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i viceré da Carlo V a Carlo II , Sintesi del corso di Storia Moderna

riassunto dell'evoluzione di una delle più importanti cariche dell'impero spagnolo

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017

Caricato il 19/08/2017

maggio36
maggio36 🇮🇹

4.4

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Scarica i viceré da Carlo V a Carlo II e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Riassunto l’impero dei viceré Capitolo primo L’istituzione di tale carica risale al tempo dei re cattolici e in particolare viene utilizzata all’interno della corona aragonese e quindi da Ferdinando il cattolico; con questa istituzione egli cerca di affidare i suoi possedimenti fuori dall’Aragona, in particolare quelli italiani, a delle figure di spicco di cui si possa fidare pienamente e che possano ben rappresentarlo presso i sudditi. Carlo V recupera l’istituzione e la carica di viceré sul modello aragonese per poi svilupparla prima in senso borgognone e poi verso la centralizzazione del potere nella figura stessa del viceré; dunque secondo lo schema aragonese, profondamente modificato a partire dalla rivolta dei comuneros del 1525, affianco alla figura del viceré vi erano vari consigli tra cui la camera de comtos, el consejo real e la corte mayor che dovevano affiancare il viceré nella direzione dello stato e lo facevano rispettivamente in ambito economico, amministrativo e giudiziario. La differenza fondamentale che si va sviluppando è nella concezione stessa della carica in quanto la sua posizione non è più quella di un alter ego del re, ma piuttosto quella di un ufficiale sottoposto alla volontà del sovrano in tutto e per tutto. Tale modello viene ripreso e recuperato anche per le terre ereditarie della Borgogna dove i vari consigli erano (tranne l’Udienza, ovvero l’apparato giudiziario) il consiglio di stato, quello segreto e quello delle finanze. In ogni caso si cerca di porre il viceré sotto la tutela di questi organi che devono limitarne il potere. Questa istituzione si vede in: - Paesi bassi; anno fondamentale per la rivoluzione istituzionale è il 1539, anno in cui la rivolta delle fiandre e di Gand in particolare viene sedata da Carlo V il quale aveva sempre affidato il governo di questi territori a dei familiari, prima la sorella Margherita e poi la figlia Maria. Infatti se alla sorella era concesso quasi di condurre una politica autonoma dall’imperatore, alla figlia Maria (che entra in carica nel 1530) alla quale sono affiancati i tre consigli sopracitati per tenerla sotto tutela. La rivolta del 1539, sedata l’anno successivo, porta Carlo V a reprimere le libertà delle comunità Olandesi attraverso la nomina, e non più l’elezione, dei vari ministri che rimangono comunque sempre appartenenti a quei territori. - Napoli; assistiamo qui a tre fasi, una di transizione, una di attuazione del progetto politico e una di centralizzazione. La prima fase è nelle mani di un viceré, di nome Cadorna, che si comportava seguendo le logiche stabilite da Ferdinando il cattolico, mentre le altre due vedono agire prima il Lannoy e poi il Toledo. Per quanto riguarda tale istituzione sorge la problematica del fatto che il viceré di Napoli assuma sempre un ruolo importante all’interno dell’Italia e in generale della politica di Carlo V. A tale problema si sopperisce, dopo la rivolta del 1528, grazie allo stile aragonese, dunque alla commistione tra autorità, popolo e nobiltà. La terza fase, quella di centralizzazione, vede come figura dominante il Toledo e vede una realtà napoletana ben distinta e caratterizzata dall’emergere della figura dell’eletto del popolo (poi nominato dal viceré), da un’unione tra la giustizia viceregia e quella regia, da una nobiltà in rivolta contro la figura del viceré a causa del crescente potere di questo, e infine dalla figura del viceré stesso che diventa sempre più espressione della volontà del sovrano. Questo clima porta a una serie di proteste non tanto contro la figura del viceré, ma contro la sua personificazione nel Toledo; la prima si ha nel 1535 quando la nobiltà chiede espressamente con un’ambasciata all’imperatore di rimuovere il Toledo dal suo incarico. Ma il viceré riesce a servirsi dell’eletto Andrea Stinca per difendersi davanti all’imperatore dimostrando come il popolo di Napoli sia dalla sua parte; tale situazione però convince il Toledo del fatto che debba rendersi più forte e allora cerca di far approvare un’inquisizione alla spagnola. Cosa che però suscita ancora una volta il rumore nella nobiltà che si reca prima dal Toledo stesso e poi dall’imperatore, una volta che il primo non ritirerà la sua proposta; Carlo V ancora una volta si dimostra favorevole al Toledo e caccia dalla sua corte l’ambasciata intimandogli di tornare al posto che loro spetta. Nel frattempo Toledo aveva fatto arrestare i capi della rivolta, che stavolta era del popolo nei confronti dei nobili, e li aveva anche fatti scannare senza che il presidente del sacro regio consiglio ne firmasse l’autorizzazione. Così egli dava una grande dimostrazione di forza tanto che poi in suo aiuto vennero inviate delle truppe spagnole che occuparono la città e ristabilirono definitivamente l’ordine. Dunque assistiamo col Toledo, e soprattutto con l’appoggio quasi incondizionato di Carlo V a tale figura, alla centralizzazione dei poteri nella figura del viceré che riesce a scrollarsi di dosso il sacro regio consiglio e la nobiltà, la quale viene esclusa praticamente da tutti gli organi, e riesce anche ad essere determinante nell’elezione dell’eletto del popolo. Un regime autocratico che trova conferma nell’affermazione del 1547 del sistema inquisitoriale spagnolo che era la logica conclusione dell’accentramento iniziato nel 1528 con la repressione delle defezioni, anche con l’uso della forza. - Sicilia: anche qui assistiamo a due fasi, dove la seconda vede forti spinte assolutistiche sotto la guida di Ferrante Gonzaga. Nella prima invece la carica di viceré è affidata a Ettore Pignatelli, conte di Monteleone che ricopre tale ruolo dal 1517 al 1535, grazie alla continua conferma da parte di Carlo V. Nella prima fase vediamo come sia importante per Carlo il rapporto fra istituzione e segretari dell’imperatore e anche come la lunga durata del governo sia sinonimo di stabilità. Dopo l’impresa di Tunisi, dove giocò un ruolo fondamentale non solo il viceré ma tutta la Sicilia, il parlamento, vera espressione giuridica dell’attività baronale sicula, iniziò a farsi sentire in maniera più pesante anche di fronte allo stesso imperatore: infatti in un’assemblea chiesero che il viceré fosse obbligato a consultare i baroni per le faccende militari; a queste rivendicazioni rispondono le prammatiche imperiali dello stesso anno con cui a livello formale si limitavano i poteri del viceré che però veniva riconosciuto saldamente come fedele esecutore del ruolo centrale della monarchia. Questa spinta assolutistica prende poi forme concrete col tentativo del Gonzaga nel 1542 di imporre un il modello napoletano del collaterale anche in Sicilia (che era stato il preludio per la centralizzazione dei poteri del Toledo). Oltre a questa introduzione, il Gonzaga prova anche con una strategia puramente economica: infatti cerca di legarsi alle più importanti famiglie di banchieri e di affaristi dell’epoca per creare una rete economica e commerciale che avesse il suo centro nella Sicilia. Questo viene poi accentuato dal viceré Vega, una volta che il Gonzaga viene trasferito a Milano; qui viene a formarsi un contesto integrato a livello economico fra Sicilia, Napoli, Milano e Mantova in cui a ogni gruppo finanziario viene affidata la gestione di vari affari (proto industriali a Milano, i trasporti per Genova, interessi finanziari ai lucchesi…). Questo viene fatto dal Gonzaga perché egli capisce che la finanza condiziona interamente la politica e quindi controllare la prima equivale a controllare la seconda e a centralizzarla nella sua persona. - Milano; per quanto riguarda la situazione milanese Carlo si affida alla soluzione, con leggere modifiche, già presa da Luigi XII di Francia il quale lasciava in vita tutti gli organi milanesi (a partire dal senato per continuare col capitano di volesse che fra queste regioni si creasse un’interdipendenza economia, sociale e militare al fine di garantire vari scopi tra cui: difesa dall’attacco turco, difesa delle rotte marittime e del commercio spagnolo, difesa dai francesi, garantire il passaggio da nord a sud dei territori dell’impero, garantire l’egemonia spagnola in Italia (e qui giocano un ruolo fondamentale i presidi), promozione dell’economia e in particolare di Sicilia (granaio dell’impero spagnolo) e di Napoli (il cui peso fiscale cresce sempre più nell’ottica spagnola). - Rapporto tra concentrazione e partecipazione politica; ovvero il rapporto tra le linee direttrici del monarca e le situazioni particolari in cui vanno applicate. - Egemonia nelle relazioni internazionali; un paese esterno a tale organizzazione di potere entrando in contatto con una sola di queste regioni, doveva entrare in contatto con tutta l’organizzazione che avrebbe avuto un peso maggiore in tale relazione e quindi a livello internazionale. Capitolo quarto gli anni di fondazione del consiglio d'Italia, che rappresenta un organo di consultazione senza alcun potere effettivo e politico in modo che non intacchi minimamente le prerogative del consiglio d'Aragona, corrispondono alla lotta condotta dal re per l'instaurazione e relativo controllo di un governo polisinodale e al rafforzamento del partito ebolista a discapito di quello albista. Iniziamo col dire che questi non sono veri e propri partiti come noi oggi li intendiamo, ma sono più delle fazioni disomogenee in cui attorno a una persona, un leader, riescono le varie componenti ad unirsi e a intraprendere una politica comune (all'interno di tali partiti dunque troviamo membri della famiglia reale, nobili, letrados, hidalgos, uomini di chiesa). In questo momento il leader e protettore del partito ebolista è Ruy Gomez de Silva il quale riesce ad avere un ruolo determinante sia nello sviluppo del consiglio d'Italia (1555) sia a risultare influente, grazie soprattutto alla forza politica del suo partito nel consiglio di Castiglia che si va a sviluppare come organo centrale del governo, anche nella successione alle principali cariche vicereali andando così a conferire onori e oneri a suoi affiliati del calibro di Bernardino de Mendoza come viceré di Napoli, del duca di Medinaceli come viceré di Sicilia. Questo partito assume sempre più importanza nelle vicende politiche del regno e riesce ad allontanare dalla figura del re gli avversari di de Silva, ad occupare le maggiori cariche con suoi membri dei vari consigli tra cui quello dell'Hacienda e dell'inquisizione; però alla morte del suo leader si assiste a una rivoluzione all'interno del partito stesso. Infatti i nuovi capi fazione, Mateo Vazquez e Escobedo, si alleano entrambi col duca d'Alba, ovvero con il leader del partito avverso il cui scontro si era già visto riguardo una possibile soluzione della rivolta dei Paesi Bassi (pacifici contro repressori). Proprio qui si gioca tra l'altro il ritorno a protagonista sulla scena del partito albista. Infatti il duca d'Alba, dopoché la politica conciliatrice di Mar non aveva avuto successo, viene chiamato da Filippo II, il quale aveva consultato anche il Granvelle (viceré di Napoli) che era stato prima allontanato in quanto nemico del de Silva, per sedare la rivolta con la repressione. Cosa che il duce svolge, ma senza un vero e proprio successo tornando in Spagna in disgrazia del monarca dopoché non sedò la rivolta tramite la sua repressione, anzi la aumentò (infatti il popolo nutrì un profondo odio verso questa persona e ciò che rappresentava dato che egli eseguì una repressione massiccia e senza scrupoli andando prima ad arrestare i capi della rivolta e poi ad imporre una nuova tassazione pesantissima, a giustiziare sommariamente in piazza e così via). A partire dagli anni settanta dunque assistiamo non solo a un ribaltamento della situazione politica, ma anche all'ascesa di singoli personaggi come il cardinal Espinosa, il Granvelle, il Requesens che passa da governatore di Milano a quello dei Paesi Bassi per rimediare il disastroso tentativo del duca d'Alba, e a Zuniga che fu ambasciatore a Roma. Quindi assumono sempre più peso tre personaggi che si spartivano i ruoli più importanti all'interno della penisola italiana nella quale avevano adottato una politica comune (ricordiamo l'intervento del Zuniga a favore del Granvelle riguardo la questione degli spogli). Tutto questo accade in un momento in cui la corona cerca sempre di instaurare un certo controllo sui suoi domini, soprattutto attraverso la pratica delle visitas, ovvero delle commissioni (a volte il monarca in persona) che si recavano sul posto e stendevano un rapporto di quanto accadesse. Capitolo quinto – Portogallo; il Portogallo è uno degli ultimi territori che entra a far parte della monarchia spagnola e la sua acquisizione prevede essenzialmente tre fasi; nella prima il monarca si affida completamente alle trattative con l'aristocrazia portoghese, poi invece, su consiglio in particolare del duca d'Alba, decide di mettere una certa pressione militare ed opera una vera e propria campagna di assoggettamento del territorio arrivando anche a minacciare la stessa Lisbona. Proprio mentre assedia Lisbona si sviluppa la terza fase, ovvero una di compromesso fra l'azione militare e la diplomazia portata avanti con la nobiltà che porta nel 1581 alla conquista della regione e alle trattative finali di Tomar con cui si organizza la dominazione e il governo del Portogallo. Qui la nobiltà chiede che l'incarico di viceré sia svolto o dal monarca in persona o da un suo parente di primo grado (ancora una volta assistiamo a quello che avevamo visto per la Borgogna e l’Aragona). Questa richiesta però viene ovviata dal monarca attraverso un altro metodo, ovvero l'installazione di un viceré, non necessariamente suo parente stretto, e di una giunta governativa che ne limitasse i poteri: così vengono a crearsi sia il consejo che l'hacienda del Portogallo. – Fiandre; la situazione era complessa a prescindere dalla rivolta che era scoppiata ed era stata sedata in qualche modo, ma non definitivamente, dal duca d'Alba prima e da Requesens poi: infatti il governo qui seguiva uno stile borgognone e prevedeva, in assenza della figura del monarca, un suo parente stretto (come ai tempi di Carlo V e alla situazione pre rivolta sotto Filippo II) il quale aveva le funzioni di viceré e di capitano generale; accanto a lui poi esistevano tre consigli quello di stato, quello segreto e quello delle finanze i cui membri passarono da appartenenti al Toson D'oro a stranieri castigliani mal visti dal popolo e dalla nobiltà. Questi organi di governo tradizionali vengono esautorati del loro potere a partire dagli anni ottanta quando la corona spagnola cerca di inquadrare sempre più le fiandre e di togliere loro strumenti di potere che possano facilitare una ripresa della rivolta; quindi a discapito di tali organi vengono introdotti la junta de noche e il supremo consejo de Flandes. Questi due organi si occuperanno d'ora in avanti, anche sotto Filippo III che subentra al padre nel 1559, del governo delle Fiandre insieme al viceré. Un'ulteriore rivoluzione è fatta con l'abdicazione da parte di Filippo II non in favore del figlio, ma dell'infante Isabella Clara Eugenia che andrà in sposa all'arciduca Alberto d'Austria, così nel 1559 le Fiandre diventano un dominio a se stante, nonostante ci fossero delle clausole da rispettare da parte della nuova sovrana (l'arciduca avrà il ruolo di luogotenente, dopo che aveva ricoperto precedentemente quello di viceré) pena il riconsegnare i domini a Filippo III, con un rapporto vassallatico nei confronti della monarchia spagnola. Questo nuovo regno, sotto forma di regime arciducale, incontra subito delle difficoltà in quanto vi è una ripresa delle ostilità fra la nobiltà, affiancata dal popolo, e il governo del paese tanto che l'arciduca chiede al sovrano di ripristinare l'antica forma di governo com'era sotto Carlo V. – Cambrai; qui il governo, dopo il riconoscimento della supremazia di Filippo II sul territorio, è affidato a un difficile compromesso tra borghesie locali e governanti spagnoli. In poche parole il sovrano sceglie e nomina i magistrati che si appoggiano al patriziato borghese il quale discute i suoi privilegi soprattutto in termini economici, e poi il tutto deve ottenere il consensus popoli. – Aragona; il consiglio di Aragona si occupava essenzialmente dell'amministrazione delle regioni di Aragona, Catalogna, Sardegna, Maiorca e Valencia. Quindi su un'unica amministrazione ricadevano le responsabilità di più regioni; ora si assiste anche qui a un processo di centralizzazione da parte della monarchia che si traduce nell'introduzione all'interno degli organi di governo di uomini fedeli al re e provenienti essenzialmente dalla Castiglia. Nonostante tale tentativo, va ricordato come i vari viceré che sottostavano al consiglio di Aragona, ebbero non vita facile a causa delle cortes che volevano vedere duraturi i loro privilegi. – Italia; le tre principali cariche del sottosistema Italia erano il governatorato di Milano, il viceregno di Napoli e l'ambasciata di Roma che come abbiamo visto erano ricoperte da persone di spicco dell'amministrazione spagnola. Va però detto che queste cariche non prevedevano solamente il controllo del territorio come accadeva per tutti gli altri viceregni, ma i loro rappresentanti dovevano anche ovviare ad un ruolo più o meno importante nella politica militare spagnola (basti ricordare Gonzaga nell'impresa di Tunisi). In questi ultimi decenni del cinquecento comunque assistiamo alla conferma della centralità di Milano nella politica spagnola per l'Italia e anche al relativo ridimensionamento di Napoli in un'ottica difensiva sia dai musulmani che dai barbari, e di servizio nei confronti di Milano. Infatti proprio verso il ducato milanese si concentrarono gli sforzi e gli interessi della monarchia spagnola, rendendo subalterni ad esso ogni altro possedimento italiano, Napoli compresa, sia da un punto di vista politico, che militare che finanziario (ricordiamo come sempre di più verrà chiesto ai domini italiani un aiuto economico e militare ingente per la corona a causa del primo manifestarsi della crisi economica della Castiglia, che poi colpirà a ruota tutti i territori spagnoli). Napoli che inoltre deve affrontare in tale periodo due rivolte: quella urbana del 1585 i cui moti vengono subito repressi sul nascere, moti che erano nati a causa della politica dell'Olivares e a causa della crisi economica. E una rurale, portata avanti in Calabria, dove i rivoltosi, guidati da Tommaso Campanella nel 1599 che era riuscito a riunire ecclesiastici e contadini partendo da un legame utopico fra i due mondi e facendo leva sulla crisi economica e sul prelievo fiscale sempre più gravoso (ricordiamo come nei confronti della prima rivolta uno dei compiti dell'amministrazione fu quello di non far cambiare in alcun modo, né riguardo al prezzo né riguardo al peso, il mercato del pane e dei beni di prima necessità). Anche in tale caso viene gestita bene dall'autorità che riesce a sventare la rivolta, presentata al re come una semplice congiura di frati. Capitolo sesto Una vera e rivoluzione del governo è portata da Filippo III con la figura del VALIDO. Ne è l’artefice il duca di Lerma che concentra in sé il complesso di mediazione tra sovrano e sudditi e diventa l’interlocutore privilegiato del sovrano. La figura del valido (favorito) è ambigua: egli è un potente primo ministro di fatto ma non di diritto. I favoriti conquistano sfere e spazi di autonomia nell’impero legati al rapporto creato con il sovrano, i viceré hanno però maggiore discrezionalità. Il valimiento (Re che regna, primo ministro che governa) è un modello che ha fortuna e si diffonde anche in Francia e in Inghilterra, ma in Spagna è meglio riconoscibile, è qui infatti che il clan del valido si configura. Il primo a costituirlo è il Lerna con il clan del Sandoval, ancora più istituzioni. Venne nominato viceré DON GIOVANNI, il duca d’Arcos lasciò Napoli nel tripudio generale. Don Giovanni aveva tre compiti: 1- Riunire i poteri della difesa militare e del governo civile del paese. 2- Ricostruire la struttura istituzionale e rappresentativa della capitale. 3- Ricucire i fili del rapporto tra il “popolo civile” e i settori moderati dei ribelli. Don Giovanni creò un consiglio di Guerra, affidò il governo delle provincie ai baroni e intraprese una strategia di mediazione con i leader civili della rivolta. Ma quelle di Don Giovanni furono soluzioni transitorie. Dopo Don Giovanni, divenne viceré Onate, egli godeva di grande stima e prestigio anche nelle corti papali. L’abilità politica di Onate non fu solo quella relativa alla costruzione della sua candidatura ma anche nella scelta dei tempi della sua investitura. Capitolo settimo Dopo la vicenda del regno di Filippo III che si caratterizzò per i validos e in particolare prima il duca di Lerma e poi il conte duca di Olivares, assistiamo sotto Filippo IV a un cambiamento non indifferente: infatti il nuovo monarca, seppur non rinunciasse a servirsi dei consigli di alcuni validos o di personaggi di spicco provenienti soprattutto dall’ambiente castigliano, tentò di basare il suo governo su una nuova affermazione della figura del re e su una possibile restaurazione delle forme di governo precedenti (quelle del nonno per intenderci) con l’aggiunta di varie giunte specifiche, e infine su una collaborazione fra i principali partiti del consiglio di stato e di guerra e sul loro reciproco sostegno. Quindi fondamentale nella sua politica rimane l’equilibrio di fazioni, fazioni che essenzialmente sono in mano al De Haro (Castrillo dal 1661, morte del primo) e al Medina, il viceré di Napoli che si contraddistinse nella rivolta di Masaniello. In questo contesto la situazione dei reinos spagnoli vede una volontà di centralizzazione del potere come a Napoli con Onate, spinte autonomistiche come a Palermo poi represse, e assesto del tipo di governo come a Milano. Partiamo con l’analisi proprio dal Milanesado: il ducato di Milano rimane un viceregno fondamentale per la Spagna per vari motivi tra cui il fatto di essere l’unione tra nord e sud e quindi il rappresentare la via di comunicazione fra Spagna e Paesi Bassi (soprattutto prima dello staccarsi dell’Olanda), il fatto di essere un importante centro finanziario che verrà sempre più spremuto dalla corte madrilena a partire in particolare dalla crisi finanziaria della Castiglia, il fatto di rappresentare un baluardo contro gli attacchi francesi nei confronti di tutti i domini italiani, il fatto di essere l’ago della bilancia all’interno della situazione politica italiana. Tutto questo ci è dimostrato e documentato sia da alcune lettere dei governatori (a cui sempre più verrà affiancato il senato milanese; ad esempio il governatore può concedere la grazia, ma solo dopo che il senato ha già emesso la sentenza) sia dai documenti lasciati dai predecessori ai loro successori per la carica. In questi documenti si tende a far vedere la centralità del Milanesado nella politica italiana e anche a presentare la stessa situazione della penisola nella quale era impossibile avere un qualsiasi colloquio con Venezia, era poco fattibile la diplomazia coi Savoia che venivano riconosciuti come grandi signori, era inutile parlare coi granduchi di Toscana i quali si fingono prima amici della Spagna e poi della Francia, era importante sottolineare come a livello economico il Milanesado dipendesse da alcuni rifornimenti provenienti da Napoli, come il reclutamento di truppe mercenarie svizzere ed elvetiche incidesse troppo sulle casse del ducato, come anche la coesione fra i reinos italiani fosse fondamentale per mantenere quell’egemonia spagnola in Italia. Il discorso è completamente diverso invece per la Sicilia il cui governatore si trovò sempre di fronte alla volontà di spinte autonomistiche che miravano a instaurare un regno a sé stante nell’isola e anche alla diatriba fra Messina e Palermo che merita più attenzione. La vicenda fu affrontata dal Sermoneta il quale prima concesse una prammatica sanzione con cui a Messina veniva concesso il privilegio di estrapolare tutta la seta dal porto della stessa città: la sanzione fu respinta dal consiglio collaterale e intervenne lo stesso monarca il quale andò contro anche alla possibilità di instaurare la corte per 18 mesi a Palermo e per 18 mesi a Messina. Per la sua vittoria Palermo regalò al re 20mila scudi d’oro e anche alcune reliquie di Santa Rosalia. Per quanto riguarda Napoli la situazione è più complicata: infatti abbiamo visto come sulle finanze del regno gravassero i rifornimenti fatti a Milano e sappiamo anche come il regno fosse appena uscito da varie crisi, fra cui quella più importante di Masaniello e la sua conseguente rivolta (senza qui considerare i vari tentativi da parte dei francesi di impadronirsi del regno, senza mai riuscirci). A gestire la situazione fu confermato, dopoché Don Giovanni rifiutò l’incarico assegnatoli, l’Onate il quale sfruttò a suo vantaggio la situazione e il suo carisma, dovuto dalla repressione della rivolta di Masaniello e anche dalla vittoria contro i francesi, per effettuare una politica di accentramento dei poteri nel viceré, che qui assume sempre più i toni di un alter ego del monarca stesso. Egli dunque rinsaldò i vincoli di alleanza coi ceti della capitale attraverso anche un sapiente uso dell’amnistia, attivò la macchina repressiva andando a colpire in modo esemplare i capi della rivolta, dava vita a una rivoluzione urbana di Napoli comprendente soprattutto il porto e il palazzo reale (dove anche l’arte e la musica avrebbero avuto il loro ruolo di promozione culturale sia della Spagna sia delle vicende napoletane), e creò intorno alla sua figura un blocco amministrativo centralizzato formato da nobili, burocrati, ceti artigianali, operatori commerciali e operatori finanziari della capitale (ai quali veniva riconosciuto un ruolo importante nel reprimere la rivolta e nell’affrontare i francesi nel 1648). Però Onate nel 1652 fu richiamato a corte e al suo posto venne messo come viceré Castrillo (membro del partito opposto), poi Don Giovanni a cui succedette Rodrigo Mendoza Roxas y Sandoval i quali si mantennero in linea con la politica dell’Onate e si dedicarono, soprattutto il secondo, a una ripresa culturale svolta ruoli sociali. In questo contesto va però ricordato quell’equilibrio in seno agli organi di governo della Castiglia che era fondamentale per permettere le politiche viste nel sottosistema Italia: infatti dopo la morte nel 1661 di De Haro e la sua successione col Castrillo (che fu viceré a Napoli dopo l’Onate), ripresero in parte alcuni screzi a corte e il bilanciamento dei partiti venne scricchiolando tanto che il monarca stesso decise per una più forte e tenace supervisione nei confronti dei reinos. Capitolo ottavo dopo la morte di Filippo IV, l’erede al trono Carlo II è ancora un infante e quindi assistiamo a un governo di reggenza della madre Margherita la quale viene affiancata, oltre che dalla figura del suo confessore Nithard (un gesuita che diventa il valido di questo periodo), anche da una juncta de gubierno prescritta nel testamento dallo stesso Filippo. In questa giunta entrano a far parte la reggente regina, il suo valido, e molti altri personaggi di spicco dell’epoca che già occupavano determinati ruoli all’interno dell’amministrazione spagnola. Uno dei compiti principali della giunta, dopo che fu monopolizzata dal Nithard, fu lo scontro con Don Giovanni, il figlio illegittimo del monarca defunto che aveva tanto successo sia fra i nobili che fra il popolo. Egli riuscì ad ottenere il potere con un golpe nel 1677, due anni dopo che Carlo assunse il pieno potere in virtù della sua maggiore età, e affrontò una situazione molto difficile per la Spagna che si vedeva fronteggiata dalla solita Francia e dalle volontà espansionistiche di Luigi XIV (e del Mazzarino), ma che subiva all’interno delle defezioni come quelle di Portogallo e di Sicilia che la misero in ginocchio. Ancora una volta, nonostante la perdita del Portogallo e la politica dei sovrani di concedere più importanza alla situazione di confine con la Francia della Catalogna, la situazione italiana fu risolta dai viceré siciliani con la collaborazione di quelli napoletani a dimostrazione di un sottosistema perfettamente funzionante. La difficile situazione sicula, in rivolta aperta dal 1674 al 1678, fu sedata da una repressione alquanto dura da parte delle autorità che approfittarono di questo momento per rinsaldare il loro ruolo e aumentare il loro potere tanto da rendere necessario poi un richiamo da parte della monarchia al loro ruolo di viceré all’aragonese (ovvero di quelle persone che devono sottostare nel loro compito al monarca, all’udienza e al consiglio di stato o collaterale che dir si voglia). Ancora una volta la crisi manifestava la diatriba fra Messina e Palermo e ancora una volta fu risolta in maniera favorevole di questi ultimi i quali avevano nella loro città le sedi del potere. A Napoli invece, dopo un periodo di ripresa e di rifioritura, avvenne il cambio di regime con l’istaurazione di quello asburgico nel 1701; la questione non fu semplicemente di tipo militare, ma va considerato il ruolo giocato dalla corte in tutto ciò che chiedeva una vera e propria autonomia dalla Spagna e che impossibilitata a prendersela da sola, si rivolse all’impero. Questa fu la logica conclusione di una rivolta scoppiata poco prima e che addirittura riecheggiava la figura di Masaniello come quella di un grande uomo.
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