto a un determinato posto all’interno della gerarchia sociale dell’Italia teodoriciana. Ecco spiegata la scomparsa dei Goti. -Quello dei goti non era certo solo un semplice esercito formato da guerrieri di origini più disparate, ma un popolo in formazione, di origine composita, comprendente al suo interno, al momento dell’arrivo in Italia, brandelli del dissolto impero unno. -Allora la notizia riportata da Procopio, di una migrazione di Goti fuori dall’Italia in seguito alla sconfitta (accolta dal pensiero romantico), narra soltanto la resa delle ultime truppe gote, che con l’habitus mentale dei reparti federati si accordano con i loro ex nemici e riprendono la propria libertà di movimento, andando a cercare collocazione altrove. -Non è il mondo dei seminomadi, o dei nomadi quello che ci sta davanti, ma quello dei federati, di varia origine, che per qualche decennio, al seguito del genio di Teoderico, avevano governato autonomamente l’Italia. -Una parte di loro forse se ne andò effettivamente, ma la gran parte rimase dov’era, non rivendicò la propria identità gotica, divenuta svantaggiosa dal punto di vista sociale, e fu assorbita nel contesto generale dell’Italia della riconquista bizantina. -Nell’Italia teodoriciana l’etichetta di romano e di goto era stata attribuita ai singoli individui sulla base di scelte funzionali, derivanti dal posto occupato da questi nella gerarchia e nella società del regno: i soldati di solito erano presentati come goti, i funzionari come i romani. 6.Slavi e Avari nei Balcani -A fronte dei grandi successi ottenuti da Giustiniano, è davvero impressionante il rapido crollo dell’edificio da lui costruito nei 20 anni successivi alla sua morte. -In Spagna i territori occupati ritornarono in mano ai Visigoti. L’Africa era scossa da continue rivolte indigene. Erano prove del fatto che l’impero bizantino non aveva la forza economica e demografica per reggere gli sforzi militari, né le costose macchine amministrative imposte dall’imperatore. -Nei Balcani nuovi gruppi premevano le frontiere bizantine collocate lungo il Danubio. Giustiniano aveva costruito o rinnovato più di 600 forti nei Balcani, ma non ospitavano più di 500 uomini ciascuno. Nell’intera zona delle Porte di Ferro verso le foci del Danubio, nonostante il suo alto valore strategico erano stanziati circa 5.000 uomini. -Il pericolo era notevole, perché, accanto a quelle degli Unni, a partire dal 545 si segnalano a sud del Danubio le incursioni degli Sclaveni, termine con il quale le fonti bizantine indicavano gli Slavi. La loro apparizione sul Danubio indica che la zona della loro etnogenesi va individuata al nord dello stesso fiume. Si può in certo senso affermare che l’etnicità degli Slavi è stata inventata dagli autori bizantini, per distinguerli dagli altri barbari che minacciavano il confine danubiano. -Invenzione non vuol dire fantasia, era il modo con cui si cercava di dare un senso a un fatto reale, e cioè al processo, che allora era in corso, di costruzione di una nuova identità collettiva barbarica a nord della frontiera danubiana. -I forti costruiti da Giustiniano, permisero a questi di dedicarsi alla sua politica in occidente, ma non ressero oltre il 580, lo sforzo finanziario per mantenerli era troppo elevato. La presenza di altri popoli accanto agli Slavi peggiorava la situazione balcanica. -Gli slavi nelle loro spedizioni sono associati spesso nelle fonti agli Avari, cavalieri che venivano dalle steppe a nord del Caucaso. Gli Avari riuscirono a soggiogare al loro khagan Bajan tutti i nomadi a nord del Mar Nero. Alleatisi con i Longobardi, gli Avari eliminarono i Gepidi (567), di fronte alla loro pressione sempre più minacciosa, i Longobardi preferirono abbandonare agli stessi Avari le regioni dove erano allora stanziati, la Pannonia, trasferendosi in Italia. -Poco dopo gli Slavi entrarono a far parte della confederazione avara, costruendo una compagine politica di grande forza militare. Per il dominio di Bisanzio nei Balcani fu il crollo. -I bizantini non reagirono per la guerra contro i Sasanidi in oriente, l’imperatore Maurizio riuscì a risistemare le cose, ma l’improvviso ammutinamento delle truppe danubiane, innalzato da un soldato, Foca nel 602, interruppe l’azione bizantina. Le conseguenze della deposizione e dell’uccisione di Maurizio si fecero sentire specialmente in oriente. 7.Longobardi e Bizantini -Allorché nel 568 o 569 i guerrieri longobardi, guidati dal loro re Alboino, entrarono nella penisola attraverso le Alpi Giulie, trovarono un paese che non si era ancora ripreso dalla guerra greco‐gotica. -L’amministrazione bizantina, pesantemente fiscale, era malvista, l’esercito non era numeroso e neppure poteva sperare in rinforzi, vista la difficile situazione nei Balcani. -Gli eventi della conquista longobarda sono poco noti, la fonte principale è l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, che scrive 2 secoli dopo questi avvenimenti, ricavando quel poco che sa da una breve storia scritta da un abate trentino contemporaneo all’invasione, Secondo di Non. -Da quel che sappiamo è possibile sostenere che le truppe bizantine molto probabilmente si chiusero nei loro forti, lasciando il paese agli invasori e sperando di poterli comprare più tardi. Le fonti non ricordano infatti alcuna battaglia campale. Così i longobardi penetrarono nella pianura padana, e le città caddero una dopo l’altra, solo Pavia, la loro futura capitale resistette a lungo, forse 3 anni. -Nei decenni precedenti l’invasione i longobardi avevano assorbito, tramite i contatti con Bisanzio, le sue influenze militari e le sue gerarchie sociali. Al momento di entrare in Italia, ai Longobardi di Alboino si erano uniti Gepidi, sassoni, Svevi, Bulgari, Sarmati. -La fluidità dell’etnicità longobarda dovette favorire l’avvicinamento e la fusione con la popolazione romana, dato questo, che la storiografia italiana ha sempre negato, fino a tempi recenti. La struttura politica longobarda, quale appare dalle fonti italiane, era caratterizzata dall’equilibrio costante tra il potere del re e quello dell’aristocrazia. -Questo significa che nonostante i numerosi tentativi effettuati nel corso del tempo di dinastizzare la carica regia, ovvero trasmettere la carica al figlio, questi tentativi trovarono sempre una dura opposizione aristocratica. L’aristocrazia longobarda, infatti, mantenne sempre il proprio diritto a scegliere il re e, dunque, a partecipare attivamente alla competizione per il potere regio. Cap.4: L’Islam, Bisanzio e il Mediterraneo Premessa: una nuova fede -L’affermazione solenne del monoteismo contenuta nel Corano sottolinea il nucleo forte della religione musulmana, che fornì il collante spirituale alla nuova forza che nel VII sec. sconvolse gli equilibri del mondo mediterraneo. -L'espansione araba fu un fenomeno talmente nuovo che i bizantini si interrogarono a lungo sul carattere della nuova religione, riconoscendole dapprima un carattere a metà strada tra la verità e l'errore. -I rapporti iniziali fra le due religioni, la cristiana e la musulmana, furono caratterizzati dalla tolleranza. -La natura della comunità musulmana era al tempo stesso religiosa e politica. 1.La guerra fra Bisanzio e la Persia e la nuova realtà balcanica -I fattori di grave debolezza dell’impero bizantino erano gli stessi del tardo impero romano: quello finanziario, quello religioso e quello militare interno, in quanto l’esercito, in buona parte composto da mercenari e federati era poco affidabile. -Un altro problema fu il colpo subito dalla Persia. Con il pretesto di vendicare l’uccisione di Maurizio, Cosroe II, invase quasi tutte le province asiatiche di Bisanzio. Attaccato anche dai barbari nei Balcani l’impero era sull’orlo della caduta, quando una nuova rivolta militare eliminò Foca e portò al potere Eraclio, esarca di Cartagine (610‐641). -Furono anni difficili, anche l’Egitto fu perduto nel 616. Eraclio comunque riuscì a recuperare tutte le province asiatiche in 20 anni (Armenia, Mesopotamia, Palestina, Egitto). Nel 630 entrò a Gerusalemme da trionfatore, mentre l’impero persiano si decomponeva in preda a lotte intestine. -Eraclio per far fronte al pericolo persiano aveva trasferito le truppe stanziate nei Balcani, così l’impero bizantino vide il tracollo in quella zona, gli Slavi, sotto la leadership degli Avari si impadronirono della penisola balcanica e anche di parte della Grecia. -Ci fu poi una rivolta dei Bulgari, nomadi che abitavano nelle steppe dell’Ucraina, contro gli Avari. La crescita di importanza dei Bulgari fu frenata dalla situazione che si era creata con la progressiva frantumazione di un’altra vasta dominazione, il grande impero turco occidentale, che copriva le steppe eurasiatiche. Il suo crollo liberò il dinamismo di numerose forze, e fra esse c’erano i nomadi più orientali, i Chazari, dai quali i Bulgari furono temporaneamente sottomessi (660). -Ma nel 670 un figlio di Kubrat il capo dei Bulgari, Asparukh, fuggì con una parte del suo popolo a nord del delta del Danubio: e da questo momento i Bulgari entrarono pesantemente all’interno del quadro balcanico. Cominciò così a delinearsi un abbozzo di dominio territoriale bulgaro nel cuore dei Balcani. Le conseguenze degli avvenimenti balcanici del VI‐VII sec., influenzarono profondamente la storia europea dei secoli successivi. -In conseguenza di essi, i Balcani si slavizzarono in modo completo, e distruggendo l’antico illirico romano, interposero una barriera etnico‐linguistica nuova e dinamica fra Bisanzio e l’occidente, allontanandoli ulteriormente. -Neppure in oriente l’opera di Eraclio si rivelò solida. I lunghi anni di guerra avevano indebolito l’impero bizantino e la riconquista dell’oriente aveva riproposto il problema religioso. Il dissidio esprimeva il processo di distacco di Siria, Palestina ed Egitto dallo stato bizantino, distacco pilotato dai capi di quelle popolazioni, i vescovi, aiutati dai monaci. -La questione monofisita fu risolta soltanto dalla conquista araba, che recise definitivamente i legami tra Siria, Palestina, l’Egitto e Costantinopoli. Fu a questo punto che l’invasione islamica sommerse il vicino oriente. -Nel 636, 6 anni dopo la conquista di Gerusalemme di Eraclio, a Yaramuk in Siria la catastrofica sconfitta dell’esercito bizantino a opera degli arabi segnò il crollo, della dominazione bizantina su Palestina e Siria. L’Egitto prima e più tardi l’Africa del nord seguirono la stessa sorte. -I disastri militari del VII sec., che privarono di due terzi del territorio Bisanzio, cambiarono profondamente l’impero orientale. Questo dovette trasformarsi per garantire la propria sopravvivenza, siamo di fronte ad un cambiamento epocale, che spazzò via molte istituzioni ereditate dal passato romano. -Anche lo stesso rapporto vitale dell’impero con il Mediterraneo cambiò di segno. Accanto agli Slavi, agenti principale di tale processo furono gli Arabi. 2.Le radici della civiltà araba -L’Arabia è tradizionalmente divisa in 2 grandi aree, una settentrionale e una meridionale, caratterizzate da differenti modi di vita: sedentario e agricolo al sud, essenzialmente nomade al nord. -Nel sud fiorirono civiltà evolute e complesse, mentre il cuore dell’Arabia era invece il regno dei nomadi beduini. Questi, con le popolazioni delle oasi, così come con quelle delle zone di frontiera degli stati sedentari del nord, Bisanzio e la Persia sasanide, i beduini alternavano pace e guerra, costituita da periodiche razzie. (Abn Kaldun Ibn‐Battuta). -Tra il III e il VII sec., la decadenza dell’impero romano a nord dello Yemen al sud alterò il rapporto tra nomadi e sedentari, i primi estesero la loro area di influenza. -Bisanzio, erede di Roma, e la Persia sasanide, i due grandi imperi regionali, cercarono allora di cautelarsi contro il rinnovato dinamismo delle tribù beduine del deserto. -La Mecca era il maggiore centro urbano dell’Arabia interna, cuore del paganesimo arabo pre- islamico. -L’Arabia conosceva una penetrazione profonda del giudaismo, ed era relativamente diffuso anche il cristianesimo. Senza il duplice influsso ebraico e cristiano, l’esperienza religiosa di Maometto e dell’islamismo sarebbe inconcepibile. 3.La predicazione di Maometto e la nascita dell’Islam -La vocazione religiosa di Maometto maturò intorno ai 40 anni, verso il 610. Egli era nato alla Mecca da un ramo della tribù dei Quraysh; rimasto orfano lavorò presso una vedova Khadija, che successivamente sposò. -Fu allora che iniziarono le sue meditazioni, accompagnate da visioni che gli rivelarono la chiamata divina. Da quel momento si dedicò a convertire il suo popolo. -Il suo messaggio religioso, che era basato non solo su un intransigente monoteismo, ma anche sull’annunzio di un imminente giudizio finale accompagnato da una ricompensa per i giusti dopo la morte, lo portava a sostenere la fallacia del culto degli idoli, al quale la Mecca invece doveva il suo statuto di città sacra e, con esso, la sua fortuna di centro commerciale. -Era abbastanza per attirare sul profeta le ostilità dei padroni della città. Ma il giudizio finale e la ricompensa per i giusti furono sufficienti per attirare gli elementi più umili della città. Osteggiati duramente, i nuovi credenti trovarono rifugio a Yathrib, chiamata poi Medina “città del profeta”. -Si giunse così all’egira “migrazione”, la fuga dei mussulmani dalla Mecca verso il nuovo rifugio (24 settembre del 622). -Gli emigranti meccani e gli abitanti di Medina che accolsero la nuova fede si sottomisero con un patto formale a Dio e a Maometto: sono le Costituzioni di Medina. Per risolvere i problemi economici di Medina, che aveva aumentato con i rifugiati la popolazione, Maometto dette via libera alle razzie, che andarono a colpire in primo luogo le carovane dirette alla Mecca. -Fi furono alcune scaramucce tra i Quraysh e i mussulmani, attraverso le quali Maometto vittorioso rafforzò la sua influenza. Queste battaglie, rappresentarono in seguito il prototipo della jihad, la lotta difensiva dei musulmani contro i nemici esterni. -Nel frattempo Maometto aveva eliminato i clan ebraici di Medina ed era ormai padrone assoluto della città. Nel 630 anche la Mecca si arrese al profeta e i Quraysh si convertirono. -Legittimato dal possesso dell’antico centro religioso, Maometto ebbe rapidamente partita vinta in tutto l’Arabia. Le conversioni dilagarono, si convertirono sia le tribù nomadi del nord, che lo Yemen. -Nel 632, dopo un pellegrinaggio alla Mecca, mentre stava preparando una spedizione militare, Maometto morì improvvisamente. Alla sua scomparsa, la comunità dei credenti mussulmani, la umma, comprendeva un coacervo mal coordinato di tribù, città, territori. Solo l’energia dei “compagni” del profeta, coloro che avevano condiviso la sua fuga dalla Mecca la salvò dalla dissoluzione. 4.I califfi e l’espansione araba -Il clamoroso successo degli Arabi si spiega indubbiamente con lo stato di prostrazione dei due grandi imperi regionali, Bisanzio e la Persia. -Dopo la morte di Maometto, prevalsero i compagni e a capo della umma, fu scelto uno di loro, Abu Bakr, con il titolo di califfo (“vicario” del profeta). -L’Arabia pullulava di profeti ed imitatori di Maometto, in un solo anno però, le truppe mussulmane stroncarono la rivolta e già nel 633 le prime colonne armate varcavano i confini settentrionali dell’Arabia, penetrando in Mesopotamia. -L’impetuoso sviluppo, che prese l’avanzata esterna sotto il secondo califfo ‘Umar I (634‐644), mise a tacere ogni contestazione interna al potere islamico. Le conquiste arabe proseguirono con un crescendo impressionante. Non si fermarono in Siria. -Fra il 639‐642 conquistarono l’Egitto, fu presa nel 649 anche Cipro, gli Arabi si affacciavano ormai al Mediterraneo. -Nei 10 anni successivi alla morte di Maometto, l’Islam aveva conquistato tutta la Mezzaluna fertile. -I pericoli più gravi per l’Islam venivano dalla lotta per il potere al suo interno. ‘Umar I fu assassinato, fu così anche per ‘Uthman (644‐656), al suo posto fu messo ‘Alì, nipote di Maometo (656‐661). -L’ordine e l’unità politica furono restaurati dal governatore della Siria, Mu’awiya, un umayyade che s’impadronì del califfato eliminando ‘Alì. Dal punto di vista religioso furono poste le basi per lo scisma che divide tuttora l’Islam tra i sunniti (ortodossi) e gli sciiti (seguaci di ‘Alì). Mu’awiya spostò la capitale da Medina a Damasco. -Per ben 3 volte tra il 668 e il 717, gli Arabi portarono l’assedio sotto le mura di Bisanzio, mentre anche Creta diventava mussulmana. Le dimensioni dello stato arabo erano ormai emisferiche. -Tra il 664 e il 751 l’Asia centrale cadde sotto il dominio islamico; in direzione dell’India fu occupato il Panjab; il Turkestan cinese fu attaccato. -A occidente, le conquiste furono ampliate con l’assoggettamento dell’Africa bizantina e del suo centro politico, l’Esarcato di Cartagine (698). Tutta la sponda a sud del Mediterraneo cambiava volto. -In realtà non fu facile per il potere islamico controllare il Maghreb, a causa delle insurrezioni delle tribù berbere, le quali però una volta accettato il dominio califfale, misero le loro forze al servizio della spinta offensiva che portò alla conquista della penisola iberica, con l’abbattimento del regno visigoto (711‐718). Partendo dalle loro basi iberiche gli Arabo‐Berberi scavalcarono addirittura i Pirenei, devastando il sud della Gallia. L’Islam aveva raggiunto a questo punto la sua capitale e residenza dell’emiro inviato da Damasco, Siviglia e Saragozza. La situazione di al‐ Andalus nei confronti del nord cristiano della penisola iberica era più complicata. Qui vi era il regno delle Asturie, il 1° stato cristiano che si formò nel nord della penisola intorno al 720. -Rimane oscuro il meccanismo della sua creazione, benché generalmente letto, dalla storiografia spagnola, come uno dei primi elementi della reconquista. -Per tali motivi rimane leggendaria la figura del fondatore della monarchia asturiana, Pelagio (718‐722/737), e oscura la natura di quella che le fonti chiamano la sua rivolta contro i mussulmani, che avrebbe portato allo scontro, anch’esso leggendario, di Covadonga (722), che la storiografia interpretò non solo come l’atto di nascita del regno indipendente asturiano, ma anche, impropriamente, come l’atto iniziale della reconquista. -Al di là dei toni trionfalistici della tradizione medievale cristiana, il regno asturiano si mantenne indipendente nei decenni successivi esclusivamente o quasi, per lo scarso interesse dei mussulmani a impadronirsi di quelle regioni, povere e montagnose e caratterizzate da sempre da una sostanziale indipendenza dal resto della penisola, sia in età romana che visigota. -Il processo di espansione che, caratterizzò quasi costantemente il regno asturiano, iniziò sotto Alfonso I “il Cattolico” (739‐ 757) e si indirizzò verso la Galizia a ovest e verso la Meseta in direzione sud. -Successivamente, Alfonso II (791‐ 842), procedette verso i paesi baschi, e verso i territori che avrebbero formato il Portogallo e la Castiglia, lo stesso Alfonso fu anche in contatto con Carlo Magno, ma la progettata alleanza non dette frutti. Alfonso II stabilì la capitale del regno a Oviedo. -Nel corso del IX sec., l’élite asturiana, e la monarchia che la guidava, era sufficientemente ricca per costruire una capitale a somiglianza di Toledo, l’antica capitale visigota. 2.Il consolidamento del regno longobardo e la questione etnica -Con la fine del VII sec., il regno longobardo aveva raggiunto un equilibrio stabile. La nuova compagine politica si era andata modellando in riferimento alle altre due forze presenti in Italia: la chiesa di Roma e l’amministrazione di Bisanzio. -Sui tempi lunghi, la lotta contro questi due protagonisti della storia italiana logorò il regno, impedendogli di misurarsi ad armi pari con i Franchi nella lotta per la supremazia in occidente. -Certo che questi stessi avversari erano indeboliti, il regno longobardo aveva potuto superare senza gravi danni il suo lungo periodo di assestamento, conclusosi simbolicamente con la conversione ufficiale del regno al cattolicesimo romano, che avvenne alla fine del VII sec., durante il regno di Cuniperto, e pochi anni prima, il padre di questi, Pertarito, aveva mandato un’ambasceria a Costantinopoli per trattare i termini della prima duratura pace fra l’impero e i Longobardi (680). Da questo momento, dagli inizi dell’VIII sec., abbiamo una certa crescita economica, accompagnata da un aumento dei contatti con le regioni bizantine. -Poi l’Italia longobarda si ricoprì di fondazioni religiose, nuove o ricostruite: accanto a grandi monasteri regi come San Salvatore (poi Santa Giulia) di Brescia, Nonantola, Farfa, Montecassino, San Vincenzo al Volturno, nel corso dell’VIII sec. sorsero innumerevoli chiese e monasteri a carattere familiare ad opera dell’aristocrazia longobarda. I vescovi e gli abati partecipavano attivamente alla vita del regno, e la loro ricchezza era in grande aumento. -Intorno alle chiese e ai monasteri, specie quelli femminili, si annodavano gli interessi patrimoniali dei singoli gruppi familiari di proprietari fondiari, che nelle fondazioni religiose trovavano garanzie di stabilità economica, mezzi di accrescimento del proprio prestigio sociale, strumenti di alleanze verticale e orizzontali che potevano arrivare allo stesso re. -Sotto Liutprando (712‐744), il più grande re longobardo, i progressi furono evidenti. Il re mise sotto il suo controllo i duchi, compresi quelli lontani di Spoleto e Benevento, e favorì lo sviluppo di una gerarchia di funzionari pubblici, duchi e gastaldi, uniformemente definiti iudices regi, che avevano come punto di riferimento comune il palazzo regio di Pavia, città che divenne la vera capitale del regno. -Il sovrano riconobbe pienamente il ruolo delle istituzioni ecclesiastiche, per esempio inserendo nei suoi capitoli di legge il diritto d’asilo nei loca sancta, ma soprattutto legittimò le donazioni pro anima, “per la salvezza dell’anima”, che consentivano ai donatori di lasciare i loro beni a chiese e monasteri. -Disposizione che andava in una direzione auspicata dalle istituzioni ecclesiastiche, ma che confortava anche la volontà del ceto dei possessori: infatti queste donazioni, redatte con la clausola del mantenimento in usufrutto a vita dei beni donati, consentivano la creazione di reti di rapporti sociali ed economici capillari. -Nel caso che la scelta ricadesse su chiese episcopali o monasteri importanti, la famiglia del donatore, che di solito aveva anche altri beni che rimanevano nell’asse ereditario, si creava un protettore potente. -La donazione poteva però essere indirizzata anche verso una chiesa, un monastero della famiglia del fondatore, consentiva di mantenere unito il patrimonio familiare e anzi di accrescerlo. Infatti la nuova fondazione attirava donazioni da parte di altri proprietari della zona, magari meno potenti o comunque desiderosi di legarsi alla famiglia dei patroni. -Da un esame delle leggi e delle carte dell’età di Liutprando si può concludere che nell’azione del re nella sfera privata, riguardo alla tutela dei diritti delle donne e dei minori, alla disciplina del matrimonio (entità dei doni nunziali e leggi contro l’incesto), alla gestione dei beni fondiari e della loro trasmissione tra le generazioni, le motivazioni religiose e l’esigenza di un rapporto con le gerarchie ecclesiastiche si univano a una complessa contrattazione con le aristocrazie. -Il risultato finale così ottenuto era quello di porre saldamente il re (e il fisco regio) come responsabile ultimo dei conflitti patrimoniali sorti in ambito parentale. -Liutprando, inoltre, nel prologo delle sue leggi, sottolineò con forza, l’ispirazione divina che era alla base della promulgazione delle stesse e, facendo scaturire direttamente da Dio il suo potere, al di là di ogni mediazione ecclesiastica, egli cercava di superare la debolezza derivante dal carattere non dinastico della regalità longobarda. -Per comprendere la realtà della società longobarda dell’s VIII sec. è necessario sciogliere definitivamente il nodo della questione etnica. Nelle leggi di re Astolfo, del 750, in occasione della campagna militare per la conquista di Ravenna e dell’Esarcato, si chiamano all’esercito tutti i proprietari terrieri e i mercanti, con un armamento più o meno completo in ragione della loro ricchezza, senza fare alcuna distinzione etnica. -È la prova tangibile della completa fusione tra Longobardi e Romani, che aveva trasferito tutte le differenze interne alla popolazione del regno sul piano sociale ed economico. Il ceto dei proprietari terrieri erano i “Longobardi”. -I ceti inferiori in generale, rimanevano estranei alla tradizione longobarda invece, che era appunto militare; il termine “Romani” era invece riservato, nelle leggi, nelle carte, agli abitanti delle terre bizantine d’Italia. I nomi, le “etichette etniche” non sono altro che la spia delle strategie identitarie dei diversi gruppi umani e delle loro élite. -Così, nel caso dei Longobardi, non è tanto importante stabilire chi essi fossero in senso reale, biologico, quanto individuare quali gruppi umani in quel modo si identificassero o fossero identificati come tali da parte di altri. Il contenuto di questa etichetta, “Longobardi”, cambia nel corso di 2 secoli di storia. -I marcatori etnici classici dell’etnicità, sono riportati dagli stessi autori medievali, il più famoso dei quali è Reginone di Prum, e sono: origine, costumi, lingua e leggi comuni. Ma essi non funzionano molto bene per i Longobardi, così come non funzionano bene per le gentes altomedievali. La lingua longobarda era già morta nell’età dell’editto di Rotari, le sue leggi erano scritte in latino. -Quanto all’origine comune, i più antichi testi che ne parlano sono due, l’Origo gentis Langobardoru, e la prima parte della storia di Paolo Diacono. Entrambi, più che raccontare una storia, cercano di creare un’identità longobarda, sono dei texts of identity, “testi costruttori di identità” rispetto al pubblico cui sono rivolti. -Inoltre, tali testi sono frutto dell’azione di centri propulsori, da identificare con la corte regia: l’Origo in particolare è frutto dell’azione della regina Gundeperga, che completava l’azione iniziata dalla madre Teodelinda, volta a legittimare se stesse e la loro dinastia, le quali erano di origine bavarese: di qui la necessità di ricordare che il loro sangue discendeva dalla più prestigiosa dinastia regia longobarda, quella dei Lethingi. -Abbiamo anche materiali “pre‐etnografici”, ossia non riconducibili al bagaglio di esperienze culturali proprio della cultura greco‐romana e dunque da interpretare come barbarici, originatisi cioè nel grande rimescolio di culture dell’antico barbaricum. Tali sono i nomi dei paesi che i Longobardi attraversarono durante la migrazione, o le storie di divinità pagane come Wotan o Frea. -In ogni caso all’inizio dell’VIII sec., la stessa religione (cattolica), la stessa lingua (più che latina, romanza), lo stesso diritto, oltre agli stessi nomi e agli stessi luoghi di residenza, avevano reso indistinguibili i discendenti degli invasori da quelli degli indigeni. -In conclusione, si può essere d’accordo con Patrick Geary, il quale ha scritto che l’amalgama fra Romani e Longobardi fu facile, ma che la fusione tuttavia “non significò la perdita dell’identità longobarda”; al contrario, ma senza alcun collegamento con l’origine biologica delle persone, nell’VIII sec. l’élite sociale del regno identificava se stessa come longobarda: “solo i Longobardi avevano accesso al potere e alla ricchezza”, spiega Geary, ma questo non significava che i Romani erano rimasti subordinati ai Longobardi, ma piuttosto che “i Romani erano diventati Longobardi”, nel senso che quest’ultima parola aveva nell’VIII sec.: cioè facevano parte della classe sociale dei proprietari fondiari (o mercanti) di condizione libera che erano al tempo stesso guerrieri, e in quanto tali rispondevano alla chiamata alle armi da parte del re. -I testi sulle origini dei longobardi poterono fornire a questo gruppo i mezzi culturali per ricollegarsi proprio a quegli antichi guerrieri. I suoi membri, nelle fonti, oltre che Longobardi sono chiamati arimanni, ossia “guerrieri”, indicando così qual era la loro funzione sociale e politica fondamentale piuttosto che una loro problematica appartenenza etnica. -Tradizioni più o meno inventate a parte, quello che contraddistingue i Longobardi all’interno del regno è una sorta di “pratica sociale”, il rapporto con il re e la partecipazione all’esercito pubblico, che scaturisce dal posto da essi occupato nella società in quanto uomini di buona condizione economica, mercanti o proprietari terrieri, oltre che fondatori di chiese e monasteri. 3.Bisanzio, la crisi iconoclastica e le conquiste di Liutprando -Dal punto di vista di Bisanzio, l’Italia era una provincia periferica. La sua importanza risiedeva nel fatto che nei suoi confini c’era Roma, l’antica capitale che ora accoglieva al suo interno la nuova autorità del papa. -L’impero bizantino era stato tenuto lontano dall’Italia da problemi militari molto gravi. Dopo la parentesi inutile di Costante II nel meridione italiano (663), il suo successore Costantino IV (668‐ 685) si dovette di nuovo concentrare sulla pericolosa situazione in oriente. -Nel 678 si ebbe il primo assedio arabo di Costantinopoli. Dal 680, Costantino dovette fronteggiare un nuovo pericolo: la profonda penetrazione bulgara a sud del Danubio. -Si creò uno stato bulgaro nell’antica Mesia, tra il Danubio e i Balcani, in un territorio la Dobrugia e l’attuale Bulgaria nord‐orientale, già da tempo slavizzato. Altri gruppi slavi, in quello stesso periodo raggiunsero l’Adriatico, stanziandosi nell’antico Illirico. -Il processo di stabilizzazione portò all’affermazione di 3 regni, dapprima con la Burgundia, e successivamente di 2, Neustria e Austrasia. Parallelamente il centro di gravità culturale subì uno slittamento verso nord. -Nel corso del VII sec., l’aristocrazia di Austrasia, la regione del nord‐est del regno franco, aveva concretizzato infatti la propria indipendenza da quella di Neustria, localizzata nel bacino parigino. -A causa della morte del proprio re, l’aristocrazia di Austrasia rischiò di essere riassorbita all’interno del regno di Neustria, ma gli aristocratici astrasiani chiesero e ottennero di avere un re merovingio che risiedesse stabilmente all’interno della propria regione. -La loro capitale si distanziò ulteriormente da Parigi e, lasciata Reims, si collocò stabilmente a Metz, quindi, abbiamo uno spostamento politico del mondo franco verso nord come detto. -Il secondo mutamento stava nella trasformazione progressiva delle basi stesse del potere regio, dovuta ad unna forte contrazione delle entrate fiscali, già aggravata dalla crisi dei porti mediterranei. -Il sistema fiscale basato sulle imposte prelevate nelle varie civitates non era sparito, ma il gettito era molto diminuito, perché in molti casi i prelievi fiscali si erano trasformati in rendite incassate dai proprietari fondiari, che di frequente erano le stesse chiese vescovili che si facevano rilasciare diplomi di immunità dai sovrani. -Il declino, correlato a questi fenomeni, della vita urbana e del sistema amministrativo fondato sulle città rese più forti le élite locali dei grandi proprietari fondiari aristocratici. -A questa situazione politica, indebolita fino a sparire l’infrastruttura amministrativa romana e indebolite le città, i sovrani erano costretti ad adattarsi, in quanto per essi era indispensabile costruire un network efficace di relazioni con l’aristocrazia locale, sul quale basare la loro capacità di governo. -I documenti scritti ci rimandano l’immagine di una potente aristocrazia fondiaria, le cui vastissime proprietà erano sparse sul territorio e si basavano sulle rendite, ossia su uno sfruttamento indiretto dei contadini. In questo quadro i vescovi non persero la loro posizione ma furono assorbiti all’interno delle élite locali. -Dal canto loro i re merovingi mantennero una posizione forte fintantoché furono in grado di orientare la competizione per il potere locale, per la carica di conte come quella di vescovo, verso la corte, facendola valere come elemento di mediazione superiore e di risoluzione di conflitti, ossia ponendosi come patroni delle fazioni locali in conflitto fra loro. -Il sistema di potere era ormai basato su un difficile rapporto fra re e aristocrazia fondiaria. -Un altro fattore di trasformazione era la nascita di numerosi monasteri istituiti dall’aristocrazia fondiaria, soprattutto da quando si era diffuso, per opera di Colombano e dei suoi compagni, il monachesimo rurale di stampo irlandese. -Questo nuovo tipo di monachesimo aveva dato origine a fondazioni importanti, lontane dalle città e pienamente inserite in un contesto ambientale dove le grandi famiglie poterono utilizzarle come centri di politica locale e di network di potere. -In generale quindi la crisi della monarchia merovingia era un aspetto della più generale trasformazione dell’occidente ex romano. -I Merovingi erano legati ai moduli organizzativi dell’antica civiltà mediterranea, e la crisi profonda dei grandi circuiti commerciali nel corso del VII sec. finì per danneggiarli profondamente. -L’accentuazione dei caratteri agrari della società occidentale, che era la conseguenza della crisi, spingeva nella direzione di un predominio dei ceti aristocratici armati, radicati nel grande possesso fondiario. E tutto ciò voleva dire anche una sempre più netta dislocazione del centro di gravità, politico ed economico, dal Mediterraneo urbanizzato verso il nord, più marcatamente rurale, del regno franco. -In questo amplissimo processo di trasformazione risiede la radice del successo raggiunto a spese di Neustria e Burgundia. È indubbio che l’Austrasia era una regione dove le città avevano poco peso, in sintonia del resto con la minore influenza che la civiltà romana aveva esercitato localmente. -La vita sociale e politica era dominata dall’aristocrazia militare franca, che, ricca di vaste proprietà fondiarie e di folti gruppi armati, esercitava senza mediazioni un forte potere sulla popolazione. -Le più potenti famiglie d’Austrasia erano gli Arnolfingi e i Pipinidi. Così chiamati da Arnolfo di Metz e Pipino I di Landen, i primi e più famosi esponenti delle famiglie, che governarono insieme il governo astrusiano agli inizi del VII sec., sia pure in nome dell’ancora potente re merovingio Clotario II. -Pipino era maestro di palazzo, carica preposta al governo del palazzo regio, ma che con il tempo si trasformò in una forma di governo più ampia, all’interno dei diversi regni merovingi, tanto da fare del suo titolare il braccio destro o il potenziale rivale dei re. -I Pipinidi e gli Arnolfingi si imparentarono fra loro, tentando di rendere ereditaria la carica di maestro di palazzo del regno astrusiano. La ricchezza della nuova famiglia era enorme. I loro possedimenti si estendevano in tutta l’area compresa tra Mosa, Mosella e Reno, in Frisia, nella regione di Rheims. -Su queste terre sorgevano numerosi monasteri, come quello femminile di Nivelles fondato da Geretrude, figlia di Pipino, che fungevano non solo da sostegno politico economico, ma provvedevano pure a rafforzare il prestigio sacrale della famiglia. -Verso la metà del VII sec., quest’ultima dominava ormai nettamente la scena austrasiana. Attorno a essa si era andata cristallizzando progressivamente una forza militare di élite costituita dalle clientele di guerrieri privati, per i quali tendeva ormai ad affermarsi il nome di vassalli (vassi). Questa forza fu usata contro nemici interni, gli altri regni franchi e le stesse aristocrazie non sottomesse, ed esterni, provenienti dalle regioni germaniche e slave. 5.La presa del potere dei Pipinidi -Il processo che portò i Pipinidi, sul finire del VII sec. a dominare l’aristocrazia franca e, nel 751, a sostituirsi ai re merovingi, fu tutt’altro che lineare. -Le vicende dell’affermazione dei Pipinidi sono molto più complesse di quanto non voglia far credere la propaganda carolingia, tesa a legittimare e a giustificare il colpo di stato del 751. -Gli eventi sono intricati, basti dire che per l’ascesa dei Pipinidi fu fondamentale, oltre agli eventi elencati, la contrapposizione interna alla famiglia dei merovingi, i cui re, erano affiancati in diverse tappe dai nostri Pipinidi, i quali avevano la carica di maggiordomo. -Vediamo gli eventi decisivi. A Tetry in Piccardia, nel 687, Pipino II di Herstal, maggiordomo di Austrasia, sconfisse il maestro di palazzo di Neustria, Waratto Bercario, diventando maestro di palazzo di tutto il “gran regno franco; prudentemente egli fece salire al trono il figlio del Merovingio Clotario III, Clodoveo III, e regnò in suo nome, governando con la “massima gloria e onore”, ci ricordano gli annali di Metz. -Pipino II morì nel 714. Sedata una rivolta dell’aristocrazia e sconfitta un’opposizione interna alla stessa famiglia, fra i Pipinidi emerse Carlo Martello, uno dei figli di Pipino, che sfruttando la morte degli altri possibili eredi maschi, riuscì infine a succedergli come unico maestro di palazzo. -Carlo per tutto il suo governo dovette combattere rivolte interne ed esterne: gli aristocratici franchi erano disposti ad accettare la supremazia di un re merovingio, appartenente a una dinastia sacrale, ma accettavano meno volentieri di essere sottoposti all’autorità di una famiglia di origini e status pari a loro. -Carlo martello riuscì ad ampliare comunque l’area sotto il suo controllo, recuperando le regioni meridionali, Aquitania, Provenza resesi precedentemente autonome, e fece continue incursioni nel Mezzogiorno, nel corso delle quali sconfisse gli Arabi a Berre, a Poitiers (732 o 733) e in altri scontri. -L’esito finale fu non solo il contenimento a sud dei Pirenei della spinta islamica, ma l’effettiva sottomissione delle regioni meridionali al potere franco‐astrusiano. -I successi militari misero a disposizione di Carlo un ingente bottino, in ricchezza mobile e soprattutto fondiaria, che egli ridistribuì fra i suoi vassalli, incrementandone numero, potenza e fedeltà nei suoi confronti. -Forte dei suoi successi, dal 737 alla sua morte, avvenuta nel 741, Carlo governò il regno franco senza avere accanto a sé alcun sovrano della stirpe dei Merovingi come era invece stato per gli altri maestri di palazzo, però non ebbe il coraggio di fare il passo decisivo, farsi nominare re lui stesso. -La conquista ufficiale del potere regio fu il compito di Pipino III, figlio e successore di Carlo. La forza per uscire dallo stallo istituzionale nel quale si trovavano, re di fatto ma non di diritto, gli Arnolfingi‐Pipinidi la trovarono innanzitutto nei loro legami con l’apparato ecclesiastico e, in prospettiva, con la chiesa di Roma. 6.La società franca: lo sviluppo delle istituzioni ecclesiastiche e il vassallaggio -Agli inizi dell’VIII sec., la chiesa franca era controllata dall’aristocrazia, che occupava le cariche principali, in primo luogo quelle di vescovo e di abate dei grandi monasteri. Quindi buona parte del patrimonio ecclesiastico era in mano all’aristocrazia e la sua ricchezza non poteva essere sfruttata dai nuovi padroni del regno. -La volontà di questi ultimi, i Pipinidi, era invece proprio quella di disporre delle ricchezze e della potenza della chiesa franca, potenziandone anche il prestigio e la capacità di inquadramento delle popolazioni del regno come elemento di stabilizzazione del loro stesso governo. -Senza tralasciare il valore del ruolo del clero franco, fu soprattutto con l’azione dei monaci anglosassoni che la cristianizzazione della Germania fece importanti progressi. Fra loro, la figura più importante fu quella di Wynfrith, che assunse il nome di Bonifacio, e ricevuta l’autorizzazione da Roma per la sua azione in Germania, portò alla creazione, in qualità di vescovo missionario, di una chiesa costruita secondo il modello episcopale e sottomessa all’obbedienza romana. -Furono poste così le basi di una progressiva integrazione della Germania nel mondo latino‐ cristiano, anche mediante l’impulso dato alla creazione di agglomerati cittadini, dato che infatti, il centro di una diocesi doveva per tradizione essere ubicato in una città, e molti dei centri scelti a questo scopo da Bonifacio, o di suoi predecessori, si avviarono lentamente a divenire dei centri urbani. -Accanto alle chiese episcopali, furono anche fondati monasteri destinati a diventare centri di studio e di cultura, oltre che luoghi di coesione delle aristocrazie locali, il più importante dei quali fu quello di Fulda, fondato proprio da Bonifacio nel 746. -Carlomanno e il padre, Pipino III (detto il breve, futuro padre di Carlo Magno figlio di Carlo Martello, figlio di Pipino II di Heristal) pensarono di sfruttare il prestigio di Bonifacio per riformare la chiesa franca. -L’autorità di Bonifacio nell’ambito della chiesa franca fu poi rafforzata nel 746, quando egli occupò il seggio episcopale di Mainz, trovandosi così per la prima volta a capo di una normale diocesi. -Molti dei precedenti vertici della chiesa franca, specie abati e vescovi non collegati in maniera stabile alla clientela dei Pipinidi, furono accusati di avere comportamenti devianti e di scarsa cultura e furono sostituiti con uomini vicini ai maestri di palazzo. É in questo periodo che iniziano a tessersi dei legami più stretti che in passato fra i maestri di palazzo e il papato. Liutprando precedentemente). -Morto Carlomanno (771), Carlo rimase unico sovrano dei Franchi, rovesciò la precedente politica di alleanze e ripudiò la principessa longobarda, figlia di Desiderio (con il quale ebbe rapporti pacifici). -Quindi, Carlo troncò le trattative con la corte di Desiderio, non sappiamo se il matrimonio era avvenuto o meno, e sposò Ildegarda, una nobile sveva, per suggellare così la supremazia sulle terre dei franchi orientali, già governate da Carlomanno. -Subito dopo nel 773, con una nuova discesa in Italia, Carlo pose fine all’indipendenza del regno longobardo, sconfiggendo Desiderio dopo un lungo assedio a Pavia, deportandolo in Francia e assumendo il titolo di re dei Longobardi in aggiunta a quello di re dei Franchi (774). 2.Le altre guerre di Carlo Magno -Lo stretto legame tra potere carolingio e le strutture ecclesiastiche non deve mettere in dubbio un fatto fondamentale: il regno franco era una dominazione militare basata sul controllo da parte del sovrano sia dell’esercito, risultante dalla mobilitazione degli uomini liberi di una certa condizione economica, sia di un gruppo sempre più vasto di seguaci armati, i vassalli, che erano a lui strettamente legati dai successi di guerra e di bottino. -Il prestigio sociale dei vassalli, di quelli regi come di quelli dei grandi, era in continuo aumento, e così anche l’estensione delle terre che erano loro assegnate in beneficio. -Quest’ultima circostanza si spiega anche con l’evoluzione delle tecniche belliche, che andavano portando in primo piano la cavalleria corazzata (o pesante): nell’805, per esempio il costo del mantenimento di un cavaliere completamente equipaggiato (corazza, spada, scudo, lancia) era valutato intorno ai 12 mansi (unità di sfruttamento agrario). In queste condizioni, la necessità di dotare di terra i vassalli‐cavalieri era evidente. -Anche i liberi non vassalli erano ormai proprietari terrieri in grado di equipaggiarsi convenientemente per la guerra. Insieme vassalli e proprietari di terre costituivano il grosso delle armate franche; di queste ultime, i vassalli rappresentavano il nucleo professionale. -La base su cui si reggeva il potere di Carlo Magno era prima di tutto militare. Non deve stupire il dinamismo guerriero del suo regno, scandito da campagne militari. -Fu proprio con il venire meno, con i suoi successori, di tale dinamismo che si verificherà al tempo stesso la crisi delle fedeltà vassallatiche e delle clientele carolingie, poiché meno conquiste significano meno ricchezze e meno terre da distribuire, così dell’unità medesima della dominazione franca. -Per quanto riguarda la Germania, la spinta franca era stata rinsaldata dalle missioni anglosassoni, che erano state appoggiate dai Pipinidi. Sotto Carlo, tale spinta si espresse nelle trentennali campagne contro i Sassoni (772‐803). La Sassonia comprendeva allora tutta la Germania settentrionale. -I Franchi nel 772, con una grande campagna distrussero il principale santuario sassone, dove veniva adorata la Irminsul, un idolo a forma di colonna che rappresentava il titanico albero che reggeva l’universo. -Con il passare degli anni, il volere dei franchi non sarà più solo quello di raggiungere patti stabili con queste popolazioni, ma di adoperarsi attivamente per la loro conversione: in questo modo disegno missionario e progetto politico‐militare vennero a coincidere. -Nel Capitolare della Sassonia, dopo la sottomissione militare dei Sassoni (795) si stabilivano pene severissime contro i colpevoli nei confronti del re e della chiesa. Alla fine, i Sassoni furono piegati e una volta convertiti si assimilarono rapidamente. La loro sconfitta segnò anche il destino dei Frisoni, stanziati sulle rive del Mare del Nord, anch’essi assoggettati e convertiti al cristianesimo. -Più a sud fu definitivamente annessa la Baviera, regione cristiana nell’orbita franca, dove Carlo pose fine alla semi indipendenza di un antico vassallo franco e suo cugino, Tassilone duca di Baviera, deposto nel 794. -In tal modo Carlo ereditò da Tassilone le necessità di un confronto militare con gli Avari, i quali a est della Baviera, avevano creato un nucleo di potere stabile nella valle del Danubio, da dove scatenavano razzie. Carlo ne ebbe ragione con una serie di campagne condotte dal figlio Pipino e terminate nel 796, che portarono alla sottomissione degli Avari. -Raggiunti i suoi limiti verso est, la dominazione carolingia cercò di stabilizzarsi creando le marche, territori di confine sottoposti a una particolare amministrazione militare e assegnati ai vassalli più fidati. Al di là delle marche vi erano gli Slavi pagani, con i quali Carlo intrattenne rapporti abbastanza pacifici, senza tentare azioni di conversione o conquista. -La più importante delle marche fu la marca orientale, il primo nucleo della futura Austria, che fu creata dopo la vittoria sugli Avari, in una posizione strategica lungo la valle del Danubio. A essa si affiancò più a sud in Italia, la marca del Friuli, con il compito di contenere l’espansione degli Slavi meridionali. -Maggiori difficoltà incontrarono i Franchi a settentrione, dove nei primi anni del IX sec. iniziarono le incursioni dei Danesi, che li costrinsero a costruire, nel sud dello Jutland, il Danewirke, un lungo muro terrapieno fortificato che aveva lo scopo di tenere sotto controllo i Danesi. -I rapporti con il mondo anglosassone, basati su forti interessi commerciali, oltre che sui legami religiosi, passavano soprattutto per la Mercia, il regno anglosassone più potente durante tutto l’VIII sec. -Questo regno grazie ai suoi sovrani che riuscirono ad ampliare la base interna del potere regio, fino ai primi del IX sec. impose la sua autonomia sugli altri regni. Come figura emblematica di questo periodo della storia anglosassone vi era il re Offa (757‐796), contemporaneo di Carlo Magno, che cercò in tutti i modi di consolidare un legame con il sovrano. Offa imitò in molti modi lo stile di governo franco, per esempio fece una riforma monetaria come Carlo. -Fu il 1° sovrano anglosassone a coniare monete con la propria effige. Anche l’altra opera per la quale è ricordato la Offa’s Dyke, il terrapieno lungo un centinaio di chilometri ai confini con il Galles celtico, richiama il Danewirke di Carlo. -L’egemonia politico‐culturale che il regno franco esercitava sulla Mercia quindi, per suo tramite, lo riverberava sugli altri regni anglosassoni. -Nel meridione invece i Carolingi si confrontavano con l’Aquitania, riluttante a una piena assimilazione nel mondo franco. -Più in là dell’Aquitania, c’era poi la realtà potenzialmente ostile dell’emirato di Cordova. Le spedizioni al di là dei Pirenei ebbero un modesto risultato: la costruzione della marca di Spagna, con capitale Barcellona, estesa tra i Pirenei e l’Ebro. -Il regno cristiano delle Asturie, sorto come visto, nel nord‐ovest della Spagna, riconobbe una vaga supremazia di Carlo Magno. La sia pur piccola sconfitta di Roncisvalle del 778, subita dai Franchi ad opera dei Baschi, simboleggia in modo efficace i limiti dell’espansione franca. -Il risultato della trentennale attività bellica di Carlo Magno fu la creazione di una dominazione territoriale enorme per l’epoca, i cui confini coincidevano con quelli del mondo cristiano. 3.L’impero di Carlo Magno -Verso la fine dell’anno 800, Carlo Magno fu costretto a recarsi a Roma per riportarvi il papa Leone III, che ne era fuggito dopo essere evaso fortunosamente dal luogo in cui era stato incarcerato dai suoi oppositori interni. -In San Pietro, alla presenza del re, il papa si purificò delle accuse e i suoi avversari puniti. Due giorni dopo, la notte del 25 dicembre 800, durante la messa, il papa incoronò Carlo “imperatore dei romani”. -Carlo era divenuto il vero punto di riferimento della chiesa in occidente, l’autentico capo dell’intero popolo cristiano e non più, come gli altri re barbarici del passato, il sovrano di un solo popolo. -Da parte sua, Carlo si stava facendo costruire ad Aquisgrana, sul Reno, nel cuore delle antiche terre franche, con palazzi e una chiesa, la Cappella palatina, ricalcati sul modello di Costantinopoli o Ravenna, aveva già evidentemente in mente l’assunzione di una dimensione imperiale del suo regno. Dal punto di vista pratico dopo l’elezione non sembrava cambiato niente. -Carlo stesso usò soprattutto il titolo di “re dei Franchi e dei Longobardi”, assai più rispondente di quello imperiale alla situazione effettiva. Si era creata una situazione dove due imperi si dicevano entrambi romani. Situazione che rivela la volontà di rottura del gesto papale. -Il pontefice aveva assegnato a Carlo una dignità che aveva un valore universale, perché tale era il significato ormai da tempo assunto dal termine “romano”; universale e cristiano. -L’atto papale era la sanzione del fatto che Carlo esercitava il suo dominio sul complesso dell’umanità cristiana; il suo era un imperium christianum, e la sua autorità costituiva il riflesso terreno dell’autorità esercitata sul piano celeste da Cristo. -La realtà franca e quella bizantina, pretendevano entrambe di rappresentare l’unico impero romano. Logiche le reazioni di Bisanzio, che solo nell’812, a seguito di una seppur piccola guerra di confine svoltasi in Italia, con il trattato di Aquisgrana riconobbe per la prima volta a Carlo il titolo imperiale (ma non di imperatore “romano”). -L’impero carolingio, nonostante le cure di Carlo, non aveva strutture sofisticate. Mancavano una rete di funzionari omogenea, sia un sistema di circoscrizioni territoriali uniforme. I diversi territori assorbiti nell’impero di Carlo, in primo luogo quello longobardo, continuarono ad avere una loro vita autonoma. -Una certa omogeneità amministrativa tuttavia fu imposta. Organizzazione amministrativa del regno: -Al vertice dell’apparato pubblico era il palazzo imperiale. Esso coordinava lo sfruttamento delle grandi proprietà fondiarie del fisco pubblico, che rappresentavano la base materiale del mantenimento della corte e di tutto l’apparato centrale del domino carolingio. -Oltre che con le terre fiscali i membri del palazzo e lo stesso sovrano e i suoi familiari potevano contare sul mantenimento diretto da parte dell’aristocrazia fondiaria, laica ed ecclesiastica, in occasione degli spostamenti della corte. Si spiega anche per questo, certo non solo, la grande mobilità della corte carolingia: con le necessità di mantenersi sfruttando sia le risorse dei domini fiscali situati nelle diverse regioni, sia le risorse di conti, vescovi, abati, grandi signori. -La funzione del palazzo, quello di Aquisgrana, dove Carlo soggiornò molto, negli ultimi anni del suo regno, divenne il luogo dove si realizzava l’incontro fra l’imperatore e l’aristocrazia, dove cioè i legami personali, un tempo cementati nelle campagne militari, venivano rinnovati periodicamente, mediante lo scambio rituale di donativi. -Il potere locale invece era esercitato dai conti, accanto ai quali c’erano alcuni duchi, titolari di alcuni comitati oppure posti a capo di realtà territoriali coincidenti con aggregati etnico‐tribali. Duchi e conti, insieme ai capi delle marche, i marchiones, erano i protagonisti della scena politica dell’impero. -All’interno dei territori, l’attività degli ufficiali pubblici era in teoria controllata dai vescovi, ai quali furono conferiti ampi poteri di sorveglianza e intervento nella vita politica. -Del resto, compito dei conti era quello di partecipare, insieme con il re, al governo della società cristiana, e questo spiega il loro stretto rapporto con l’autorità vescovile. -Le norme dei carolingi erano i “capitolari”, decisioni prese dal sovrano insieme ai grandi, che in -L’intrecciarsi di fattori negativi, malattie, mortalità infantile, guerre, fece sì che Ludovico rimanesse alla fine l’unico erede. -Ma prima di ciò, nell’806 Carlo, aveva effettuato una divisio regnorum. Ludovico ebbe l’Aquitania e la Guascogna, Pipino l’Italia e la Baviera e Carlo il Giovane il resto, ossia il cuore delle terre franche: era l’erede principale. -Le cose andarono diversamente; Ludovico rimase l’unico imperatore. La morte di Pipino e di Carlo il Giovane cambiarono le cose: l’arrivo sul trono di Ludovico legò maggiormente l’Aquitania al resto dell’impero. Invece l’Italia rimase in una posizione appartata: nell’assemblea di Aquisgrana dell’812, Carlo riconobbe suo nipote Bernardo, figlio di Pipino, come re di quello, che ben presto, comincerà a essere noto come regnum Italiae e non più come solo regnum Langobardorum. -Sempre ad Aquisgrana, nel settembre 813, Ludovico fu incoronato imperatore da suo padre. Pochi mesi dopo, il 28 gennaio dell’814, Carlo Magno moriva. Cap.7: L’impero carolingio Premessa: gli eredi di Carlo -La pubblica penitenza dell'imperatore Ludovico il Pio (a Soissons nell’883) è stata spesso presentata come uno spartiacque, e non solo nel regno di questo sovrano: dopo questo evento, il potere regio non si sarebbe più ripreso, e la strada si sarebbe snodata in rapida discesa verso le successive lotte tra i figli di Ludovico e le spartizioni e la fine dell'impero. -In altri termini, Soissons avrebbe evidenziato la debolezza di Ludovico e preannunziato, al tempo stesso, quella dei suoi successori, preda di un meccanismo irreversibile che avrebbe minato precocemente le strutture politiche e sociali (oltre che morali e religiose) carolinge. -Questo tipo di lettura però va rifiutata. Per ciò che lo riguarda, Ludovico riprese rapidamente le redini del potere ed esercitò un duro controllo sui suoi figli – anche se non privo di contrasti – fino alla fine della sua vita. -Il governo di tutti i successori di Carlo Magno fu saldo e autorevole almeno fino all'ultimo quarto del IX sec.; la crisi, o forse meglio la trasformazione delle strutture politiche, sociali, religiose ed economiche carolinge, non è precedente a quella fase, né è corretto leggere tutto il periodo successivo alla morte di Carlo in termini di decadenza. -La penitenza dell’883 evidenzia il peso che i principi religiosi avevano sul comportamento pubblico dei sovrani: in particolare emerge il ruolo di ammonizione e consiglio ricoperto dai vescovi, espresso dalla loro facoltà “di legare e di sciogliere”, e l’idea della funzione sovrana – e più in generale pubblica – intesa come ministerium, ovvero come servizio (a Dio, alla chiesa, ai poveri, al popolo tutto dei fedeli). -Tutto questo è riassunto nell’immagine plastica del sovrano che si toglie il cingulum militiae, simbolo della funzione sovrana (definibile come anche militia): ossia il cinturone con la spada, con la quale egli doveva assolvere al suo compito di difendere il popolo cristiano. -Un compito che, a dispetto di certe ricostruzioni storiografiche tutte puntate sull’esito successivo (la fine dell’impero) e che presentano i successori di Carlo Magno come sovrani imbelli, fu assolto molto a lungo e con successo da Ludovico stesso e poi dai suoi figli e successori. 1.Ludovico imperatore -La presa di potere da parte di Ludovico il Pio (814‐840) non fu facile. Appresa la morte del padre, egli marciò su Aquisgrana con un seguito armato. L’entourage di Carlo lo aspettò con preoccupazione e ostilità, e la situazione si risolse pacificamente solo quando Wala, il cugino del defunto imperatore, il personaggio più importante al palazzo, andò incontro a Ludovico e gli si sottomise, allora anche gli altri membri della corte lo imitarono. -Insediatosi a palazzo, tuttavia, Ludovico fece piazza pulita dei consiglieri di Carlo, in particolare delle sue sorelle e dei cugini del padre, oltre allo stesso Wala, tutti inviati in monasteri e privati così del loro potenziale. -Al contrario, tenne presso di sé i suoi 3 giovani fratellastri, e anche i suoi rapporti con il nipote Bernardo, re d’Italia, furono inizialmente buoni. -Il governo di Ludovico fu molto lungo e, al contrario di quanto si riteneva un tempo, anche autorevole; fu solo nella seconda parte del suo dominio, in coincidenza con la maggiore età dei figli, che esplosero contrasti, che peraltro il sovrano alla fine riuscì a controllare. -In questa seconda fase (dall’828 in poi) si svilupparono forti tensioni all’interno del sistema politico carolingio. -I consiglieri ecclesiastici di Ludovico, tenaci assertori dell’unità dell’impero, equivalente a quella della ecclesia, enfatizzarono l’azione di Ludovico tesa alla conservazione di tale unità. Nella realtà, però, non era possibile ignorare l’esistenza di vari regna che articolavano l’impero, affidati a “sotto‐re”, tutti membri della famiglia carolingia, che, grazie ad un radicamento regionale incentrato sulle loro corti, potevano intrecciare rapporti con le aristocrazie locali. Ma l’unità imperiale, almeno in teoria, non era incompatibile con un’articolazione in regni. -Nell’817 Ludovico emanò l’ordinatio imperii, nella quale, sulla base di una concezione unitaria dell’impero e dei suoi fini, si proclamava Lotario, suo figlio primogenito, co‐imperatore e successore al trono imperiale. I fratelli rispettivamente ottennero, Pipino l’Aquitania e Ludovico II la Baviera. -Al di sotto di questa cornice unitaria, la soluzione trovata al problema ereditario si rivelava un fragile compromesso, che copriva a malapena le tensioni che affioravano tra gli eredi, ciascuno forte di un nutrito gruppo di seguaci nelle regioni dove era insediato, composto da vescovi e della grande aristocrazia laica dei territori dei vari regni, che si era fortemente legata ai nuovi sovrani locali. -Mentre infatti durante il regno di Carlo Magno la forza espansiva dell’impero, le terre nuove da conquistare, e il bottino da spartire avevano legato l’aristocrazia alla politica del sovrano, ora le guerre offensive erano finite e con esse le occasioni di arricchimento che le stesse guerre avevano offerto. -I grandi capi militari tendevano a ripiegare su interessi locali, su un loro potenziamento territoriale all’interno dei vari regni, irrobustendo e sviluppando numericamente, in quegli stessi territori, le loro clientele vassallatiche. -Così l’impalcatura imperiale, a causa anche della fine delle guerre esterne di conquista, e dunque delle grandi redistribuzioni di terre e bottino, divenne sempre meno importante per l’aristocrazia laica. -Essa prediligeva invece i sovrani locali, ai quali faceva riferimento prestando loro fedeltà vassallatica, giacché erano costoro ormai che meglio erano in grado di soddisfare le loro costanti esigenze di redistribuzione di ricchezza. -Una conseguenza di questo orientamento centrifugo dell’aristocrazia fu che i diversi sovrani carolingi entrarono in concorrenza gli uni con gli altri e con il padre‐imperatore, seguendo le ambizioni concorrenti dei loro stessi seguaci. Anche l’aristocrazia imperiale si trovò in difficoltà in questo quadro politico in movimento, difficoltà aggravata dal fatto che essa aveva legami sia con i re che con l’imperatore. -Il quadro politico delineato dall’ordinatio entrò davvero in crisi solo quando lo stesso Ludovico lo rimise in discussione, operando una nuova suddivisione che faceva posto al suo figlio più giovane, Carlo il Calvo, avuto dalla seconda moglie Giuditta di Baviera. -Il conflitto padre‐figli, ad un certo punto divenne guerra aperta: nel corso di essa i fratelli effettuarono diversi scambi di alleanze fra loro e contro il padre, finché, sconfitto a Colmar (833) dai suoi figli di primo letto, coalizzati contro di lui, Ludovico fu deposto. Fu l’episcopato franco a guidare la penitenza pubblica di Ludovico, la penitenza di Soissons. Così Lotario rimase unico imperatore. -Solo un anno dopo, però, la discordia tra i fratelli apriva la strada alla reintegrazione di Ludovico sul trono. I figli di questo furono inviati nei loro regna: Lotario, il capo della rivolta, in Italia, in una sorta di esilio; Ludovico il Germanico nelle terre al di là del Reno; Pipino in Aquitania. Si delineava in modo chiaro la volontà dell’imperatore di lasciare il cuore del dominio franco al figlio minore, Carlo il Calvo. -Le continue divisioni territoriali mettevano comunque periodicamente in crisi le fedeltà aristocratiche ai massimi livelli, poiché i vertici della società franca erano strettamente legati ai sovrani, e i cambi di assegnazione dei regni incrinavano rapporti di fedeltà consolidati, generando una pericolosa situazione di incertezza. 2.L’impero diviso -Alla morte di Ludovico nell’840 la guerra riprese in forma aperta fra i suoi figli. Essa terminò solo dopo che Lotario, sostenitore interessato dell’unità imperiale, fu battuto da Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico nella Battaglia di Fontenoy (841). -Nel frattempo, era morto anche Pipino (838), semplificando così il quadro dei contendenti. -Si giunse così al trattato di Verdun dell’843. Da esso scaturì un sistema nel quale tutti e tre i sovrani‐fratelli godevano di una parità politica reciproca di fatto, anche se Lotario mantenne il titolo imperiale e una vaga supremazia morale nei confronti dei fratelli. -L’effettivo esercizio di un potere imperiale da parte del maggiore dei Carolingi era finito per sempre: l’autorità dell’imperatore si limitava al territorio che gli fu direttamente assegnato, e cioè il regno longobardo (o italico) con in più, a nord di questo, una striscia allungata di territori che andavano fino al Mare del Nord, attraversando nel mezzo i due regni di Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico. -In realtà ciò che rimase stabilmente legato al titolo imperiale, anche se successivamente, fu solo il regno italico, Roma compresa. -A Ludovico il Germanico andarono le regioni a est del Reno, fino all’Elba e al bacino del Danubio; a Carlo il Calvo, le terre a ovest di quelle di Lotario, fino all’Atlantico. All’interno della comune cornice franca cominciavano a delinearsi due grandi aree, una romanza a ovest e una germanica a est. -Il regno di Lotario invece, ben presto, si frammentò in diverse parti: a sud delle Alpi il regno italico e, a nord, la Lotaringia e la Borgogna. -Il motivo della singolare stabilità delle decisioni prese a Verdun risiede nel fatto che esse rispettavano non solo e non tanto le realtà regionali (e linguistiche) in formazione, ma anche l’orientamento dell’aristocrazia nei confronti dei vari sovrani. -Nel regno della Francia occidentale, il personaggio di Carlo il Calvo si delinea con tratti notevoli. Carlo era una figura di grande spessore politico e intellettuale, alla sua corte vi erano intellettuali e grandi teologi come Giovanni Scoto. -Si svilupparono rituali regi complessi, fra i quali, spiccò la cerimonia dell’848, la consacrazione di Carlo da parte dell’arcivescovo di Orléans, tramite l’unzione, che fece seguito all’annessione effettiva dell’Aquitania. Esisteva all’interno della corte di Carlo, una concezione già imperiale del suo potere. -Gli anni 853‐858 non furono facili per il regno di Carlo il Calvo, provato dalle lotte interne all’aristocrazia più vicina al sovrano, dalla sostanziale autonomia dei Bretoni, contro i quali il sovrano combatté senza successo, dalle frequenti incursioni vichinghe che razziavano l’Aquitania, dai problemi legati alla creazione di sotto‐regni per i suoi figli, infine dal confronto anglosassone intorno a un’unica dinastia regia e a un solo regno. -Alfredo era un sovrano colto e abile imitatore del modello di governo carolingio: fu grazie a lui che gli strumenti di governo carolingio, leggi scritte, attività giudiziaria, assemblee politiche, diventarono patrimonio del nuovo regno inglese, e lo stesso vale per la riforma culturale e religiosa carolingia. -Ai margini settentrionali del regno carolingio, nasceva un regno relativamente solido quindi, il quale ne prolungava modelli e ideali. -Sempre i Danesi fin dall’811 attaccarono l’impero carolingio, il periodo più caldo iniziò dall’850: i Vichinghi risalirono i grandi fiumi e attaccarono il regno della Francia occidentale, la Frisia e la Lotaringia. -I campi temporanei cominciarono poi a divenire situazioni permanenti, dove la popolazione locale era regolarmente sfruttata, almeno sulle coste del Mare del Nord. -Nel 911, prendendo atto della situazione, il re della Francia occidentale, Carlo il semplice (uno degli ultimi Carolingi), dette in feudo al capo vichingo Rollone la terra che da allora fu detta Normandia, e che divenne un ducato; in cambio Rollone giurò fedeltà vassallatica al sovrano, da quel momento i Normanni difesero le stesse terre che prima depredavano. -Le incursioni raggiunsero anche il Mediterraneo. Furono attaccate le coste spagnole, in Italia, in Africa, e si spinsero fin sotto le mura di Bisanzio. Intorno al 930, l’impeto delle incursioni Vichinghe si placò. -In singolare parallelismo con i Vichinghi fu la nuova spinta mussulmana, che nel IX sec. fu in buona parte costituita da incursioni di pirati. Le incursioni piratesche ebbero la loro base principale in Tunisia e come meta privilegiata l’Italia meridionale, politicamente debole e lacerata. -Importante effetto di tali incursioni fu la conquista della Sicilia, che gli eserciti berberi occuparono tra l’827 e il 907; e altre due piccole realtà statuali islamiche furono gli effimeri emirati fondati a Taranto e a Bari, (liberata da Ludovico II come visto prima). Il resto dell’attività mussulmana ebbe solo carattere piratesco. -I Saraceni, d’altra parte sfruttarono i conflitti interni degli stati dell’Italia meridionale mettendosi al servizio degli uni contro gli altri, per esempio dei principi di Benevento contro quelli di Salerno e viceversa. Attaccarono la stessa Roma e saccheggiarono le basiliche di San Pietro e San Paolo. Colpirono anche altre regioni mediterranee, dalla Spagna alla Francia. -Infine, ultimi fra i popoli cavalieri provenienti dall’Asia, gli Ungari o Magiari apparvero nella regione del mar d’Azov intorno all’883. Valicati i Carpazi, essi invasero le pianure del Tibisco e del medio Danubio, l’antica Pannonia (896). Dalla Pannonia gli Ungari iniziarono le incursioni verso l’occidente, la Germania e l’Italia del nord. -Fu solo la nuova dinastia succeduta ai Carolingi in Germania, i Liudolfingi di Sassonia, che riuscì a fermare gli attacchi, prima costruendo un nuovo sistema di fortezze confinarie, poi, con Ottone I, infliggendo agli Ungari una tremenda disfatta nella battaglia di Lechfeld (955), che segnò la fine delle loro incursioni. 4.La crescita economica: la terra -La grande azienda agricola di età carolingia era chiamata con il nome di villa in area franca e germanica, mentre nell’Italia centro‐settentrionale il nome più diffuso, e quello più utilizzato dalla storiografia, era curtis (corte), una parola che indicava in origine solo uno spazio cintato e che poi ampliò il suo significato fino a includere la grande azienda nella sua interezza, la quale comunque spesso era una “clausura”. -Si intrecciavano 2 economie sul territorio, una padronale e una di villaggio. Quest’ultima era basata su usi agrari comuni e sullo sfruttamento collettivo degli spazi incolti, dove contadini dipendenti, che gestivano terre padronali date in concessione, si affiancavano ai piccoli proprietari. -L’aristocrazia laica ed ecclesiastica possedeva, a diverso titolo, proprietà piena o beneficio, non una sola, ma decine di corti, disposte anche a grande distanza tra loro. -Questo accadeva soprattutto per i grandi enti ecclesiastici il cui patrimonio si incrementava grazie alle donazioni, aristocratiche e non; ma anche le proprietà dei laici avevano un carattere spesso disperso. Tale carattere provocava complessi problemi di organizzazione interna e in particolare movimenti di persone e di derrate alimentari verso i centri padronali. -Quindi non si può parlare di un’unità monolitica del possesso fondiario, al cui interno si sarebbe sviluppata quella che la storiografia un tempo, sulla scorta di Pirenne, chiamava “economia chiusa”. -I rapporti di scambio fra le diverse parti che componevano il possesso fondiario producevano infatti, prima di tutto, mercati interni al grande possesso fondiario, che non erano mai chiusi alla partecipazione esterna. -[Sistema curtense]:Il modello fondamentale di organizzazione della grande azienda agraria di questo periodo, formatosi originariamente nel VII sec. nelle terre regie Franchi dell’Ile‐de‐France e poi ampiamente diffusosi nell’Europa occidentale in età carolingia, prevedeva una bipartizione delle terre in 2 sezioni: la riserva padronale (pars dominica o domocoltile), che il padrone gestiva direttamente, e la pars massaricia o massaricium, la parte frazionata in mansi concessi alle singole famiglie contadine perché lo lavorassero. -Ciò che rendeva caratteristico il sistema curtense in età carolingia era lo stretto legame che esisteva tra le 2 parti dell’azienda. Il padrone lavorava in proprio la riserva utilizzando le forze degli schiavi domestici, da lui mantenuti integramente. A esse univa l’apporto di manodopera costituito dalle prestazioni di lavoro coatto, le corvées. -Oltre alle prestazioni di lavoro sulla riserva, i contadini concessionari effettuavano poi una serie di altri lavori, che andavano dalle corvée di trasporto delle derrate ai lavori di riparazione e manutenzione di attrezzi e edifici padronali. -I concessionari, infine, dovevano pagare dei canoni al padrone, la cui entità e peso variavano da zona a zona. Potevano essere a quota fissa o parziaria di prodotto dell’azienda oppure, più rari e poco diffusi fuori dall’Italia i canoni pagati in denaro. -Sempre in Italia, le concessioni di terre ai contadini liberi e le prestazioni di lavoro che essi, in quanto concessionari, si impegnavano a compiere erano per lo più registrare in documenti scritti, i libelli (“contratti di livello”). I libelli identificavano un rapporto contrattuale fortemente diseguale, i rapporti di forza infatti erano sempre a favore dei grandi proprietari terrieri, che tendevano a stabilire dei rapporti di predominio ereditario sui vari gruppi di famiglie contadine, le quali, in base agli stessi contratti di livello erano sottomesse alla “iustitia dominica”. -Questa, non diffusa prima del IX sec., era l’impegno da parte del concessionario di sottostare alla giustizia signorile nei casi di violazione delle clausole contrattuali: il signore si arrogava l’esercizio di pertinenza delle istituzioni pubbliche e sanciva per il colono un ulteriore pesante vincolo di dipendenza personale. -In queste condizioni, la libertà nel mondo rurale tendeva a farsi sempre più opaca e a svuotarsi del suo contenuto effettivo, (anche perché era la proprietà della terra, con le conseguenze sociali che ciò implicava, tassazione, esercito, condizione della “piena libertà”, non il suo utilizzo). -Lo sfruttamento della riserva era finalizzato in primo luogo alle esigenze padronali e doveva consentire al padrone di sfoggiare il suo elevato tenore di vita e di mantenere i suoi uomini. -Se era un laico, membro dell’aristocrazia militare, la sua casa era infatti piena di guerrieri, suoi fedeli e vassalli; se era un ecclesiastico doveva pensare al suo clero o ai suoi monaci, oltre che ai suoi clienti liberi (fra i quali pure erano presenti i vassalli) e, in misura variabile ai poveri. -Una delle principali molle dell’economia altomedievale risiede dunque nel consumo e nei bisogni della classe dominante. 5.La crescita economica: gli scambi -La relativa vivacità commerciale del Mediterraneo smentisce la tesi di Pirenne sull’occidente “imbottigliato” dagli Arabi, tanto più perché tale vivacità si accompagnava alla crescita di altre aree: il Mare del Nord, il Baltico e il bacino del Reno. -I diversi centri dedicati al commercio e allo scambio di prodotti che appaiono in questo periodo nel Mare del Nord, gli storici e gli archeologi li chiamano emporia, non città. -Gli empori cominciano a svilupparsi nel corso del VII sec. in zone di transizione, sia dal punto di vista ecologico e dei trasporti (paludi, trasbordi fiumi‐mare o viceversa) o di quello politico: non è un caso che essi si collochino per esempio nelle aree di intersezione fra terre franche, scandinave, anglosassoni. -Fra i più importanti nodi del commercio poi c’erano le fiere, ossia dei mercati periodici, talvolta situati anche in località dotate di mercati permanenti, ma che in certi periodi godevano di particolari condizioni di favore delle autorità ed erano quindi caratterizzati da un afflusso molto intenso di persone. (per esempio, la fiera di Saint‐Denis a Parigi). -Un elemento che differenziava l’area del Mare del Nord dal Mediterraneo era rappresentato dal fatto che nel nord, oltre agli empori, non c’erano delle antiche città costiere preesistenti: gli empori si collocano così alle origini dell’urbanizzazione di quelle regioni. -Invece nel sud c’erano innumerevoli città di origine antica che entravano nell’ambito dei movimenti commerciali, basti fare il nome di Marsiglia, e rivaleggiavano con i nuovi centri, che anche in questi casi possiamo chiamare empori. 6.Le trasformazioni sociali e istituzionali -Il progressivo aumento di potere dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica nei confronti dei contadini era evidente. Il proprietario, coperto dall’immunità o dalla forza delle armi dei suoi seguaci, aveva sviluppato poteri di comando sempre più estesi sui contadini. -É il fenomeno che viene definito dagli storici “signoria fondiaria”; quest’ultima includeva, in un’uguale soggezione al signore (dominus), sia di antichi schiavi casati che i contadini liberi: questi ultimi erano semplici affittuari o, spesso, ex proprietari che avevano ceduto la terra al loro più potente vicino, laico o ecclesiastico, “accomodandosi” a lui personalmente e magari accompagnando, in Italia, tale sottomissione con un contratto di livello, che, come detto sopra, poteva prevedere la sottomissione alla giustizia signorile. -L’autorità dei grandi si frapponeva sempre più tra il sovrano e i liberi, che, cedendo i loro patrimoni ai grandi, perdevano la qualifica di proprietari terrieri che li rendeva atti alla convocazione nell’esercito. -Lo sviluppo dei poteri dell’aristocrazia locale era pagato dunque dai liberi con la perdita della capacità di portare le armi; diminuiva così il numero di coloro che potevano essere chiamati nell’esercito regio in forza dell’antico diritto‐dovere dei liberi guerrieri membri del popolo franco. -La guerra tendeva a diventare progressivamente un fatto sempre più riservato ai guerrieri di professione, i grandi stessi e le clientele vassallatiche loro e del sovrano. -Questo valore militare del vassallaggio non va sovrastimato soprattutto per le fasi più antiche; i capitolari carolingi di mobilitazione militare mostrano che all’esercito erano chiamati anche i non proprietari ricchi che erano però in grado di armarsi e in caso contrario coloro che non erano ricchi dovevano associarsi tra loro per armare un guerriero, ciò che si definisce adiutorium; infine vi erano coloro talmente poveri che non potevano nemmeno contribuire all’armamento e
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