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I Vicerè, Dispense di Storia Delle Istituzioni Politiche

La figura del Vicerè analizzata in un riassunto di 69 pagine

Tipologia: Dispense

2014/2015

Caricato il 30/06/2015

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FABIOo_91 🇮🇹

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Scarica I Vicerè e più Dispense in PDF di Storia Delle Istituzioni Politiche solo su Docsity! I I VICERÉ 1. Premessa Dici viceré e subito pensi a De Roberto, alla cupa saga familiare ottocentesca degli eredi di quel sangue intriso, forse infetto, della malattia del dominio sempre e comunque, del potere ad ogni costo, vuoi anche della follia e dell’incesto. Poiché le rivisitazioni storiche degli autori della letteratura sici- liana sono frequenti - suggestive, coinvolgenti, immaginifiche nei più grandi, e nei meno grandi banalmente volti a captare il consenso dei lettori su una lettura ‘facile’ e senza sorprese dell’archetipo del sici- liano - il consiglio che diamo è quello di godersele per il piacere che provocano e per i loro valori artistici, per le atmosfere e le sensazioni che accendono nel nostro spirito, per quel che ci testimoniano della cultura e delle idee dell’età in cui furono scritte e di chi le scrisse, lasciando agli storici il meno fantasioso compito di tentare di fornire una spiegazione documentata del passato. I viceré compaiono sulla scena isolana nel corso del Quattrocento e vi dominano sino al primo Ottocento, una storia troppo lunga perché sia ridotta a metafora del potere e per essere svuotata dei suoi concreti e oggettivi contenuti di pratica e storia del potere. La vicenda ha inizio con la fine della dinastia regia indipendente e con l’incameramento, deciso a Caspe nel 1412, poi più volte riba- dito, del Regno di Sicilia tra i beni ereditari diretti della Corona d’Ara- gona. Da Ferdinando il Giusto in poi il governo del Regno fu affidato dai sovrani ad una o più persone di fiducia, definiti o no con il titolo di vicerè, e con compiti, di volta in volta, particolari o generici. La figura di un alter ego, sempre più ben delineata nei compiti e nelle funzioni e spesso collegata con l’alto comando militare (in questo caso si aggiungeva il titolo di luogotenente generale), venne affer- mandosi nel corso della seconda parte del Quattrocento e nel Cinquecento. Di certo il giudizio sulle prerogative dei viceré, e sul modo in cui i singoli personaggi le esercitarono, è stato oggetto nel tempo di ampie trattazioni dalla celeberrima di Scipione di Castro1, al profluvio di relazioni, informazioni, commentari che circolavano e s’accumulavano «a casse» in occasione dell’arrivo in Sicilia di nuovi viceré2. Quel che a noi qui interessa precisare è però un altro elemento, relativo all’importanza ed alla posizione che questi nobiluomini dete- nevano nella scala gerarchica e nel sistema politico dell’impero spagnolo, per valutare se si trattava di personaggi di primo piano, di livello medio o inferiore. Scorrendone l’elenco e rifacendoci alla storia generale della Monarquía, non possiamo che confermare la configu- razione altrove datane: «l’assegnazione della carica di viceré non era un atto burocratico politicamente marginale, ma dipendeva di volta in volta dal livello e dall’esito del conflitto politico all’interno della composita classe dirigente monarchica». Grandi personaggi quali d’Urrea, d’Acuña, de Spes, Monteleone, de Vega, Gonzaga, Colonna, Medinaceli, Olivares, Osuna, Castro, Emanuele Filiberto di Savoia, Juan José de Austria, «non sono certo burocrati esecutori passivi di ordini e quieti percettori di cariche onorifiche, ma protagonisti del dibattito sulle sorti del grande impero, membri prestigiosi o espo- nenti di schieramenti politici che si contendono la guida dello stato, assertori di orientamenti e di scelte che si riflettono operativamente nell’esercizio della loro carica determinando tra le forze locali l’atti- vazione di nuovi gruppi ed il formarsi di nuovi equilibri e schiera- menti»3. 10 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 1 Scipione di Castro, Avvertimenti di don Scipio di Castro a Marco Antonio Colonna quando andò viceré di Sicilia, a cura di A. Saitta, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1950, con la densa introduzione; vedi anche R. Zapperi, Don Scipio di Castro, storia di un impostore, B. Carucci, Assisi Roma, 1977. 2 Ricordiamo le relazioni edite da V. Sciuti Russi: P. De Cisneros, Relación de las cosas del Reyno de Sicilia (1584), a cura di V. Sciuti Russi, Jovene, Napoli, 1990; V. Sciuti Russi (a cura di), Il governo della Sicilia in due relazioni del primo Seicento, Jovene, Napoli, 1984. Si veda anche Alfonso Crivella, Trattato di Sicilia, a cura di A. Baviera Albanese, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 1970. 3 D. Ligresti, Per un’interpretazione del Seicento siciliano, «Cheiron», L’Italia degli Austrias. Monarchia cattolica e domini italiani nei secoli XVI e XVII, nn. 17-18, anno IX, 1992, pp. 81-105. quale una fronda siciliana sarebbe stata probabilmente esiziale alla dinastia5. Le cose non cambiarono di molto con la conquista del Regno di Napoli, che rimase una realtà separata dal resto della confedera- zione, tanto che alla morte di Alfonso ritornò del tutto indipendente con un re proprio. Solo quando iniziò ad operare l’unione delle Corone aragonese e castigliana, e cioè nell’ultimo ventennio del secolo, e poi con le note vicende cinquecentesche che portarono alla definitiva acquisizione di Napoli e alla successione di Carlo V in tutti i territori ed i titoli del nonno, l’imperatore Massimiliano, la quota siciliana nel complesso imperiale asburgico si ridusse drastica- mente, ma permase in ogni caso una componente significativa della Monarquía, come dimostra tra l’altro l’eccezionale importanza e qualità dei personaggi che furono inviati a governarla. La perdita della sede regia era stata causa di malcontento per i gruppi dirigenti locali che nella presenza del sovrano e della corte vedevano un ruolo per loro più prestigioso nel contesto internazio- nale ed un’occasione di più facili acquisizioni nella distribuzione del patronage. La richiesta di un re proprio e di un regno indipendente percorrerà da questo momento, con minore o maggiore credibilità e spesso in modo strumentale, tutta la storia costituzionale del Regno, e costringerà il potere centrale a adottare soluzioni che in qualche modo potessero venire incontro alla sensibilità ed alle esigenze dei Siciliani. L’invio di personaggi di sangue reale come delegati regi per il governo dell’isola fu presto abbandonato, soprattutto per il rischio concreto che si determinassero situazioni di contrasto e si aprissero potenziali vie alla costituzione di un regno indipendente, come si paventò già nel 1415 all’arrivo in Sicilia dell’infante Juan duca di Peñafel, allorché le città demaniali e alcuni feudatari lo sollecitarono ad assumere personalmente la corona. Con lui era giunto un folto I. I viceré 13 5 Sul Regno d’Aragona e sui singoli territori che ne facevano parte ci limitiamo a segnalare i classici libri di J. Vicens Vives: El Trastámares (segle XV), Barcelona 1980 (2a ed.), e Noticia de Cataluña, Destino, Barcelona, 1954 (2a ed. 1980); si vedano pure J. M. Lalinde Abadía, La Corona de Aragón en el Mediterraneo medioeval (1229-1479), Institución Fernando el Católico, Zaragoza, 1979; M. Del Treppo, I mercanti catalani e l’espansione della Corona d’Aragona nel secolo XV, Libreria Scientifica Editrice, Napoli, 1972; La Corona d’Aragona e il Mediterraneo: aspetti e problemi comuni da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico (1416-1516), IX Congresso di Storia della Corona d’Aragona, Società Napoletana di Storia Patria, Napoli 1978-82, 2 voll. numero di nobili castigliani del suo entourage e alcuni altri dei regni d’Aragona impostigli dal padre, tra cui Antoni Cardona, terzogenito di Hug Folch conte di Cardona appartenente alla grande nobiltà catalana, che dal 1416 al 1419 sarebbe rimasto nell’isola come viceré insieme all’anziano e navigato vescovo di Lerida, il valenzano Pietro Ram, entrambe personalità d’altissima statura politica. Loro compito era quello di pacificare il regno, di razionalizzare il sistema di governo e di assicurare il flusso finanziario delle imposte e delle rendite regie costituendo nell’isola un gruppo dirigente «nazional- mente composito» di cui fecero parte Castigliani, Catalani, Aragonesi, Valenzani e molti Siciliani6. Cardona, primo viceré, sarà anche il primo ad avviare quella pratica abbastanza frequente di impiantare nell’isola la sua casata o di costituirvi una o più ramificazioni grazie a matrimoni con eredi- tiere siciliane: sposerà Margherita Peralta erede della contea di Caltabellotta, da cui successero Giovanni conte di Caltabellotta sino al 1439, Pietro, camerlengo e alfiere di Alfonso, gratificato della vasta contea di Collesano, Alfonso sposo di Caterina Peralta ereditiera di un altro importante complesso feudale7. Anche il nobile castigliano Fernando Velasquez, inviato in Sicilia da Ferdinando I il Giusto a far parte del Consiglio che affiancò la regina Bianca, rimase a lungo nel Regno, vi ricoprì importanti cariche tra cui quelle di viceré (con Ferdinando de Turribus) e giustiziere del Regno e riuscì ad acquisire la baronia della terra e castello di Aci sino al 1439. Quello di viceré dunque, più che una carica ben definita nell’ap- parato di governo e delle istituzioni, appare in questi primi decenni un compito attribuito dal re ad uno o contemporaneamente a più di uno dei suoi leali servitori con obiettivi specifici di carattere politico, fiscale, militare e di mediazione tra le forze del Regno8; ad essere 14 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 6 P. Corrao, Ceti di governo e ceti amministrativi nel regno di Sicilia fra ’300 e ’400, in M. Tangheroni (a cura di), Commercio, finanza, funzione pubblica. Stranieri in Sici- lia e in Sardegna nei secoli XIII-XV, Liguori Editore, Napoli, 1989. 7 I Cardona, ormai feudatari siciliani, continuarono a militare fuori dalla Sicilia negli eserciti regi sia con Alfonso che con Giovanni II e Ferdinando il Cattolico, mante- nendo frequenti contatti con la Catalogna dove continuavano a possedere feudi e dove risiedevano altri rami del lignaggio. 8 Sull’istituzione viceregia mancano però studi specifici. Si veda il vecchio C. Giar- dina, L’istituto del viceré di Sicilia (1415-1798), «Archivio storico siciliano», 1931, pp. 189-294. L’unica sintesi complessiva di tutti i viceré di Sicilia sino ai suoi tempi è quella di G. E. Di Blasi, Storia cronologica de’ Viceré Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, 5 voll., Edizioni della Regione Siciliana, Palermo, 1974-5 (prima designati furono Catalani, Valenzani, Castigliani, Aragonesi e Sici- liani, esponenti dell’aristocrazia, nobili e patrizi delle città, togati, uomini d’affari, banchieri, ecclesiastici. La durata della carica non era determinata in precedenza, e diversi viceré potevano trovarsi a governare ora singolarmente ora con l’aggiunta di uno o più colleghi, come avvenne nel 1416 con i citati Ram e Cardona, o nel 1421 quando furono nominati l’aragonese Arnaldo Ruggero de Pallars, insieme al messinese Nicolò Castagna ricchissimo barone-borgese ed al catalano Giovanni de Podio Nucho. Il nobile patrizio netino Nicolò Speciale9, personaggio di tutto rilievo non solo politico, fu viceré singolarmente nel 1423-24 e dal 1424 al 1429, con Guglielmo Moncada nel 1429-30 e con Guglielmo Moncada e Giovanni Ventimi- glia nel 1430-32; affiancò efficacemente il fratello del re, Pietro d’Ara- gona, rimasto in Sicilia dopo la partenza di Alfonso per la Spagna, fu finanziatore della Corona e tesoriere a vita del Regno10. Nel 1435 – ormai le finalità del governo alfonsino erano mutate e tutte orientate alla conquista del Regno di Napoli – fu nominato viceré l’equites palermitano Ruggero Paruta con l’incarico di vendere o dare in pegno parti del demanio regio per drenare quante più risorse possibili per la guerra; dopo di lui nel 1439-41 seguirono il mercante catalano Bernardo Requesens, Gilberto Centelles, uno dei più ragguardevoli esponenti della nuova classe dirigente siculo- valenzana, in coppia con il patrizio catanese Battista Platamone, e infine Raimondo Perellos. I. I viceré 15 edizione Palermo, 1790): per le successive citazioni si tenga presente che nel vol. I sono compresi i viceré del Quattrocento e del primo Cinquecento sino ad Ugo Moncada, nel vol. II i viceré da Moncada a Maqueda e nel III i successivi viceré sino al 1700 (morte di Carlo II). Per una lettura del ruolo svolto dai più importanti per la storia dell’isola si vedano i testi di V. D’Alessandro, La Sicilia dal Vespro cit., e di G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in V. D’Alessandro, G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro cit.; per uno sguardo generale A. Musi, L’Italia dei Viceré. Integra- zione e resistenza nel sistema imperiale spagnolo, Avagliano Editore, Cava de’ Tirreni, 2000. Sulle istituzioni e gli uffici in generale vedi oltre nella parte dedicata alla buro- crazia del Regno. 9 E. I. Mineo, Gli Speciale. Nicola Viceré e l’affermazione politica della famiglia, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», 79 (1983), pp. 287 sgg. 10 I ventotto viceré fino alla morte di Alfonso furono: dodici membri dell’alta aristo- crazia, nove catalani e tre siciliani; cinque giuristi e prelati iberici; dieci componenti della nobiltà cavalleresca passati per la burocrazia o la giudicatura (dei quali sette comprarono feudi) e un mercante pisano, Peri Gaetano: H. Bresc, Un monde méditer- ranéen. Économie et société in Sicile 1300-1450, Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo-École française de Rome, Roma, 1986, tomi 2, p. 901. Dopo una fase interlocutoria, affidata ai viceré siciliani Guglielmo Peralta e Guglielmo Pujades (1477), un altro importante personaggio catalano fu inviato alla guida della Sicilia, Giovanni Cardona conte di Prades, marito della siculo-catalana Isabella Cabrera dei conti di Modica, con il difficile compito di far votare al Parlamento un sussidio di 90.000 fiorini in tre anni, cui s’aggiun- sero nel febbraio e nel settembre dell’anno successivo altre due richieste: 30.000 fiorini per contribuire alla repressione di una rivolta scoppiata in Sardegna, ed un prelievo del 10% su tutte le rendite per le fortificazioni. Si trattava di cifre inusuali dal tempo di Alfonso, che provocarono nel Parlamento radunato a Catania la dura opposizione di Messina, sostenuta dal marchese di Geraci14: la Protesta dei messinesi fu stampata a Messina per iniziativa del barone di Monforte e diffusa in tutta l’isola, con modalità ‘moderne’ di lotta politica tendenti a coinvolgere quella che in tempi succes- sivi si definì opinione pubblica. La questione fiscale, e la spasmodica ricerca di nuovi modi con cui ottenere denaro da un regno restio a finanziare una politica di espansione militare non del tutto coincidente con i suoi interessi, diventò quindi subito il leit-motiv del confronto politico. Il re richiamò il Prades a corte e nominò un nuovo viceré, Gaspare de Spes, con un disegno politico già ben configurato e reso ancora più urgente dal traumatico esito del Parlamento di Catania, che aveva visto uniti nella protesta antifiscale la più ricca e dinamica città demaniale, la più prestigiosa e potente casata feudale e settori dell’ufficialità regia ad esse collegate. Si trattava di colpire l’opposizione, da qualunque parte prove- nisse, e di favorire l’estendersi di un’area di consenso all’autorità sovrana, in modo da consentire una tassazione congrua e certa ed un adeguato sostegno all’iniziativa militare. Non era un attacco poli- tico-ideologico alle basi giuridiche ed istituzionali dei corpi privile- giati nel quadro di un’idea diversa di Stato (assolutistico), ma il tentativo di ricondurre tali aggregazioni alla loro fonte legittima ed ai loro originari limiti, in presenza di travalichi ed illegittime acquisi- 18 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 14 G. Arenaprimo, La protesta dei messinesi al Viceré Conte di Prades nel Parla- mento siciliano del 1478, D’Amico, Messina, 1986: in preparazione del Parlamento sorsero contrasti tra viceré e centri demaniali per la questione del pieno mandato, ed all’apertura scoppiava la questione della precedenza tra la delegazione messinese e quella palermitana. Il messinese Giovanni Staiti si oppose pubblicamente alla richie- sta del viceré relativa all’imposta del 10%. Un mese dopo La Protesta dei messinesi. zioni che la Monarchia aveva dovuto subire nei momenti di pressante necessità per la difesa della sua stessa esistenza, e così come avve- niva nello stesso tempo nei Regni iberici dove, a partire dal 1480, si assisteva ad un vasto piano di riforme dei sistemi elettivi locali, degli ordinamenti cittadini e di indagini fiscali per il recupero dei beni ille- gittimamente acquisiti dai feudatari nel lungo e confuso periodo delle guerre civili. Si delinearono in questo momento i due schieramenti che si contrapposero per un lunghissimo periodo, sin oltre la morte dello stesso Ferdinando e che, di là da vicende personali, cambi d’alleanza e di ruoli, tenderanno a configurarsi l’uno come partito del re che favorisce e appoggia l’azione di nuova legittimazione e incremento della potestà regia, e l’altro partito del paese che vuole difendere e conservare, con le istituzioni e la tradizione politica del Regno, il ruolo ed il prestigio delle maggiori casate. La violenza baronale, l’abitudine all’uso privato delle cariche pubbliche ed all’indebito arricchimento, misero a dura prova la struttura giudiziaria siciliana, ma con l’appoggio fermo del re e la direzione in loco del viceré, i Tribunali regi continuarono implacabili a sottoporre a giudizio molti componenti del partito ventimiliano, tra cui il suo stesso capo, Enrico marchese di Geraci, reo di avere combattuto in duello contro il cognato Pietro Cardona e per ciò condannato a spropositata e severissima pena15. Pertanto, scompa- ginate le fila dell’opposizione, fu facile nel Parlamento del 1488 otte- nere una colletta di 100.000 fiorini in tre anni per la guerra di Granada e glissare sulla consueta richiesta di attribuire i vescovati a prelati siciliani. Forse soddisfatto dei primi risultati conseguiti, Ferdinando aveva richiamato a corte il de Spes16, anch’egli con un ricco matrimonio dotatosi di uno stato feudale nell’isola (la contea di Sclafani), e nel febbraio 1489 aveva nominato al suo posto Ferdinando de Acuña, che era giunto a Palermo seguito da una prammatica che stabiliva la triennalità (senza conferme) della carica di viceré («fu il primo eletto dal re per anni tre, essendo stati per il passato a volontà di Sua I. I viceré 19 15 Sulle complesse vicende politico-giudiziarie del periodo vedi S. Giurato, La Sici- lia di Ferdinando il Cattolico cit., in particolare per il duello pp. 100 sgg. 16 Il De Spes fu inquisito e processato per vicende concernenti la sua attività in Aragona e in Sicilia, e subirà l’amara sorte che egli con la sua azione aveva riservato a tanti avversari politici: la condanna e la confisca dei beni. Maestà»17). La novità faceva parte di quel pacchetto di riforme per la razionalizzazione del sistema politico siciliano che in quegli anni coinvolgeva fisco, uffici e rappresentanze. La scelta di Acuña fu, nel ricordo che lasciò ai suoi governati, felice, ed equilibrata la sua atti- vità politico-amministrativa18, tanto da ottenere nel consenso gene- rale la prima conferma per il successivo triennio nel 1491, allorché si trovò a gestire la difficile e drammatica contingenza dell’espulsione degli Ebrei decretata a Madrid all’inizio del 1492; e la seconda conferma nel 1494, poco prima della morte avvenuta alla fine dell’anno, quasi contemporaneamente a quella del figlio Luigi, marito di Isabella Cruyllas ereditiera di Francofonte. Volle essere seppellito a Catania nella cappella per lui edificata all’interno della Cattedrale dalla vedova Maria d’Avila19. Il successore, Giovanni La Nuza, riuscì ad ottenere il consenso del Regno all’insediamento del S. Ufficio, che cominciò ad operare in tono minore per aggirare l’ostilità delle magistrature e della popola- zione siciliane. Intanto l’accordo che aveva sancito la spartizione del Regno di Napoli tra Francia e Spagna era fallito, e le due potenze ripresero lo scontro sino alla conclusione favorevole alla Spagna ed all’acquisizione di tutto il Regno di Napoli nelle mani della dinastia aragonese e dei suoi successori. A questo punto però i giochi furono scompigliati e complicati da una serie di eventi inaspettati. La morte della regina Isabella aprì un difficile problema di successione: il vecchio sovrano fu costretto a cedere il governo della Castiglia e nel marzo 1506 nominò Ramón de Cardona (si diceva che fosse suo figlio illegittimo) viceré di Sicilia, con il compito di riprendere la lotta contro l’opposizione che rialzava la testa20. Egli stesso decise di mettersi in viaggio verso Napoli per 20 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 17 V. Auria, Historia cronologica delli Signori Vicere di Sicilia. Dal tempo che mancò la Personale assistenza de’ Serenissimi Rè di quella. Cioè dall’Anno 1409 sino al 1697 presente, per Pietro Coppola, Palermo, 1697, pp. 175-6. 18 Vedi la lettera scritta dai cittadini di Palermo al sovrano il 25 settembre 1490 relativa al buon governo di questo viceré (Archivio Comunale di Palermo, ABP 100, f.189 v.) ed alle molte attestazioni di stima che spesso accompagnarono la sua attività. 19 Con l’atto del 6 Luglio 1495 la Cappella o Beneficio di S. Agata iniziò a funzio- nare: V. Casagrandi, La fondazione della monumentale Cappella di S. Agata, auspice donna Maria d’Avila vedova del Re Ferdinando d’Acuña e per opera dello scultore messinese Antonio De Freri, «Archivio storico per la Sicilia orientale», 1927/1928, pp. 359-377. Il figlio Luigi fu seppellito a Catania in S. Maria di Gesù. 20 M. Ballesteros Caibrois, Ramón de Cardona, colaboradór del Rey Católico en Italia, C.S.I.C., Madrid, 1953. nente (nominalmente rimase viceré il Moncada), con il compito diffi- cile di recuperare al suo re un ampio consenso e nello stesso tempo reprimere con la forza qualsiasi nuovo tentativo insurrezionale. La sua azione si dispiegò tra atti di clemenza, condanne all’esilio e a morte, vendette giudiziarie, pilatesche lavate di mano in occasione di tragici regolamenti di conti rimasti sospesi tra le fazioni in lotta nel biennio insurrezionale ed ora in fase di ricollocamento nel nuovo assetto politico in formazione, ma anche in una proficua attività di governo contrassegnata da importanti riforme (per lo Studio cata- nese, la giustizia, la monetazione, il fisco, l’organizzazione e la rego- lamentazione dell’amministrazione). Nel maggio 1518 venne la nomina a viceré, carica che avrebbe occupato sino alla morte avve- nuta il 7 marzo 1535 dopo diciassette anni di governo ininterrotto. A dicembre finalmente Carlo poté ricevere il giuramento dal Parla- mento e a sua volta giurare (tramite il viceré) il rispetto dei privilegi del Regno: erano passati quasi due anni dalla morte del nonno, e solo ora poteva dirsi re di Sicilia. Il giudizio storiografico sulla figura di Monteleone non è stato tra i più benevoli. Si è ritenuto responsabile, o quanto meno connivente, di un indebolimento dell’azione dello Stato nei confronti dei gruppi privilegiati, ed in primo luogo del baronaggio, di un’indifferenza di fronte al degrado, alla corruzione, alla venalità della giustizia, e più di fronte alla violenza, all’intimidazione praticata dai poderosi nei confronti dei giudici onesti. Da ciò, più che da congiunture socio- economiche e militari, si è ritenuta scaturire la ripresa nelle campa- gne del brigantaggio e del banditismo, l’insicurezza dei viaggi e della proprietà, la prepotenza baronale e l’indebita estensione dei privilegi. L’attenzione posta a tali tratti del governo di Monteleone molto dipende dall’accesa campagna accusatoria che contro di lui svolse il giudice Ludovico Montalto, la cui documentazione è stata accreditata a posteriori come testimonianza di una sorta di società mafiosa ante litteram26. D’altra parte non è dubitabile che quel periodo fu contras- I. I viceré 23 26 Per i giudizi di Montalto sul Monteleone vedi A. Baviera Albanese, La Sicilia tra regime pattizio e assolutismo monarchico agli inizi del secolo XVI , in «Studi senesi», 92 (1980), pp. 300-302; O. Cancila, Così andavano le cose nel secolo XVI, Sellerio, Palermo, 1984; V. Sciuti Russi, Astrea in Sicilia, Jovene, Napoli 1983, pp. 269-284. Diversa la valutazione di C. Salvo, La biblioteca del viceré. Politica, religione e cultura nella Sicilia del Cinquecento, Il Cigno Edizioni, Roma, 2004, che sottolinea del Pigna- telli l’attività riformatrice, la religiosità erasmiana, l’aggiornata sensibilità artistica, la cultura umanistica, il mecenatismo e la protezione di intellettuali che prima o poi segnato anche da processi positivi: la grave crisi economica si atte- nuò e la popolazione registrò una crescita che si accompagnò ad un notevole incremento e della produzione e dell’esportazione cereali- cola con una media di 150.000 salme annue che – a giudizio di Orazio Cancila – «raramente sarà superata o toccata nei secoli successivi»; la crisi dello zucchero dell’area palermitana si risolse con una nuova dislocazione delle imprese in aree più ricche di acque e di legname, riprese l’esportazione, si avviò la manifattura del setificio; si diffusero e consolidarono l’umanesimo letterario e l’arte rinasci- mentale mentre il mondo religioso si arricchiva spiritualmente e culturalmente grazie all’unione dei benedettini siciliani con la Congregazione Cassinese ed ai fermenti di una nuova e più sincera religiosità stimolata da Roma in reazione al luteranesimo, che anche in Sicilia trovava riscontri e adesioni più numerosi ed estesi di quanto non si sia ritenuto in passato. Infine, alla cedevolezza nei confronti della feudalità, fanno da contrappeso le proteste elevate dallo stesso baronaggio, e non senza qualche ragione, sull’uso illegit- timo e sull’abuso delle procedure ex abrupto (con la pratica della tortura), che lo stesso Monteleone adottò per scopi extragiudiziari, politici (i processi sommari e le condanne ai congiurati del 1523) ed economici (confische, composizioni) anche nei confronti di nobili27. Tra le debolezze del viceré vi fu certamente quella di ricercare l’ap- poggio e la benevolenza della grande aristocrazia, e si adoperò per combinare un fastoso matrimonio tra la nipote Caterina e Francesco Moncada, erede di uno dei più estesi e popolosi Stati feudali, che insieme alla moglie promosse Caltanissetta a ‘capitale’ dei suoi possedimenti e sede di una colta e raffinata corte, ereditata poi dalla 24 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) nella loro vita manifestarono tendenze eterodosse o dichiarate ‘luterane’ dall’Inquisi- zione. Del suo circolo fecero infatti parte tra gli altri: il calabrese Tiberio Russilliano, inquisito in Toscana, ma ugualmente chiamato a insegnare nel prestigioso convento dei Domenicani palermitani; l’erasmiano Mariano Accardo; Tommaso Bellorusso protonotaro apostolico e Antonio Lo Duca, maestro di musica, promotori del culto profetico dei Sette Angeli che poi il Lo Duca trasferì a Roma; Minturno, collegato a Napoli con ambienti nobiliari valdesiani, chiamato a far da precettore al figlio; il mode- nese Giovanni Bacchini, segretario viceregio, che scelse l’abito del nuovo Ordine dei Francescani riformati (Cappuccini); l’agostiniano Erennio da Maratea, che ebbe frequenti contatti con l’sola e con il Minturno, e nel 1542 fu nominato vicario del suo Ordine nella provincia siciliana, prima di essere scoperto ‘luterano’, e condannato nella stessa inchiesta in cui subirono varie pene altri religiosi (Bartolomeo da Malta, Filippo Cardace, fra Aurelio da Piombino). 27 V. Sciuti Russi, Astrea cit., p. 23; C. Trasselli, Da Ferdinando cit., pp. 114 sgg. coppia principesca costituita dal figlio Cesare e dalla moglie Aloisia Luna e Vega, anche lei nipote di un viceré28. 5. Il re in Regno e il viaggio cerimoniale di Carlo V Per settantadue giorni, dal 20 agosto ai primi di novembre dell’anno 1535, morto da poco il viceré Monteleone (ma fosse stato vivo non avrebbe fatto differenza alcuna), il governo delegato in Sici- lia fu sospeso e l’isola fu affidata direttamente nelle mani del suo re e imperatore, presente in persona. Ci riferiamo al periodo siciliano di quel famoso viaggio cerimoniale che Carlo V intraprese dopo la presa di Tunisi percorrendo in circa nove mesi tutta l’Italia, attraversando Sicilia, Napoli, Stato pontificio e Granducato mediceo29, e che noi esamineremo molto brevemente per la parte siciliana e unicamente per testimoniare gli elementi di una cultura politica, artistica e tecnica comune a tutti i territori interessati all’evento. È prima necessario ricordare che la cerimonialità, nei suoi nume- rosissimi aspetti, è oggi studiata non come evento residuale di scarso interesse storico relegato in un ambiguo e marginale ambito ondeg- giante tra ancillare storia del costume, vecchie tradizioni popolari, nuova antropologia e puro interesse descrittivo-formale30, ma rap- presenta per lo storico un «atto comunicativo» di enorme rilevanza, veicolatore per i contemporanei, e per noi che lo osserviamo dal futuro, di un’intricata serie di messaggi, di un dialogo complesso I. I viceré 25 28 Vi furono tra i nipoti del viceré altri matrimoni ‘siciliani’: Camilla fu moglie di Cesare Gaetani di Sortino ed Ettore II si unì in prime nozze con Diana Cardona, figlia di Pietro conte di Collesano, ed in seconde nozze con Eumilia Ventimiglia (C. Salvo, La biblioteca cit., pp. 17-18). 29 Un esame del viaggio secondo le nuove prospettive storiografiche è svolto sinte- ticamente ma efficacemente nel saggio di M. A. Visceglia, Il viaggio cerimoniale di Carlo dopo Tunisi, in Carlos V y la quiebra cit., vol. II, pp. 133 sgg., al quale si rimanda per la bibliografia essenziale. 30 Nella sua Introduzione (1976) all’edizione del Ceremoniale dei Signori Viceré, E. Mazzarese Fardella si giustificava delle perplessità che poteva suscitare l’opera «in ordine alla collocazione da dargli nell’ambito della nostra cultura: divenuta fondamen- talmente egualitaria la società, si sospetterebbe che un registro come il nostro possa interessare soltanto l’erudito o il cultore di storia del costume», considerazione aggra- vata dal fatto che lo scritto non presentava nemmeno un qualche pregio letterario: E. Mazzarese Fardella, L. Fatta Del Bosco, C. Barile Piaggia (a cura di), Ceremoniale de’ signori vicerè (1584-1668), Società siciliana per la storia patria, Palermo, 1976, p. 6. La scena fu movimentata dall’entrata di carri ornati ed elaborati con «mori subiugati», le virtù cardinali e angeli, che furono assaliti e saccheggiati da angeli che calavano dal cielo sul sagrato davanti la cattedrale. Tutti elementi di un «codice cerimoniale codificato che si ripeterà nei successivi ingressi» nelle altre città d’Italia: l’attesa fuori porta, la presenza di adolescenti, gli archi trionfali carichi di simboli imperiali che illustrano la presa di Tunisi attraverso il linguaggio dell’antico, le rivendicazioni delle città e il riconoscimento dei privilegi urbani34. E certamente non poteva che essere così, dato che il nutrito gruppo di artisti e di umanisti espressione della vivace cultura dei centri minori oltre che delle grandi città, attingeva a un bagaglio comune di simboli e miti35, ben noto del resto ai gruppi dirigenti che commissionavano gli allestimenti e le scenografie e assegnavano le specificità del discorso politico da riprodurre, a Trapani, Randazzo, Palermo e Messina come a Napoli, Roma, Firenze e Lucca. Un linguaggio a vari livelli, cui partecipava anche il popolo. Il viaggio (22 agosto - 3 novembre) toccò, Palermo, Termini, Polizzi, Troina, Randazzo, Taormina e Messina, si svolse in un clima di grande entusiasmo e di festa popolare: le città si addobbano, vengono allestiti grandi apparati scenografici, cavalcate, feste, ban- chetti, giostre, tornei, «e li sicoli per ogni terra loro facevano a gara a chi meglio spese possevano havere secondo li lochi apparati, gridando sempre Carlo Carlo, Cesare Cesare... e d’ogni banda si sentivano li gran troniti della artiglieria, gridi e armonie». 6. Ferrante Gonzaga: il perfetto cortigiano Gonzaga incarnò per primo in Sicilia la figura del perfetto corti- giano, abbeverato alle fonti dirette dei maestri del nuovo stile: Baldassare Castiglione che, dopo Milano, Mantova, Urbino, Roma era giunto nel 1525 nunzio apostolico a Madrid e gli instillò l’amore per le opere di Plutarco; i letterati spagnoli Boscàn, Garcilaso, 28 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 34 M. A. Visceglia, Il viaggio cit., p. 142. 35 Ivi, p. 171. Ciò assicura anche l’internazionalizzazione dei gusti e delle mode: in questa spedizione, per esempio, Carlo V condusse con sé il pittore Jan Corneliisz von Vermeyen, olandese, i cui schizzi furono poi utilizzati in Belgio per una famosa serie di arazzi portati successivamente a Madrid (H. Trevor Roper, Principi cit., p.19). Valdés; l’ambasciatore veneziano Andrea Navagero ed altri. Un posto d’onore in questo viaggio iniziatico merita lo stesso Carlo V, erede della tradizione cavalleresca borgognona, illuminato dall’ideale della rinascita dell’Impero cristiano, amante e grandissimo intenditore di musica, di pittura, di scultura, di architettura, mecenate di tutte le arti, erasmiano e fautore di una riforma della Chiesa, il quale venti- treenne ricevette il diciassettenne Ferrante a corte e si legò a lui con giovanile, fraterna e ininterrotta amicizia, facendone suo consigliere, confidente, generale, diplomatico, mediatore, agente36. Gonzaga arrivò in Sicilia nel 1535, a soli ventotto anni, al seguito dell’imperatore dopo l’impresa di Tunisi. Aveva alle spalle un curricu- lum militare di tutto rispetto, ed era stato per vari motivi vicino ad alcune delle più importanti personalità della politica e della cultura dell’epoca. Sua madre Isabella d’Este era una delle dame più belle, più colte e più ammirate, capace di unire all’amore per l’arte una machiavellica abilità nella difesa degli interessi della famiglia e nella promozione delle carriere dei figli: il primogenito Federico, inviato alla corte del re di Francia, sposato con una Paleologo e come la madre appassionato mecenate; Ercole, creato cardinale nel 1527, uno dei protagonisti della Curia romana; lo stesso Ferrante, oculata- mente inviato a sedici anni a Madrid per proseguire presso il più grande sovrano del mondo la tradizione militare della famiglia. Nel 1527 giunse il momento della verifica sul campo ed il corti- giano iniziava la carriera del perfetto capitano. Inviato in Italia dove la tensione con Clemente VII era sfociata in una guerra, si pose agli ordini di Charles di Borbone, Gran Conestabile di Francia e coman- dante in capo delle truppe imperiali, peraltro suo cugino per parte della zia Chiara Gonzaga, ed ottenne il comando di una compagnia di cento lance. Partecipò all’assedio e alla presa di Roma, dove I. I viceré 29 36 Su Gonzaga furono pubblicate poco dopo la sua morte tre biografie: la prima fu scritta in latino da Giulio Gabrieli da Gubbio e posta in appendice a un Plutarchi Libel- lus, col titolo Laudatio Ferdinandi Gonzagae Melfictae Principis et Arriani Ducis, ex offi- cina Nicolai Beuilacquae, Venetiis, 1561; la seconda uscì due anni dopo ad opera dello spagnolo Alfonso de Ulloa, Vita del Valorosissimo e Gran Capitano Don Ferrante Gonzaga, Principe di Molfetta, Venezia, Nicolò Bevilacqua, 1563.; la terza, Vita dello illustrissimo et generosissimo signor Don Ferrando Gonzaga Prencipe di Molfetta, fu opera del suo segretario Giuliano Gosellini. Ora vedi R. Tamalio, Ferrante Gonzaga alla Corte spagnola di Carlo V nel carteggio privato con Mantova, Mantova 1991; C. Mozzarelli, Patrizi e governatori nello Stato di Milano a mezzo il cinquecento. Il caso di Ferrante Gonzaga, in «Cheiron», IX 1992, pp. 119-134. protesse dal saccheggio la madre ospite a palazzo Colonna; nel gennaio 1528 seguì gli imperiali nel Regno di Napoli minacciato dai francesi e – promosso capitano generale dei cavalleggeri – divenne stretto collaboratore del nuovo comandante in capo principe d’Orange. Nell’ottobre del 1528, a soli ventidue anni, ebbe il comando in capo di un corpo di truppe imperiali formato in Puglia, da dove si recò a Napoli per la stipula di un contratto matrimoniale con Isabella di Capua, figlia di Andrea duca di Termoli e principe di Molfetta. Alla fine del 1529 era con i suoi uomini in Toscana per parteci- pare alle operazioni volte a reintrodurre la signoria dei Medici a Firenze, presenziò nel 1530 a Bologna alla grandiosa cerimonia di incoronazione di Carlo V da parte di Clemente VII, che successiva- mente volle ringraziarlo con la concessione del governatorato di Benevento per il modo in cui, divenuto per la morte dell’Orange comandante in capo, ottenne la resa dai Fiorentini, nello stesso tempo tenendo a bada e sotto controllo le truppe imperiali e salvando così la città da un orrendo saccheggio. Altrettanto soddisfatto, l’im- peratore lo insignì dell’Ordine del Toson d’oro, l’onorificenza simbolo del nuovo Impero. Nella primavera del 1532 fu chiamato in Austria, minacciata da Solimano che con un esercito di 300.000 uomini marciava verso l’Ungheria, giunse a Linz nel settembre, ma il Turco si disimpegnò, e non si concretizzò il temuto assedio di Vienna. Conclusa l’operazione contro Solimano, in autunno Carlo V e il Gonzaga si recarono a Mantova, dove l’Imperatore concesse il titolo di duca al marchese Federico, poi a Bologna, dove Carlo V incontrò il papa Clemente VII, infine a Milano. Dopo pochi mesi dalla conquista di Tunisi da parte di Kar-ed-din Barbarossa, l’imperatore aveva immediatamente intrapreso la tessi- tura di un’alleanza con il papa e con Genova e allestito una grande flotta che al suo comando partì da Cagliari per giungere sulle coste africane all’alba del 15 luglio 1535. Conquistata Tunisi, Carlo V si apprestò a compiere il celebre viaggio trionfale lungo l’Italia che ebbe come prima tappa la Sicilia, dove nel frattempo era deceduto Ettore Pignatelli. Conscio dell’importanza strategica dell’isola, l’imperatore aveva portato con sé l’amico Ferrante e lo nominò viceré37. 30 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 37 Su Gonzaga in Sicilia: G. E. Di Blasi, Storia cronologica de’ vicerè di Sicilia cit., sub voce; G. Capasso, Il governo di Don Ferrante Gonzaga in Sicilia, in «Archivio storico siciliano», 1906; G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento cit., pp. 156-167. altri dodici gesuiti; la figlia Isabella a Bivona sede del ducato dei Luna, nel 1555; il figlio minore Assuero a Siracusa, dove era gover- natore (capitano d’arme e vicario) nel 1556; il figlio Alvaro, che cambiò il nome in Ferdinando, a Catania40. Nella città etnea il viceré si era già recato con la figlia Isabella a tenervi il Parlamento, e aveva alloggiato nel palazzo di don Vincenzo Gravina, incontrandovi il padre gesuita Girolamo Nadal, evidentemente per preparare la formazione imminente di un nuovo collegio. Anche Alessandro Farnese arcivescovo di Monreale promosse l’arrivo dei Gesuiti nella sua sede (1553). In pochissimi anni la Sicilia divenne una delle regioni europee a più alta diffusione di collegi gesuitici: Messina, Palermo, Monreale, Siracusa, Bivona, Catania e Caltabellotta (che ebbe però vita breve), con decine d’insegnanti provenienti da ogni parte d’Europa e centinaia di studenti, in sostanza l’intera classe dirigente in pectore.41 La propagazione dei collegi gesuitici, dei Teatini e di altri Ordini post-tridentini, insieme alla diffusione ed al trapianto, anche grazie ai matrimoni con esponenti dell’aristocrazia siciliana, dei modelli cortigiani regali praticati dai Monteleone, dai Gonzaga, dai Vega, dai Farnese e dalle loro famiglie, contribuì in modo rilevante alla formazione in Sicilia di un sistema ideologico- religioso-culturale omologo a quello dominante nell’Europa cattolica - e per alcuni aspetti (formazione letteraria e umanistica) diffuso tra i gruppi dirigenti di tutta l’Europa senza distinzioni religiose. La figlia di Vega, Isabella, si era trasferta in Sicilia nel 1552 in occasione del matrimonio con Pedro Luna e Salviati, conte di Calta- bellotta, creato due anni dopo duca di Bivona e, come il secondo cognome ci ricorda, figlio per parte di madre di una Salviati nipote di papa Clemente VII Medici. I due crearono a Bivona la loro corte poco dopo la nascita di quella della Monteleone a Caltanissetta; gli eredi di entrambe le coppie a loro volta s’uniranno in matrimonio portando al massimo splendore la corte di Caltanissetta, mentre il posto di Isabella Vega dopo la sua morte fu preso dalla figlia di un altro viceré, Angela de la Cerda. I. I viceré 33 40 M. Catalano Tirrito, La fondazione e le prime vicende del Collegio dei Gesuiti a Catania (1556-1579), in «Archivio storico per la Sicilia orientale», XIII (1916), pp. 34- 80, parte prima. 41 Sulla venuta dei Gesuiti in Sicilia si veda P. Tacchi Venturi, Storia della Compa- gnia di Gesù in Italia, La Civiltà Cattolica, Roma, 1910, pp. 332-364. La famiglia de Vega era giunta in Sicilia con un corteggio di servi, paggi, dame e domestici, tra i quali il medico spagnolo del viceré Bartolomeo Torres (che nel 1553 scelse di aderire alla Compagnia di Gesù), le dame di corte di Isabella, che la seguirono a Bivona, Impe- ria Vigliena (che sposò il bivonese Geronimo Bombici e morì nel 1570), Maria de Massa e Maria Usorio (che nel 1571 si trovavano ancora a Bivona al servizio della nuova duchessa La Cerda); d’altra parte il grande matematico siciliano, Maurolico, ebbe l’incarico di precettore di uno dei figli del viceré42. L’azione di Vega in Sicilia fu importante e significativa anche per altri motivi: indisse un nuovo censimento generale di beni e di anime, istituì la milizia del Regno con un larvato intento antibaro- nale, continuò l’opera di fortificazione completandola con la proget- tazione e l’inizio della costruzione di un sistema di torri di avvista- mento costiere, migliorò la viabilità interna, combatté la corruzione, fondò una città fortezza regia cui attribuì, in onore dell’imperatore, il nome di Carlentini. Con la sua azione si attirò l’inimicizia del baro- naggio e, diversamente da Monteleone e Gonzaga che ne avevano ricercato l’amicizia e l’avevano ampiamente utilizzato nei compiti del governo interno e nella politica parlamentare, lo costrinse sulla difensiva su temi quali la corruzione dei giudici, la ricettazione di banditi, la violenza privata. Scipione di Castro, che si trovava a Londra con Filippo II nel 1555 allorché due gentiluomini siciliani vi giunsero per presentare le loro numerose doléances contro il viceré e per chiederne la rimozione, scriverà nel suo pamphlet che Vega «faceva professione di battere la nobiltà et di favorire la plebe», mentre Paolo Caggio nei suoi Ragiona- menti gli riconosceva l’intento positivo di procedere nella direzione del consolidamento del ceto mediocre della società43. Vega lasciò l’isola nell’aprile 1557, il castigliano Juan de La Cerda, duca di Medinaceli, sbarcò nel maggio ed instaurò uno stile di governo alternativo a quello del predecessore: favorì i Teatini rispetto ai Gesuiti, aprì al baronaggio, tollerò la pratica delle compo- 34 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 42 Su Isabella Vega a Bivona vedi A. Marrone, Bivona città feudale, Salvatore Scia- scia Editore, Caltanissetta-Roma, 1987, pp. 151 sgg. 43 G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento cit., pp. 182-185; D. Frigo, La «vita in villa»: cultura e socialità nobiliare nel Cinquecento italiano, in D. Ligresti (a cura di), Corti, città capitali e “ville” nell’Italia spagnola. La vita nobile. Atti del seminario di Cata- nia del 18-19 giugno 1999, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», numero mono- grafico, anno XCIV, 1998, fascicolo I, Catania 2002, pp. 103 sgg. sizioni in denaro, determinando una ripresa del brigantaggio, prese partito nella politica estera per la linea palermitana dello scontro con gli Stati berberi che avvantaggiava i mercanti di grano e banchieri piuttosto che per quella messinese favorevole alla pace e agli accordi commerciali. Fu quello un periodo poco fortunato a causa delle turbolenze create dalle truppe spagnole di stanza o di passaggio nell’isola, sbandate e abbandonate a se stesse dopo il disastro delle Gerbe, e di un’ondata di pauperismo che si abbatté sulle città in seguito alla notevole crescita demografica accumula- tasi nei decenni precedenti, prossima del resto ad incappare, di lì a pochi anni, nella prima drammatica falciatura malthusiana: peste e carestia (1571-75). I provvedimenti da lui assunti per contenere le turbe di poveri e miserabili che si trascinavano da una città all’altra alla ricerca di un minimo di assistenza da parte delle amministrazioni comunali e dei conventi ormai quasi tutti, i più opulenti, dentro le mura, furono in linea con quanto accadeva negli altri Stati europei alle prese con simili contingenze: un misto di assistenza, carità e repressione (fondazioni di hospitia, ospedali, Monti di pietà, lavori forzati, ricoveri, espulsioni), mentre le emergenze sanitarie ed epidemiche si giovarono di una prassi medica consolidata ed effi- cace anche grazie all’esistenza di un Ufficio di Sanità centrale con diramazioni periferiche in tutti i centri, funzionale e rapido, normalmente guidato da scienziati di valore e abili professionisti. Nel 1564 accolse i decreti del Tridentino, tranne quei tre su cui il Regio Consiglio avanzò riserve perché considerati in contrasto con le attribuzioni regie della Apostolica Legazia e del Tribunale di Monarchia. In una cosa però Medinaceli imitò Vega, nel combinare per la figlia Maria un matrimonio principesco, e proprio con quel duca di Bivona, vedovo di Elisabetta Vega, della quale quindi Angela La Cerda prese il posto continuando e consolidando una prassi cortigiana sempre più fastosa e raffinata. Tra gennaio e febbraio 1565 Medinaceli accolse il nuovo viceré García de Toledo, capitan general de la mar, che voleva fare della Sicilia «arsenale e magazzino» d’una grande flotta mediterranea quale deterrente per imporre la pace al Turco e fronteggiare la pirateria, lasciandosi le mani libere per intervenire in Fiandra, secondo la linea politica del duca d’Alba, opposta a quella Mendoza - Gómez che voleva la pace in Fiandra e la lega contro il Turco. Toledo mostrò irri- tazione per il disinteresse della nobiltà isolana di fronte ai problemi I. I viceré 35 iniziata quand’era ancora bambino, maturata nell’adolescenza e dipa- natasi in un mondo violento, competitivo, dissimulatore, dove dalle trappole diplomatiche, dai tradimenti politici, dalle critiche, dalle maldicenze, dai pericoli delle battaglie e delle malattie, si poteva facil- mente passare all’uso subdolo del veleno e della misericordia. Dopo un passato diplomatico per conto della Sede pontificia, importanti incari- chi militari a Roma e la gloriosa partecipazione a Lepanto al comando della flotta pontificia, cercò un impiego presso il potente sovrano spagnolo e, grazie al favore di Pérez e Vázquez a corte, all’amicizia del conte di Chinchón e dell’Almirante di Castiglia Luis Enríquez, proprie- tario di un vasto «estado señorial con enclaves en Castilla, en cuyas venas confluían tradiciones, linajes y feudos catalanes, castellanos y sicilianos»48, riuscì ad avere la nomina di viceré superando un pode- roso concorrente, il genovese Gian Andrea Doria. Alla nomina non fu neppure estranea la lobby nobiliare siciliana: la sposa di Colonna era infatti Giovanna d’Aragona, parente del duca di Terranova. Giunse a Palermo nell’aprile 1577 con l’abituale fastoso cerimo- niale, portando con sé la sua famiglia e i suoi clienti: la moglie, la figlia Vittoria49, il cugino Pompeo, che occupò diverse importanti cariche (vicario del Regno, strategoto di Messina, comandante delle galere di Sicilia) e fu spesso utilizzato come fidato ambasciatore presso il re ed i suoi ministri in Spagna50, l’amico Lelio dei Massimi, il segretario Nicolò Pisacani e molti altri, tra i quali numerosi artisti di ogni campo che impegnò in una fervida attività di decoro e ristrut- turazione urbanistica ed edilizia. Colonna godeva dell’amicizia e della protezione di Filippo II e dei suoi favoriti, ma aveva avversari potenti e interessati osservatori del suo operato, pronti a passare dalla neutralità ad una posizione attiva 38 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 48 L’accordo tra Colonna e Enríquez fu sanzionato dal matrimonio della figlia di Marcantonio, Vittoria, con Luis III, che si celebrò al raggiungimento dell’età canonica degli sposi nel 1587: M. Rivero Rodríguez, «De todo aviso a vuestra señoria por cartas»: centro, periferia y poder en la Corte de Felipe II, in J. Bravo Lozano (editor), Espacios de poder: Cortes, Ciudades, Villas (s. XVI-XVII), voll. 2, Universidad Autónoma de Madrid, Madrid, 2002, vol. I, pp. 267-290; F. Garofalo, Vittoria Colonna Enríquez e i suoi tempi (comentario a un libro di Paolo Monello), in «Archivio storico ibleo», I, fasc. I (1995), pp. 176-189. 49 Nel 1600 rimase vedova e diede grande prova di capacità nell’amministrare il disastrato patrimonio familiare, fondò Vittoria, accolse i Gesuiti e il loro collegio: G. Raniolo, La nuova terra di Vittoria dagli albori al Settecento, Comune di Vittoria, Ragusa, 1990. 50 G. Isgrò, Festa cit., p. 226. a favore o contro. Come ho altrove osservato, la corte non era il luogo fisico dove si assemblavano i cortigiani, ma uno spazio virtuale comprendente tutti coloro che avevano titolo a trattare con il sovrano e con il suo governo, dovunque si trovassero; in questo senso, un pezzo della corte madrilena, compresi partiti e fazioni, diramazioni clientelari e relazioni internazionali, si trovava in Sicilia e compren- deva i più importanti membri dell’aristocrazia, gli alti magistrati, i comandanti militari, i clienti e gli affiliati di altri potenti cortigiani e principi spagnoli e italiani. Ne facevano parte Terranova (virtual- mente, in quanto fisicamente vagante tra Spagna, Fiandre e Italia) e i suoi uomini, che adesso il nuovo viceré emarginava o sostituiva; l’En- ríquez, che stava in Spagna, ed i suoi dipendenti e parenti a Modica e Palermo; Juan de Cardona, ammiraglio delle galere del Regno, poi trasferito al comando della flotta napoletana e sostituito dal conte di Villasoris; Carlo d’Ávalos, comandante della cavalleria in Sicilia; il veedor general de la gente de guerra Francisco de Haro; gli inquisitori Bernardo Gasco, Diego Haedo, Juan de la Peña, Juan de Roias vescovo di Girgenti; Juan Osorio legato ai componenti della Suprema a Madrid, come Alonso Pardo Taboada, consultore del Regno e cliente dell’Inquisitore Quiroga; il segretario Pedro de Cisneros; il visitatore regio Gregorio Bravo de Sotomayor; il licenciado Corroner e tanti altri. Il viceré cercò di formare un suo partito, attirandosi però l’ostilità di chi era trascurato o escluso e provocando un malcontento montante il cui eco giungeva sino a corte «dada la conexión de los poderes locales con los círculos cortesanos». Suoi sostenitori in Sici- lia erano Francesco Del Bosco conte di Vicari, Francesco Santapau principe di Butera, Giovanni Ventimiglia, marchese di Geraci; in seguito, raccomandati da Juan de Zúñiga (marito della siciliana principessa di Pietraperzia), lo sosterranno Fabrizio Branciforti marchese di Militello e Giuseppe Branciforti principe di Raccuja. Tra i suoi protetti vi furono Esteván Monreal, conservatore del real patri- monio fatto arrestare da Carlo d’Aragona, liberato e insignito d’im- portanti cariche dal Colonna; il giurisperito Pedro Muñoz e il dottor Botoner indicati per la carica di presidente della Gran Corte; Nicola Stizzia, insediato giudice della Regia Monarchia. Terranova lavorava ora contro di lui apertamente51, sostenuto a Madrid da Pedro de León, consultore di Sicilia, nominato (giugno I. I viceré 39 51 Colonna perseguita alcuni degli uomini di Terranova anche penalmente: il comandante di galera Geronimo Colloca viene giustiziato e Juan de Osorio viene fatto arrestare: N. Bazzano, Marco Antonio Colonna cit., p. 219 e p. 269. 1577) reggente castigliano per la Sicilia al Consiglio d’Italia. La situa- zione peggiorò quando il cugino del duca di Sessa fu privato della sua capitanìa in Sicilia e per reazione coinvolse tutto l’ampio gruppo che ruotava attorno a questi nella sua inimicizia contro il viceré, costringendolo a chiedere al marchese di Favara, primo carnal di Ruy Gómez de Silva, il potente ministro spagnolo, di aiutarlo a contenere l’offensiva dei suoi avversari a corte. Adesso lo stesso genero guar- dava con sospetto ad alcune sue iniziative riguardanti Modica, né gli era favorevole l’Inquisizione. A far precipitare la situazione intervennero due fatti, uno politico ed uno privato. A Madrid la caduta del potentissimo segretario Pérez, suo amico, e la necessità di un ampio mutamento generazionale nelle strutture governative, determinarono nel 1581 un periodo d’in- certezza e di confusione e indussero il re a programmare una serie di visite nei domini italiani; in Sicilia fu inviato Gregorio Bravo de Sotomayor, che si dimostrò subito avversario del Colonna, costrin- gendolo a correre affannosamente ai ripari anche ricorrendo ad abusi di potere, condanne a morte, corruzione, ricatti e omicidi (secondo la versione dei suoi nemici). Le peripezie politiche s’intrecciavano inestricabilmente con la tragica storia d’amore e morte del maturo viceré con la giovane Eufrosina Valdaura Siracusa, moglie di Calcerano Corbera barone di Miserendino, opportunamente morto per assassinio a Malta nel 1580, sembra per mano del cavaliere Flaminio Di Napoli. I sospetti ricaddero sul Colonna e nel 1581 un parente del Miserendino, Otta- vio Bonetta, lasciò la Sicilia per recarsi a corte a denunciare la complicità del Colonna nell’assassinio del congiunto. Inquisito dai tribunali siciliani per ordine del Colonna, fu invece protetto e favo- rito dalla fazione anti-Colonna: il Terranova, viceré di Catalogna, lo accolse a Barcellona, ed a corte trovò l’appoggio dei maggiori espo- nenti del nuovo governo. Alla fine il re chiamò ad un colloquio personale il suo viceré che, sbarcato in Spagna, morì alle porte di Madrid il primo di agosto 1585 (si sospettò per veneficio). La moglie lasciò Palermo portando con sé la giovane amante del marito, Eufrosina, procurandole anche un buon matrimonio con il fedele Lelio Massimo, ma un ineludibile tragico destino l’accompagnò: cadde poco dopo vittima per mano dei figli del marito. 40 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 10. I viceré di Filippo III Filippo II morì il 13 settembre del 1598. La sua morte, dopo ben quarant’anni di Regno, «cambiò tutto e nulla»57. Il figlio, Filippo III, disinteressato al faticoso compito di governare, affidò gli affari di Stato a Francisco de Sandoval marchese di Denia e poi duca di Lerma (1599), che divenne il detentore del patronage regio, il dispen- satore delle cariche e degli onori, l’ispiratore della politica regia, il valido. S’instaurò nella corte madrilena un nuovo stile. L’offerta di titoli e di mercedes attirò a Madrid, più che in ogni altro periodo, un numero impressionante di «aristocratici, ufficiali e ambasciatori, letterati, avventurieri che anche dalla Sicilia passano nella capitale spagnola, e vi dimorano per lunghi periodi, coinvolti, attraverso vie e mediazioni diverse, nella concitata discussione o riflessione sul presente e sul futuro imminente dell’immensa monarchia»58. La caccia, il teatro e lo scialo delle fiestas a corte occupavano i giorni del re e dei suoi ministri, e l’attività di governo languiva. L’unico evento positivo fu costituito dalla firma di una tregua di dodici anni con gli Olandesi (1609), ma quello stesso giorno fu decisa l’espulsione dei moriscos dalla Spagna, che ebbe effetti deleteri sull’economia del paese. La crisi economica e la corruzione dilagante a corte portarono nel 1618 alla sostituzione di Lerma con il figlio duca di Uceda, ma le cose non mutarono sino alla morte del re il 31 marzo 1621. I viceré siciliani di Filippo III e Lerma furono quattro in 23 anni: Lorenzo Suarez Figueroa duca di Feria, Juan Fernández Pacheco marchese di Villena, Pedro Téllez Girón duca di Osuna e Françisco di Lemos conte di Castro. La situazione che essi trovarono in Sicilia non era ancora delle peggiori, sia per lo stato soddisfacente delle finanze del Regno che per la tenuta e lo sviluppo delle produzioni agricole e manifatturiere. Le cose però peggiorarono rapidamente. Lorenzo Suarez Figueroa, duca di Feria, amico personale del privado, fu nominato viceré nel marzo del 1602. A detta del Di Blasi «trovò i Nobili carichi di debiti, nonostante che il duca di Maqueda avesse eretto la deputazione degli stati per risolvere il problema». Poiché il danno era stato provocato dallo smodato lusso che si permettevano le grandi famiglie con il pretesto di mantenere alto I. I viceré 43 57 J. H. Elliott, La Spagna imperiale, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 333. 58 G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento cit., p. 264. l’onore, «prescrisse le leggi che avrebbero dovuto porre fine a questo famelico distruttore, che descrivevano come avrebbero dovuto vivere questi nobili, infliggendo gravi pene per chi avrebbe ecceduto, e rinnovando le antiche Prammatiche». Ma le leggi rimanevano lettera morta di fronte alle esigenze della società nobiliare, che nell’ostenta- zione del lusso più sfrenato trovava il modo di rappresentare il rango e il prestigio della famiglia e un modo per comunicare la permanenza di un mondo gerarchizzato e socialmente ordinato. Proprio il viceré così severo legislatore fu tra i protagonisti della lunga preparazione e della celebrazione del fastoso e celebre matri- monio tra Francesco Branciforti principe di Butera, educato alla corte madrilena e amico del sovrano, e Giovanna d’Austria, figlia naturale dell’indimenticato trionfatore di Lepanto. Viaggi, cortei, feste, cerimonie, si dipanarono da Napoli a Palermo, da Palermo a Militello, sede scelta dagli sposi per crearvi la loro regale residenza, più tardi visitata in una sfrenata esibizione di lusso e di ricchezza dal viceré Villena. Come tanti altri viceré, il duca di Feria ebbe problemi con l’Inqui- sizione, pronta ad interferire nell’azione politica del governo e facile a fulminare scomuniche contro gli stessi ufficiali regi ed i magistrati del Regno quando ritenesse lesi i propri privilegi, ma non riuscì a contenere l’espansione del debito pubblico. Nonostante il giudizio di rettitudine e buon governo che lo accompagnò59, e benché le espor- tazioni di grano avessero continuato a tirare, l’indebitamento nei primi sei anni del Seicento, dovuto alle continue richieste della Corte di Madrid ed all’invio di vettovaglie, armi e navi, raggiunse al momento della sua morte la spaventosa cifra di 4.000.000 di scudi, con bilanci ovviamente sempre in passivo60. Alla morte del duca fu scelto come successore Juan Fernández Pacheco marchese di Villena, ambasciatore presso la Santa Sede: il passaggio da questo incarico a quello di viceré in Sicilia era abba- stanza frequente nel cursus honorum degli statisti dell’impero. Arrivò a Palermo nel dicembre del 1606, fu ospite della duchessa di Bivona, 44 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 59 G. E. Di Blasi, Storia cit., sub voce: «Fu il Governo di questo Viceré applaudito dalla maggior parte della nazione, giacché maneggiò gli affari con buona maniera e con destrezza; né trascurò la retta amministrazione della giustizia [...] Egli non amò fare cose nuove ma perfezionò quelle che s’erano già incominciate». 60 Vedi D. Ligresti, I bilanci secenteschi del Regno di Sicilia, «Rivista storica italiana», CIX, fasc. III (1997). e nella sua entrata ufficiale passò l’arco trionfale ideato e descritto dal Paruta61. I tempi erano difficili a causa della carestia imperversante e delle spese in aumento, ma la dinamica cortigiana imponeva sempre nuove performances. Un’imbarcazione spagnola con a bordo il figlio del viceré era stata inviata dalla Sicilia in Spagna colma di argente- rie e tessuti preziosi per l’enorme valore di 200.000 scudi, apparte- nenti al Villena, e quattro vasi d’argento del valore di 30.000 scudi che il marchese di Geraci inviava in dono a Filippo III. Fu catturata dai corsari, e Diego Pacheco non volle poi essere riscattato, prefe- rendo convertirsi all’islamismo e suscitando per ciò un enorme scan- dalo. Amante del lusso, mecenate, protettore delle arti e delle scienze, Villena volle stabilire stretti legami con l’aristocrazia siciliana, ed è tuttora ricordato a Palermo per l’ideazione e la realizzazione della magnifica piazza aperta nel punto dell’incrociarsi delle vie Toledo e Maqueda che prese da lui il nome. Ebbe cura di andare a visitare nella sfarzosa corte da loro creata a Militello Francesco Branciforti e Giovanna d’Austria, favorì il matrimonio di una nipote del barone di Siculiana con un gentiluomo del suo seguito e trattò quello della sua nipote e pupilla Maria Pacheco e Mendoza con il marchese Placido Fardella, per il quale ottenne il titolo di principe e la licentia popu- landi su un fondo su cui sorse poi il paese di Paceco in territorio di Trapani62. Intanto le ulteriori e pressanti richieste di denaro per l’esercito e la flotta impegnati nelle operazioni in corso per la cacciata dei moriscos dai regni spagnoli, cui si aggiunsero annate agrarie disastrose che fecero totalmente mancare i cospicui introiti delle tratte di grano, accrebbero il debito a 5.408.363 scudi63. Il successore, Pedro Téllez Girón, duca di Osuna, fu nominato viceré nel febbraio 1610, ma sarebbe sbarcato a Messina nel marzo I. I viceré 45 61 F. Paruta, N. Palmerino, Diario della città di Palermo da’ manoscritti di Filippo Paruta e di Nicolò Palmerino (1500-1613), in Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia, serie prima, a cura di G. Di Marzo, Pedone e Lauriel, Palermo, 1869, vol. I, pp. 12 sgg. 62 F. Benigno, Una casa una terra. Ricerche su Paceco, Catania 1985, p. 33. 63 G. Marrone, L’economia siciliana e le finanze spagnole nel Seicento, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 1976, pp. 14-15; D. Ligresti, I bilanci cit.: «Nel 1606 il disavanzo tra entrate e uscite era stato di 391.426 scudi ed i debiti ascende- vano a 3.955.623 scudi. Nel 1610 si registrava un disavanzo di 431.463 scudi e si dovevano per il passato 5.408.363 scudi, dei quali 1.635.348 per debiti, 2.387.542 per soggiogazioni e 1.385.472 per prestiti fatti alla Regia Corte dalla città di Palermo». ministrazione di mettere in vendita ogni possibile bene demaniale (città e terre regie, diritti fiscali e doganali, rendite, tonnare, saline, titoli di ogni tipo, licentiae populandi ecc.) e di inviare le somme rica- vate fuori della Sicilia per essere messe a disposizione del re e quindi per utilizzi che non andavano più a vantaggio dell’isola, ora che la minaccia turca si era esaurita e altre incombevano da ovest e da nord. Françisco di Lemos, conte di Castro «fu eletto al governo di Sicilia a 20 di dicembre dell’anno antecedente 1615. Egli aveva dato molte riprove della sua destrezza negli affari politici e aveva governato per ben due volte il regno di Napoli»69. Giunse a Messina nell’agosto del 1616. La tradizione raccolta dal Di Blasi giudicò che il suo carattere si discostasse da quello del suo predecessore: al contrario del Duca di Osuna odiava la guerra ed era pacato d’umore; quello amava la compagnia e il divertimento nelle ore in cui la carica, che gli era addossata, gli permetteva un po’ d’ozio, questi impiegava le ore, che gli sopra- vanzavano nel silenzio, e nelle opere di pietà. Nonostante i due fossero comunque di un temperamento opposto, erano sia l’uno che l’altro abilissimi nell’arte di governare, severi nell’amministrazione della giustizia e nel cercare la felicità dei popoli, e protettori delle scienze, e degli uomini di lettere70. Anche Lemos lasciò una forte impronta politica, culturale e mate- riale nell’isola: continuò le opere edilizie e urbanistiche già avviate e ne progettò di nuove, «amò le lettere ed i letterati, rinnovò a Palermo l’accademia “de belli ingegni” e piantò nell’ospedale maggiore gli ulti- missimi studi di Anatomia e di Chirurgia. Ristorò ancora l’Accademia d’armi De’ Nobili eretta dal viceré Garzia di Toledo, che si era quasi estinta, ed ordinò che si radunasse nella Chiesa di S. Sebastiano». Nei Parlamenti ordinari del 12 luglio 1618 e del 21 luglio 1621 non si presentarono novità fiscali, ma va segnalata la scelta di favo- rire l’attività di colonizzazione interna mediante la concessione di licentiae populandi a quei vecchi e recenti signori che intendevano edificare nei loro feudi rurali nuovi centri abitati per la messa a coltura granaria di terreni incolti o a pascolo. Si trattò di un’opera- zione di grande portata che vide cointeressati il governo per i bene- fici sperati nel riequilibrio tra produzione ed esportazione cerealicola, 48 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 69 G. E. Di Blasi, Storia cit., sub voce. 70 Ivi, sub voce; G. Di Marzo, Prefazione cit., p. VI, invece parla di «figura timida e floscia». la nuova aristocrazia degli uffici e della finanza costituitasi attorno ai nuovi bisogni dello Stato e ormai dislocata sul versante della proprietà terriera feudale, e i mercanti esteri. 11. I viceré di Filippo IV e del conte-duca Filippo III morì nel marzo del 1621. Il figlio, Filippo IV aveva 18 anni ed era molto diverso dal padre: «aveva prontezza di spirito, intel- ligenza e cultura. Gli assomigliava tuttavia nella mancanza di fermezza»71. Anch’egli si mise nelle mani dei favoriti, prima don Baltasar de Zúñiga, che morì dopo pochi mesi, e poi don Gaspar de Guzmán, conte di Olivares, poi universalmente appellato il conte duca. Olivares ebbe la fiducia del suo sovrano per più di venti anni e in tutto questo tempo fu l’artefice della politica spagnola. Voleva restaurare l’impero ed attuare grandi riforme in Spagna, purtroppo il suo programma imperialista e bellicista con le enormi spese che comportava finì con l’impedire l’attuazione delle riforme, anzi portò al disastro completo l’economia spagnola e pose termine al ruolo di Potenza egemone della Spagna in Europa. Avendo chiesto il Castro di ritirarsi dagli affari di stato, il suo successore, principe Emanuele Filiberto di Savoia, giovane ammira- glio della squadra di Spagna e cugino di Filippo IV, fu nominato il 24 di dicembre 1621. Giunse a Messina nel febbraio 1622 e vi rimase sino a novembre. Qui concepì la superba idea di far edificare un magnifico Teatro ornato di marmi, e decretò l’abbattimento delle muraglie del porto ed una serie di norme edilizie al fine di far sorgere la famosa Palazzata, progetto attribuito all’architetto messinese Simone Gullì: «Questa impresa si eseguì in brevissimo tempo, e fu la più grande che si sia ideata, essendo stato il Teatro del porto di Messina per confessione dei Viaggiatori una delle meraviglie del mondo, comprendendo oltre i nobili Palazzi diciotto Porte». Trasferitosi a Palermo decise di rinnovarvi «l’Accademia degli elevati intelletti ed alti letterati Palermitani», alla quale fu dato un nuovo nome: l’Accademia dei Riaccesi72. Nel 1623 la Sicilia, e soprat- I. I viceré 49 71 J. H. Elliott, La Spagna imperiale cit., p. 374. 72 G. E. Di Blasi, Storia cit., sub voce: «Destinò il Palagio di sua residenza per asilo delle Muse, ordinando che in destinati giorni della settimana vi si radunassero gli Accademici alla sua presenza: raro esempio a’ Governanti, che non solo dovrebbero tutto Palermo, fu aggredita dalla peste che mieté migliaia di vittime, tra le quali lo stesso giovane governante. Le pressanti lettere scritte dal cardinale Doria, designato presi- dente del Regno, alla corte di Madrid, indussero Filippo IV a desti- nare nuovo viceré Antonio Pimentel marchese di Tavora (20 Maggio 1625). Egli tardò più di un anno a prendere possesso del suo inca- rico, e non giunse a Palermo che l’11 giugno 1626, ma anche lui trovò la morte dopo appena nove mesi di governo. Prima di spirare dichiarò suo figlio, Arrigo Pimentel Conte di Villana, presidente del Regno, nomina accettata dal Sacro Consiglio dopo vari dibattiti tra chi la sosteneva e chi avrebbe preferito affidare l’interim al più esperto cardinal Doria. Intanto, in occasione della celebrazione della festa di S. Rosalia, dichiarata Liberatrice (dalla peste) e principale Padrona della città, furono riaperti i traffici con l’estero. Costretta ad una nuova designazione, ancora una volta per una precoce morte, Madrid destinò per viceré Francisco Antonio Fernán- dez de la Cueva Duca di Alburquerque, che si trovava alla corte di Roma come ambasciatore. Arrivò a Messina nel settembre, e a novembre si trasferì a Palermo con la moglie73. Il duca preferì la fedele Palermo all’irrequieta Messina e, affian- cato dal pretore della città Mario Gambacorta marchese della Motta, cercò di ulteriormente abbellirla e favorirla con le opere pubbliche. La situazione politica intanto si accendeva per il conflitto tra Palermo e Messina manifestatosi apertamente nel Parlamento del 1630 con l’offerta messinese di un donativo di 2 milioni di scudi in cambio della costituzione di una provincia separata dal Regno di Sicilia, comprendente il Val Demone e parte della Calabria con capitale Messina stessa. Il viceré, affiancato da Palermo e dal resto del Parla- mento, si oppose, ma volle in cambio un donativo di 300.000 scudi da realizzare con un’imposizione sull’esportazione della seta, cui 50 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) proteggere, ma anche ricoverare le Scienze, e con la loro assistenza incoraggiare i talenti». Dopo il 1624, morto immaturamente di pestilenza il Viceré Emanuele, l’Acca- demia, non avendo ancora ricevuto dal Senato un luogo per la residenza della stessa, si radunava nella Casa dei PP. Teatini in S. Giuseppe, e poi, verso il 1650, in S. Nicolò presso il Convento di S. Francesco, e indi, dopo alcuni anni, nella famosa Cappella di S. Giorgio dei Genovesi. 73 Ivi, sub voce: «La Viceregina sua moglie montò nel cocchio della Principessa di Villafiorita con la Duchessa di Missilmeri. I due sposi si trattennero presso questo Prelato fino al 28 del mese, nel qual giorno ritornati al molo, e rimbarcatisi smon- tarono al solito luogo della Garita». Il suo successore, Juan Alfonso Enríquez, apparteneva ad una delle più grandi famiglie aristocratiche castigliane, imparentate con la Casa reale e detentrici di un vasto Stato feudale in Sicilia, la contea di Modica, che comprendeva da sola circa il 5% del territorio e della popolazione del Regno. Gli Enríquez s’erano tenuti piuttosto defilati dal centro pulsante della grande Monarquía, la corte madri- lena, anche se nel tempo avevano cercato di influenzare la scelta dei viceré di Sicilia per tutelare i loro interessi nell’isola. Juan Alfonso invece optò per una politica di avvicinamento alla corte e, in occa- sione dell’invasione francese del 1638 in Guipúzcoa, «decided to avail himself of this furthere opportunity to demonstrate his loyalty. He made a contribution of 200.000 ducats to the campaign, and was duly appointed to command the army»76. Il 16 giugno 1641 fece l’ingresso trionfale a Palermo. Fu ben accetto ai Siciliani che «lo consideravano come un Nazionale, essendo uno dei Magnati del Regno», ed anche perché «a doni della fortuna egli accoppiò quelli d’animo. Affabile con tutti, umano e cortese, trattava con cotale dolcezza i Siciliani, che ne era divenuto l’idolo». Con la moglie e la sua corte viaggiò per il Regno, fu accolto pomposamente a Messina, e si recò in un viaggio trionfale a visitare i suoi Stati. Decisamente ostile è invece il giudizio del giurista Mario Cutelli che lo descrisse come vizioso, dissipatore, «incapaz» nell’atti- vità di governo, che aveva abbandonato nelle mani della moglie e dei suoi corrotti segretari77. Ebbe la sfortuna di governare in un momento in cui la situazione militare della Spagna precipitava in Europa ed al suo stesso interno a causa delle rivolte catalana e portoghese, la prima alla fine repressa, la seconda risoltasi invece con la definitiva restaurazione della Casa di Braganza. Fu quindi costretto a chiedere nuovi contri- buti ad un Regno esausto e ad assistere, nel Parlamento del 1642, al contrasto tra vecchio baronaggio debitore e nuova nobiltà creditrice. La richiesta della parte più antica del braccio baronale di scalare al I. I viceré 53 76 R. A. Stradling, Philip IV cit., p. 163. Così il Di Blasi Storia cit., sub voce: «Famoso in Spagna non solo per la sua nascita ma anche per il suo valore di cui due anni prima, 1638, aveva dato evidenti riprove quando, assaltata la Piazza di Fonte Rabbia nella Navarra, egli conducendo con se alcune migliaia di soldati, assaltò gli aggressori e dopo averne uccisi molti, liberò la fortezza e ritornato a Madrid vi entrò come un trionfatore». 77 Il giudizio è riportato da V. Sciuti Russi, Mario Cutelli. Una utopia di governo, Bonanno, Acireale, 1994, p. 42. 5% tutte le soggiogazioni sulle rendite feudali, che, se accolta, avrebbe alleggerito sostanzialmente gli interessi sui debiti contratti dall’aristocrazia di sangue, trovò la dura opposizione di quella parte del baronaggio di recente o recentissima formazione, al contrario interessato (per essere cospicuamente coinvolto nel sistema dei prestiti) a mantenere alti gli interessi. Esauste le casse dello stato, «non lasciò egli monumenti magnifici in fabbriche, ed in marmi, come i suoi antecessori, ad eccezione d’aver fatto fortificare la Porta Felice con due piccoli baluardi e di aver procurato che si ampliasse e si riducesse in miglior forma la casa del Senato di Catania»78. 13. L’allontanamento di Olivares e le nuove nomine viceregie Le sconfitte patite dalla Spagna sul terreno internazionale ed il fallimento delle riforme tentate all’interno, convinsero il sovrano ad allontanare dal potere l’Olivares (gennaio 1643). Dopo qualche tempo lo sostituì il nipote, don Luis de Haro, che conservò discretamente il potere sino al 1661. Il sistema di clientele e gli apparati governativi di cui Olivares si era servito furono puntigliosamente smantellati, ed il nuovo privado mantenne un profilo basso. Il suo compito fu: pace e unità. Non riuscì ad evitare la secessione del Portogallo né a chiu- dere il conflitto con la Francia prima del 1659, ma riportò la Catalo- gna sotto il controllo madrileno (ottobre 1652), riuscì a superare con successo i gravi traumi delle rivolte siciliana e napoletana del 1647- 48, firmò i trattati di Westfalia che posero fine alla guerra dei Tren- t’anni, riconobbe lo stato olandese. Nel dicembre 1643 l’Enríquez fu destinato al governo di Napoli e, con un passaggio altrettanto consueto, venne in Sicilia l’ambascia- tore spagnolo a Roma, Pedro Zúñiga y Requesens marchese di Los Vélez. A differenza del suo predecessore, era stato generale sfortu- nato in occasione della spedizione spagnola in Catalogna, disfatta a Montjuic nel 1641. I due viceré s’incontrarono a Napoli solo nel luglio 1644, e Los Vélez giunse in Sicilia nel seguente agosto, per immediatamente ripartirne a causa della morte di papa Urbano VIII. Ritornato in Sici- lia si trattenne a Messina per tutto l’anno 1644 per presiedere alla 54 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 78 G. E. Di Blasi, Storia cit., sub voce. fortificazione di Messina, Siracusa, Augusta, Milazzo, e Trapani, nella prima delle quali fece fabbricare un baluardo sull’imboccatura del porto e fece anche ergere un forte che fu detto Torre Vittoria. Rivelatasi falsa la notizia di un attacco turco a Malta il viceré si trovò a combattere contro nemici più subdoli e forse ancor più pericolosi: la carestia e la sedizione. Il raccolto del 1646 si mostrò subito insufficiente: nel dicembre 1646 Messina insorse contro il rincaro del pane, ma il ritorno del viceré e la distribuzione di frumento riportarono la calma; nella prima- vera fu l’annona di Palermo ad essere sottoposta a gravi problemi, e il prezzo del pane crebbe provocando proteste e reazioni violente. Dopo i primi tumulti il viceré con il parere favorevole del Sacro Regio Consi- glio abolì le gabelle, sciolse il senato, nominò quattro ‘governatori’ e invitò i consoli delle maestranze ad eleggere due giurati popolari. I moti della fame si diffondevano frattanto in tutta l’isola79. Il 15 agosto Giuseppe Alesi guidò il popolo alla conquista della città ed il viceré fuggì con le galere in rada, ma l’ala oltranzista del governo e della nobiltà decisero di uccidere il capopolo e di iniziare una sanguinosa repressione, in seguito alla quale il marchese di Los Vélez ritornò a Palermo, dove però morì pochi mesi dopo (3 novembre 1647). In tutta l’isola la situazione rimaneva incerta mentre a sosti- tuirlo giungeva il cardinale Teodoro Trivulzio, già viceré di Aragona. Questi sbarcò a Palermo nel novembre 1647 e procedette lungo la linea morbida di Los Vélez: repressione nelle terre feudali e coin- volgimento delle maestranze a Palermo. Cercò quindi un accordo con i capi delle maestranze coinvolgendoli nel progetto della Deputazione delle nuove gabelle, chiamata a gestire le imposte di Palermo, e nel Parlamento ordinario si limitò a chiedere la conferma dei donativi senza ulteriori gravami80. Il ritorno all’ordine in Sicilia fu anche I. I viceré 55 79 Per una valutazione e interpretazione della congiuntura demografica in occa- sione delle carestie ed epidemie degli anni ’40 del Seicento in Sicilia vedi D. Ligresti, Dinamiche demografiche cit., pp. 116 sgg.; per un inquadramento delle vicende sici- liane nelle nuove categorie interpretative sulla tematica delle rivolte vedi F. Benigno, Conflitto politico e conflitto sociale nell’Italia spagnola, in A. Musi (a cura di), Nel sistema imperiale. L’Italia imperiale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1994, pp. 115-146; Id., Sicilia in rivolta, in G. Giarrizzo, F. Benigno (a cura di), Storia della Sici- lia, Editori Laterza, Bari, 2003, vol. I, pp. 183 sgg. Vedi anche A. Siciliano, Sulla rivolta di Palermo del 1647, «Archivio storico siciliano», 1939, pp. 183 sgg. 80 In questo periodo il sacerdote Placido Sirleti organizzò una sorta di congiura repub- blicana, che fu repressa nel dicembre. Uno dei congiurati, Francesco Vairo, era stato creato del principe di Roccafiorita e di Ottavio d’Aragona, con cui s’era trovato in più battaglie. della carica nel gennaio 1656, con la solita solenne cavalcata, «servito alla destra dal Marchese del Vasto e alla sinistra dal Pretore Principe di Raffadali»84. La fortuna, o gli efficaci provvedimenti assunti dai magistrati di Sanità, salvaguardarono la Sicilia dalla peste che imperversava in molti territori italiani e nel vicino Regno di Napoli, ma breve fu il governo di questo signore, interrotto dalla grave malattia e dalla morte che sopravvenne dopo appena nove mesi. Seguì una lunga sospensione del governo viceregio e la nomina di una serie di Presidenti: nel 1656 Francesco Gisulfo e Osorio vescovo di Cefalù, nel 1657 G. B. Ortiz de Espinosa giudice del Tribunale della Monarchia, poi Pietro Martino Rubeo arcivescovo di Palermo. Solo dopo tre anni fu nominato dal re un nuovo governante, Ferdinando de Ayala conte di Ayala, che giunse in Sicilia dopo che la Spagna aveva chiuso con la pace dei Pirenei del 1659 la partita delle sue numerose guerre85. Arrivò a Palermo accompagnato da sette galee il 6 gennaio 1660, e dopo due giorni prese il solito possesso, differendo fino al 18 del mese la solenne entrata a cavallo. Reggente di un Regno le cui classi dirigenti stavano promuovendo un risentito distacco dal governo spagnolo, anch’egli si appoggiò alla spagnola Palermo, dove soggiornò tre anni consecutivamente, e osteggiò Messina repubblicana, che reagì sdegnata dal paradossale tratta- mento riservatole dopo che si era mostrata fedele alla monarchia al tempo della ribellione palermitana. Tentò la carta della spagnolizzazione dei ceti dirigenti, ma «questa precisa osservanza delle Spagnole costumanze, che egli esigeva dai Ministri, e l’alterigia, con cui trattava ogni ceto di persone, furono la sorgente dei molti disturbi, da cui fu agitato il suo Governo»86, anche in relazione ai problemi della successione che agitavano le acque 58 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 84 La tradizione storiografica su questo viceré induce infatti il nostro G. E. Di Blasi a scrivere: «Questo amabile Cavaliere, incontrò la piena soddisfazione del pubblico, e la sua dolcezza, la sua umanità, e la sua maniera, con cui accoglieva i ricorrenti, lo resero la delizia della Nazione, la quale veniva di provare la sprezza dell’altiero Duca dell’Infantado». 85 G. E. Di Blasi, Storia cit., sub voce: «Il 25 del detto poi volle andare in nobile equipaggio al Duomo, dove intervennero l’Arcivescovo, il Senato e il Ministero, per ringraziare col canto dell’Inno Ambrosiano il Dio degli eserciti, perché avesse liberato l’Europa da tante stragi e rovine, quante le lunghe e sanguinose guerre fra la Spagna e la Francia ne avevano apportate». 86 Ivi, sub voce. della politica internazionale e sollecitavano le attese e i progetti dei Siciliani. Riprese l’attività edilizia monumentale, ed emblema e simbolo della sua politica fu considerato l’enorme piedistallo marmo- reo che fece porre nella piazza del Palazzo Reale a reggere la statua bronzea di Filippo IV: un ottagono sui cui angoli erano disposte otto statue di marmo a rappresentare gli otto regni e stati della Monar- chia; con sul piano superiore altre otto statue87. Gli successe Francesco Caetani duca di Sermoneta, Gentiluomo di camera del Re Filippo IV, Cavaliere del Toson d’Oro, e Grande di Spagna, onore che aveva ottenuto da Filippo III. Prima di essere proposto al Viceregnato di Sicilia aveva governato per quattro anni il Ducato di Milano. La pubblica e solenne entrata fu effettuata nell’a- prile del 1663, e narra il cronista che «quel giorno si vide una caval- cata così pomposa, quale a memoria d’uomo non si era più vista; avendo il Senato e la Nobiltà fatto a gara per renderla, quanto fosse possibile, superba e sontuosa». Nel giugno 1663 giunse a Messina, dove si ripropose lo scontro sulle gabelle della seta. A causa del malcontento dei suoi gruppi dirigenti si stava sempre più diffon- dendo nella città una setta antispagnola e repubblicana composta da intellettuali, nobili, parte delle maestranze e sostenuta da preti e frati, buoni oratori che influenzavano facilmente la plebe88. Il Sermoneta governò fino al 9 di aprile del 1667 e il 10 dello stesso mese partì con la moglie privatamente. Ritiratosi a Roma, morì all’età di 89 anni e fu seppellito nella magnifica Cappella, che egli aveva eretto nella Chiesa di San Prudenziana, dove aveva stabi- lito il sepolcro gentilizio. 14. I viceré di Carlo II e di Marianna d’Austria La morte del re (17 settembre 1665), la successione dell’unico erede Carlo II, un bambino di quattro anni89, la lotta delle fazioni a corte per impossessarsi del governo dell’impero, rendevano la situa- zione difficile e confusa. Solo nel 1666 fu deciso il nome del nuovo viceré, Francisco Fernández de la Cueva duca d’Alburquerque, figlio dell’altro dello I. I viceré 59 87 G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento cit., pp. 323 sgg. 88 Ivi, pp. 326 sgg. 89 G. E. Di Blasi, Storia cit. sub voce. stesso nome nominato l’anno 1628. Tenente Generale dell’Armata Spagnola, accompagnò sino a Trento la principessa Margherita che andava a nozze con l’Imperatore Leopoldo. Da lì giunse a Palermo nell’aprile 1667. Sul finire dell’anno esplose un magazzino di muni- zioni sulla Porta nuova, che fu distrutta, e subito ricostruita dal viceré sul medesimo disegno con aggiunti nuovi abbellimenti. Nel marzo 1669 esplose invece una grand’eruzione etnea che distrusse cittadine e villaggi, campi e boschi, giunse lentamente a defluire nel mare di Catania cingendo senza abbatterle le mura del grandioso monastero benedettino e di castello Ursino. In rendi- mento di grazie a Dio per aver liberata la città di Catania da quel disastro, il duca fece lavorare a sue spese una nobile lampada d’ar- gento che ardesse nella Cappella di S. Agata, La tradizione siciliana ha tramandato di lui questo giudizio: «Il Duca d’Alburquerque fu amato a Palermo e per tutto il Regno; era questo Cavaliere, di un carattere flemmatico e maturava lungo tempo gli affari prima di risolverli, ed era adornato di tutte le virtù, che costituiscono l’ottimo governatore». Concluso il triennio di governo, la corte madrilena, preoccupata dall’attivismo turco nel Mediterraneo, ripreso dopo tanti decenni di relativa pace, pensò di inviare come viceré «un soggetto, in cui ai politici si unissero i talenti militari», e scelse Claudio Lamoraldo principe di Ligny, «Cavaliere di una famiglia illustre, insignito del Toson d’Oro, che a quell’età era un distintivo non molto comune. Ma la sua reputazione in fatto di guerra superava l’illustre nascita». La nomina avvenne il 7 marzo 1670 a Madrid, ma il viceré giunse a Palermo, ricevuto sul mare dal suo predecessore su una galea sici- liana, solo nel giugno, e fece l’entrata in tono minore il 7 luglio per rinnovarla con tutti i fasti nel dicembre, essendo nel frattempo rece- duta la minaccia turca. Già nel luglio il nuovo viceré si era reso conto del clima politico avvelenato, ed aveva avvertito Madrid sul costituirsi a Messina di una «congregazione che molto nuoce alla pace pubblica e al servizio di V.M. Essi fanno tanta impressione [sul popolo] da portarlo a credere tutto quello che dicono»90. La situazione si appesantì a causa di una delle più gravi e mortali carestie che colpirono la Sicilia moderna nel 1671-72. Dai registri parrocchiali di alcune comunità si evidenzia una mortalità che varia dal doppio al quadruplo del 60 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 90 In G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento cit., p 329. Lo sostituì Aniello Gusman marchese di Castel Roderigo. Questi si fermò pochi giorni a Trapani e a Palermo, dove lasciò la moglie, e si trasferì a Milazzo, dove incontrò il Villafranca e prese possesso della carica (22 settembre). «Egli trovò lo stato Militare della Sicilia nell’ultima rovina. Domi- navano i Francesi nei nostri mari; e questo assoluto potere dei nemici impediva l’esterno commercio necessario, per bilanciare almeno i bisogni della Nazione». Decise pertanto di temporeggiare, in attesa di nuovi rinforzi e finanziamenti. Ma prima doveva risolversi lo scontro al vertice che si svolgeva in Spagna tra la regina Marianna ed il suo preferito Fernando de Valenzuela da una parte, e Juan José de Austria appoggiato dalla maggiore aristocrazia dall’altra. Con il nuovo anno (gennaio 1677) assunse il potere Juan José, con grave delusione del Castel Roderigo che era affiliato alla fazione opposta. I rinforzi ora cominciarono ad affluire nell’isola, ma il viceré venne a morte, lasciando come reggente per il governo politico la moglie Eleo- nora di Mora e come comandante militare il maestro di campo Fran- cesco Gattinara marchese di San Martino Pavese. Lo sostituì Vincenzo Gonzaga, e in attesa di questi il cardinale Ludovico Fernández Portocarrero arcivescovo di Toledo. Il Gonzaga apparteneva «all’illustre famiglia dei Duchi di Mantova, era Principe del Sacro Romano Impero, componente del Supremo Consiglio d’Ita- lia, Tenente Generale di mare delle Flotte Reali Spagnole e quindi Signore colmo di meriti». Giunse a Palermo nel marzo 1677. Il gene- rale francese Vivonne si era frattanto insediato a Messina con la sua flotta e la sua armata, aveva conquistato Augusta ma, grazie alla difesa che il nuovo viceré aveva organizzato attorno a Catania, fallì nel tentativo di attuare uno sbarco a Siracusa per schiacciare da nord e da sud Catania e controllare la sua piana produttrice di grano. Quando con la pace di Nimega il conflitto tra Francia e Spagna si chiuse e Messina fu abbandonata a se stessa, il Gonzaga assunse un atteggiamento cauto e moderato, scontrandosi con Rode- rigo Quintana, inviato in Sicilia dalla corte per assistere il viceré nell’opera di repressione contro i messinesi. Promosso per essere rimosso, nel novembre 1678 fu richiamato in Spagna, ottenne più tardi la carica di presidente del Consiglio delle Indie ed alla fine decise di ritirarsi nel convento dei Cappuccini di Salamanca. Il suo successore, Francesco Bonavides conte di Santo Stefano, era viceré di Sardegna, da dove partì per prendere possesso della sua carica già nel dicembre, nello stesso periodo in cui Vivonne fu richia- mato in Francia. Da gennaio a marzo 1679 si procederà all’evacua- I. I viceré 63 zione dei messinesi in fuga dalla sicura repressione spagnola, mentre coloro che erano rimasti si arrendevano alla Spagna sperando nella clemenza regia, ma invano. Costituito un ministero ad elevata partecipazione spagnola, il nuovo viceré si portò rapidamente da Palermo a Messina. Senza molto indugio, abolì l’Accademia Militare e soppresse la carica di Strategoto antichissima in quella città: ordinando che in avvenire la città fosse retta da un Governatore. Confiscò inoltre le rendite della città e regolò l’amministrazione, risecando tutte le inutili spese. Proibì inoltre il bussolo, con cui il popolo creava i suoi Magistrati, riservando a sé e ai suoi succes- sori il diritto di eleggerli. Inibì agli abitanti le armi, fissando il luogo, dove dovessero tutti deporle. Creò poi un Tribunale che fu detto Regia Giunta e per la custodia delle fortezze designò di guarnigione soldati fidati, mantenuti a spese delle stessa Città: per questo motivo creò dei nuovi dazi (il nuovo imposto). Fu totalmente spianato il Superbo Palazzo Senatorio, poiché era stato il luogo, in cui si radunavano i ribelli; ne fu arato il terreno e seminato di sale. La campana di bronzo, con cui furono chiamati i ribelli, fu levata dalla torre, e rotta in pezzi, fu mandata a Palermo, per fondersene la Statua Equestre del Re. Fu buttato un piccolo forte che i cittadini avevano costruito alla bocca del porto. Tutte queste imprese ed altre si fecero in pochissimo tempo, che pareva impossibile, che si potessero con tanta sollecitudine eseguire97. Chiuse anche quella famosa Università, dove avevano insegnato alcuni dei più illustri scienziati italiani, chiuse la Zecca di Messina, trasferendo il privilegio della monetazione a Palermo; spese una somma ingente per innalzare in pochi anni la solida e minacciosa fortezza detta Cittadella, dominante la città dello Stretto in perenne ricordo della sconfitta ribellione. Affrontando «con una violenza diretta, anche se carica di simboli, la demolizione sistematica delle istituzioni di Messina, Santistevan ne fece il punto d’attacco di una riduzione generalizzata dell’autono- mia delle città demaniali»98. Ma la sua rigidità e scarsa flessibilità portarono all’impossibilità di gestire una linea di scontro frontale con tutte le istituzioni e i ceti isolani e lo stesso Parlamento diventò terreno di scontro. Non è contraddittorio, rispetto a questa frenetica attività di repressione e di controllo, l’insistito ricorso alle feste e alle 64 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 97 Ivi, sub voce. 98 G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento cit., p 344. celebrazioni della monarchia: per le nozze del Re Carlo II con Maria Luisa di Borbone figlia del Duca di Orleans, «stabilite per opera del Serenissimo Giovanni d’Austria nella pace di Nimega, per le quali si unirono in amicizia le due Monarchie di Spagna e di Francia», le feste furono celebrate a Palermo nella Piazza della Marina con due giostre, una il 25 febbraio 1680 e l’altra nel seguente marzo, «le quali riusci- rono superbissime per la ricchezza degli abiti dei Governanti»99. Nel 1683 poi il viceré volle che la decorazione della volta della galleria del palazzo reale di Palermo fosse dedicata all’incoronazione di Pietro d’Aragona, per esaltare il carattere dinastico-patrimoniale della monarchia100. Nel 1685, con la morte di un figliolo in giovane età e della nuora che molto amava, il viceré fu colpito da dolorosi lutti. Giovan Francesco Pacheco duca d’Uzeda giunse a Palermo infor- malmente nell’aprile del 1687, prese alloggio come di consueto a Castellammare e aspettò che il suo predecessore partisse da Palermo prima di assumere l’incarico. Intanto era morta la regina di Spagna, ed il re passò a seconde nozze con la principessa Maria Anna Neuburg. In Palermo furono rese le grazie dell’Altissimo per questo maritaggio; essendosi cantato l’Inno Ambrosiano al Duomo: furono fatte per la Città delle illuminazioni, furono uditi i soliti spari delle fortezze e il Viceré tenne una festa nel Regio Palagio dove si giocò e si ballò. Ma le feste più solenni furono differite all’anno seguente 1690. Il Senato dunque di Palermo preparò due giostre di dodici Cavalieri nella spaziosa Piazza della Marina, l’una delle quali fu eseguita il 27 e il 30 di aprile e l’altra il 2 e il 13 del mese di maggio. Dietro queste seguirono le Cavalcate al Regio Palagio101. Nel Parlamento di quell’anno il viceré richiese, oltre al donativo ordinario, un contributo straordinario e volontario per le spese che il re stava affrontando in Catalogna e nelle Fiandre. I rapporti tra l’amministrazione viceregia e il Regno divennero tesi allorché, morto il segretario di stato Felice Lucio Spinosa, consi- derato uomo onesto e giusto, venne a sostituirlo l’Haedo, «uomo in verità di grandi talenti, ma furbo e astuto; il quale da destro corti- giano, consigliando gli studi amati al Vicerè, prese a suo carico tutta I. I viceré 65 99 G. E. Di Blasi, Storia cit., sub voce. 100 G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento cit., p 347. Vedi la descrizione degli affreschi in V. Auria, Historia cit., pp. 175-176. 101 G.E. Di Blasi, Storia cit., sub voce. confermato nel 1497 e nel 1521 dai diplomatici gerbini Hamet ben Semmuna e Suleymen Enebli. Quando, con le spedizioni di Moncada e successive, per un certo periodo i territori conquistati vennero aggregati al Regno di Sicilia, tali relazioni s’infittirono: nel 1511 fu portato a Palermo e imprigionato con qualche riguardo lo xechi di Tripoli con i figli e col genero, mentre nel palazzo viceregio era ospite un ambasciatore dei mori e un certo Inteti Abdala, definito ambascia- tore di Tripoli, con moglie e figli. Ferdinando accolse in Sicilia e sovvenzionò anche famiglie princi- pesche che fuggivano di fronte all’avanzata turca nei Balcani, tra le quali i Tocco dispoti di Larcan. Leonardo di Tocco visse parecchi anni a Palermo sovvenzionato dal re e due sue figlie si sposarono con componenti della casata Abbatelli, Eleonora con Antonio e Maria con Francesco. Nel 1484 ottenne il permesso di armare alcune navi da far incrociare lungo le coste della Sicilia a caccia di pirati, affidan- done il comando al fratello Giovanni, senza però avvertire il marchese di Geraci che aveva il titolo di Grande Ammiraglio. Giovanni Tocco si trovava a Castelbuono, capitale dello stato venti- migliano, quando fu coinvolto in uno dei tanti episodi di sangue, violenza e assassinio che caratterizzavano la turbolenta consorteria ventimiliana in questa fase di aspra tensione con il sovrano: fu ucciso da Muccio Albamonte, fratello del barone di Motta d’Affermo, amico del Ventimiglia, e l’omicidio apparve quindi essere stato ordito dallo stesso marchese o comunque da persone del suo entourage108. Anche i Secusio, che ebbero tra le loro fila il patriarca di Costan- tinopoli, si rifugiarono nell’isola dove si trovavano a metà Cinque- cento, allorché Enrica Secusio sorella di Bonaventura patriarca di Costantinopoli sposò il nobile Paolo Adamo di Caltagirone. Il re diede ospitalità ai suoi parenti della famiglia regnante napo- letana dopo averli aggrediti e deposti. Narra una cronaca che l’11 agosto 1500 «...venne in Palermo la Regina vedova di Ferrandino Re di Napoli, che avea nome Giovanna, e ch’entrò in Città a cavallo servita da Giovanni Paternò arcivescovo di Palermo e dal Viceré Giovanni La Nuça ... trattenutasi alquanti giorni, partì per Mazzara accompagnata da uno stuolo di Nobili». Anche altri componenti della famiglia reale napoletana si trasferirono in Sicilia dopo la deposi- zione. 68 Sicilia aperta (secoli XV-XVII) 108 Ivi, p. 390; Giurato S., La Sicilia cit., p. 112. Nel 1522 i Cavalieri di S. Giovanni avevano abbandonato Rodi con l’onore delle armi, e la Sicilia si trovò a dover ospitare un orga- nismo internazionale di Francesi, Inglesi, Tedeschi, Spagnoli, Italiani, che nessuno aveva il coraggio di sciogliere e che nessuno, nemmeno il papa, voleva nei suoi territori. Il gran maestro e i suoi cavalieri si trasferirono a Messina nel 1523, poi peregrinarono tra Augusta, Siracusa e Messina finché non ottennero da Carlo V la concessione dell’arcipelago maltese e di Tripoli, dove si trasferirono costituendovi uno Stato sovrano (1530). Frequenti erano ovvia- mente le relazioni diplomatiche tra il Regno di Sicilia e il Sovrano Ordine dei Cavalieri di Malta109, come quelle con le Repubbliche di Genova e di Venezia110. L’attività mercantile, inoltre, godeva allora di prerogative partico- lari, tra le quali il diritto delle varie comunità nazionali di eleggersi e farsi rappresentare da loro consoli, che in alcune circostanze assu- mevano veste di rappresentanti ufficiali della loro nazione, soprat- tutto in materia di rispetto degli accordi commerciali e relativo contenzioso. I. I viceré 69 109 Il 9 marzo 1648 l’ambasciatore di Malta a Palermo venne a salutare il cardinale Trivulzio che fu viceré dopo la rivolta. L’omaggio dell’ambasciatore ai nuovi viceré era una consuetudine: Ceremoniale de’ signori viceré cit., p. 180. 110 Placido Ragazzoni tornò in Sicilia per rappresentare Venezia e nel 1574 scrisse una Relazione conservata in Biblioteca Comunale di Palermo, manoscritto Qq D64.
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